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Stupefacenti sillogismi: ovvero la sofferenza di Aristotele
(Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza n. 45881/15; depositata il 18 novembre)
Ai fini di stabilire se la sostanza offerta costituisca o meno sostanza stupefacente sono sufficienti le dichiarazioni rese dall’imputato circa l’utilizzo, per uso personale, di sostanze del tipo di quelle che egli ha offerto o ceduto.
Così la Suprema Corte con la sentenza n. 45881/15, depositata il 19 novembre, generata da ricorso con il quale si lamentava come la sostanza oggetto di cessione da parte dell’imputato, pur non sottoposta ad alcuna analisi qualitativa, fosse stata dichiarata quale stupefacente, con conseguente emissione di condanna per il reato previsto e punito dall’articolo 73, comma 5, l. n. 309/90.
Un primo e certo moto che si produce alla lettura della sentenza, certamente figlio di una certa superficiale lettura di questo commentatore, e che il provvedimento impugnato fosse indubitabilmente da annullarsi, posto che, venendo a mancare prova certa in relazione alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, ovvero la qualità di stupefacente della sostanza ceduta, dovesse pronunciarsi, quantomeno con la formula prevista dall’articolo 530, comma 2, c.p.p. sentenza assolutoria.
Ovviamente a tacere dell’esistenza, o meglio dell’inesistenza, di prova posizionatasi oltre il limite del dubbio legittimo.
Gli Ermellini hanno abbattuto, in pochissime righe ogni mia certezza.
Essi affermano quanto segue: «osserva il Collegio che nel confermare la sentenza del Giudice di (…), la Corte territoriale, dato atto della non univocità dell’indirizzo giurisprudenziale circa la necessità o meno di accertare il principio attivo per la punibilità del reato in esame, ha del tutto correttamente ritenuto la illiceità della condotta in base sia alle dichiarazioni dell’imputato, il quale in sede di esame all’udienza del (…) aveva ammesso di fare uso personale di “canne” del tipo di quelle che aveva offerto a (…), sia alle risultanze positive del narcotest».
Vorrei annoiare i miei ventuno lettori con qualche piccola critica all’impianto motivazionale fornito dalla Corte.
La “non univocità dell’indirizzo giurisprudenziale circa la necessità o meno di accertare il principio attivo per la punibilità del reato in esame”… Ho effettuato qualche piccola ricerca, e debbo dire che ho trovato tracce di pensiero piuttosto univoco in punto (cfr. Cass. n. 44420/13, secondo cui «solo un accertamento tecnico specifico avrebbe consentito di quantificare la percentuale e la quantità di principio attivo effettivamente presente in ciascuna delle confezioni e nelle tre confezioni complessivamente considerate» e pertanto «la mancanza di detto accertamento rende impossibile affermare con certezza che il quantitativo modestissimo della sostanza sequestrata possieda livelli di principio attivo tali da avere concreti effetti stupefacenti e da comportare quelle possibili alterazioni dell’organismo che costituiscono l’offesa al bene protetto oggetto di sanzione penale»; ancora, Cass. nn. 16154/11 e 21814/10, secondo cui «l’accertamento del principio attivo può influire sulla stessa sussistenza dell’offensività della condotta di detenzione a fini di spaccio» con il non trascurabile corollario che «è da escludere, dunque, il reato di cessione di sostanze stupefacenti qualora si tratti di quantitativi talmente tenui e con principio attivo irrilevante tale da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell’assetto necroscopico dell’utilizzatore») ma, anche laddove ne avessi riscontrato ben più pesante traccia, mi pare di ricordare come il contrasto tra linee interpretative vada argomentato e, ove riconosciuto, al più risolto attraverso la richiesta di pronuncia delle Sezioni Unite.
Occorre altresì osservare come il “contrasto” nel caso di specie riguarderebbe l’elemento oggettivo del reato, ovvero, in termini ben più banali ma non per questo meno significativi, se ciò che vien ceduto od offerto abbia le caratteristiche di sostanza stupefacente.
Caratteristiche che sono determinate dalla presenza nella sostanza di principi attivi identificati ed identificabili in misura apprezzabile.
La volontà di commettere un reato, da sola, non renda punibile l’atto oltre i limiti dell’art. 56 c.p..
In questo caso l’atto non sarebbe stato neppure idoneo posto che la sostanza ceduta avrebbe potuto avere qualsivoglia composizione.
In altre parole non è ammessa l’autocertificazione circa la qualità di stupefacente della sostanza che cedo.
O se si preferisce: posso vendere indicando quale stupefacente una sostanza priva di principi attivi, rischiando d’essere condannato non per violazione della normativa su dette sostanze ma semmai per frode in commercio, posto che pongo alla vendita una sostanza dichiarandola quale in possesso di caratteristiche fisco, chimiche e o organolettiche che non possiede.
“…ha del tutto correttamente ritenuto la illiceità della condotta in base sia alle dichiarazioni dell’imputato…” Chi lo avrebbe mai detto, la buona vecchia ed indimenticata ed indimenticabile “confessione” torna ad assurgere al ruolo di prova regina.
Senza neppure che la stessa trovi riscontro oggettivo esterno in altre e differenti prove votate e capaci di sostenerla.
“…sia alle risultanze positive del narcotest…” Obiezione: il narcotest ha fornito esito positivo.
Vero, ma il problema dell’emivita della sostanza stupefacente?
E poi, se l’uso delle “canne” l’imputato lo avesse fatto prima di cedere (diciamo una dozzina d’ore prima di cedere od offrire le “canne” dello stesso tipo al milite) potremo dedurne che la sostanza ceduta possedesse i requisiti per essere dichiarata quale stupefacente?
In base a quale modello di ragionamento giuridico?
Il buon vecchio sillogismo non soccorrerebbe: la (le) premessa (premesse) sarebbero false.
Non è detto che se le canne che io utilizzo siano simili a quelle che ho ceduto quelle che ho ceduto siano composte da sostanze stupefacenti.
Vuoi perché simile non significa uguale, vuoi perché non è detto che le “canne” siano costituite dalla stessa sostanza.
Ma non è questo, pare di poter affermare, il ragionamento giuridico che segue la Corte che, invece, mi pare assestata a percorrere diverso sillogismo che provo ad enunciare: posto che io uso canne simili a quelle che ho offerto, io risulto positivo al narcotest, le canne che ho offerto sono composte da sostanza stupefacente.
Il falso sillogismo è evidente: il narcotest certifica che ho utilizzato sostanza stupefacente ma non può svolgere alcuna funzione ermeneutica in relazione al contenuto della sostanza ceduta.
L’emivita della sostanza o la possibilità che io l’abbia assunta diversamente non possono rendere automatica e diretta la qualificazione fisico organica della sostanza ceduta.
Tra le due affermazioni non c’è nè può esistere alcun legame logico diretto o di dipendenza.
L’una è invece del tutto libera ed indipendente dall’altra.
Esse costituiscono autonomi postulati, o se si preferisce autonome asserzioni, scollegate, ed incapaci di svolgere reciproca efficacia euristica.
Le variabili inseribili tra l’una e l’altra sono tante, molte, troppe, per portarle ad assurgere al ruolo di prove atte a dichiarare la penale responsabilità per il fatto reato contestato.
A meno di voler incorrere in stupefacenti errori di logica.
(avv. Claudio Bossi pubblicato su Diritto & Giustizia Giuffrè editore s.p.a)