Penale

Wednesday 03 March 2004

Stranieri. L’ espulsione in luogo della detenzione viola la finalità rieducativi della pena? Secondo il Tribunale di Cagliari sì. ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2003 N.11

Stranieri. L’espulsione in luogo della detenzione viola la finalità rieducativi della pena? Secondo il Tribunale di Cagliari sì

N.   11   ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2003.

  Ordinanza emessa l’8 agosto 2003 dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari, atti relativi a Tekaia Ali’ Straniero e apolide – Straniero detenuto condannato a pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni – Espulsione disposta dal magistrato di sorveglianza a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione – Afflittivita’ dell’espulsione configurata quale sanzione penale – Automatismo della stessa – Violazione del principio della finalita’ rieducativa della pena – Irragionevolezza sotto diversi profili – Contrasto del procedimento di applicazione della sanzione con i diritti inviolabili dell’uomo, con i principi del giusto processo, in particolare con il principio del contraddittorio tra le parti, in condizione di parita’. – D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 16, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189. – Costituzione, artt. 2, 3, 27, comma terzo, e 111. (GU n. 8 del 25-2-2004) 

IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

    Visti   gli  atti  del  procedimento  nei  confronti  di  Absamat

Moustapha, nato il 2 gennaio 1981 in Marocco, detenuto presso la Casa

di reclusione di Isili, condannato alla pena di anni due e mesi dieci

di  reclusione  determinata con provvedimento di unificazione di pene

concorrenti   emesso  dal  Procuratore  della  Repubblica  presso  il

Tribunale  di  Padova  in  data  12   giugno  2002 (ord. es. n. 300/02

R.E.S.),   con  fine  pena  al  21  marzo  2004,  avente  ad  oggetto

l’espulsione  dal territorio,dello Stato ai sensi dell’art. 16 d.lgs.

25  luglio 1998, n. 286 come modificato dall’art. 15, legge 30 luglio

2002, n. 189;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza  del  Tribunale  di  Padova in data 20 luglio 2001,

Absamat  Moustapha  fu  condannato  alla  pena  di  anni uno e sei di

reclusione  e  di  8.090.000  di  lire di multa, siccome riconosciuto

colpevole  dei  delitti di cui agli artt. 73, comma 1, t.u. 9 ottobre

1990, n. 309, 495 cod. pen.

    Con  le  diverse  generalita’  di  Tekaia  Ali’, egli fu altresi’

condannato  alla  pena  di  un anno e quattro mesi di reclusione e di

3.000.000  lire  di multa inflitta per il delitto di cui all’art. 73,

comma 1, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309.

    In  data  12  giugno  2002  fu  quindi emesso il provvedimento di

cumulo  specificato  in epigrafe, con inizio pena al 10 luglio 2001 e

fine al 21 marzo 2004.

     La  residua  pena  espianda  e’  pertanto inferiore a due anni di

reclusione.

    L’istruttoria  fin  qui esperita conduce a rinvenire il complesso

delle  condizioni di cui all’art. 13, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998,

n. 286.

    Per   quanto  concerne,  in  primo  luogo  la  sussistenza  delle

condizioni  soggettive,  devesi  rilevare  come  dal provvedimento di

cumulo  sopra  menzionato sia dato evincere la presenza, a carico del

ristretto,   di   numerosi   alias  accanto  alle  generalita’  prima

riportate: Tekaia Ali’, nato il 5 aprile 1972 a Sousse o a Teboulba o

a  Khalifa  (Tunisia),  alias  Ben  Said,  nato  il  5 aprile 1976 in

localita’ non precisata, alias Aziz Abdessamed, nato il 4 luglio 1973

a  Casablanca  (Marocco), alias Hamed Ben Alir, nato il 5 aprile 1970

in localita’ non precisata. Secondo quanto riferito dalla Questura di

Padova  egli  e’  stato  comunque  identificato, tramite il Consolato

della  Tunisia  a  Milano,  con le esatte generalita’ di Tekaia Ali’,

nato  il  5 aprile  1972  a  Teboulba  –  Monastir  (Tunisia);  dalle

informazioni in possesso delle Forze di polizia, inoltre, il soggetto

non risulta avere mai regolarizzato la propria posizione di soggiorno

(v.  nota  informativa  in data 3 giugno 2003, in atti, da cui emerge

altresi’  che  egli  non risulta aver ottemperato a due intimazioni a

lasciare il territorio nazionale emesse dalle Questure di Agrigento e

di  Modena).  A  cio’  deve  aggiungersi che non sono stati acquisiti

elementi  significativi  che  inducano ad affermare la sussistenza di

alcuna delle condizioni ostative all’espulsione previste dall’art. 19

del t.u. delle leggi sull’immigrazione.

    Pertanto  essendo egli stato condannato per un delitto diverso da

quelli  contemplati  dall’art. 407,  comma  2,  lettera a) cod. proc.

pen.,  ovvero  dai  delitti  previsti  dal  testo  unico  delle leggi

sull’immigrazione   deve   ritenersi,  conclusivamente,  che  rimanga

perfettamente integrata la fattispecie prevista dall’art. 16, comma 5

e  seguenti,  del  t.u.  citato,  cosi’  come  modificato dalla legge

189/2002.

    Ritiene  tuttavia  questo  giudice,  analogamente  a  quanto gia’

rilevato  nella  propria  ordinanza  in  data  23 gennaio 2003 (proc.

n. 1/02   S.11B),   che  rispetto  alla  suddetta  fattispecie  possa

fondatamente  ipotizzarsi  una censura di legittimita’ costituzionale

per  violazione  degli  artt. 3,  27,  comma  terzo,  e 111 Cost., in

relazione ai profili di seguito individuati.

    1.  –  Per  quanto  attiene  al ritenuto contrasto con l’art. 27,

comma  terzo,  Cost.,  ovvero  con  il  principio  del c.d. finalismo

rieducativo  della  pena, si osserva preliminarmente che l’espulsione

prevista  dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile

al novero delle sanzioni penali.

    Non   ignora,   al   riguardo,   il   remittente   che  la  Corte

costituzionale,    chiamata   a   pronunciarsi   sulla   legittimita’

costituzionale  delle  fattispecie  disciplinate  dall’art. 7,  commi

12-bis  e  ter,  d.l.  30  dicembre  1989, n. 416 (che prevedevano un

meccanismo  sostanzialmente  analogo  a  quello descritto dal comma 1

dell’art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall’art.

15,  legge  30  luglio 2002, n. 189), abbia ritenuta, con le sentenze

n. 62  e  283  del  1994  che  la  fattispecie  in esame configurasse

un’ipotesi di sospensione dell’esecuzione della pena, condizionata al

mancato  rientro  del  condannato  nel territorio dello Stato entro i

termini  previsti dalla legge. Nondimeno, l’opzione ricostruttiva ora

esposta    –  la  quale  porterebbe,  all’evidenza,  ad  escludere  la

necessita’  di  una  proiezione funzionale della fattispecie verso la

rieducazione  del  sottoposto  –  non  appare  pienamente persuasiva.

Quantomeno   nell’ipotesi  disciplinata  dal  comma  5   dell’art. 16,

l’espulsione  rappresenta, infatti, un quid pluris rispetto alla mera

sospensione  dell’esecuzione  della  pena: essa si configura come una

sanzione penale che si giustappone al meccanismo sospensivo.

    Sul   punto,   l’analisi   della   struttura   e  della  funzione

dell’istituto,   conducono  ad  affermarne  non  soltanto  la  natura

sanzionatoria, ma altresi’ il carattere chiaramente afflittivo.

    Circa la natura di sanzione in senso tecnico, cioe’ di meccanismo

attraverso  cui  la norma giuridica pone le condizioni per la propria

osservanza,  essa  e’  del  tutto  ovvio  e non sembra abbisognare di

particolari argomentazioni. La sua stretta correlazione con una norma

penale  incriminatrice,  alla  quale  e’ logicamente e giuridicamente

«conseguente»  (sul  punto  v.  infra),  induce  a  ritenere che essa

risponda  ad  una  funzione  di  «prevenzione  speciale»:  attraverso

l’allontanamento coatto del soggetto dal territorio dello Stato, essa

neutralizza  –  o comunque circoscrive entro margini tollerabili – il

rischio  di  condotte  recidivanti e, quindi, assicura indirettamente

una  tutela  degli  interessi  protetti dalle norme incriminatici che

costituiscono il tessuto del nostro sistema giuridico-penale.

    Quanto   al   carattere    affittivo   dell’espulsione   non  pare

condivisibile  il  rilievo  secondo  cui, accompagnandosi essa ad una

sorta di rinuncia all’esecuzione della pena principale, finirebbe per

tradursi,  concretamente,  in  una  misura di favore, in una sorta di

beneficio.  Come  noto, tale impostazione, e’ alla base della censura

di incostituzionalita’ per violazione dell’art. 3 Cost. sollevata con

le  ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di Bergamo e di

Roma  in  data  15  luglio  e  15  ottobre 1993, con riferimento alla

disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12-bis e ter dell’art. 7,

d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

    La  tesi  ora esposta, senz’altro condivisibile in relazione alle

ipotesi  di  mera  sospensione  dell’esecuzione  della pena (come, ad

esempio,  nel  caso della sospensione condizionale disciplinata dagli

artt. 163   ss.   cod.  pen.),  non  sembra  tuttavia  persuasiva  in

riferimento alla fattispecie che ci occupa.

    Al  riguardo,  deve preliminarmente rilevarsi che l’analisi della

natura  del  meccanismo  sanzionatorio  da essa delineato deve essere

compiuto in astratto, cioe’ in relazione al dato ontologico della sua

modalita’ di esecuzione e degli interessi su cui l’espulsione incide.

Diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo di considerare come

un  beneficio  finanche  la  pena detentiva, quantomeno in tutti quei

casi in cui l’immissione del condannato nel circuito penitenziario lo

sottragga ad una condizione di marcata emarginazione socio ambientale

(si  pensi al caso, tutt’altro che infrequente e ben conosciuto dagli

operatori  del  settore,  in  cui  l’ingresso  in carcere finisca per

assicurare  al detenuto un alloggio, un’alimentazione e un’assistenza

sanitaria altrimenti inadeguati).

    Proprio  l’astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce

ad  affermarne  l’intrinseca  afflittivita’,  atteso  che il coattivo

accompagnamento  alla  frontiera  a  mezzo  della  forza pubblica (v.

l’attuale  comma  7  dell’art. 15,  d.lgs.  25  luglio  1998, n. 286)

concretizza,  per  citare quanto la Corte costituzionale ha affermato

nella  sentenza  n. 105/2001  in  relazione  alla diversa ipotesi del

trattenimento  dello  straniero  nei  centri  di  permanenza, «quella

mortificazione  della  dignita’  dell’uomo  che  si  verifica in ogni

evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che e’ indice

sicuro   dell’attinenza   della  misura  alla  sfera  della  liberta’

personale».  In  altri  termini l’afflittivita’ deriva specificamente

dalla  immediata  incidenza dell’espulsione sulla liberta’ personale,

attuata  attraverso  l’allontanamento  coatto  dal  territorio  dello

Stato:  con  la  conseguente  traumatica  rottura  del  complesso  di

relazioni  socio-ambientali,  non  necessariamente illecite, poste in

essere  e  magari consolidate da parte dello straniero nel territorio

italiano.

    Non   sembra   pertanto  condivisibile  l’opinione,  espressa  in

occasione   delle  menzionate  ordinanze  di  rimessione  alla  Corte

costituzionale,  secondo  cui  l’espulsione  possa essere qualificata

come  un  beneficio:  tesi fondata sul fatto che l’allontanamento dal

territorio  dello Stato consente al condannato, ovvero – nel caso che

qui   interessa   –   al   detenuto,   di  sottrarsi  definitivamente

all’espiazione  della  pena  (posto  che  dopo il decorso del termine

previsto  dal  comma  8,  senza  che  il  soggetto  sia rientrato nel

territorio  italiano,  essa  verrebbe  ad estinguersi). Anche a voler

prescindere  dall’evidente  assurdita’  di  voler  qualificare   come,

misura favorevole un intervento restrittivo della liberta’ personale,

dovrebbe  in  tal  caso consentirsi al «beneficiario» di rinunciarvi:

cio’ che non avviene nel caso di specie, dovendo il giudice procedere

ex  officio  (come  del resto e’ avvenuto nel presente procedimento).

Tale  circostanza,  costruisce  la  conferma conclusiva del carattere

afflittivo della fattispecie in esame.

    Riconosciuta l’aflittivita’ della sanzione dell’espulsione appare

necessario  procedere  alla  sua  qualificazione  dogmatica,  non per

ragioni  di mera esercitazione speculativa, ma perche’ dal suo esatto

inquadramento   puo’   conseguire,  appunto,  la  soggezione  o  meno

all’art. 27,  comma  terzo,  Cost.  ed  al  principio  del  finalismo

rieducativo.

    Sul  punto non pare esservi dubbio che ci si trovi in presenza di

una sanzione penale. Cio’ e’ evidente nell’ipotesi prevista dal comma

1  dell’art. 16,  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a

voler  prescindere  dal  dato formale del nomen juris adoperato nella

rubrica  (ovvero  quello di «sanzione sostitutiva» della detenzione),

si  e’  in  presenza  di  una  conseguenza  affittiva  che il giudice

applica,  in  esito  ad un processo penale, una volta riconosciuta la

responsabilita’  dell’imputato, in sostituzione di una pena detentiva

(reclusione  o  arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che

l’ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena

descritta   solamente   per  la  fase  in  cui  e’  emessa  (e  cioe’

successivamente  al  passaggio  in  giudicato  della  sentenza) e per

l’organo giudiziario competente (nonche’, di riflesso, per il tipo di

procedimento  e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per

contenuto  e  funzione (tipicamente specialpreventiva: v. supra), non

vi  e’  ragione  di  dubitare  che  essa  presenti la medesima natura

giuridica di quella.

    Orbene,  nel nostro sistema giuridico-penale – fondato sul regime

del   c.d.  doppio  binario  –  le  sanzioni  penali  possono  essere

ricondotte  esclusivamente  a  due tipologie fondamentali diverse per

funzione  e  per  presupposti  applicativi:  la  pena  e la misura di

sicurezza.

    Nel  primo  caso  lo strumento sanzionatorio deve necessariamente

orientarsi,  come  noto,  verso  una  prospettiva di rieducazione del

condannato (e quindi di acquisizione da parte dello stesso, del senso

del  disvalore  della  condotta di reato e, al contempo del senso del

valore attribuito dall’ordinamento all’interesse tutelato dalla norma

incriminatrice).

     Nel   secondo   caso,  l’afflizione  (realizzata  attraverso  una

limitazione della liberta’ o del patrimonio del sottoposto) e’ invece

esclusivamente  finalizzata  a  circoscrivere  il  rischio  di  nuovi

episodi di reita’ da parte di un soggetto socialmente pericoloso.

    Ogni  sanzione  penale  deve  necessariamente essere ricondotta a

questi   due   paradigmi.  In  caso  contrario  si  consentirebbe  al

legislatore  di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia

di  pene  e  di  misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall’art. 25

Cost.)  attraverso  una  sorta di «truffa delle etichette» realizzata

con  la  previsione di un tertium genus di sanzioni penali atipiche e

comunque incidenti sulla liberta’ personale.

    Tanto   premesso,  non  sembra  realisticamente  ipotizzabile  un

inquadramento  della  fattispecie in esame nel novero delle misure di

sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune

ipotesi  di  espulsione  dello straniero dal territorio dello Stato);

soluzione  che  pure  rappresenterebbe – a parere di questo giudice –

l’unica  opzione  ricostruttiva  idonea a renderla compatibile con il

vigente assetto costituzionale.

    L’esclusione   di  una  siffatta  ipotesi  esegetica  si  impone,

infatti,  in  considerazione dell’assenza di un qualsiasi riferimento

all’accertamento  della  concreta pericolosita’ sociale del soggetto,

ora assolutamente necessaria – a mente dell’art. 31, legge 10 ottobre

1986, n. 663 – ai fini dell’applicazione di ogni misura di sicurezza.

Sarebbe  inoltre  del  tutto irragionevole, in rapporto alla funzione

tipica  di  questa categoria di sanzioni penali, che l’espulsione sia

obbligatoria per i reati piu’ lievi e non sia, invece, consentita per

i  reati  piu’  gravi,  tendenzialmente  rivelatori  di  una maggiore

pericolosita’ del colpevole.

    Consegue   all’analisi  che  precede  che  l’espulsione  prevista

dall’art. 16,   d.lgs.  25  luglio  1998,  n. 286  sia  qualificabile

necessariamente  come pena: cio’ che ulteriormente conduce a ritenere

indispensabile  la  sua  conformita’ al principio posto dall’art. 27,

comma 3, Cost.; conformita’ che – per le ragioni piu’ sopra esposte –

deve, al contrario, ragionevolmente escludersi.

    Non  sarebbe  conferente  opinare,  al  riguardo, che la tesi ora

accolta,  escludendo  ontologicamente  la  compatibilita’ tra la pena

dell’espulsione  ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere

tout  court la possibilita’ di conservare la fattispecie in esame nel

nostro   sistema   penale.   Al   contrario,  deve  rilevarsi  che  il

legislatore  ben  potrebbe  congegnare  l’espulsione  come  misura di

sicurezza,  ancorando  – beninteso – l’applicazione della sanzione al

presupposto-cardine    dell’attuale    pericolosita’    sociale   del

condannato.

    2.  –  Nell’applicazione  dell’art. 16,  d.lgs.  25  luglio 1998,

n. 286  sorge,  inoltre,  un dubbio di legittimita’ costituzionale in

relazione  agli  artt. 3  e 3 Cost., rispettivamente sotto il profilo

della  ragionevolezza  delle  scelte del legislatore nella previsione

del  meccanismo  di  espulsione  e  dei relativi presupposti, nonche’

sotto  il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona

umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana.

    Quanto  al  primo  aspetto, la censura e’ suggerita proprio dalle

considerazioni  compiute  dalla  Corte costituzionale con le sentenze

n. 62  e  283  del 1994, in relazione alle fattispecie, ora abrogata,

previste dai commi 12-bis e ter dell’art. 7 t.u. 286/98.

    Si  e’  gia’  osservato  che, con tali sentenze, il giudice delle

leggi  aveva  ricostruito  la  espulsione come ipotesi di sospensione

dell’esecuzione della pena, escludendone cosi’ la necessaria funzione

rieducativa.

    Nella  stessa  occasione  la Consulta aveva comunque affermato la

legittimita’    di   un   sindacato   sulla   (eventuale)   manifesta

irragionevolezza  della  scelta  del  legislatore  di rinunciare alla

attuale applicazione della pena.

    A  tale  proposito  la  Corte  aveva precisato che, affinche’ una

siffatta rinuncia possa ritenersi non irragionevole e’ necessario che

possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di pena espiata abbia

gia’ raggiunto la finalita’ rieducativa richiesta dalla Costituzione,

ovvero  nel  caso  in  cui  l’esecuzione   della  pena  non sia ancora

iniziata)  che  non  vi  sia necessita’ di rieducazione. Una siffatta

valutazione,   ha   continuato  la  Corte  costituzionale,  non  puo’

ovviamente  prescindere  dall’acquisizione  di  adeguate informazioni

degli  organi di polizia, ma anche – si puo’ ragionevolmente pensare,

pur in assenza di un’espressa indicazione in tal senso da parte della

Consulta  –  di  ogni  elemento  utile  ai  fini  del  giudizio sulla

personalita’  (a  sua  volta strumentale all’accertamento della reale

necessita’ di un’effettiva rieducazione del reo).

    Tanto  premesso,  occorre  muovere  dalla  considerazione  che il

meccanismo dell’espulsione ora in esame si fonda, al contrario, su un

mero  automatismo: una volta accertata la sussistenza dei presupposti

richiesti  dalla  norma,  il giudice deve espellere il detenuto senza

avere  alcuna  alternativa.  Ne  consegue  che  al  fine  di ritenere

compatibile  la disciplina descritta con il principio di rieducazione

sara’  necessario  ipotizzare  che il legislatore abbia formulato una

presunzione assoluta di gia’ avvenuta rieducazione del detenuto.

    Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa

previsione   di   una   presunzione   assoluta  appare  evidentemente

confliggere  con  l’esigenza  di  consentire  al  giudice la concreta

valutazione   dell’avvenuta   rieducazione  del  condannato,  la  cui

necessita’    sembra    affermata    proprio   dalla   giurisprudenza

costituzionale, giova altresi’ rilevare che una siffatta presunzione,

in  ogni  caso,  non  appare  fondata su alcuna massima di esperienza

verificabile  non  ravvisandosi  alcuna plausibile giustificazione al

fatto   che   il   detenuto  non  sia  «bisognevole»  di  trattamento

rieducativo  per  il solo fatto che la pena espianda sia inferiore ai

due anni di detenzione.

    Tale rilievo conduce ad affermare l’irragionevolezza della scelta

legislativa,  anche  tenuto conto del fatto che ove si consentisse al

Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su

una   attendibile   regola   di  esperienza,  la  scelta  legislativa

diverrebbe  logicamente  inattaccabile  e,  come  tale,  sottratta  a

qualunque  tipo  di  controllo.  Del  resto  questa esigenza e’ stata

debitamente   rappresentata   dalla    stessa   Corte   costituzionale

allorche’, sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che

«se   e’   pur  lecito  formulare  previsioni  logicamente  valide  e

attendibili,  non  e’ peraltro consentito trasformare tali previsioni

in  certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilita’

che  si  ammetta la prova del contrario» (Corte cost. 28 luglio 1976,

n. 200).

    Ne’   appare  in  alcun  modo  giustificabile  che  una  siffatta

presunzione  possa  essere  legittimamente circoscritta nei confronti

dei  soli  extracomunitari  non  aventi  titolo  di  soggiornare  nel

territorio   italiano,   a   meno   di   ipotizzare  un’irragionevole

presunzione  secondo  cui  nei confronti di tali soggetti il percorso

rieducativo sia, per qualche oscura ragione, piu’ celere.

    Inoltre,  equiparandosi,  in  virtu’ della descritta presunzione,

situazioni  potenzialmente  diverse  –  quali  ad esempio, quella del

detenuto  la  cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella,

opposta,  di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo

–  viene  all’evidenza  violato,  sotto  altro profilo (con specifico

riferimento    al   principio   di   uguaglianza),   l’art. 3   Cost.

L’irragionevolezza   della   fattispecie  in  esame  si  apprezza  in

relazione  ad un ulteriore aspetto. La fattispecie censurata infatti,

statuisce  per  un  verso  il divieto di procedere all’espulsione con

riferimento  ai gravi reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a)

cod.  proc.  pen.;  e per altro verso l’obbligo di disporla per tutti

gli  altri  reati  (salvo  il  rispetto  dei gia’ ricordati limiti di

pena). Per questa via, mentre nell’ipotesi di condanna per detenzione

a  fini  di  spaccio  di  modeste  quantita’ di sostanza stupefacente

l’espulsione   e’  necessitata,  viceversa  qualora  il  quantitativo

detenuto    fosse   addirittura   ingente   (nell’ipotesi   delineata

dall’art. 80,  comma  2, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309) l’espulsione in

fase  esecutiva  sarebbe  invece  preclusa.  E  qualora, peraltro, il

magistrato  di  sorveglianza dovesse ritenere, a pena espiata, che il

condannato  non  sia  persona socialmente pericolosa (ad esempio, per

avere  egli  acquisito  una  valida opportunita’ lavorativa o potendo

essere  inserito  in  valido  tessuto  socio-ambientale idoneo al suo

reinserimento)  non  potrebbe  neanche  farsi luogo all’espulsione ex

art. 86 t.u. stupefacenti. Rimane cosi’ dimostrata l’irragionevolezza

di  una  disciplina che da un lato prevede il divieto di applicazione

di  una  sanzione  afflittiva per alcuni gravi reati e che dall’altro

lato  obbliga  invece  e  il giudice ad applicarla nelle ipotesi piu’

lievi   in   aggiunta   alla   residua  pena  detentiva  (che  verra’

integralmente  espiata  in caso di rientro nel termine di dieci anni:

con  la  conseguenza  che  l’ipotesi meno grave viene sanzionata piu’

duramente).

    Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con

l’art. 2 Cost., occorre evidenziare che e’ ancora una volta la stessa

Corte costituzionale ad evidenziare – nella sentenza n. 62 del 1994 –

che  a  garanzia «di un diritto inviolabile dovrebbe prescriversi che

l’espulsione  sia  ancorata  all’iniziativa del condannato». Circa la

incidenza  dell’espulsione  su  un  diritto espressamente qualificato

come  inviolabile  dall’art. 13, comma 1, Cost., si e’ gia’ detto (v.

supra  pag. 3). Cosi’ come e’ gia’ stata rilevata la natura officiosa

del relativo procedimento di applicazione.

    3.  –  Le  censure di incostituzionalita’ si estendono inoltre, a

giudizio  del  remittente,  sul  procedimento  di  applicazione della

«sanzione  alternativa  alla  detenzione»  in relazione all’art. 111,

commi 1 e 2, Cost.

    A   questo   riguardo   giova  preliminarmente  rilevare  che  il

procedimento  delineato  dai  commi  5  e  ss.  dell’art. 16,  d.lgs.

25 luglio  1998,  n. 286,  ha  natura  sicuramente  giurisdizionale –

avendo  ad  oggetto  l’applicazione,  da  parte  di  un giudice ed in

sostituzione di una pena detentiva principale, di una sanzione penale

–  e  come  tale  deve  ritenersi riconducibile all’alveo del comma 1

dell’art. 111  Cost.,  a  mente  del quale «la giurisdizione di attua

mediante   il   giusto  processo  regolato  dalla  legge».  Anche  il

procedimento   di   espulsione  in  fase  esecutiva,  pertanto,  deve

conformarsi – analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale

–  ai  principi  del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali

(ed  imprescindibili  affinche’ detto procedimento possa considerarsi

conforme  al  dettato  costituzionale),  sono  indicati  dal  comma 2

dell’art. 111  Cost.,  laddove  si  statuisce  che  «ogni processo si

svolge  nel  contraddittorio  tra le parti, in condizioni di parita’,

davanti  a un giudice terzo e imparziale». Nessun argomento contrario

potrebbe  trarsi  dal  mero  dato letterale, rinvenibile nel predetto

enunciato  normativo, laddove viene fatto riferimento alla nozione di

«processo»;   nozione   che   se  intesa  in  una  stretta  accezione

processualpenalistica  dovrebbe essere circoscritta a quella fase del

processo   di   cognizione   (cioe’  diretto  all’accertamento  della

responsabilita’    penale    dell’imputato)    che    si    incardina

successivamente  all’esercizio  dell’azione  penale e che si conclude

con  la  sentenza  di  condanna  o di proscioglimento. Questa ipotesi

ermeneutica,   che   comporterebbe   –   ad  esempio  –  l’esclusione

dall’ambito  della norma del procedimento di sorveglianza e di quello

di   esecuzione,   contrasta   tuttavia   con  un  insuperabile  dato

sistematico: il secondo comma dell’art. 111 Cost. riprende il termine

di  «processo»,  gia’  adoperato  dal  primo comma nella locuzione di

«giusto  processo»  che, come detto, compendia in termini sintetici i

caratteri   indefettibili   della   giurisdizione,   cioe’   di  ogni

procedimento giurisdizionale.

    Consegue   alla  prospettazione  ora  accolta  che  un  carattere

essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame,

va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio.

    Detto  principio  presenta  una  duplice connotazione funzionale,

oggettiva  e  soggettiva.  Esso  di  configura,  in primo luogo, come

fondamentale  strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo)

in   quanto   prezioso   collettore   di    elementi   e   circostanze

giuridico-fattuali   potenzialmente   significativi   ai  fini  della

decisione.

    La  funzione  del  contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in

un’esigenza,  per  cosi’ dire, meramente «efficientistica» (nel senso

di  favorire  una  decisione  qualitativamente  migliore, ossia «piu’

giusta»)  ma  e’  strumentale al soddisfacimento dell’interesse delle

parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto

di  vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse

sono  portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio

la  facolta’  dell’imputato  di  contraddire  i testi dell’accusa non

sara’ finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per

l’acquisizione   di   una  verita’  processuale  quanto  piu’  vicina

possibile  alla  verita’ storica, migliorando in tal modo la qualita’

della   decisione   del   giudice,  ma  rispondera’  –  ovviamente  –

soprattutto    all’esigenza   della   parte   privata   di   tutelare

adeguatamente  il  proprio interesse a difendersi dall’accusa di aver

commesso un reato. In quest’ultima prospettiva, il contraddittorio e’

quindi  funzionale  a garantire il diritto a confrontarsi con l’altra

parte.

    A  tale  riguardo,  deve  peraltro  sottolinearsi  che sebbene la

genesi  storica  della  modifica dell’art. 111 Cost. vada sicuramente

ricondotta   alla  necessita’  di  rafforzare  i  poteri  processuali

dell’imputato,  non  puo’  tuttavia  dubitarsi  che  il principio del

contraddittorio  sia  funzionale  anche alla tutela delle prerogative

processuali   del   pubblico   ministero   cui  deve  necessariamente

consentirsi  di  esplicare,  in  condizioni di parita’ con la difesa,

ogni  attivita’ procedimentale finalizzata a soddisfare gli interessi

istituzionali   tipici   della   propria   funzione  giudiziaria:  il

rappresentare  l’accusa nel processo di cognizione, ma anche, in ogni

altro  procedimento  penale,  l’esercizio  del controllo di legalita’

sull’attivita’  del  giudice  ex art. 73, regio decreto n. 12/1941 (a

mente  del  quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle

leggi»).

    Peraltro,  e  ad  ulteriore  conferma  dell’indefettibilita’  del

contraddittorio,  giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente

sistema   processuale  sia  civile che penale prevede che la decisione

possa  essere  assunta senza contraddittorio (e’ il caso, ad esempio,

dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale

di   condanna)   essa   decisione   viene   comunque    adottata  solo

provvisoriamente,   fino  all’esito  dell’eventuale  procedimento  di

opposizione  nel corso del quale il contraddittorio verra’ pienamente

reintegrato.

    A  questo  riguardo,  l’analisi  anche  sommaria del procedimento

delineato  dall’art. 16  d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come

il  contraddittorio  patisca un vulnus del tutto incompatibile con il

dettato costituzionale.

    E’, infatti, evidente che per un verso risulta violata l’esigenza

immanente al profilo oggettivo del contraddittorio, atteso che pur in

presenza  di un potere ex officio del magistrato di sorveglianza, non

rimane  comunque  soddisfatta l’esigenza di implementare – attraverso

la   prospettazione  delle  parti  –  l’acquisizione  degli  elementi

necessari  ai fini di una decisione piu’ consapevole; per altro verso

e’  di  tutta  evidenza  come  anche  il profilo soggettivo non venga

adeguatamente garantito.

    A  quest’ultimo  proposito, va infatti evidenziato che il comma 6

dell’art. 16,  limitandosi  a  prevedere  la  facolta’  di  adire  il

tribunale  di  sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al

pubblico  ministero  di  porre  in essere pienamente quelle attivita’

procedimentali   necessarie  ai  fini  del  perseguimento  delle  sue

attribuzioni   istituzionali,   in   particolare   del  controllo  di

legalita’.  Se  per  un  verso,  infatti,  il pubblico ministero puo’

interloquire  in  ordine alla legittimita’ dell’espulsione davanti al

tribunale  di  sorveglianza  adito  dal  detenuto,  per  altro verso,

qualora il condannato non abbia nessun interesse all’impugnazione (ad

esempio  perche’  il  procedimento  ha  tratto  l’abbrivio da una sua

istanza),  il  pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di

intervento,  non  fosse altro in quanto non e’ previsto alcun obbligo

di  comunicazione  alla  procura  e  perche’  l’eventuale ricorso per

cassazione  –  da  ritenersi  verosimilmente  ammissibile ex art. 113

Cost.   vertendosi  in  materia  de  libertate  –  non  sospenderebbe

l’esecutivita’  del  decreto,  una  volta decorsi i termini di cui al

comma 6.

    Consegue  alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il

magistrato   di   sorveglianza   espellesse  un  detenuto  condannato

all’ergastolo   non  vi  sarebbero  strumenti  processuali  idonei  a

consentire  al  pubblico  ministero  di esercitare tempestivamente il

controllo di legalita’. Con il che la violazione dell’art. 111, comma

1 e 2, Cost. deve ritenersi quantomeno non manifestamente infondata.

    Per  quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra

potersi  sostenere  che,  non concernendo immediatamente il contenuto

della   decisione   del   giudice   (siccome   inerente   al  profilo

dell’eventuale  reclamo  del  pubblico  ministero),  essa sarebbe del

tutto irrilevante.

    Anche  a  prescindere  dal  fatto  che  il  concetto di rilevanza

accolto  in  alcune  pronunce  della  Corte  costituzionale  (cfr. ex

plurimis  la sentenza n. 148/1983) afferisce alla pertinenza dei dati

normativi   coinvolti  nella  decisione  de  qua  e  che  l’eventuale

accoglimento  della  questione  da  parte  della Consulta produrrebbe

sicuramente  i  suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente

procedimento  (cio’  che  induce  a ritenere sussistente la rilevanza

della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2

della  presente  ordinanza,  e’ appena il caso di sottolineare che il

momento   immediatamente  antecedente  rispetto  alla  decisione  del

magistrato  di  sorveglianza  appare  come il limite estremo oltre il

quale  la  questione potrebbe non essere piu’ sollevabile, atteso che

sia  l’impugnazione  da  parte  del  detenuto  e sia, di riflesso, il

procedimento  di  secondo  grado  rappresentano  ovviamente  una mera

eventualita’,  in  assenza della quale la lesione del contraddittorio

non potrebbe essere eccepita o comunque rilevata.

        4)  Per  le ragioni piu’ sopra esposte gli atti devono essere

inviati  alla  Corte  costituzionale  e  il  procedimento deve essere

sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.

P. Q. M.

    Visti  gli  articoli 23 ss., legge 11 marzo 1953, n. 87, 13, 16 e

19  d.lgs.  25 luglio 1998, n. 286, cosi’ come modificato dalla legge

30 luglio 2002, n. 189, 2, 3, 27, comma terzo, 111 Cost.

    Ordina  la trasmissione degli atti del presente procedimento alla

Corte  costituzionale,  disponendone  la  sospensione in attesa della

decisione della Corte.

    Manda  alla  cancelleria per le comunicazioni di competenza e, in

particolare,  per  la  notifica all’interessato, al Procuratore della

Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Cagliari,  al  Presidente  del

Consiglio  dei  ministri,  nonche’ per la comunicazione ai Presidenti

delle due Camere del Parlamento.

        Cagliari, addi’ 2 agosto 2003

       Il magistrato di sorveglianza: Renoldi