Penale
Stranieri. L’ espulsione in luogo della detenzione viola la finalità rieducativi della pena? Secondo il Tribunale di Cagliari sì. ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2003 N.11
Stranieri. L’espulsione in luogo della detenzione viola la finalità rieducativi della pena? Secondo il Tribunale di Cagliari sì
N. 11 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2003.
Ordinanza emessa l’8 agosto 2003 dal Magistrato di sorveglianza di Cagliari, atti relativi a Tekaia Ali’ Straniero e apolide – Straniero detenuto condannato a pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni – Espulsione disposta dal magistrato di sorveglianza a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione – Afflittivita’ dell’espulsione configurata quale sanzione penale – Automatismo della stessa – Violazione del principio della finalita’ rieducativa della pena – Irragionevolezza sotto diversi profili – Contrasto del procedimento di applicazione della sanzione con i diritti inviolabili dell’uomo, con i principi del giusto processo, in particolare con il principio del contraddittorio tra le parti, in condizione di parita’. – D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 16, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189. – Costituzione, artt. 2, 3, 27, comma terzo, e 111. (GU n. 8 del 25-2-2004)
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
Visti gli atti del procedimento nei confronti di Absamat
Moustapha, nato il 2 gennaio 1981 in Marocco, detenuto presso la Casa
di reclusione di Isili, condannato alla pena di anni due e mesi dieci
di reclusione determinata con provvedimento di unificazione di pene
concorrenti emesso dal Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Padova in data 12 giugno 2002 (ord. es. n. 300/02
R.E.S.), con fine pena al 21 marzo 2004, avente ad oggetto
l’espulsione dal territorio,dello Stato ai sensi dell’art. 16 d.lgs.
25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall’art. 15, legge 30 luglio
2002, n. 189;
O s s e r v a
Con sentenza del Tribunale di Padova in data 20 luglio 2001,
Absamat Moustapha fu condannato alla pena di anni uno e sei di
reclusione e di 8.090.000 di lire di multa, siccome riconosciuto
colpevole dei delitti di cui agli artt. 73, comma 1, t.u. 9 ottobre
1990, n. 309, 495 cod. pen.
Con le diverse generalita’ di Tekaia Ali’, egli fu altresi’
condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e di
3.000.000 lire di multa inflitta per il delitto di cui all’art. 73,
comma 1, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309.
In data 12 giugno 2002 fu quindi emesso il provvedimento di
cumulo specificato in epigrafe, con inizio pena al 10 luglio 2001 e
fine al 21 marzo 2004.
La residua pena espianda e’ pertanto inferiore a due anni di
reclusione.
L’istruttoria fin qui esperita conduce a rinvenire il complesso
delle condizioni di cui all’art. 13, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286.
Per quanto concerne, in primo luogo la sussistenza delle
condizioni soggettive, devesi rilevare come dal provvedimento di
cumulo sopra menzionato sia dato evincere la presenza, a carico del
ristretto, di numerosi alias accanto alle generalita’ prima
riportate: Tekaia Ali’, nato il 5 aprile 1972 a Sousse o a Teboulba o
a Khalifa (Tunisia), alias Ben Said, nato il 5 aprile 1976 in
localita’ non precisata, alias Aziz Abdessamed, nato il 4 luglio 1973
a Casablanca (Marocco), alias Hamed Ben Alir, nato il 5 aprile 1970
in localita’ non precisata. Secondo quanto riferito dalla Questura di
Padova egli e’ stato comunque identificato, tramite il Consolato
della Tunisia a Milano, con le esatte generalita’ di Tekaia Ali’,
nato il 5 aprile 1972 a Teboulba – Monastir (Tunisia); dalle
informazioni in possesso delle Forze di polizia, inoltre, il soggetto
non risulta avere mai regolarizzato la propria posizione di soggiorno
(v. nota informativa in data 3 giugno 2003, in atti, da cui emerge
altresi’ che egli non risulta aver ottemperato a due intimazioni a
lasciare il territorio nazionale emesse dalle Questure di Agrigento e
di Modena). A cio’ deve aggiungersi che non sono stati acquisiti
elementi significativi che inducano ad affermare la sussistenza di
alcuna delle condizioni ostative all’espulsione previste dall’art. 19
del t.u. delle leggi sull’immigrazione.
Pertanto essendo egli stato condannato per un delitto diverso da
quelli contemplati dall’art. 407, comma 2, lettera a) cod. proc.
pen., ovvero dai delitti previsti dal testo unico delle leggi
sull’immigrazione deve ritenersi, conclusivamente, che rimanga
perfettamente integrata la fattispecie prevista dall’art. 16, comma 5
e seguenti, del t.u. citato, cosi’ come modificato dalla legge
189/2002.
Ritiene tuttavia questo giudice, analogamente a quanto gia’
rilevato nella propria ordinanza in data 23 gennaio 2003 (proc.
n. 1/02 S.11B), che rispetto alla suddetta fattispecie possa
fondatamente ipotizzarsi una censura di legittimita’ costituzionale
per violazione degli artt. 3, 27, comma terzo, e 111 Cost., in
relazione ai profili di seguito individuati.
1. – Per quanto attiene al ritenuto contrasto con l’art. 27,
comma terzo, Cost., ovvero con il principio del c.d. finalismo
rieducativo della pena, si osserva preliminarmente che l’espulsione
prevista dalla disposizione censurata appare sicuramente ascrivibile
al novero delle sanzioni penali.
Non ignora, al riguardo, il remittente che la Corte
costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimita’
costituzionale delle fattispecie disciplinate dall’art. 7, commi
12-bis e ter, d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 (che prevedevano un
meccanismo sostanzialmente analogo a quello descritto dal comma 1
dell’art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 come modificato dall’art.
15, legge 30 luglio 2002, n. 189), abbia ritenuta, con le sentenze
n. 62 e 283 del 1994 che la fattispecie in esame configurasse
un’ipotesi di sospensione dell’esecuzione della pena, condizionata al
mancato rientro del condannato nel territorio dello Stato entro i
termini previsti dalla legge. Nondimeno, l’opzione ricostruttiva ora
esposta – la quale porterebbe, all’evidenza, ad escludere la
necessita’ di una proiezione funzionale della fattispecie verso la
rieducazione del sottoposto – non appare pienamente persuasiva.
Quantomeno nell’ipotesi disciplinata dal comma 5 dell’art. 16,
l’espulsione rappresenta, infatti, un quid pluris rispetto alla mera
sospensione dell’esecuzione della pena: essa si configura come una
sanzione penale che si giustappone al meccanismo sospensivo.
Sul punto, l’analisi della struttura e della funzione
dell’istituto, conducono ad affermarne non soltanto la natura
sanzionatoria, ma altresi’ il carattere chiaramente afflittivo.
Circa la natura di sanzione in senso tecnico, cioe’ di meccanismo
attraverso cui la norma giuridica pone le condizioni per la propria
osservanza, essa e’ del tutto ovvio e non sembra abbisognare di
particolari argomentazioni. La sua stretta correlazione con una norma
penale incriminatrice, alla quale e’ logicamente e giuridicamente
«conseguente» (sul punto v. infra), induce a ritenere che essa
risponda ad una funzione di «prevenzione speciale»: attraverso
l’allontanamento coatto del soggetto dal territorio dello Stato, essa
neutralizza – o comunque circoscrive entro margini tollerabili – il
rischio di condotte recidivanti e, quindi, assicura indirettamente
una tutela degli interessi protetti dalle norme incriminatici che
costituiscono il tessuto del nostro sistema giuridico-penale.
Quanto al carattere affittivo dell’espulsione non pare
condivisibile il rilievo secondo cui, accompagnandosi essa ad una
sorta di rinuncia all’esecuzione della pena principale, finirebbe per
tradursi, concretamente, in una misura di favore, in una sorta di
beneficio. Come noto, tale impostazione, e’ alla base della censura
di incostituzionalita’ per violazione dell’art. 3 Cost. sollevata con
le ordinanze di rimessione pronunciate dai Tribunali di Bergamo e di
Roma in data 15 luglio e 15 ottobre 1993, con riferimento alla
disciplina, ora abrogata, dettata dai commi 12-bis e ter dell’art. 7,
d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.
La tesi ora esposta, senz’altro condivisibile in relazione alle
ipotesi di mera sospensione dell’esecuzione della pena (come, ad
esempio, nel caso della sospensione condizionale disciplinata dagli
artt. 163 ss. cod. pen.), non sembra tuttavia persuasiva in
riferimento alla fattispecie che ci occupa.
Al riguardo, deve preliminarmente rilevarsi che l’analisi della
natura del meccanismo sanzionatorio da essa delineato deve essere
compiuto in astratto, cioe’ in relazione al dato ontologico della sua
modalita’ di esecuzione e degli interessi su cui l’espulsione incide.
Diversamente opinando, si giungerebbe all’assurdo di considerare come
un beneficio finanche la pena detentiva, quantomeno in tutti quei
casi in cui l’immissione del condannato nel circuito penitenziario lo
sottragga ad una condizione di marcata emarginazione socio ambientale
(si pensi al caso, tutt’altro che infrequente e ben conosciuto dagli
operatori del settore, in cui l’ingresso in carcere finisca per
assicurare al detenuto un alloggio, un’alimentazione e un’assistenza
sanitaria altrimenti inadeguati).
Proprio l’astratta disamina del meccanismo sanzionatorio conduce
ad affermarne l’intrinseca afflittivita’, atteso che il coattivo
accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (v.
l’attuale comma 7 dell’art. 15, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286)
concretizza, per citare quanto la Corte costituzionale ha affermato
nella sentenza n. 105/2001 in relazione alla diversa ipotesi del
trattenimento dello straniero nei centri di permanenza, «quella
mortificazione della dignita’ dell’uomo che si verifica in ogni
evenienza di assoggettamento fisico all’altrui potere e che e’ indice
sicuro dell’attinenza della misura alla sfera della liberta’
personale». In altri termini l’afflittivita’ deriva specificamente
dalla immediata incidenza dell’espulsione sulla liberta’ personale,
attuata attraverso l’allontanamento coatto dal territorio dello
Stato: con la conseguente traumatica rottura del complesso di
relazioni socio-ambientali, non necessariamente illecite, poste in
essere e magari consolidate da parte dello straniero nel territorio
italiano.
Non sembra pertanto condivisibile l’opinione, espressa in
occasione delle menzionate ordinanze di rimessione alla Corte
costituzionale, secondo cui l’espulsione possa essere qualificata
come un beneficio: tesi fondata sul fatto che l’allontanamento dal
territorio dello Stato consente al condannato, ovvero – nel caso che
qui interessa – al detenuto, di sottrarsi definitivamente
all’espiazione della pena (posto che dopo il decorso del termine
previsto dal comma 8, senza che il soggetto sia rientrato nel
territorio italiano, essa verrebbe ad estinguersi). Anche a voler
prescindere dall’evidente assurdita’ di voler qualificare come,
misura favorevole un intervento restrittivo della liberta’ personale,
dovrebbe in tal caso consentirsi al «beneficiario» di rinunciarvi:
cio’ che non avviene nel caso di specie, dovendo il giudice procedere
ex officio (come del resto e’ avvenuto nel presente procedimento).
Tale circostanza, costruisce la conferma conclusiva del carattere
afflittivo della fattispecie in esame.
Riconosciuta l’aflittivita’ della sanzione dell’espulsione appare
necessario procedere alla sua qualificazione dogmatica, non per
ragioni di mera esercitazione speculativa, ma perche’ dal suo esatto
inquadramento puo’ conseguire, appunto, la soggezione o meno
all’art. 27, comma terzo, Cost. ed al principio del finalismo
rieducativo.
Sul punto non pare esservi dubbio che ci si trovi in presenza di
una sanzione penale. Cio’ e’ evidente nell’ipotesi prevista dal comma
1 dell’art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. In tal caso, anche a
voler prescindere dal dato formale del nomen juris adoperato nella
rubrica (ovvero quello di «sanzione sostitutiva» della detenzione),
si e’ in presenza di una conseguenza affittiva che il giudice
applica, in esito ad un processo penale, una volta riconosciuta la
responsabilita’ dell’imputato, in sostituzione di una pena detentiva
(reclusione o arresto) non superiore ai due anni. E dal momento che
l’ipotesi prevista dal successivo comma 5 differisce da quella appena
descritta solamente per la fase in cui e’ emessa (e cioe’
successivamente al passaggio in giudicato della sentenza) e per
l’organo giudiziario competente (nonche’, di riflesso, per il tipo di
procedimento e di provvedimento che dispone la sanzione), ma non per
contenuto e funzione (tipicamente specialpreventiva: v. supra), non
vi e’ ragione di dubitare che essa presenti la medesima natura
giuridica di quella.
Orbene, nel nostro sistema giuridico-penale – fondato sul regime
del c.d. doppio binario – le sanzioni penali possono essere
ricondotte esclusivamente a due tipologie fondamentali diverse per
funzione e per presupposti applicativi: la pena e la misura di
sicurezza.
Nel primo caso lo strumento sanzionatorio deve necessariamente
orientarsi, come noto, verso una prospettiva di rieducazione del
condannato (e quindi di acquisizione da parte dello stesso, del senso
del disvalore della condotta di reato e, al contempo del senso del
valore attribuito dall’ordinamento all’interesse tutelato dalla norma
incriminatrice).
Nel secondo caso, l’afflizione (realizzata attraverso una
limitazione della liberta’ o del patrimonio del sottoposto) e’ invece
esclusivamente finalizzata a circoscrivere il rischio di nuovi
episodi di reita’ da parte di un soggetto socialmente pericoloso.
Ogni sanzione penale deve necessariamente essere ricondotta a
questi due paradigmi. In caso contrario si consentirebbe al
legislatore di eludere i vincoli posti dalla Costituzione in materia
di pene e di misure di sicurezza (posti, ad esempio, dall’art. 25
Cost.) attraverso una sorta di «truffa delle etichette» realizzata
con la previsione di un tertium genus di sanzioni penali atipiche e
comunque incidenti sulla liberta’ personale.
Tanto premesso, non sembra realisticamente ipotizzabile un
inquadramento della fattispecie in esame nel novero delle misure di
sicurezza (nel cui catalogo sono peraltro previste, come noto, alcune
ipotesi di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato);
soluzione che pure rappresenterebbe – a parere di questo giudice –
l’unica opzione ricostruttiva idonea a renderla compatibile con il
vigente assetto costituzionale.
L’esclusione di una siffatta ipotesi esegetica si impone,
infatti, in considerazione dell’assenza di un qualsiasi riferimento
all’accertamento della concreta pericolosita’ sociale del soggetto,
ora assolutamente necessaria – a mente dell’art. 31, legge 10 ottobre
1986, n. 663 – ai fini dell’applicazione di ogni misura di sicurezza.
Sarebbe inoltre del tutto irragionevole, in rapporto alla funzione
tipica di questa categoria di sanzioni penali, che l’espulsione sia
obbligatoria per i reati piu’ lievi e non sia, invece, consentita per
i reati piu’ gravi, tendenzialmente rivelatori di una maggiore
pericolosita’ del colpevole.
Consegue all’analisi che precede che l’espulsione prevista
dall’art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 sia qualificabile
necessariamente come pena: cio’ che ulteriormente conduce a ritenere
indispensabile la sua conformita’ al principio posto dall’art. 27,
comma 3, Cost.; conformita’ che – per le ragioni piu’ sopra esposte –
deve, al contrario, ragionevolmente escludersi.
Non sarebbe conferente opinare, al riguardo, che la tesi ora
accolta, escludendo ontologicamente la compatibilita’ tra la pena
dell’espulsione ed il principio rieducativo, porterebbe ad escludere
tout court la possibilita’ di conservare la fattispecie in esame nel
nostro sistema penale. Al contrario, deve rilevarsi che il
legislatore ben potrebbe congegnare l’espulsione come misura di
sicurezza, ancorando – beninteso – l’applicazione della sanzione al
presupposto-cardine dell’attuale pericolosita’ sociale del
condannato.
2. – Nell’applicazione dell’art. 16, d.lgs. 25 luglio 1998,
n. 286 sorge, inoltre, un dubbio di legittimita’ costituzionale in
relazione agli artt. 3 e 3 Cost., rispettivamente sotto il profilo
della ragionevolezza delle scelte del legislatore nella previsione
del meccanismo di espulsione e dei relativi presupposti, nonche’
sotto il profilo della lesione dei diritti inviolabili della persona
umana riconosciuti e garantiti dalla Repubblica italiana.
Quanto al primo aspetto, la censura e’ suggerita proprio dalle
considerazioni compiute dalla Corte costituzionale con le sentenze
n. 62 e 283 del 1994, in relazione alle fattispecie, ora abrogata,
previste dai commi 12-bis e ter dell’art. 7 t.u. 286/98.
Si e’ gia’ osservato che, con tali sentenze, il giudice delle
leggi aveva ricostruito la espulsione come ipotesi di sospensione
dell’esecuzione della pena, escludendone cosi’ la necessaria funzione
rieducativa.
Nella stessa occasione la Consulta aveva comunque affermato la
legittimita’ di un sindacato sulla (eventuale) manifesta
irragionevolezza della scelta del legislatore di rinunciare alla
attuale applicazione della pena.
A tale proposito la Corte aveva precisato che, affinche’ una
siffatta rinuncia possa ritenersi non irragionevole e’ necessario che
possa (ragionevolmente) presumersi che la parte di pena espiata abbia
gia’ raggiunto la finalita’ rieducativa richiesta dalla Costituzione,
ovvero nel caso in cui l’esecuzione della pena non sia ancora
iniziata) che non vi sia necessita’ di rieducazione. Una siffatta
valutazione, ha continuato la Corte costituzionale, non puo’
ovviamente prescindere dall’acquisizione di adeguate informazioni
degli organi di polizia, ma anche – si puo’ ragionevolmente pensare,
pur in assenza di un’espressa indicazione in tal senso da parte della
Consulta – di ogni elemento utile ai fini del giudizio sulla
personalita’ (a sua volta strumentale all’accertamento della reale
necessita’ di un’effettiva rieducazione del reo).
Tanto premesso, occorre muovere dalla considerazione che il
meccanismo dell’espulsione ora in esame si fonda, al contrario, su un
mero automatismo: una volta accertata la sussistenza dei presupposti
richiesti dalla norma, il giudice deve espellere il detenuto senza
avere alcuna alternativa. Ne consegue che al fine di ritenere
compatibile la disciplina descritta con il principio di rieducazione
sara’ necessario ipotizzare che il legislatore abbia formulato una
presunzione assoluta di gia’ avvenuta rieducazione del detenuto.
Orbene, anche a voler prescindere dalla circostanza che la stessa
previsione di una presunzione assoluta appare evidentemente
confliggere con l’esigenza di consentire al giudice la concreta
valutazione dell’avvenuta rieducazione del condannato, la cui
necessita’ sembra affermata proprio dalla giurisprudenza
costituzionale, giova altresi’ rilevare che una siffatta presunzione,
in ogni caso, non appare fondata su alcuna massima di esperienza
verificabile non ravvisandosi alcuna plausibile giustificazione al
fatto che il detenuto non sia «bisognevole» di trattamento
rieducativo per il solo fatto che la pena espianda sia inferiore ai
due anni di detenzione.
Tale rilievo conduce ad affermare l’irragionevolezza della scelta
legislativa, anche tenuto conto del fatto che ove si consentisse al
Parlamento di costruire delle presunzioni insuperabili non fondate su
una attendibile regola di esperienza, la scelta legislativa
diverrebbe logicamente inattaccabile e, come tale, sottratta a
qualunque tipo di controllo. Del resto questa esigenza e’ stata
debitamente rappresentata dalla stessa Corte costituzionale
allorche’, sia pure nella diversa materia tributaria ha precisato che
«se e’ pur lecito formulare previsioni logicamente valide e
attendibili, non e’ peraltro consentito trasformare tali previsioni
in certezze assolute, imperativamente statuite senza la possibilita’
che si ammetta la prova del contrario» (Corte cost. 28 luglio 1976,
n. 200).
Ne’ appare in alcun modo giustificabile che una siffatta
presunzione possa essere legittimamente circoscritta nei confronti
dei soli extracomunitari non aventi titolo di soggiornare nel
territorio italiano, a meno di ipotizzare un’irragionevole
presunzione secondo cui nei confronti di tali soggetti il percorso
rieducativo sia, per qualche oscura ragione, piu’ celere.
Inoltre, equiparandosi, in virtu’ della descritta presunzione,
situazioni potenzialmente diverse – quali ad esempio, quella del
detenuto la cui condotta penitenziaria sia stata pessima, e quella,
opposta, di chi abbia fruttuosamente seguito il percorso rieducativo
– viene all’evidenza violato, sotto altro profilo (con specifico
riferimento al principio di uguaglianza), l’art. 3 Cost.
L’irragionevolezza della fattispecie in esame si apprezza in
relazione ad un ulteriore aspetto. La fattispecie censurata infatti,
statuisce per un verso il divieto di procedere all’espulsione con
riferimento ai gravi reati previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a)
cod. proc. pen.; e per altro verso l’obbligo di disporla per tutti
gli altri reati (salvo il rispetto dei gia’ ricordati limiti di
pena). Per questa via, mentre nell’ipotesi di condanna per detenzione
a fini di spaccio di modeste quantita’ di sostanza stupefacente
l’espulsione e’ necessitata, viceversa qualora il quantitativo
detenuto fosse addirittura ingente (nell’ipotesi delineata
dall’art. 80, comma 2, t.u. 9 ottobre 1990, n. 309) l’espulsione in
fase esecutiva sarebbe invece preclusa. E qualora, peraltro, il
magistrato di sorveglianza dovesse ritenere, a pena espiata, che il
condannato non sia persona socialmente pericolosa (ad esempio, per
avere egli acquisito una valida opportunita’ lavorativa o potendo
essere inserito in valido tessuto socio-ambientale idoneo al suo
reinserimento) non potrebbe neanche farsi luogo all’espulsione ex
art. 86 t.u. stupefacenti. Rimane cosi’ dimostrata l’irragionevolezza
di una disciplina che da un lato prevede il divieto di applicazione
di una sanzione afflittiva per alcuni gravi reati e che dall’altro
lato obbliga invece e il giudice ad applicarla nelle ipotesi piu’
lievi in aggiunta alla residua pena detentiva (che verra’
integralmente espiata in caso di rientro nel termine di dieci anni:
con la conseguenza che l’ipotesi meno grave viene sanzionata piu’
duramente).
Per quanto attiene, infine, al profilo del ritenuto contrasto con
l’art. 2 Cost., occorre evidenziare che e’ ancora una volta la stessa
Corte costituzionale ad evidenziare – nella sentenza n. 62 del 1994 –
che a garanzia «di un diritto inviolabile dovrebbe prescriversi che
l’espulsione sia ancorata all’iniziativa del condannato». Circa la
incidenza dell’espulsione su un diritto espressamente qualificato
come inviolabile dall’art. 13, comma 1, Cost., si e’ gia’ detto (v.
supra pag. 3). Cosi’ come e’ gia’ stata rilevata la natura officiosa
del relativo procedimento di applicazione.
3. – Le censure di incostituzionalita’ si estendono inoltre, a
giudizio del remittente, sul procedimento di applicazione della
«sanzione alternativa alla detenzione» in relazione all’art. 111,
commi 1 e 2, Cost.
A questo riguardo giova preliminarmente rilevare che il
procedimento delineato dai commi 5 e ss. dell’art. 16, d.lgs.
25 luglio 1998, n. 286, ha natura sicuramente giurisdizionale –
avendo ad oggetto l’applicazione, da parte di un giudice ed in
sostituzione di una pena detentiva principale, di una sanzione penale
– e come tale deve ritenersi riconducibile all’alveo del comma 1
dell’art. 111 Cost., a mente del quale «la giurisdizione di attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge». Anche il
procedimento di espulsione in fase esecutiva, pertanto, deve
conformarsi – analogamente ad ogni altro procedimento giurisdizionale
– ai principi del c.d. giusto processo, i cui caratteri essenziali
(ed imprescindibili affinche’ detto procedimento possa considerarsi
conforme al dettato costituzionale), sono indicati dal comma 2
dell’art. 111 Cost., laddove si statuisce che «ogni processo si
svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita’,
davanti a un giudice terzo e imparziale». Nessun argomento contrario
potrebbe trarsi dal mero dato letterale, rinvenibile nel predetto
enunciato normativo, laddove viene fatto riferimento alla nozione di
«processo»; nozione che se intesa in una stretta accezione
processualpenalistica dovrebbe essere circoscritta a quella fase del
processo di cognizione (cioe’ diretto all’accertamento della
responsabilita’ penale dell’imputato) che si incardina
successivamente all’esercizio dell’azione penale e che si conclude
con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Questa ipotesi
ermeneutica, che comporterebbe – ad esempio – l’esclusione
dall’ambito della norma del procedimento di sorveglianza e di quello
di esecuzione, contrasta tuttavia con un insuperabile dato
sistematico: il secondo comma dell’art. 111 Cost. riprende il termine
di «processo», gia’ adoperato dal primo comma nella locuzione di
«giusto processo» che, come detto, compendia in termini sintetici i
caratteri indefettibili della giurisdizione, cioe’ di ogni
procedimento giurisdizionale.
Consegue alla prospettazione ora accolta che un carattere
essenziale di ogni procedimento penale, ivi compreso quello in esame,
va necessariamente rinvenuto nel principio del contraddittorio.
Detto principio presenta una duplice connotazione funzionale,
oggettiva e soggettiva. Esso di configura, in primo luogo, come
fondamentale strumento di conoscenza del giudice (profilo oggettivo)
in quanto prezioso collettore di elementi e circostanze
giuridico-fattuali potenzialmente significativi ai fini della
decisione.
La funzione del contraddittorio, peraltro, non si esaurisce in
un’esigenza, per cosi’ dire, meramente «efficientistica» (nel senso
di favorire una decisione qualitativamente migliore, ossia «piu’
giusta») ma e’ strumentale al soddisfacimento dell’interesse delle
parti del procedimento a rappresentare compiutamente il proprio punto
di vista ai fini del perseguimento delle diverse istanze di cui esse
sono portatori (c.d. profilo soggettivo). Per questa via, ad esempio
la facolta’ dell’imputato di contraddire i testi dell’accusa non
sara’ finalizzata, esclusivamente, a fornire degli elementi utili per
l’acquisizione di una verita’ processuale quanto piu’ vicina
possibile alla verita’ storica, migliorando in tal modo la qualita’
della decisione del giudice, ma rispondera’ – ovviamente –
soprattutto all’esigenza della parte privata di tutelare
adeguatamente il proprio interesse a difendersi dall’accusa di aver
commesso un reato. In quest’ultima prospettiva, il contraddittorio e’
quindi funzionale a garantire il diritto a confrontarsi con l’altra
parte.
A tale riguardo, deve peraltro sottolinearsi che sebbene la
genesi storica della modifica dell’art. 111 Cost. vada sicuramente
ricondotta alla necessita’ di rafforzare i poteri processuali
dell’imputato, non puo’ tuttavia dubitarsi che il principio del
contraddittorio sia funzionale anche alla tutela delle prerogative
processuali del pubblico ministero cui deve necessariamente
consentirsi di esplicare, in condizioni di parita’ con la difesa,
ogni attivita’ procedimentale finalizzata a soddisfare gli interessi
istituzionali tipici della propria funzione giudiziaria: il
rappresentare l’accusa nel processo di cognizione, ma anche, in ogni
altro procedimento penale, l’esercizio del controllo di legalita’
sull’attivita’ del giudice ex art. 73, regio decreto n. 12/1941 (a
mente del quale «il pubblico ministero veglia alla osservanza delle
leggi»).
Peraltro, e ad ulteriore conferma dell’indefettibilita’ del
contraddittorio, giova rilevare che anche nei casi in cui il vigente
sistema processuale sia civile che penale prevede che la decisione
possa essere assunta senza contraddittorio (e’ il caso, ad esempio,
dei procedimenti monitori per decreto ingiuntivo e per decreto penale
di condanna) essa decisione viene comunque adottata solo
provvisoriamente, fino all’esito dell’eventuale procedimento di
opposizione nel corso del quale il contraddittorio verra’ pienamente
reintegrato.
A questo riguardo, l’analisi anche sommaria del procedimento
delineato dall’art. 16 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 evidenzia come
il contraddittorio patisca un vulnus del tutto incompatibile con il
dettato costituzionale.
E’, infatti, evidente che per un verso risulta violata l’esigenza
immanente al profilo oggettivo del contraddittorio, atteso che pur in
presenza di un potere ex officio del magistrato di sorveglianza, non
rimane comunque soddisfatta l’esigenza di implementare – attraverso
la prospettazione delle parti – l’acquisizione degli elementi
necessari ai fini di una decisione piu’ consapevole; per altro verso
e’ di tutta evidenza come anche il profilo soggettivo non venga
adeguatamente garantito.
A quest’ultimo proposito, va infatti evidenziato che il comma 6
dell’art. 16, limitandosi a prevedere la facolta’ di adire il
tribunale di sorveglianza in capo al solo detenuto, non consente al
pubblico ministero di porre in essere pienamente quelle attivita’
procedimentali necessarie ai fini del perseguimento delle sue
attribuzioni istituzionali, in particolare del controllo di
legalita’. Se per un verso, infatti, il pubblico ministero puo’
interloquire in ordine alla legittimita’ dell’espulsione davanti al
tribunale di sorveglianza adito dal detenuto, per altro verso,
qualora il condannato non abbia nessun interesse all’impugnazione (ad
esempio perche’ il procedimento ha tratto l’abbrivio da una sua
istanza), il pubblico ministero si vedrebbe precluso ogni spazio di
intervento, non fosse altro in quanto non e’ previsto alcun obbligo
di comunicazione alla procura e perche’ l’eventuale ricorso per
cassazione – da ritenersi verosimilmente ammissibile ex art. 113
Cost. vertendosi in materia de libertate – non sospenderebbe
l’esecutivita’ del decreto, una volta decorsi i termini di cui al
comma 6.
Consegue alla ricostruzione accolta che qualora, per assurdo, il
magistrato di sorveglianza espellesse un detenuto condannato
all’ergastolo non vi sarebbero strumenti processuali idonei a
consentire al pubblico ministero di esercitare tempestivamente il
controllo di legalita’. Con il che la violazione dell’art. 111, comma
1 e 2, Cost. deve ritenersi quantomeno non manifestamente infondata.
Per quanto poi attiene alla rilevanza della questione non sembra
potersi sostenere che, non concernendo immediatamente il contenuto
della decisione del giudice (siccome inerente al profilo
dell’eventuale reclamo del pubblico ministero), essa sarebbe del
tutto irrilevante.
Anche a prescindere dal fatto che il concetto di rilevanza
accolto in alcune pronunce della Corte costituzionale (cfr. ex
plurimis la sentenza n. 148/1983) afferisce alla pertinenza dei dati
normativi coinvolti nella decisione de qua e che l’eventuale
accoglimento della questione da parte della Consulta produrrebbe
sicuramente i suoi effetti sulla disciplina applicabile al presente
procedimento (cio’ che induce a ritenere sussistente la rilevanza
della questione anche in riferimento ai profili indicati ai nn. 1 e 2
della presente ordinanza, e’ appena il caso di sottolineare che il
momento immediatamente antecedente rispetto alla decisione del
magistrato di sorveglianza appare come il limite estremo oltre il
quale la questione potrebbe non essere piu’ sollevabile, atteso che
sia l’impugnazione da parte del detenuto e sia, di riflesso, il
procedimento di secondo grado rappresentano ovviamente una mera
eventualita’, in assenza della quale la lesione del contraddittorio
non potrebbe essere eccepita o comunque rilevata.
4) Per le ragioni piu’ sopra esposte gli atti devono essere
inviati alla Corte costituzionale e il procedimento deve essere
sospeso in attesa delle determinazioni del giudice delle leggi.
P. Q. M.
Visti gli articoli 23 ss., legge 11 marzo 1953, n. 87, 13, 16 e
19 d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, cosi’ come modificato dalla legge
30 luglio 2002, n. 189, 2, 3, 27, comma terzo, 111 Cost.
Ordina la trasmissione degli atti del presente procedimento alla
Corte costituzionale, disponendone la sospensione in attesa della
decisione della Corte.
Manda alla cancelleria per le comunicazioni di competenza e, in
particolare, per la notifica all’interessato, al Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, al Presidente del
Consiglio dei ministri, nonche’ per la comunicazione ai Presidenti
delle due Camere del Parlamento.
Cagliari, addi’ 2 agosto 2003
Il magistrato di sorveglianza: Renoldi