Civile
Spese del giudizio. E’ incostituzionale l’ art. 92 c.p.c. nella parte in cui non obbliga il Giudice a motivare circa la ripartizione delle spese legali? E’ il parere del Tribunale di Camerino.N. 321 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22
Spese del giudizio. E’ incostituzionale l’art. 92 c.p.c. nella parte in cui non obbliga il Giudice a motivare circa la ripartizione delle spese legali? E’ il parere del Tribunale di Camerino
N. 321 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2003.
Ordinanza emessa il 22 luglio 2003 (pervenuta alla Corte costituzionale il 26 marzo 2004) dal tribunale di Camerino nel procedimento civile vertente tra Piloni Ruggero e Trottini Ada ed altri Procedimento civile – Spese processuali – Compensazione parziale o totale in danno della parte vincitrice – Facolta’ del giudice quando concorrono giusti motivi – Potere svincolato (secondo l’interpretazione della Cassazione elevata a «diritto vivente») dall’obbligo di espressa e giustificata motivazione – Lesione del diritto di agire in giudizio – Incidenza sull’effettivita’ della tutela giudiziaria dei diritti – Contrasto con l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali – Richiamo alla sentenza n. 4455/1999 della Corte di cassazione. – Codice di procedura civile, art. 92, comma secondo. – Costituzione, artt. 24 e 111. (GU n. 17 del 28-4-2004)
IL TRIBUNALE
Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento civile
iscritto al n. 176 del registro generale contenzioso civile dell’anno
1996, in corso tra: Piloni Ruggero, attore, rappresentato e difeso
dall’avv. Wolfango Rivelli ed elettivamente domiciliato presso il suo
studio in Camerino, via Massei n. 30, e: Trottini Ada, Grandoni
Lauretta e Grandoni Massimo Nicola, convenuti, rappresentati e difesi
dall’avv. Torquato Sartori ed elettivamente domiciliati presso il suo
studio in Camerino, via C. Varano n. 6.
F a t t o
Istruito il processo civile, come sopra promosso, questo giudice
monocratico ha trattenuto la causa in decisione. La controversia e’
stata poi decisa con sentenza del 24 giugno 2003, con la quale e’
stata sostanzialmente accolta la domanda attrice. Ritenendo,
tuttavia, di dover far uso della facolta’ di disporre, in tutto o in
parte, la compensazione delle spese processuali affrontate dalla
parte vittoriosa, ai sensi dell’art. 92, comma 2, c.p.c., e
ritenendo, altresi’, che tale norma, cosi’ come interpretata dalla
giurisprudenza pressoche’ univoca e costante della Cassazione,
presentasse profili di illegittimita’ costituzionale, per violazione
degli artt. 24 e 111 della Costituzione, lo scrivente ha disposto la
sospensione del processo limitatamente alla pronuncia accessoria
sulle spese legali, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci
sulla seguente questione di incostituzionalita’, che si solleva
d’ufficio.
D i r i t t o
L’art. 91 del codice di procedura civile sancisce il principio
della «soccombenza processuale», cioe’ la regola in virtu’ della
quale «la parte soccombente viene condannata dal giudice, con la
sentenza che definisce il giudizio, al rimborso delle spese sostenute
dalla parte vittoriosa».
L’art. 92, comma 2, del codice di procedura civile dispone che il
giudice possa derogare a questo principio legale, compensando, in
tutto o in parte, le spese tra le parti, sia per l’ipotesi di
«soccombenza reciproca» sia allorche’ «concorrono giusti motivi». In
realta’, se si considera che la compensazione per l’ipotesi di
soccombenza reciproca rispecchia, sostanzialmente, il principio
legale della soccombenza a carico delle parti perdenti, e’ ben chiaro
che l’unica vera eccezione al principio della soccombenza e’
rappresentato dall’ipotesi in cui il giudice ravvisi «giusti motivi»,
perche’ in questo caso le spese vengono a gravare sulla parte
vittoriosa.
Applicando il canone ermeneutico sancito dall’art. 12 delle
preleggi (nell’applicare la legge non si puo’ ad essa attribuire
altro senso che quello fatto palese dal sisnificato proprio delle
parole secondo la connessione di esse), l’interprete potrebbe trarre,
dal tenore testuale dell’art. 92 c.p.c., il legittimo convincimento
che il giudice sia tenuto ad esporre, nella sentenza, i motivi per i
quali ritiene di poter decretare, ai danni della parte vittoriosa, la
compensazione per «giusti motivi»: a tanto, invero, induce il tenore
testuale della norma che, parlando di «giusti motivi», lascerebbe
intendere che il giudice debba «motivare», con giuste argomentazioni,
perche’ dispone, in deroga al principio legale di soccombenza, la
compensazione ai danni della parte vittoriosa.
A cio’ induce, inoltre, un’ulteriore argomentazione logica, che
si puo’ trarre dalla considerazione che per la condanna alle spese
della parte soccombente non occorre alcuna motivazione, trattandosi
di statuizione imposta, ex lege, dall’art. 91 del c.p.c.: sicche’
sarebbe giocoforza dedurne che per l’ipotesi opposta (cioe’ quella in
cui il giudice neghi alla parte vittoriosa il recupero delle spese
legali) occorra, necessariamente, un’esplicita e convincente
motivazione perche’, in caso contrario, si accorderebbe al giudice il
potere di pronunciarsi sull’onere delle spese ad libitum, cioe’ di
scegliere in modo insindacabile se condannare il soccontente o se
gratificarlo della compensazione, cosi’ vanificando la disciplina
legale dell’onere delle spese che, in realta’, per un verso fissa
come criterio legale quello della soccombenza e, per altro verso,
prevede una deroga per la sola ipotesi in cui, pur essendovi
soccombenza, il giudice conosca la sussistenza di motivi validi per
esonerare il soccombente dall’onere di rifondere le spese alla parte
vittoriosa.
Questa interpretazione della norma, tuttavia, non puo’ essere
accolta da questo giudice perche’ la giurisprudenza pressoche’
costante ed univoca della Cassazione (sostanzialmente smentita dalla
sola sentenza 5 maggio 1999, n. 4455 della Prima sezione civile)
afferma l’esatto contrario, e cioe’ che il giudice non ha alcun
obbligo di «motivare» il capo della sentenza col quale dispone la
compensazione delle spese per «giusti motivi», e cio’ in quanto si
tratta di statuizione «discrezionale», assistita da una presunzione
di conformita’ a diritto (cfr., da ultimo, Cass., n. 14095/2002,
Cass., n. 11597/2002, Cass., n. 5988/2001, Cass., 2216/1999).
Dall’affermazione giurisprudenziale di questo drastico principio
discende, dunque, che il giudice puo’, a proprio arbitrio e senza
doverne rendere conto ad alcuno, ribaltare a proprio piacimento il
principio legale della soccombenza processuale, facendo in tal modo
gravare le spese sulla parte incolpevole, e cioe’ sulla parte
vittoriosa.
Il necessario corollario di questo principio – anch’esso
costantemente ribadito dalla Corte di cassazione – e’ che la parte
vittoriosa, che si sia vista compensare le spese di lite, non puo’
far valere in sede di impugnazione il «difetto di motivazione» della
sentenza, dolendosi del fatto che il giudice ha omesso di esporre i
motivi – da lui reputati «giusti» – che lo hanno indotto a derogare
al principio legale della soccombenza processuale. In realta’, solo
nell’ipotesi in cui il giudice abbia esposto motivi di compensazione
che risultino illogici o erronei, una parte della giurisprudenza di
legittimita’ accorda alla parte vittoriosa il diritto di proporre
impugnazione: si tratta, tuttavia, di una «opportunita» che puo’
essere esercitata solo se il giudice, pur non essendovi tenuto, abbia
esposto, in sentenza, i motivi della disposta compensazione.
Ad avviso del remittente l’art. 92, comma 2 c.p.c., interpretato
secondo il «diritto vivente», viola patentemente gli artt. 24 e 111
della Costituzione.
Si sottolinea che la stessa Corte di cassazione, Sezione I
civile, nell’unica sentenza dissenziente (sentenza n. 4455/1999), ha
esplicitamente dichiarato che l’interpretazione dominante
dell’art. 92 del c.p.c. si poneva in palese contrasto con le due
richiamate norme costituzionali, cosi’ esprimendosi:
«Non appare inutile sottolineare che – se i legittimi costi
del processo costituiscono il mezzo indispensabile per esercitare il
proprio diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24, commi 1 e 3,
Cost e 90 cod. proc. civ.; cfr. Corte costituzionale, e pluribus e da
ultima, ord. n.18 del 1999, ed ivi i precedenti), cioe’ per far
valere in giudizio un proprio preteso diritto sostanziale non
spontaneamente realizzato (artt. 99 cod. proc. civ. e 2907 cod. civ.;
e se il ricorso alla tutela giurisdizionale di questo diritto
comporta l’assunzione di una responsabilita’, appunto, “processuale”,
comprendente anche i predetti costi – ne consegue che la disciplina
regolatrice di siffatta responsabilita’, in quanto funzionalmente
connessa all’instaurazione, allo svolgimento ed alla conclusione del
processo, appartiene totalmente alle regole che lo governano: vera e
propria “norma processuale”, al cui rispetto e’ tenuto anche il
giudice di pace come “giudice di equita’”, in forza del generale e
fondamentale principio, secondo cui i costi del processo non possono
mai gravare sulla parte che ha ragione e che non ha “abusato” della
predetta tutela giurisdizionale. Sicche’, non appare neppure
concepibile l’applicazione, tout court, della regola equitativa – che
attiene esclusivamente al giudizio di merito sul diritto azionato –
nella decisione sulla distribuzione “finale” dei costi del processo:
la quale, in quanto giudizio sulla legittimita’, o non, del ricorso a
siffatto mezzo di tutela, e’ necessariamente governato dalle regole
che lo disciplinano …
Il ricorso merita, altresi’, accoglimento, in quanto dalla
motivazione della sentenza impugnata non emerge alcun elemento idoneo
a fondare la decisione del giudice a quo di compensare (per intero)
tra le parti le spese di giudizio, assunta, … sulla base del
disposto di cui all’art. 92 comma 2 cod. proc. civ., nella parte in
cui dispone che “se concorrono altri giusti motivi il giudice puo’
compensare …”. Per giungere a siffatta conclusione, appare
indispensabile, innanzitutto, ripercorrere gli orientamenti espressi
da questa Corte sul rapporto tra esercizio, da parte del giudice, del
potere discrezionale di compensazione delle spese processuali,
attribuitogli dalla richiamata disposizione (“se vi e’ soccombenza
reciproca o concorrono altri giusti motivi il giudice puo’ compensare
….”), e sua giustificazione nella motivazione del provvedimento che
“chiude il processo davanti a lui” (art. 91 comma 1).
Com’e’ noto, l’indirizzo, assolutamente prevalente, e’ nel senso
che la decisione di compensare le spese – la quale puo’ essere
assunta anche nei confronti della parte totalmente vittoriosa – in
quanto espressiva dell’esercizio del predetto potere discrezionale,
non richiede alcuna “motivazione specifica” (per la verita’, alcune
sentenze affermano, esplicitamente e radicalmente, che non occorre
alcuna motivazione); con la conseguenza che il relativo provvedimento
e’ insindacabile, anche in sede di legittimita’, sotto il profilo,
appunto, della carenza di motivazione; e che, soltanto nell’ipotesi
in cui il giudice abbia, tuttavia, esplicitato le ragioni della
disposta compensazione, il sindacato e’ ammesso ove queste risultino
illogiche e/o erronee e/o contraddittorie, vale a dire tali da
invalidare la stessa formazione della decisione sul punto (cfr., e
pluribus, sentt., a s.u., nn. 1422 del 1963, 864 del 1973, 9597 del
1994; cfr. anche, fra le ultime, sentt. nn. 4545 e 4997 del 1998).
D’altro canto, non sono mancate pronunce, che – tenendo conto di
autorevoli e severe critiche, espresse dalla dottrina soprattutto
sulla non doverosita’ della motivazione nell’applicazione di una
norma (l’art. 92 comma 2, appunto), chiaramente derogatoria di
quella, generale, secondo cui le spese processuali debbono gravare
definitivamente sulla parte soccombente (art. 91 comma 1)- hanno
affermato, in contrasto con l’orientamento dominante, che anche la
decisione di compensare le spese processuali deve essere specifamente
giustificata, sia pure in modo conciso, nella motivazione; e cio’,
conformemente al precetto, contenuto nell’art. 111 comma 1 Cost.,
secondo cui “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere
motivati” (cfr., ad es., sentt. nn. 1684 e 2444 del 1974, 3286 del
1977, 1973 del 1979).
Deve sottolinearsi, infine, che e’ stata piu’ volte respinta da
questa Corte, per manifesta infondatezza, con riferimento al
parametro costituzionale ora richiamato, l’eccezione di
illegittimita’ costituzionale dell’art. 92 comma 2 cod.proc. civ. –
interpretato, secondo il “diritto vivente”, nel senso che la scelta
del giudice di compensare le spese processuali non dev’essere
specificamente motivata – sulla base del rilievo che il principio
sancito dall’art. 11 comma 1 Cost. non e’ applicabile al
provvedimento di compensazione delle spese processuali, in quanto
l’affermazione dell’esistenza di ragioni che giustificano tale
compensazione deve esser posta in relazione ed integrata con la
motivazione e con diversi elementi di fatto (ad es., vicende
processuali; novita’ e difficolta’ delle questioni trattate; natura
della causa; comportamento delle parti), tenuto conto che la
pronuncia sulle spese non costituisce un provvedimento autonomo,
rispetto a quello che definisce il giudizio (per ragioni di rito o di
merito), al quale, invece, “accede” (cfr. sentt. nn. 1 684 del 1974
cit., 3471 del 1989, 12657 del 1992, 1887 del 1998).
Cio’ premesso, il collegio ritiene che l’orientamento
predominante deve essere precisato ed integrato, proprio alla luce
delle riflessioni stimolate da quello minoritario e dalle sentenze
che hanno dichiarato manifestamente infondate le eccezioni di
illegittimita’ costituzionale sollevate.
A) Deve precisarsi, in primo luogo, che il fondamento della non
doverosita’, per il giudice, della “motivazione specifica” della
decisione di compensazione delle spese processuali, ai sensi
dell’art. 92 comma 2 cod.proc. civ., non sta affatto nel carattere
discrezionale dell’esercizio del potere relativo attribuitogli dalla
legge, bensi’ nella natura stessa della pronuncia sulle spese (di
condanna o di compensazione), “conseguenziale ed accessoria” (come e’
stato costantemente affermato da questa Corte: cfr., e pluribus,
sentt. nn. 9859, del 1997, a s.u., 6333 del 1985, 3093 del 1981)
rispetto al provvedimento “che chiude il processo davanti a lui” :
sicche’ – se la pronuncia sulle spese “dipende” sempre dall’esito (di
rito o di merito) della controversia in un suo determinato momento
processuale (“il giudice, con la sentenza che chiude il processo
davanti a lui …”): art. 91 comma 1, e, quindi, non costituisce mai
provvedimento autonomo – ne consegue, in linea di principio, che essa
non necessita di una “specifica” motivazione, nel senso che le
ragioni della condanna alle spese o della loro compensazione (per
“soccombenza reciproca”, ovvero per il concorso di “altri giusti
motivi”), se non debbono (bensi’ possono) essere specificamente
esplicitate, devono, pero’, quantomeno, risultare dalla motivazione
complessiva del provvedimento giurisdizionale (intesa nel senso
precisato dal combinato disposto degli artt. 132 comma 2 n. 4 cod.
proc. civ. e 118 commi 1 e 2 disp. att. cod. proc. civ.), cui la
pronuncia stessa accede. Solo cosi’ inteso, il “diritto vivente”,
costituito dal predetto orientamento dominante, sfugge a consistenti
dubbi di illegittimita’ costituzionale che, altrimenti opinando,
potrebbero insorgere, sulla base del semplice ed immediato rilievo
che altro e’ affermare la non doverosita’ della motivazione
“specifica” di un provvedimento giurisdizionale accessorio, nel senso
ora precisato; altro affermare, tout court, la non doverosita’ di
alcuna motivazione di una “scelta” giurisdizionale, fondandola
sull’esercizio, da parte del giudice, di un potere discrezionale
attribuitogli dalla legge ( cosi’, ad es., sentt. nn. 864 del 1973,
9597 del 1994 e 1887 del 1998 citt.).
Infatti – se si considera che, in attuazione del principio
secondo cui il costo del processo non deve mai gravare sulla parte
vittoriosa, la regola generale (art. 91 comma 1 cod.proc. civ. )
impone al giudice di condannare il soccombente al rimborso delle
spese in favore della controparte; che la legge attribuisce,
altresi’, al giudice stesso il potere discrezionale di derogare a
tale regola, cioe’ di scegliere se condannare parzialmente
(compensazione parziale) o non condannare affatto (compensazione
integrale) il soccombente alle spese (nella qual scelta si sostanzia
il contenuto di siffatto potere discrezionale), non gia’ ad libitum,
ma soltanto in presenza di determinate condizioni dalla legge
medesima prefigurate (“soccombenza reciproca” – rispetto alla quale,
pero’, la compensazione non opera come “deroga” ma come diretta
applicazione del principio della soccombenza – ovvero, come nella
specie, “altri giusti motivi”); e che il dovere di motivare “tutti i
provvedimenti giurisdizionali”, imposto dall’art. 111 comma 1 Cost.
quale garanzia di tipo oggettivo e strutturale risponde come ribadito
da recente ed autorevole dottrina, sia ad una “finalita’
endroprocessuale”, volta a prevenire qualsiasi abuso del potere
giudiziario in correlazione finalistica con il principio di
legalita’, realizzando la “trasparenza” e la “controllabilita’”
esterna delle attivita’ giurisdizionali da parte del popolo sovrano
nel cui nome la giustizia viene amministrata (artt. 1 comma 2 e 101
comma 2 Cost.), sia una “finalita’ endoprocessuale”, volta a
realizzare un adeguato esercizio dei diritti di difesa nei confronti
della stessa decisione e nei giudizi di impugnazione – ne consegue
che il potere discrezionale di compensazione delle spese processuali
in tanto puo’ ritenersi legittimamente esercitato, in quanto risulti
affermata e giustificata la sussistenza dei presupposti cui esso e’
subordinato.
Sicche’ – come il mancato esercizio di tale potere non richiede,
ovviamente, alcuna motivazione (per giurisprudenza costante: cfr., da
ultima, Cass. n. 11770 del 1998 ) – cosi’, al contrario, il suo
esercizio, per non risolversi in mero arbitrio, deve essere
necessariamente motivato … E cio’, tanto piu’ nell’ipotesi – quale
quella di specie – del concorso di “altri giusti motivi” (diversi,
cioe’, da quello della “soccombenza reciproca”) di compensazione,
che, per l’ampiezza della previsione, integra, anche per parte della
dottrina, l’unico caso di norma realmente derogatoria del principio
generale, posto dall’art. 91 comma 1 cod.proc. civ., della condanna
alle spese della parte soccombente. Non senza sottolineare – sempre
sotto il profilo della conformita’ dell’orientamento dominante
all’art. 111 comma 1 Cost. – l’intrinseca contraddittorieta’ tra
affermazione di insindacabilita’, anche in carenza di motivazione,
della decisione di compensazione delle spese, ed affermazione della
sua sindacabilita’, per illogicita’ e/o erroneita’ e/o
contradditiorieta’ dei motivi “specifici” eventualmente addotti dal
giudice: infatti – a parte ogni considerazione sulle prassi
sostanzialmente arbitrarie, invalse presso gli uffici giudiziari in
corriva applicazione dell’orientamento dominante – se siffatta
decisione non necessita di alcuna motivazione, questa e’ per
definizione, sempre non doverosa e, percio’, sempre insindacabile.
Ed infine: l’esercizio “arbitrario”, nel senso ora precisato, del
potere discrezionale di compensazione delle spese processuali finisce
con il risolversi – nei non pochi casi, quale quello di specie, in
cui il valore della causa sia di non rilevante entita’, ovvero
risulti, in concreto, economicamente incomparabile rispetto alle
spese processuali necessarie per instaurarla e per condurla a
termine; o in quelli in cui, comunque, una parte ha avuto totalmente
ragione come nella specie – nel sostanziale diniego, o dei diritto
alla tutela giurisdizionale (soprattutto de minimis), ovvero
dell’effettiva realizzazione del diritto sostanziale accertato e
riconosciuto in giudizio: vale a dire nella palese violazione sia
dell’art. 24 comma 1 Cost. – il quale, garantendo a tutti la tutela
giurisdizionale, non puo’ non garantire anche il soddisfacimento
“EFFETTIVO” di quel diritto (cfr., ad es., Corte costituzionale, e
pluribus, sentt. n. 419 dei 1995 e 26 del 1999), anche attraverso il
rigoroso rispetto della “legalita’ processuale” – sia, in definitiva,
del fondamentale principio, secondo cui il processo non deve comunque
andare a danno della parte che ha (avuto) ragione».
Si sottolinea che questa sentenza della Cassazione e’ stata
accolta da un unanime coro di euforici consensi da parte di tutti gli
operatori giuridici, che non hanno mancato di sottolinearne la
sagacia e il coraggio, perche’ ha finalmente fornito una
interpretazione della norma sicuramente conforme ai dettami
dell’art. 24 e dell’art. 111 della Costituzione, tentando in tal modo
di arginare il diffuso malcostume di procedere a compensazioni del
tutto arbitrarie e del tutto immotivate (o, spesso, motivate da
ragioni non palesabili), sovente foriere di conseguenze a dir poco
grottesche (la «parte vittoriosa», in casi estremi e documentati, si
e’ trovata a sborsare, per far fronte ai propri oneri processuali,
spese di ben 65 volte superiori al valore della «posta in gioco», e
questo solo perche’ «colpevole» di aver vinto la causa).
Purtroppo, a distanza di ben quattro anni dalla pronuncia
4455/1999, si deve constatare che la Cassazione non ha affatto
seguito il nuovo indirizzo e, anzi, l’ha costantemente disatteso,
contraddetto e sconfessato, giungendo ad affermare, nella sentenza
n. 11597 del 20 agosto 2002, che «il giudice puo’ compensare le spese
processuali per giusti motivi senza obbligo di specificarli», che
«non trova applicazione in tema di compensazione per giusti motivi il
principio sancito dall’art. 111 della Cost. secondo cui ogni
provvedimento giurisdizionale deve essere motivato» e che, infine,
«il potere del giudice di compensare le spese processuali per giusti
motivi (non esposti e non motivati n.d.r.) non e’ in contrasto con il
principio dettato dall’art. 24 della Cost., giacche’ il provvedimento
di compensazione non costituisce ostacolo alla difesa di propri
diritti, non potendosi estendere la garanzia costituzionale della
effettivita’ della tutela giurisdizionale sino a ricomprendervi anche
la condanna del soccombente».
Alla luce di questa incontestabile realta’ del «diritto vivente»,
pertanto, si impone la trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale perche’ giudichi sulla conformita’ dell’art. 92
c.p.c., cosi’ interpretato, con i canoni costituzionali sanciti
dall’art. 24 e dall’art. 111 della Costituzione, trattandosi di
questioni manifestamente non infondate e, anzi, tali ritenute dalla
Cassazione stessa nella sentenza n. 4455 del 1999.
In particolare il remittente ritiene che le motivazioni adotte
dalla Cassazione nella sentenza n. 4455 del 1999 siano pienamente
condivisibili e rispondano, nella sostanza, a questo iter logico:
1°) l’art. 24 della Costituzione accorda ai cittadini il
diritto di agire in giudizio per ottenere la tutela dei diritti che,
a cagione del comportamento della parte convenuta, sono rimasti
insoddisfatti: il ricorso alle vie giudiziarie, peraltro, e’ l’unica
alternativa consentita dalla legge, essendo vietato dal codice penale
l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni;
2°) il ricorso alle vie giudiziarie non e’ gratuito, bensi’
altamente oneroso, sia sotto il profilo tributario sia sotto il
profilo degli onorari e delle competenze per le prestazioni rese
dagli avvocati e, all’occorrenza, dai consulenti d’ufficio: pertanto
vige la regola (art. 91 c.p.c.), sostanzialmente conforme al dettato
dell’art. 24 della Costituzione, secondo cui le spese processuali
affrontate dalla parte vittoriosa debbono gravare sulla parte
perdente che, col proprio comportamento inottemperante, ha dato
origine alla causa civile;
3°) questa regola puo’ trovare una deroga nella sola ipotesi,
prevista dal comma 2 dell’art. 92 del c.p.c., in cui il giudice
ravvisi «giusti motivi» per compensare le spese a discapito della
parte vittoriosa;
4°) la «compensazione per giusti motivi» viene ad incidere,
in modo inconfutabile, sull’«effettivita» del diritto tutelato in via
giudiziaria, in quanto ne menoma il riconoscimento sotto il profilo
economico (in casi estremi la menomazione e’ totale: in casi ancor
piu’ estremi il mancato riconoscimento del diritto al rimborso delle
spese, che superano, di gran lunga, il valore della posta in gioco,
si risolve in una beffa per la parte vittoriosa);
5°) in considerazione degli innegabili effetti negativi della
compensazione delle spese sull’effettivita’ della tutela giudiziaria
dei diritti, la legge impone che la compensazione possa esser
disposta, ai danni della parte vittoriosa (e, quindi, del diritto
riconosciutole), solo se ricorrono «giusti motivi»;
6°) trattandosi di «motivi» che vengono ad incidere sulla
tutela reale ed effettiva dei diritti riconosciuti, il giudice deve
necessariamente esporre, in modo esplicito e coerente, quali siano i
motivi che giustifichino, nel caso di specie, il sacrificio, parziale
o totale, del diritto azionato: in caso contrario, infatti, la scelta
giurisdizionale del giudice si risolverebbe in un mero arbitrio, in
flagrante violazione dell’art. 111 della Costituzione che, imponendo
ai giudici l’obbligo di motivare tutti i provvedimenti
giurisdizionali, mira a prevenire qualsiasi abuso del potere
giudiziario, altresi’ realizzando – a favore delle parti processuali
– il diritto alla trasparenza e alla controllabilita’ delle decisioni
che, in modo diretto o in modo indiretto, vengono comunque ad
incidere sui diritti di cui si e’ chiesta, in via necessariamente
giudiziaria, la tutela.
E la riprova degli arbitri che vengono soventemente perpetrati la
si puo’ acquisire attraverso la disamina dei relativi provvedimenti,
che spaziano dalle compensazioni routinariamente disposte nei giudizi
in cui e’ coinvolta una «certa» parte (per lo piu’ enti pubblici),
sino a giungere ai giudizi in cui, pur ricorrendo motivi che
impongono, obbligatoriamente, la compensazione delle spese
processuali, la parte perdente viene tuttavia gravata dalla condanna:
tale si rivela il caso, a dir poco grottesco, della parte che si e’
vista respingere il ricorso – e percio’ stesso condannata alle spese
– perche’ la controparte – cioe’ lo Stato – aveva fornito, nel corso
di giudizio, un «interpretazione autentica» diametralmente opposta
alle decisioni gia’ prese dai giudici in casi identici, cosi’ di
fatto imponendo al giudice di «decidere la controversia in suo
favore».
D’altra parte, non e’ fuor di luogo rimarcare che l’art. 323 del
codice penale sanziona come reato di abuso d’ufficio il comportamento
del pubblico ufficiale che, nello svolgimento delle sue funzioni,
intenzionalmente procura ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale
ovvero arreca ad altri un danno ingiusto: se si ammette che la
«discrezionalita» della decisione in merito alla soccombenza
processuale possa spingersi sino al puro arbitrio, cioe’ sino alla
decisione immotivata e insindacabile, di cui il giudice non e’
chiamato a risponderne in alcuna sede, questo autorizzerebbe i
giudici a procurare vantaggi economici o ad arrecare pregiudizi
economici alle parti del processo impunemente senza che ricorra alcun
«giusto motivo» o, magari, per soddisfare personali rancori o
antipatie. Il che appare francamente non giustificabile.
Da quanto esposto consegue che la deroga al principio legale
della soccombenza processuale deve essere necessariamente motivata,
come imposto dall’art. 111 della Costituzione, e che essa, poi, deve
rispondere a motivi realmente giusti, tali, cioe’, da giustificare
che una parte, seppur vittoriosa, debba sopportare, in tutto o in
parte, le spese affrontate per la sua difesa.
La rilevanza
La questione che si solleva appare rilevante ai fini della
decisione definitiva in ordine alla soccombenza processuale, essendo
ben chiaro che, ove si ritenga che la compensazione arbitraria delle
spese processuali, attuata con provvedimenti giurisdizionali
immotivati e, quindi, insuscettibili di controllo e di rimedi
impugnatori da parte degli interessati, sia conforme agli artt. 24 e
1111 della Costituzione, questo giudice remittente si pronuncera’ in
questo processo (come in tutti i processi a venire) senza esporre
alcuna motivazione in merito alla scelta di compensare, parzialmente
o totalmente, le spese processuali a discapito della parte
vittoriosa, cosi’ derogando, per motivazioni che resteranno occulte e
insuscettibili di sindacato, al principio legale della soccombenza
processuale.
P. Q. M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 92, secondo comma, del codice
di procedura civile, per violazione degli artt. 24 e 111 della
Costituzione, nella parte in cui consente al giudice la facolta’ di
compensare, in tutto o in parte e ai danni della parte rimasta
vittoriosa, le spese processuali, senza esporre espressa e
giustificata motivazione dei «giusti motivi» di tale decisione.
Conseguentemente:
ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale;
sospende il presente giudizio;
dispone che, a cura della cancelleria, copia della presente
ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento nonche’ alle
parti in causa.
Camerino, addi’ 7 luglio 2003
Il giudice monocratico: Tosti