Lavoro e Previdenza

Friday 28 February 2003

Rito del lavoro e poteri probatori del Giudice su fatti non contestati. Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza 15 gennaio 2003 n. 535/2003

Rito del lavoro e poteri probatori del Giudice su fatti non contestati

Cassazione – Sezione Lavoro Sentenza 15 gennaio 2003 n. 535/2003

Sentenza

Presidente G. Ianniruberto – Relatore G. Amoroso

Svolgimento del processo

Con ricorso al Pretore di Roma depositato il 14 febbraio 1995 G. M. giornalista professionista, nato il 16 agosto 1935, esponeva che, dopo aver lavorato alle dipendenze della (omissis) dal febbraio 1955 al febbraio 1994, era stato dalla società licenziato con lettera in data 25 febbraio 1994.

Il licenziamento era stato motivato con riferimento al quarto comma dell’art. 33 del contratto nazionale di lavoro giornalistico, che prevedeva, in caso di crisi aziendale, la possibilità di licenziamento del giornalista in età di oltre 55 anni che avesse un’anzianità previdenziale complessiva di oltre 30 anni.

Ciò premesso, il M. impugnava il licenziamento, deducendo la nullità della clausola contrattuale invocata dall’azienda, per contrasto con l’art. 4 legge n. 108/90, avendo egli raggiunto solo l’età di 58 anni, nonché allegava l’inesistenza della dedotta crisi aziendale e la mancanza di qualsiasi giustificazione per il licenziamento. Pertanto chiedeva l’annullamento del licenziamento con ogni conseguente pronuncia ex art. 18 Stat. lav..

In via subordinata chiedeva la condanna della società al risarcimento del danno per cattiva gestione aziendale.

La (omissis), costituitasi in giudizio con memoria difensiva in data 14 aprile 1995, resisteva alla domanda sostenendo che la disciplina del contratto collettivo, in base alla quale era stato intimato il licenziamento, si fondava sulla normativa di cui alla legge n. 416 del 1981 che costituiva disciplina speciale, come tale prevalente su quella – anche se posteriore – generale contenuta nella legge n. 108 del 1990.

Deduceva anche che il comma quarto dell’art. 33 del contratto collettivo individuava una fattispecie tipica di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, consistente secondo l’insindacabile valutazione delle parti collettive – nella contemporanea sussistenza di alcune condizioni ravvisabili nel lavoratore (55° anno di età e posizione contributiva previdenziale di 30 anni) ed altri presupposti riscontrabili nella società datrice di lavoro (stato di crisi aziendale ovvero casi di esuberanza di giornalisti).

Asseriva che nel caso, di specie sussistevano entrambi i requisiti suddetti onde il licenziamento del dott. M. era comunque scorretto da un legittimo giustificato motivo oggettivo.

Il Pretore non svolgeva alcuna attività istruttoria e, con sentenza in data 16 giugno – 20 luglio 1996 n. 12089, rigettava la domanda in quanto riteneva la configurabilità di un licenziamento per riduzione di personale ed escludeva che il ricorrente avesse fatto valere l’ esistenza di vizi relativi alla procedura prevista dalla legge n. 223/91 ovvero la violazione dei criteri di scelta.

Avverso tale decisione G. M. proponeva appello rilevando che, in difetto di qualsivoglia allegazione in ordine alla sussistenza degli elementi che caratterizzavano la fattispecie del licenziamento collettivo, era preclusa al Pretore la possibilità di ravvisarne gli estremi, essendo la controversia tra le parti limitata alla legittimità o meno della clausola contrattuale invocata dall’azienda. Pertanto l’appellante censurava la sentenza di primo grado per non aver ritenuto la nullità di detta clausola contrattuale e per non avere riconosciuto il suo diritto alla tutela ex art. 18 St. lav. in mancanza di qualsivoglia giustificazione per il licenziamento.

In via subordinata l’appellante rilevava l’inesistenza degli elementi tipici del licenziamento per riduzione di personale; in via di ulteriore subordinazione l’appellante rilevava che il Pretore avrebbe dovuto comunque dichiarare inefficace il licenziamento anche per il mancato rispetto della norma procedimentale prevista dalla legge n. 223/91. La (omissis), costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto dell’impugnazione. Il Tribunale di Roma con sentenza in data 19 marzo – 30 novembre 1999 dichiarava l’illegittimità del licenziamento in data 25 febbraio 94, ordinando la reintegrazione dell’appellante nel posto di lavoro e condannando la società appellata al risarcimento del danno ex art. 18 St. lav.

Avverso tale decisione la (omissis) ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso l’intimato.

Motivi della decisione

Il ricorso è articolato in tre motivi.

Con il primo motivo del ricorso la (omissis) – denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 2097 cod. civ. degli artt. 99 e 112 c.p.c. e dell’art. 36 legge n. 416/81, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia – censura l’impugnata sentenza per avere escluso che il Pretore potesse ritenere l’esistenza di un licenziamento per riduzione di personale pur non essendo stato dedotto alcun elemento costitutivo della fattispecie tipica di tale recesso e nonostante che la controversia avesse ad oggetto la legittimità della clausola collettiva invocata dall’azienda per giustificare il provvedimento.

La ricorrente sostiene di avere assolto all’onere di allegazione degli elementi costitutivi della fattispecie del licenziamento collettivo e quindi censura la sentenza di secondo grado per omesso esame di tali elementi.

Con il secondo motivo la ricorrente – denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 33, quarto comma, del contratto collettivo nazionale dei giornalisti. nonché all’art. 1353 cod. civ. e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia – censura l’impugnata sentenza per avere ritenuto la nullità dell’art. 33, quarto comma, del CCNL in quanto contrastante con l’inderogabile disciplina di legge limitatrice dei licenziamenti.

Secondo la ricorrente la predetta clausola contrattuale non avrebbe potuto qualificarsi, come era stato acriticamente ritenuto dal tribunale, alla stregua di una ipotesi di recesso datoriale, bensì come fattispecie atipica di risoluzione facoltativa, e non anche automatica, del contratto per mutuo consenso, ovvero, seguendo un parallelo iter logico, come vera e propria condizione risolutiva.

Secondo la società ricorrente il M. avrebbe preventivamente accettato tale facoltà del datore, intesa come possibilità di scelta di un preesistente diritto soggettivo di dichiarazione comportante la risoluzione del rapporto di lavoro all’avverarsi di determinate e prestabilite condizioni”.

Ad avviso della (omissis) la clausola contrattuale andrebbe interpretata nel senso che essa esprimeva un mutuo consenso alla risoluzione del rapporto al verificarsi di determinate condizioni e nel contempo introduceva una condizione risolutiva tacita.

Con il terzo motivo la ricorrente censura l’impugnata sentenza per non aver accolto la domanda riconvenzionale subordinata di restituzione del trattamento di fine rapporto.

I1 primo motivo del ricorso – centrato sulla dedotta erronea applicazione del principio della domanda e quindi del principio dispositivo del processo civile – è infondato.

Deve innanzi tutto considerarsi in generale che il thema decidendum viene determinato dalle parti sulla base della domanda proposta dal ricorrente, individuata dal petitum e dalla causa petendi, nonché dalle eccezioni del resistente.

Giova ricordare che il ricorso introduttivo del giudizio deve contenere (ex art. 414 c.p.c.) innanzi tutto la determinazione dell’oggetto della domanda, ossia il petitum, intendendo per esso sia il bene preteso che il contenuto del provvedimento richiesto, ossia gli effetti giuridici che al giudice si chiede di accertare o di produrre: determinazione questa che deve essere sufficientemente precisa soprattutto con riferimento al bene preteso, talché la sua eventuale inidoneità a fissare l’oggetto della domanda inficia la stessa validità del ricorso.

La necessaria fissazione del petitum, non più emendabile dall’attore se non alla prima udienza e previa autorizzazione del giudice, costituisce il presupposto perché operi il meccanismo di decadenze per il convenuto ex art. 416 c.p.c..

La domanda deve poi contenere l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali essa si fonda con le relative conclusioni, ossia la causa petendi. Però l’”esposizione dei fatti” e l’indicazione degli “elementi di diritto” non sono sullo stesso piano. I primi sono nell’esclusiva disponibilità dell’attore talché il giudice non può porre a fondamento della sua decisione un fatto non allegato dalla parte (art. 112 c.p.c.). Invece per gli “elementi di diritto” vale la regola racchiusa nel brocardo, jura movit curia ed espressa dall’art. 113 c.p.c.: il giudice pronuncia di regola secondo diritto e quindi applica le norme di legge.

Anche le “conclusioni” – che valgono ad individuare il provvedimento richiesto – sono quelle poste inizialmente dall’attore nell’atto introduttivo del giudizio, ancorché l’art. 429, comma 2. c.p.c. preveda che le parti rassegnino le loro conclusioni in sede di discussione della causa prima della decisione.

In sintesi quindi si ha che nel rito del lavoro il contenuto della domanda proposta dal ricorrente e della memoria difensiva del resistente fissano il thema decidendum, che non può più essere alterato con l’introduzione di nuovi elementi, tali da modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate, salvo il correttivo di cui al primo comma dell’art. 420 c.p.c..

Nella specie il M. ha impugnato il licenziamento (del 25 febbraio 1994 con effetto dal 1 marzo 1994), che, come emerge dallo stesso ricorso, da una parte richiamava l’accordo sindacale del 18 febbraio 1994 (che già conteneva un elencazione dei dipendenti da licenziare); d’altra parte faceva riferimento al quarto comma dell’art. 33 del vigente ccnl giornalistico.

Il licenziamento quindi risultava in sostanza essere motivato dalla circostanza che il M. versava nelle condizioni previste dal quarto comma dell’art. 33 del vigente ceni giornalistico.

Il M. censurava in via gradata la clausola di cui al cit. quarto comma dell’art. 33 del vigente ceni giornalistico, di cui sosteneva la nullità per contrasto con l’art. 4 l. 108/90 (quindi c’era già un’allegazione difensiva del licenziamento come individuale); deduceva inoltre che non ricorreva il presupposto della “crisi aziendale con contrazione lavorativa” (prevista dal quarto comma dell’art. 33 del vigente ceni giornalistico); sosteneva infine che non ricorreva il presupposto dell’anzianità contributiva di 30 anni, anch’esso previsto dal cit. quarto comma dell’art. 33 del vigente ccnl giornalistico, perché non potevano considerarsi gli anni (cinque) del riscatto previdenziale.

Il riferimento all’art. 4 della legge n.108 del 1990 collocava già l’impugnativa del recesso nell’area della disciplina legale del licenziamento individuale.

Per quanto risulta dalla narrativa della sentenza di primo grado (riportata in ricorso) e da quella (molto più sintetica) della sentenza d’appello, la società resisteva alla domanda della quale sosteneva l’infondatezza, limitandosi a confutarla punto per punto, ma senza contestarne l’impostazione di fondo che vedeva nel recesso un licenziamento individuale e richiamava la disciplina legale del licenziamento individuale a parametro per verificare la validità della clausola contrattuale in questione. Sicché l’appellante M. ebbe a dolersi proprio della qualificazione del licenziamento come licenziamento collettivo, fatta dal pretore ancorché la società resistente nella sua memoria di costituzione non avesse mosso alcuna contestazione alla qualificazione, ad opera del ricorrente, del recesso come licenziamento individuale. Ma soprattutto rileva che fin anche in questa sede di giudizio di cassazione, in particolare nel primo motivo di ricorso, la difesa della società non deduce affatto di aver allegato nella memoria di costituzione circostanze di tatto che consentivano la qualificazione del licenziamento come collettivo (il numero dei dipendenti nell’arco di tempo di osservazione). Vi è solo (a pag. 14 del ricorso) un generico, quanto del tutto insufficiente, riferimento alle “circostanze già dedotte dalla difesa del Messaggero”.

Risulta quindi che il petitum della domanda era costituito dalla richiesta dichiarazione di illegittimità di un licenziamento individuale con le pronunce consequenziali di cui all’art. 18 Stat. lav.. La causa petendi risiedeva vuoi (in via principale) nella illegittimità della menzionata clausola contrattuale per violazione della disciplina legale del licenziamento individuale, vuoi (in via subordinata, evidentemente) nella dedotta violazione della clausola stessa, ove in ipotesi se ne fosse ritenuta la legittimità.

Ciò posto, è ben vero come sostiene la difesa della società – e come si è già rilevato sopra – che è rimessa al giudice la qualificazione del licenziamento come individuale o collettivo, trattandosi in realtà null’altro che di individuare la disciplina legale applicabile nella fattispecie per verificare la validità della clausola contrattuale in questione. La qualificazione giuridica della fattispecie, quale prospettata dalle parti negli atti difensivi, non vincola il giudice, che può rettificarla facendo conseguentemente riferimento ad una diversa disciplina legale applicabile all’atto di recesso della cui legittimità si controverta in giudizio. Ma ciò può fare nei limiti dei fatti dedotti ed emergenti dalle risultanze probatorie.

Quindi il giudice può ben qualificare come collettivo un licenziamento che il ricorrente allega come individuale, ma occorre che siano dedotte dal resistente e, se contestate, siano provate quelle circostanze di fatto che consentono la qualificazione del recesso come licenziamento collettivo.

Deve allora richiamarsi – e ribadirsi – quella giurisprudenza della Corte (Cass. 8 giugno a 1999 n. 5662) secondo cui ai sensi della legge n. 223 del 1991, che ha recepito la direttiva n. 129/75/Cee, gli elementi distintivi del licenziamento collettivo per riduzione del personale sono costituiti dalla dimensione occupazionale dell’impresa (più di quindici dipendenti), dal numero dei licenziamenti (almeno cinque) e dall’arco di tempo (centoventi giorni) entro il quale sono effettuati i licenziamenti, risultando superflua l’indagine circa l’esistenza di un programma di ristrutturazione o di stabile ridimensionamento aziendale; di conseguenza, mentre riguardo ai licenziamenti per motivo oggettivo, di cui all’art. 3 legge n. 604/1966, il controllo del giudice attiene alla sussistenza delle ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, dedotte dall’imprenditore in relazione alla posizione dei dipendenti licenziati. in ordine alla riduzione di personale il controllo giudiziale concerne sia la sussistenza dei suddetti requisiti numerico-temporali, sia l’osservanza della procedura e dell’applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori licenziati. ai sensi degli art. 4 e 5 legge n. 223/1991, risultando inammissibile la conversione del licenziamento collettivo inefficace o nullo in licenziamento individuale.

Ossia – come ha puntualizzato Cass. 12 ottobre 1999 n. 11455 – la legge n. 223 del 1991 ha fissato un ben definito criterio di individuazione dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale secondo cui essi si distinguono dai licenziamenti individuali esclusivamente per l’elemento quantitativo del numero dei dipendenti licenziati e per l’estraneità del singolo lavoratore alla procedura di messa in mobilità che deve precedere la riduzione del personale; ne consegue che, non essendo più – a differenza di quanto accadeva prima dell’entrata in vigore della suddetta legge – la specifica ragione addotta a sostegno della risoluzione del rapporto lavorativo a caratterizzare la riduzione del personale e a distinguerla dal licenziamento plurimo per giustificato motivo obiettivo, soltanto i licenziamenti al di sotto del numero indicato dall’art. 24 legge medesima e non contenuti nell’arco temporale di centoventi giorni indicato dalla disposizione da ultimo citata possono configurarsi come licenziamenti individuali soggetti alla normativa della l. n. 108 del 1990 che ha applicazione generale, eccezion fatta per la residuale area di libera recedibilità.

Ed allora nella specie in tanto il giudice avrebbe potuto qualificare il licenziamento come collettivo in quanto fosse stata dedotto e risultasse in modo pacifico (atteso che il giudice di primo grado non ha proceduto ad alcuna istruttoria) tale elemento quantitativo: il numero dei licenziamenti (almeno cinque) e l’arco di tempo (centoventi giorni) entro il quale erano effettuati i licenziamenti stessi.

Nella specie ciò non ha fatto né il M., la cui difesa si è mossa nell’ottica della disciplina legale del licenziamento individuale; né la società che in ricorso si duole solo genericamente di aver dedotto circostanze erroneamente non considerate dal tribunale. Correttamente pertanto il tribunale ha censurato la qualificazione giuridica del me collettivo e non già individuale quale data dal retore senza tener conto del sopra ricordato elemento quantitativo, ma solo valorizzando il contenuto precettino della clausola contrattuale (art. 33, comma 4, c.c.n.l. giornalisti) dedotta dalla società resistente a legittimazione del licenziamento. Ma, ancorché tale clausola effettivamente meglio si adatterebbe ad un licenziamento collettivo, piuttosto che individuale, non di meno avrebbe dovuto ricorrere l’indefettibile elemento di fatto del numero dei licenziamenti intimati nel suddetto arco di tempo. In mancanza di tale deduzione giustamente il tribunale ha censurato, in quanto non rispettosa del principio della domanda, l’operazione del pretore di riqualificazione della fattispecie rispetto alla prospettazione del ricorrente.

Anche il secondo motivo del ricorso e infondato.

L’art. 33, quarto comma, del c.c.n.l. per i giornalisti, vigente all’epoca dei fatti di causa, recita espressamente – come risulta pacifico tra le parti – che “fermo restando per i prepensionamenti l’applicabilità dell’art. 37 della legge n. 416/81, l’azienda, nei casi di crisi aziendale per i quali risultino attivabili le disposizioni di cui al punto 3 del protocollo di consultazione sindacale ovvero nei casi di esuberanze di giornalisti conseguenti all’adozione di piani di trasformazione tecnologica che comportino la richiesta dello stato di crisi ai sensi dell’art. 35 della l. 416/1981, potrà risolvere il rapporto di lavoro anche nei confronti dei giornalisti che avendo compiuto il 55° anno di età, abbiano conseguito complessivamente un’anzianità contributiva previdenziale di trenta anni”. il tribunale – nella prospettazione difensiva della difesa della società – avrebbe errato nel “non ritenere vincolante erga omnes la norma di contrattazione collettiva in quanto, disciplinante un caso particolare di cessazione del rapporto di lavoro previsto appunto contrattualmente dalle parti”.

Deve subito chiarirsi che, in disparte la fattispecie dell’accordo aziendale, il contratto, collettivo di diritto comune non ha efficacia erga omnes, salva l’eccezionale ipotesi, che non ricorre nella specie, dei contratti previsti dalla legge 14 luglio 1959 n. 741. Questa Corte (ex plurimis Cass. 14 aprile 2001 n. 5596) ha ripetutamente affermato che i contratti collettivi di lavoro non dichiarati efficaci erga omnes ai sensi della l. n. 741 del 1959 costituiscono atti di natura negoziale e privatistica e quindi si applicano esclusivamente ai rapporti individuali intercorrenti tra soggetti che siano entrambi iscritti alle associazioni stipulanti, ovvero che, in mancanza di tale condizione, abbiano fatto espressa adesione ai patti collettivi e li abbiano implicitamente recepiti attraverso un comportamento concludente, desumibile da una costante e prolungata applicazione delle relative clausole ai singoli rapporti.

La difesa della società poi deduce – nel medesimo secondo motivo – che il quarto comma dell’art. 33 del vigente ccnl giornalistico individuerebbe una “fattispecie atipica di risoluzione facoltativa, e non anche automatica, del contratto per mutuo consenso” ovvero “una vera e propria condizione risolutiva”; di tale clausola vi sarebbe un’accettazione preventiva del dipendente sicché si tratterebbe di risoluzione per mutuo consenso. In sostanza la difesa non contesta che la clausola abbia previsto una fattispecie contrattuale di recesso dal rapporto; così facendo però non scalfisce l’esattezza dell’argomentazione del tribunale che. richiamando la giurisprudenza di legittimità. ha escluso che l’autonomia contrattuale possa fare ciò.

Questa Corte ha infatti più volte affermato (cfr. Cass. 25 gennaio 2001 n. 1011) – e qui ribadisce – che né all’autonomia individuale né a quella collettiva è consentito, in ordine alla risoluzione del rapporto, sottrarsi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (individuali o collettivi) o anche all’obbligo del preavviso. cosicché sono da ritenere nulle le clausole contrattuali che prevedano una risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento di una determinata età (come invece possibile nell’ambito del pubblico impiego).

Analogamente Cass. 13 maggio 2000 n. 6175, con riferimento al rapporto di lavoro dei dipendenti dell’ente Poste Italiane, ha affermato che il rapporto di lavoro di natura privatistica, è regolato dall’ordinaria disciplina civilistica anche con riguardo alle ipotesi di risoluzione; deve, pertanto, considerarsi nullo ai sensi dell’art. 1418 c.c.. per contrasto con norme imperative (codice civile. l. n. 604 del 1966 e l. n. 300 del 1970), l’accordo integrativo del c.c.n.l. per i suddetti dipendenti del 26 novembre 1994, nella parte in cui prevede la risoluzione automatica del rapporto al raggiungimento della massima anzianità contributiva, dovendo escludersi che la contrattazione collettiva possa. in assenza di una norma che ciò espressamente consenta, prevedere cause estintive del rapporto a tempo indeterminato diverse rispetto a quelle già individuate e disciplinate dall’ordinamento (licenziamento, dimissioni, mutuo consenso ovvero verificarsi delle ipotesi di cui all’art. 18. 5° comma, l. n. 300 del 1970); conf. Cass. 19 ottobre 2000 n. 13851, Cass. 3 novembre 2000 n. 14387, Cass. 28 luglio 2000 n. 9958, Cass. 13 maggio 2000 nn. 6175 e 6176, ed altre pronunce precedenti.

Né questo principio può ritenersi derogato dall’art. 35 della legge n. 416 del 5 agosto 1981 (richiamato dalla difesa della società), disposizione questa che – nel contesto della nuova disciplina delle imprese editrici e della previsione di provvidenze per l’editoria – riguarda unicamente un profilo del tutto diverso. Infatti prevede che il trattamento straordinario di integrazione salariale di cui all’articolo 2, quinto comma, della legge 12 agosto 1977, n. 675, è esteso. con le modalità previste per gli impiegati, ai giornalisti professionisti, ai pubblicisti e ai praticanti dipendenti da imprese editrici di giornali quotidiani, di periodici e di agenzie di stampa a diffusione nazionale, sospesi dal lavoro per le cause indicate nella norma citata. Anche il successivo art. 36, che invece riguarda la risoluzione del rapporto di lavoro. non è in realtà conferente perché prevede che i dipendenti delle imprese editrici suddette per le quali sia stata dichiarata dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale la situazione di crisi occupazionale, in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni nel periodo di godimento del trattamento di integrazione salariale. ovvero per licenziamento al termine del periodo di integrazione salariale di cui al citato art. 35, hanno diritto. in aggiunta alle normali competenze di fine rapporto, ad una indennità pari all’indennità di mancato preavviso e, per i giornalisti, ad una indennità pari a quattro mensilità di retribuzione.

Può infine aggiungersi marginalmente che diversa avrebbe potuto essere la valutazione di legittimità della stessa clausola contrattuale nella opposta prospettiva del licenziamento collettivo, potendo la clausola avere la più limitata funzione di individuazione di un criterio di scelta dei lavoratori da licenziare e non già quella di introdurre una nuova fattispecie di risoluzione del rapporto. Ma si tratta di una prospettiva che – per quanto sopra rilevato in riferimento al primo motivo del ricorso non ha mai avuto rituale ingresso nel processo.

Fondato è invece il terzo motivo del ricorso. La ricorrente si duole del fatto che il tribunale non abbia considerato che il pagamento del t.f.r. non era stato contestato e quindi era pacifico. Pertanto deduce la violazione del principio di non contestazione.

Con riferimento a tale principio deve ricordarsi che il terzo comma dell’art. 416 c.p.c. pone a carico del convenuto (nella specie tale era in ricorrente a fronte della domanda riconvenzionale del convenuto) un onere di contestazione che è variamente articolato. Per quanto riguarda di “fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda” il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione. Inoltre già nella memoria di costituzione deve proporre tutte le sue “difese in fatto”; deve parimenti proporre le sue “difese in diritto”.

Per queste ultime (le “difese in diritto”) non opera il principio di non contestazione (nel senso che non si determina alcuna preclusione) atteso che – come già rilevato – la qualificazione giuridica dei fatti e l’esatta applicazione della legge ricadono nella tipica attività di jus licere del giudice, il quale in ciò non è vincolato dall’eventualità che sul punto non vi sia una contestazione del convenuto (ovvero dell’attore se ciò riguarda i l’eccezione sollevata dal convenuto). Parimenti non opera alcuna stabilità o irrevocabilità della posizione assunta sul punto dalle parti, le quali pertanto – sia convenuto che attore – possono sempre modificare tali difese di diritto diversamente qualificando i fatti o proponendo una diversa interpretazione della legge.

Invece con la prospettazione di “difese in fatto” il convenuto si pone in una posizione di contestazione con l’allegazione di fatti ulteriori a fondamento delle eccezioni sollevate ovvero a controprova indiretta dell’insussistenza dei fatti allegati dall’attore. Queste difese in fatto allargano l’area dei fatti potenzialmente rilevanti in causa ed autorizzano l’attore a dedurre a sua volta una prova contraria all’udienza di discussione. Per la proposizione delle difese di fatto non è prevista una vera e propria decadenza che il cit. terzo comma dell’art. 416 c.p.c. riserva solo all’indicazione dei mezzi di prova. Ma in realtà questa decadenza viene comunque indirettamente in rilievo perché le difese in fatto del convenuto sono destinate ad esser supportate dalle risultanze di mezzi di prova che il convenuto è tenuto ad indicare tempestivamente (nella memoria di costituzione), salva la mancata contestazione dell’attore.

E’ solo per la contestazione dei “fatti affermati dall’attore” che il terzo comma dell’art. 416 c.p.c. pone un onere specifico: il convenuto deve prendere posizione in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione.

Recentemente le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 23 gennaio 2002 n. 761), intervenendo sul tema, hanno ritenuto che per i fatti costitutivi del diritto, affermati dall’attore e non contestati specificamente dal convenuto, scatta un effetto vincolante per il giudice che dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato e dovrà ritenerlo per ciò solo sussistente. Questo effetto si determina non già immediatamente – perché manca nel terzo comma dell’art. 416 c.p.c. la previsione di una decadenza – bensì per effetto della preclusione conseguente al limite previsto dall’art. 420, 1° comma, c.p.c. per la modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già formulate. Superata questa soglia, collocata tra le attività preliminari all’istruttoria vera e propria, si determina la preclusione della non contestabilità (tardiva) dei fatti (costitutivi del diritto) fino a quel momento non contestati.

Risulta così confutata l’opposta tesi, in passato affermata dalla giurisprudenza, secondo cui il terzo comma dell’art. 416 c.p.c. sanziona con la decadenza soltanto la mancata indicazione dei mezzi di prova, ma non anche la mancata specifica contestazione di fatti allegati dall’attore e quindi non preclude al convenuto la successiva contestazione dei fatti addotti a fondamento della domanda anche in grado di appello (Cass. 12 agosto 2000 n. 10758. Cass. 18 marzo 1996 n. 2254): orientamento questo che, affermando la indiscriminata provvisorietà della non contestazione e della persistente sua revocabilità in ogni fase del giudizio di merito, mal si conciliava con le caratteristiche di concentrazione ed immediatezza che connotano il processo del lavoro.

Solo per i fatti dedotti in esclusiva funzione probatoria (ossia fatti dedotti in quanto idonei a provare indirettamente altri fatti, questi sì costitutivi del diritto azionato) – hanno precisato ancora le Sezioni Unite – la mancata contestazione da parte del convenuto, come anche la contestazione meramente generica. costituiscono semplice argomento di prova liberamente apprezzabile dal giudice al fine del giudizio di sussistenza del fatto da provare. In tal caso però non si determina alcuna preclusione (quale quella desumibile dall’art. 420, 1° comma. c.p.c.) perché una tardiva contestazione di fatti probatori non comporta alcuna alterazione del sistema difensivo dell’attore. Si tratta di mero atteggiamento difensivo del convenuto, i cui eventuali mutamenti rilevano solo come argomenti di prova.

Nella specie l’onere di contestazione per il lavoratore, convenuto in via riconvenzionale, concerneva proprio il fatto costitutivo della domanda subordinata di ripetizione di indebito (ossia l’intervenuto pagamento del t.f.r. da parte della società in favore del ricorrente) e quindi operava pienamente il principio di non contestazione nei termini sopra indicati. La censura è pertanto da accogliere, atteso che il tribunale – limitandosi ad affermare (sinteticamente) che la società non aveva fornito la prova dell’avvenuto pagamento del t.f.r. – ha, nella sostanza, fatto erronea applicazione del principio di non contestazione, e – non rispondendo in alcun modo alla doglianza dell’appellante che aveva dedotto che il M. non aveva contestato il fatto allegato dalla difesa della società (ossia il pagamento suddetto) – è incorso anche in vizio di motivazione insufficiente, che parimenti inficia in parte qua la pronuncia impugnata.

In conclusione deve essere accolto il solo terzo motivo di ricorso e vanno rigettati gli altri primi due motivi; la sentenza impugnata deve quindi essere cassata limitatamente alla censura accolta e la causa deve essere rinviata, anche per le spese, alla Corte d’appello di L’Aquila che si atterrà al seguente principio di diritto: “In relazione ai fatti costitutivi del diritto, affermati dall’attore e non contestati specificamente dal convenuto, opera – nel rito del lavoro – un effetto vincolante per il giudice che deve astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato e deve ritenerlo per ciò solo sussistente. Questo effetto si determina non già immediatamente – perché manca nel terzo comma dell’art. 416 c.p.c. la previsione di una decadenza – bensì per effetto della preclusione conseguente al limite previsto dall’art. 420, 1° comma, c.p.c. per la modificazione di domande, eccezioni e conclusioni già formulate, sicché, superata questa soglia, collocata tra le attività preliminari all’istruttoria vera e propria, si determina la preclusione della non contestabilità (tardiva) dei fatti (costitutivi del diritto) fino a quel momento non contestati.”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di L’Aquila.