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Responsabilità degli enti e misure cautelari: per le SS.UU. è sempre necessario il contraddittorio pieno
Corte di Cassazione, sez. Unite Penali, sentenza 27 settembre – 14 novembre 2018, n. 51515
L’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex articolo 17 d.lgs. 231 del 2001, poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’articolo 127 comma 9, ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio delle parti, previamente avvisate;
la revoca della misura interdittiva disposta a seguito di condotte riparatorie poste in essere ex articolo 17 d. lgs. 231/2001, intervenute nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata non determina automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione.
Il quesito sottoposto alle SS.UU., nato da un contrasto giurisprudenziale inerente la possibilità di dichiarare de plano inammissibile l’appello avverso le misure cautelari spiccate nei confronti di enti ex d.lgs. 231/2001 per la sopravvenuta adozione da parte dell’ente di condotte riparatorie, era il seguente:
l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura interdittiva disposta a carico di una società può essere dichiarato inammissibile anche senza formalità, ex articolo 127 comma 9 c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa?
le SS.UU., per rispondere al quesito, effettuano una interessante ed approfondita disamina che richiameremo per sommi capi ma invitiamo caldamente a leggere per esteso nella sentenza.
Le misure interdittive ai sensi dell’articolo 45 del d.lgs. 231/2001, quando esistono gravi indizi per ritenere la sussistenza della responsabilità dell’ente per un illecito amministrativo dipendente da reato e vi sono elementi fondati e specifici dai quali desumere il pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede, il pubblico ministero può chiedere che all’ente venga applicata quale misura cautelare una delle sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 comma 2 del d. lgs. 231/2001 e cioè l’interdizione dall’esercizio dell’attività, la sospensione di autorizzazioni o licenze, il divieto di contrattare con la p.a., l’esclusione da agevolazioni e finanziamenti pubblici il divieto di pubblicizzare beni e servizi.
Le condotte riparatorie: l’articolo 17 del d.lgs. 231 /2001 elenca le condotte che l’ente può porre in essere ai fini di “riparare” alle conseguenze del reato
Esso recita: “Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni:
a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso;
b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca.”
Non pare il caso di dilungarsi sulle singole condotte riparatorie, ciò che conta è che, ai sensi del combinato disposto degli articoli 17 e 49 del d.lgs 231/2001, effettuate le condotte riparatorie l’ente può avanzare richiesta di revoca della misura cautelare adottata nei suoi confronti.
Nelle more, ovvero tra l’adozione della misura cautelare e l’attivazione della condotta riparatoria, l’ente può aver proposto impugnazione avverso al provvedimento cautelare.
L’appello avverso le misure. Innanzitutto unico rimedio previsto è quello dell’appello essendo esclusa la procedura del riesame. Così dispone infatti l’articolo 52 del d.lgs. 231/2001 che espressamente richiama la disposizione dell’articolo 322 bis commi 1 -bis e 2 c.p.p..
Il comma 2 dell’articolo 52 del d.lgs. 231/2001 stabilisce che è possibile ricorrere avverso il provvedimento emesso ai sensi del comma 1 per cassazione ai sensi della disciplina di cui all’articolo 325 c.p.p.
Attivata la procedura dell’appello, l’ente realizza una o più delle condotte riparatorie indicate nell’articolo 17, ottenendo la revoca della misura cautelare.
Può dirsi che abbia ancora interesse all’impugnazione?
L’interesse all’impugnazione: il legislatore ha normato l’istituto nell’articolo 568 comma 4 c.p.p. che recita “per proporre impugnazione è necessario avervi interesse”
Ergo, è necessario che dall’impugnazione proposta, o meglio dall’esito dell’impugnazione formulata, il ricorrente possa trarre beneficio od utilità.
In questo senso le SS.UU. si erano già pronunciate (6624 del 2011) specificando come l’interesse richiesto dall’articolo 568 comma 4 del codice di rito, debba essere connotato dei requisiti della concretezza e dell’attualità, deve cioè sussistere non soltanto nel momento dell’impugnazione ma persistere sino al momento della decisione sull’impugnazione stessa.
Ove detto interesse non persistesse al momento della decisione, si verserebbe in ipotesi di carenza di interesse sopraggiunta
Sempre le SS.UU. hanno affermato il principio in base al quale la nozione di carenza di interesse sopraggiunta va individuata nella valutazione negativa della persistenza, al momento della decisione, di un interesse all’impugnazione, la cui attualità è venuta meno a causa della mutata situazione di fatto o di diritto intervenuta medio tempore, assorbendone la finalità perseguita dall’impugnante, o perché la stessa abbia già trovato concreta attuazione o in quanto abbia perso ogni rilevanza per il superamento del punto controverso (SS.UU. 6624/2011)
Con i principi esposti si deve “misurare” la disciplina dettata dal d. lgs 231/2001.
Il sistema cautelare del d.lgs. 231/2001: le SS.UU. osservano come l’intero sistema cautelare di cui al d.lgs. 231/2001 si fondi su di una tutela rafforzata del contraddittorio, “inteso come momento di interlocuzione tra le parti ed il giudice, tant’è che fina dalla fase genetica dell’adozione della misura cautelare si consente il diritto di intervento dell’indagato”.
Detto sistema, delineato dagli articoli 49 e 50 del d.lgs. 231/2001, “persegue la finalità di contemplare la soddisfazione delle esigenze cautelari con le rilevanti ricadute, sul piano economico- imprenditoriale ed occupazionale, che derivano dall’applicazione anche temporanea delle misure interdittive incidenti sulle capacità economiche di società inserite nel contesto produttivo” (così testualmente nella sentenza in commento)
Da questa innegabile analisi giuridico fattuale si deduce ed induce che la richiesta di sospensione della misura, avanzata dall’ente, non implichi la rinunzia del medesimo a contestare la fondatezza della domanda cautelare.
Ciò a cagione della necessità dell’ente di “scongiurare l’applicazione di misure interdittive, implicanti la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell’attività economica”.
Dal che discende la persistenza dell’interesse ad impugnare anche in esito ad intervenuta revoca della misura interdittiva sia, così dicono gli Ermellini nella loro massima espressione, “per contestare l’originaria legittimità del provvedimento, sia per ottenere la restituzione delle somme versate proprio al fine di ottenere la sospensione della misura o per la rimozione di altre possibili conseguenze dannose”.
Avv. Claudio Bossi