Lavoro e Previdenza
Regolarizzazione extracomunitari. Ricorso d’ urgenza ex art. 700 c.p.c. se il datore di lavoro non collabora.
Regolarizzazione extracomunitari. Ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. se il datore di lavoro non collabora.
TRIBUNALE DI PISA
Cron. N. 6062 del 10. 12. 2002
Fasc. RGC n. 1109/02
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Pisa, dr. Gaetano SCHIAVONE, sciogliendo la riserva,
PREMETTE
1) ricorre R.A., ex art. 700 cpc. al fine di veder accertato l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con la Ditta B. di I.V. a far data dal 20. 11. 2000; per ottenere l’inquadramento come manovale edile; di accertare la violazione del DL. n. 195/2002. art., com.1 (conv. in L. n. 222/02), non avendo provveduto il suo datore di lavoro alle dichiarazioni previste dal detto D.L.; e per la pronuncia in ogni caso di provvedimento che tenga luogo della detta dichiarazione. In via subordinata era sollevata questione di legittimità costituzionale del DL. n. 195 per violazione degli artt. 1, 3, 4, 35, 36 Cost.;
2) nessuno si costituiva in lite per il I., sebbene questi compariva spontaneamente, rendendo delle sottoscritte dichiarazioni confessorie;
N O T A
3) ai fini dell’accoglimento del ricorso ex art. 700 cpc. è necessario la sussistenza sia del fumus boni juris che del periculm in mora;
4) per quanto attiene a quest’ultimo emerge in re ipsa, evincendosi dal fatto che la c.d. sanatoria di cui al DL. n. 195/02 prevede degli improrogabili termini di scadenza entro cui deve essere stipulato il c.d. contratto di soggiorno, sicchè il tempo di attesa per l’accertamento del diritto vantato per le vie ordinarie potrebbe pregiudicarlo irrimediabilmente;
5) in ordine al fumus, che significa parvenza del fondamento in diritto della pretesa azionata, salvo più approfondito accertamento nel corso del giudizio di merito, va rilevato che il decreto legge n. 195/00 (conv. in L. n. 222/02) recita testualmente, all’art. 1, com. 1, che: “chiunque nell’esercizio di attività d’impresa sia in forma individuale che societaria, ha occupato, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto, alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari in posizione irregolare, può denunciare, entro la data dell’11 novemre 2002, la sussistenza del rapporto di lavoro (…)”. Il terzo comma aggiunge che: “ai fini della ricevibilità, alla dichiarazione sono allegati: a) copia sottoscritta della dichiarazione di impegno a stipulare, nei termini di cui al com. 5, il contratto di soggiorno per lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero per un contratto di lavoro di durata non inferiore ad un anno nelle forme di cui all’art. 5-bis T.U. n. 286/98; b) attestato di pagamento di un contributo forfetario pari a ¬. 700,00 per ciascun lavoratore”.
5.a) il primo ostacolo interpretativo da superare per l’eventuale accoglimento del ricorso, risiede nell’interpretazione da dare alla locuzione “può denunciare” contenuta nel surriferito primo comma.
Balza immediatamente agli occhi che l’unica interpretazione da escludere immediatamente è quella che annetta al testo un significato di carattere facoltativo. La norma, infatti, non può essere interpretata nel senso che il legislatore avrebbe affidato al datore di lavoro la realizzazione di una condizione meramente potestativa che solitamente si esprime nel latinetto “si voluero”, cioè se vorrò. Perché se lo scopo perseguito dal legislatore è quello di legalizzare il lavoro sommerso, prestato nel nostro Paese dagli extracomunitari la sorte di questi lavoratori non potrà certo essere affidata al solo gradimento datoriale, dovendo la realtà economica sottostante emergere aliunde, cioè sulla base non solo di un elemento volontaristico, quanto di elementi economicamente rilevanti. Il legislatore a ciò ha provveduto nel senso che ha limitato la sanabilità delle posizioni di quegli extracomunitari che alla data di entrata in vigore del D.L. n.195, cioè il 10. 09. 2002, fossero occupati da almeno tre mesi, alle dipendenze di imprese operanti nel nostro territorio.
5.b) il secondo ostacolo risiede nella ricevibilità della domanda (ex art. 1, com. 3 DL. cit.), nel senso che ai fini della regolarizzazione, che va completata con la sottoscrizione, innanzi agli uffici prefettizi, di un contratto di lavoro della durata quanto meno di un anno, alla dichiarazione deve essere allegata la ricevuta di pagamento della somma di ¬. 700,00 a titolo di contributo forfetario, nonché altro atto di impegno datoriale a sottoscrivere un contratto di lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato ma per almeno dodici mesi..
In presenza di questi elementi e degli accertamenti affidati alle questure, la regolarizzazione deve avvenire, non avendo neppure gli organi della Prefettura il potere di accertare discrezionalmente se concedere o meno il permesso di soggiorno a scopo lavorativo.
6) Quid iuris, però, se il datore di lavoro non intenda accedere alle richieste del lavoratore di regolarizzazione della sua posizione?
6.a) come sopra s’è visto la legge non consente che tutto sia affidato al solo buon cuore del datore di lavoro, in quanto se il requisito del rapporto di lavoro trimestrale viene verificato come realmente realizzatosi, il datore di lavoro è sicuramente obbligato alla denuncia ed il “può denunciare” contenuto nella norma sta sicuramente a significare: “sussistono le condizioni perché denunci”.
Come in ogni altro rapporto obbligatorio, dunque, il Giudice che accerta l’inadempimento, emette i provvedimenti previsti dall’ordinamento a riparazione del torto subito dal creditore. Nella specie, emetterà un provvedimento che tenga luogo della dichiarazione omessa.
6.b) ma, secondo quanto risulta dal terzo comma, surriferito, gli elementi richiesti dalla legge per il rilascio del documento di soggiorno, che in sostanza è quanto interessa al ricorrente, sono altresì il versamento di ¬.700,00, la cui obbligatorietà è accessoria, una volta accertato il requisito di cui al comma 1, nonché la dichiarazione di intenti di volere occupare il lavoratore per almeno il successivo periodo di dodici mesi.
E’ del tutto evidente che anche questa norma vada letta di concerto con tutto il nostro sistema giuridico e lavoristico, in particolare. La norma a ben vedere non copre tutte le possibili evenienze che il modo del lavoro presenta e pare piuttosto destinata a sanare situazioni di fisiologici rapporti fra datori di lavoro e lavoratori, per il caso in cui questi si decidano di comune accordo alla stipula di un contratto a tempo indeterminato, ovvero a termine ma per almeno un anno.
Nulla dice la legge per il caso in cui i rapporti si siano interrotti nell’imminenza o addirittura, proprio in vista degli obblighi derivanti dalla regolarizzazione.
Ecco che allora deve soccorrere l’interpretazione giurisprudenziale per ricondurre ad armonia l’intero sistema, posto che delle norme vada data fino al limite del possibile, una lettura costituzionalmente valida, rispettosa, innanzitutto del canone di eguaglianza sostanziale davanti alla legge.
La regolarizzazione degli immigrati – che nel nostro Paese sono stranamente un problema, anziché una risorsa – ha ricevuto solo recentemente una qualche sistemazione, peraltro confusa, non foss’altro perché vengono spesso frammisti i piani della tutela dell’ordine pubblico e della disciplina del lavoro, spesso (anzi, quasi sempre) finendo col sacrificare i diritti dei lavoratori o, comunque, rendendone oltremodo difficile l’esercizio, fino allo scoramento. Come se il legislatore volesse tenere questa forza lavoro sul crinale della marginalità sociale, in una situazione di costante ricattabilità.
Con il che si finisce col rischiare che, in via di fatto, venga a crearsi nel diritto del lavoro un corpus sostanzialmente separato, che riguarda il rapporto con i lavoratori extracomunitari. Ed è noto come la prassi svolga un ruolo determinante in un ramo del diritto che difetta di codificazione.
E sia bastevole pensare agli innumerevoli adempimenti formali, peraltro sanzionati, che accompagnano il rapporto di lavoro con i lavoratori extracomunitari, per dare conto di quello scoramento.
Così è, ad esempio, per l’art. 2, com. 7 TU. n. 286/98, ove è previsto che “qualunque variazione del rapporto di lavoro intervenuto con lo straniero” debba essere comunicato al Prefetto, punendo la relativa omissione con la sanzione amministrativa da 500,00 a 2.500,00 euro, che non è certo cosa di poco conto se si pensa che possa essere la conseguenza di aver dimenticato di comunicare una promozione, ovvero un mutamento di qualifica. Posto che questi sono certamente modifiche del rapporto, anche se assolutamente ininfluenti sotto il profilo dell’ordine pubblico, a cui, anche istituzionalmente risultano essere preposti i Prefetti.
Vero è, al contrario, che il Giudice, cioè colui il quale per dovere istituzionale è preposto all’interpretazione delle leggi (anche quelle pessimamente scritte), deve tentare i ricondurre il tutto a sistema organico, innanzitutto evitando di dare alle leggi un’interpretazione che sia in aperto conflitto con la costituzione formale che c’è e che, indubbiamente ha fra i suoi connotati quello di essere una costituzione laburista.
Cosa ciò voglia dire, dovrebbe essere scontato, dopo oltre cinquanta anni di elaborazione scientifica ma non è superfluo ricordare che a differenza di altre tutele dispiegate nella costituzione a favore dei cittadini, quelle attinenti il mondo del lavoro, sono previste a favore del lavoratore, senza alcuna distinzione fra cittadini e stranieri. Ciò sta a significare, per i limitati fini che qui occupano, che la Repubblica tutela il lavoro in sé (art. 35, com. 1 Cost.), come valore fondante (art. 1 Cost.) e non per le forme giuridiche che esso possa rivestire. Né tanto meno, può tollerarsi che queste prevarichino su quello, specie se si pensa che principio fondamentale del nostro ordinamento è la libertà delle forme (arg. ex art. 1350, ss., cc.) per la gran parte dei contratti e, fra questi, quello di lavoro.
Sicchè se sotto il profilo di un’economia liberale, per sua definizione scevra di vincoli, risulta deleterio il carico di formalismi previsti dalla nuove leggi sull’immigrazione, è del tutto conseguente che la tutela che la Repubblica deve apprestare al lavoro non può certo tradursi nell’affidamento al completo arbitrio del datore di lavoro, i cui interessi particolari possono anche non coincidere con l’interesse collettivo di tutela del lavoro disegnato nella Costituzione.
Ed invero, il sistema coniato dal novello corpus iuris ed in particolare dalla legge (n. 222/02) in rassegna, pare imperniato su un approccio al problema della regolarizzazione di carattere prettamente privatistico, favorendo, però, la posizione datoriale sopra tutte, ivi comprese le opzioni costituzionali.
La sostanza descritta dal legislatore prende le mosse essenzialmente da una visione negativa della presenza sul territorio nazionale di persone provenienti da paesi extracomuitari, dalla necessità di fare punto ed a capo in merito al problema, approntando un sistema essenzialmente espelletorio, salvo consentire una continua procrastinazione dell’espulsione fino allo scadere almeno dei sei mesi dalla risoluzione del rapporto (art. 22, com. 11, TU.).
Al raggiungimento di questo scopo viene piegato, però, il contratto di lavoro o meglio, l’obbligo di forma scritta assegnatogli. Ciò sia per la disciplina a regime (cfr.: art. 22, com. 6, TU.) che per quella transitoria e destinata all’emersione del c.d. lavoro nero (art. 1, L. n. 222/02).
Infatti, il perfezionamento di quest’ultima avviene attraverso una fattispecie a formazione progressiva in cui l’obbligo di forma assume rilevanza essenziale.
Innanzitutto è previsto con particolare rigore l’accertamento che sia il datore di lavoro personalmente, ovvero tramite delegato e previa identificazione personale da parte degli uffici postali (cfr.via Internet: Circ. Min. Interni), ad inoltrare la dichiarazione di emersione, contenente cioè il riconoscimento di un pregresso rapporto di lavoro di durata almeno pari al trimestre precedente l’entrata in vigore della legge, nonché ad effettuare il versamento del contributo forfetario pari a ¬.700,00.
Ma questo non basta, il legislatore ha deciso, nella sua autonomia, che la presenza di un lavoratore extracomunitario sul nostro territorio sia lecita solo se egli è munito di un impegno per un contratto di lavoro (scritto, ovviamente) della durata di almeno dodici mesi, da confermare nel c.d. contratto di soggiorno che va sottoscritto davanti ad un organo rogante veramente inconsueto per la tradizione civilistica continentale: il Prefetto.
Quid juris, allora se del rapporto di lavoro sussistono tutti gli elementi ma, per le ragioni più varie (diffidenza, fastidio per le complicazioni burocratiche, impossibilità oggettiva, dimenticanza, ecc.) il datore di lavoro non voglia sottoscrivere il c.d. contratto di soggiorno?
Prima di ogni cosa, va sgombrato il campo dall’equivoco concettuale che il contratto sottoscritto innanzi al Prefetto sia solo quello che da esecuzione all’impegno formatosi inter partes, del tipo contratto preliminare (art. 2932 cc.). Infatti, quando il rapporto sia in corso al momento della chiamata prefettizia, la volontà delle parti non è certo quella di porre in essere un nuovo rapporto, bensì di effettuare una ricognizione dello stesso. Di tal chè sarà al più confermativo e non costitutivo.
Nonostante questa oggettiva dequalificazione, sul piano privatistico, del valore di questa forma, essa assume certamente rilievo per gli effetti pubblicistici e, ciònonostante, come detto, il suo compimento pare affidato piuttosto al buon cuore del datore di lavoro, il che va anche contro lo spirito della stessa legge. Se, infatti, scopo del legislatore è quello di consentire la permanenza sul territorio solo di quegli extracomunitari che risultino garantiti dalla percezione di un reddito che consenta loro un inserimento dignitoso e lontano dalle possibili fonti illecite di guadagno, non v’è chi non ne veda i vistosi limiti.
Innanzitutto, non si capisce bene come possano emergere tutti quelle persone che abbiano impiantato una sia pur minima ma consistente attività di lavoro autonomo. Anzi dalla disciplina transitoria risulta che o una persona è lavoratore subordinato o non gli è consentito regolarizzare la propria posizione, posto che presupposto per l’emersione è solo quello di aver avuto un rapporto di lavoro subordinato negli ultimi tre mesi. Oltremodo ambigua pare la disciplina di chi abbia svolto un trimestre o più di lavoro dipendente ma al momento di entrata in vigore della legge fosse disoccupato, anche se, per ipotesi, con una lite giudiziale di accertamento in corso. La legge, appunto, parla di occupazione nei tre mesi antecedenti la sua entrata in vigore, cioè di quelli e non di altri, antecedenti, da cui evincere la volontà dell’immigrato di inserimento tramite il lavoro e non per espedienti vari.
Inoltre, non viene disciplinata la sorte di chi pur essendo in regola per la prima parte della fattispecie (lavoro pregresso), non possa portare a compimento la seconda per i più vari motivi (es.: decesso del datore di lavoro promittente, chiusura o cessione dell’impresa, licenziamento, dimissioni per giusta causa per molestie, mobbing, ecc.) e, la cui domanda di regolarizzazione rischia addirittura di non essere presa in considerazione, poiché l’allegazione dell’impegno a concludere il contratto di soggiorno ne è condizione di ricevibilità ex art. 1, com. 3, L. n. 222/02.
Ora, di fronte a queste circostanze è evidente che la sottoscrizione del contratto confermativo da parte di datore di lavoro diverso rispetto a quello che abbia firmato l’impegno o da quello con cui era in corso il rapporto al momento dell’entrata in vigore della legge, non dovrebbe essere ostativa alla concessione del permesso di soggiorno in quanto la fattispecie è del tutto simile a quella disciplinata dall’art. 2932 cc.: vincolo contrattuale ad un rapporto lavoristico de futuro.
Nel caso in cui, invece, il datore di lavoro non abbia sottoscritto l’impegno a contrarre non è certo possibile parlare di corrispondente obbligo a suo carico per il contratto confermativo, che deve avere fonte in una pregressa volontà privata (“dichiarazione d’impegno”, dice la legge). Ma a questo punto delle due l’una: o egli continua ad avere alla proprie dipendenze un lavoratore certamente non in regola, ed allora scatterebbe la previsione penalistica di cui all’art. 22, com. 12, TU., ovvero recede dal rapporto di lavoro.
Nel primo caso come nell’altro dev’essere comunque conferita al lavoratore la possibilità di far emergere la realtà del rapporto. Così nei confronti dell’ipotetico datore di lavoro che volesse sfidare i rigori della sanzione penale mantenendo in piedi un rapporto irregolare, si accerterà l’esistenza in corso di un rapporto di lavoro, mentre nel caso risoluzione se ne accerterà la con sensualità, ovvero l’illegittimità in caso di licenziamento illegittimo e, quindi, la prosecuzione del rapporto sia in caso di radicale nullità (es.: licenziamento orale), sia per illegittimità od inefficacia, con ordine di reintegra sul posto di lavoro.
Orbene, così come, però, un contratto sottoscritto innanzi al Prefetto può essere risolto in qualsiasi momento, non foss’altro che per mutuo dissenso (art. 1321 cc.), altrettanto deve dirsi per un rapporto ripristinato od accertato per atto del Giudice. Allora, a ben vedere, l’impegno contrattuale di cui s’è detto può avere altri surrogati e così deve ammettersi che possa essere oggetto di una sostituzione soggettiva, in quanto lo spirito della legge trova soddisfacimento anche se il rapporto di lavoro viene stipulato con Tizio che piuttosto che con Caio, l’importante è che nel momento in cui il Prefetto, fatti i relativi accertamenti, sia pronto alla stipula, via sia un soggetto affidabile che dichiari di confermare un rapporto di lavoro con l’extracomunitario, ovvero di volerlo costituire da quel momento.
In effetti, uno spiraglio interpretativo in questo senso può trarsi dalla seconda parte del com. 6, art. 1, l. n. 222, cit., ove è prevista la non punibilità per tutto il periodo che va dalla presentazione della domanda, fino alla convocazione del Prefetto, per chi contragga un rapporto di lavoro con un clandestino. Il soggetto attivo del reato è, dunque, indifferente per il legislatore, sia esso il datore originario o meno, altrimenti avrebbe dovuto concedere la non punibilità solo a chi avesse avuto il rapporto nel trimestre antecedente all’entrata in vigore della legge e non a chi comunquedia lavoro fino a quel momento. Evidentemente, egli verrà individuato dal momento della chiamata per la stipula del contratto confermativo in poi ed il legislatore, dando questo termine a prescindere dalla causa di estinzione del rapporto con l’originario datore di lavoro, ha operato la scelta di consentire al lavoratore di porre in essere altro valido rapporto, senza tema di espulsione.
Ma alle stesse conclusioni conduce la lettera dell’art. 2, com. 1, L. n. 222, ove si legge che, “fino alla data di conclusione della procedura di cui all’art. 1, non possono essere adottati provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale nei confronti dei lavoratori compresi nella dichiarazione di cui allo stesso articolo, salvo che risultino pericolosi per la sicurezza dello Stato”.
Dalla lettura combinata si evince, dunque, che alla dichiarazione di intento di cui al secondo comma si debba assegnare una portata molto minore rispetto a quanto appaia da una prima lettura ed essenzialmente il significato di uno solo degli elementi costitutivi della fattispecie “regolarizzazione” pensata, troppo sinteticamente, dalla norma.
Pertanto non può parlarsi di automatica irricevibilità formale della domanda, con la conseguenza che gli Uffici prefettizi debbano scartandone a priori l’esame nel merito, se manca l’impegno scritto del datore di lavoro ad assumere. Lo spirito della sanzione procedimentale è solo quello di escludere che siano prese in considerazione situazioni in cui non vi sia alcuna concreta possibilità di occupazione per un consistente arco di tempo se non indefinititivamente.
Altrimenti non si capirebbe il senso del sopra visto esonero temporaneo da sanzione penale e di polizia.
Inoltre, se così non fosse si potrebbe giungere al paradosso che un lavoratore che abbia in atto un rapporto a tempo indeterminato presso un datore di lavoro che gli garantisca stabilità reale, sebbene intrapreso dopo la scadenza del termine per presentare la domanda, possa essere espulso dall’Italia, per il solo fatto che quest’ultima sia stata scartata a priori per insufficienza documentale. Un’interpretazione simile finirebbe col cozzare irrimediabilmente contro la tutela costituzionale del lavoro, intendendo questo come rapporto giuridico ed economico attualmente esistente, ancor prima che come promessa de futuro.
Insomma, della norma va data una lettura che eviti il paradosso per cui sia ricevibile solo una domanda a cui sia allegato un preliminare di contratto a cui non è detto che il datore di lavoro dia seguito innanzi al prefetto (sebbene con tutte le conseguenze giudiziali ex art. 2932 cc., ovvero anche con quelle minime annesse ad un repentino licenziamento da parte di datore di lavoro che magari occupi meno di quindici dipendenti), almeno sotto il profilo dell’ordine derivante dalla stabilità, che è lo scopo perseguito dalla norma. A maggior ragione dev’essere ricevibile, invece, una domanda che, nonostante quella mancanza formale, sia supportata da un rapporto di lavoro in atto, pertanto ben più meritevole di esame (che non vuol dire accoglimento).
L’analitica rassegna qui condotta è determinante anche al fine di verificare uno dei presupposti dell’azione, infatti, poco senso avrebbe procedere all’accertamento di una situazione esaurita, pacifica, non controversa ma senza risvolti per il futuro, come sarebbe l’accertamento di un rapporto estinto senza alcuna pendenza residua e nel caso in cui la pronuncia giudiziale non possa fungere neppure da elemento di una fattispecie a formazione progressiva (id est: il contratto di soggiorno), in quanto la domanda finirebbe con l’imbattersi in un’esclusione aprioristica. Ha senso invece (e giuridicamente vi è interesse a coltivarla), quella domanda mirante ad un accertamento del passato che, unito alla verifica di una situazione di fatto al momento della deliberazione sul contratto di soggiorno, possa tener luogo dei formali adempimenti previsti dalla legge.
Fatto è che, avendo voluto la legge piegare il rapporto di lavoro ad esigenze ultronee rispetto a quelle tipicamente connessevi, non poteva non imbattersi in incongruità che finiscono col tradire lo scopo stesso avuto di mira. Di tal chè, se la fisiologia è quella prefigurata dalla legge, non può tenersi conto che vi siano le più varie situazioni pur meritevoli di tutela, anche se non conformi agli aspetti secondari delle obbligazioni o degli obblighi pubblicistici ivi prefigurati. Così, del versamento dello stesso contributo forfetario di ¬.700,00, può essere data dimostrazione al momento della convocazione prefettizia, essendo irrilevante sia l’effettuazione al momento dell’inoltro della domanda, ovvero la persona che debba subire l’onere. La stessa statuizione di cui alla lett. ‘d’, com. 2, art. 1, L. n. 222, cit., che sanziona con l’inammissibilità la domanda che non contenga l’indicazione della retribuzione convenuta fra le parti (il riferimento è, ovviamente, al rapporto trascorso, in quanto il contenuto della dichiarazione attiene al passato), non si capisce perché debba sottoporre alla stessa sanzione quella dichiarazione che contenga l’indicazione di una retribuzione inferiore a quella vigente in base al CCNL del settore di riferimento, come verosimilmente è nei casi di rapporto di lavoro al nero. Quel che è importante è che fosse reale un rapporto di lavoro, quindi retribuito, e che siano identificabili, senza ombra di equivoco, gli elementi soggettivi ed oggettivi dello stesso, per consentire le verifiche del caso ed allo scopo di evitare che la sanatoria riguardi persone giunte all’ultimo momento sul territorio nazionale.
Tutto il resto è estraneo allo scopo della norma, vale per agevolare gli adempimenti formali e burocratici, per dare certezza (probabilmente) alle presenza future nel nostro Paese. Tutte esigenze, però, che come tali non possono farsi discendere dalle regole attinenti al rapporto di lavoro. La retribuzione è di fatto derogabile e spesso, purtroppo, derogata in pejus dalle parti, con le salvaguardie della rivendicazione entro il termine prescrizionale, ovvero della tutela contro le rinunce e transazioni. Sicchè non potrà mai essere ritenuta inammissibile una domanda che contenga l’indicazione di una retribuzione giuridicamente consolidata, per le vie dette, sebbene inferiore ai parametri del CCNL, poiché è elemento disarmonico, sia con lo spirito della legge che con le regole lavoristiche. Altrimenti il lavoratore finirebbe con l’essere penalizzato due volte, la prima perché ha ricevuto una paga spesso di fame e la seconda nel vedersi dichiarare, proprio per questo, inammissibile della domanda.
7) Nell’ipotesi in esame l’accertamento giudiziale ha consentito di appurare, in base alla confessione resa in corso di causa dal resistente contumace, che il ricorrente A.R. è stato lavoratore subordinato (quindi retribuito) a tempo pieno di I.V., ininterrottamente dal 23. 05. 2002 al 10. 09. 2002.
Gli atti prodotti in causa dimostrano che I.V., nato a Napoli il xx.xx.xxxx e residente a xxxxxx (giusta carta d’identità) è iscritto all’albo artigiani ed è titolare della impresa edile B. di I.V. , fin dal xx.xx.xxxx ma iscritta alla CCIAA di Pisa dal xx.xx.xxxx (cfr.: certificato della CC.I.AA.).
Come risulta, il rapporto è esaurito e le parti hanno dichiarato a verbale di non aver null’altro a che pretendere l’una dall’altra sotto il profilo economico, il che conferma implicitamente sia una retribuzione che la rinuncia alla pretesa di eventuali differenze.
Ciò è quanto basta perché il ricorrente possa procedere legittimamente alla ricerca di un nuovo lavoro, quanto meno fino a quando non sarà chiamato dal Prefetto per sottoscrivere il contratto di soggiorno, ma anche, per le ragioni dette, per far si che la sua domanda non sia dichiarata irricevibile. Che è quanto esplicitamente riconosce la stessa amministrazione degli Interni che, con il messaggio telegrafico del 5. 11. 2002 ha inteso estendere analogicamente, nell’incertezza della lettera della L. n. 222, alle persone la cui regolarizzazione non possa avvenire per le vie fisiologiche di cui alla medesima L. n. 222, la stessa disciplina prevista a regime per gli immigrati dall’art. 22, com. 11, TU. n. 286 e cioè che la perdita del posto di lavoro non implica revoca del permesso di soggiorno per il periodo di validità residua del permesso. E, comunque, per almeno sei mesi è stato previsto il rilascio di un permesso di soggiorno provvisorio, nonostante l’art. 2, com. 1 L. n. 222, come riferito, impedisca l’allontanamento dal territorio nazionale nelle more di perfezionamento della pratica di sottoscrizione del contratto di soggiorno. E’ evidente quindi, che il semestre debba essere considerato il termine minimo, non potendosi far ricadere sulle spalle del lavoratore, secondo il disposto di legge, la conseguenza di una durata della procedura superiore a quella disciplinata dal ridetto art. 1, L. n. 222/02.
Se ancora ve ne fosse bisogno, dunque, anche per quest’ultima via è dimostrato che le condizioni formali di ammissibilità e ricevibilità della domanda, sopra analizzate, non hanno rilievo per quelle situazioni in cui il contegno di parte datoriale non sia conforme al canone previsto dalla legge ma abbia richiesto l’intervento giudiziale per fare emergere la realtà delle cose. Se così non fosse, non si vede a quale scopo la legge prima e la circolare ministeriale dopo abbiano previsto le deroghe alla disciplina dell’espulsione, se non per dare alla pronuncia del giudice da un lato, un’efficacia globalmente sostitutiva del comportamento datoriale, ma dall’altro di integrazione della fattispecie da sottoporre al vaglio dell’autorità prefettizia.
Secondo l’accordo delle parti, le spese di questa fase andranno compensate.
P. Q. M.
Il Giudice del lavoro, in accoglimento della domanda ex art. 700 cpc. così come precisata al verbale 29. 11. 2002, DICHIARA che R.A., nato a xxxx (Albania) il xx.xx.xxxx e residente a xxxxxxxxxxxxxxxxxxxxxx, Cod. Fisc. xxx xxx xxxxx xxxxx, in atti rappresentato e difeso dall’Avv. yyyyyyyy, è stato ininterrottamente dal 23. 05. 2002 al 10. 09. 2002 lavoratore subordinato retribuito a tempo pieno, di I.V., nato a Napoli il xx.xx.xxxx e residente a xxxxxxxxxx (giusta carta d’identità) ed iscritto all’albo artigiani di Pisa e titolare della impresa edile B. di I.V., fin dal xx.xx.xxxx ma iscritta alla CCIAA di Pisa dal xx.xx.xxxx . Assegna a parte ricorrente il termine di giorni 60 per iniziare il giudizio di merito. La compensazione delle spese al definitivo.
Il Giudice del Lavoro
Gaetano Schiavone