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Quale bancarotta? Questioni di dolo…
(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 45186/15; depositata l’11 novembre)
Il reato di bancarotta fraudolenta previsto dall’art. 216, comma 1, n. 2 l. fall., e il reato di bancarotta semplice disciplinato dall’art. 217, comma 2, l. fall., si differenziano non tanto sotto il profilo dell’elemento oggettivo, quanto invece per la diversa gradazione dell’elemento psicologico: soltanto la prima delle due fattispecie è contraddistinta dalla consapevolezza e dalla volontà, in capo al creditore, che l’irregolare ed illecita tenuta dei documenti contabili arrechi un danno ai suoi creditori.
Così si è espressa la Corte di Cassazione nella sentenza n. 45186, depositata l’11 novembre.
Il caso. La Corte di Cassazione è stata adita dal legale dell’imprenditore S.S. con ricorso avverso la sentenza pronunciata dalla Corte d’appello, nella quale i giudici avevano deciso la condanna dell’imputato, attribuendogli la commissione non del reato di bancarotta semplice, ma della più grave bancarotta fraudolenta. Il ricorrente lamentava vizio di motivazione, per mancanza e manifesta illogicità, ravvisato nell’assente dimostrazione dell’esistenza del dolo, postulata invero dalla fattispecie stessa del reato imputato al condannato.
La decisione della Corte di Cassazione. Gli Ermellini hanno accolto il ricorso, argomentando la loro decisione sulla fondamentale rilevanza che assume l’elemento psicologico del reato nella distinzione fra le fattispecie di bancarotta fraudolenta ex art. 216, comma 1, n. 2 l. fall. e di bancarotta semplice ex art. 217, comma 2, l. fall..
Solo per la prima è imprescindibile il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di tenere irregolarmente i documenti contabili proprio al fine di arrecare danno «all’interesse dei creditori ad una ricomposizione completa ed esaustiva delle scritture sociali attinenti a tutte le iniziative economiche della società».
Questa consapevolezza non è affatto contemplata nella fattispecie della bancarotta semplice, la quale prevede indifferentemente il dolo o la colpa, «ravvisabili quando l’agente ometta, rispettivamente, con coscienza e volontà o per semplice negligenza, di tenere le scritture».
Pertanto, non è lecito considerare equivalenti il dolo caratterizzato dalla volontà di rendere impossibile, per i creditori, la ricostruzione patrimoniale e il dolo consistente semplicemente nella volontà di non tenere libri e scritture contabili.
Dovendo il giudice considerare sempre questa imperativa distinzione, la Corte di Cassazione ha ribadito, con la sentenza in esame, la prassi giurisprudenziale consolidata, affermando che «non è assolutamente possibile inferire l’esistenza del dolo di cui all’art. 216 semplicemente dalla sussistenza del fatto materiale».
Qualche riflessione. Se, sotto il profilo oggettivo la bancarotta fraudolenta ex art. 216, comma 1, n. 2 e la bancarotta semplice ex art. 217, comma 2 potrebbero ben ammettere una sostanziale sovrapposizione della concreta, materiale condotta dell’agente, allora il rischio di confusione nella configurazione dei due reati può diventare realistico. Il legislatore ha, infatti, voluto individuare la diversa gravità delle fattispecie nella più sottile distinzione che attiene all’elemento psicologico, più complesso da valutare e provare.
Tuttavia, tale complessità non può legittimare il giudice dall’omettere il compito di applicare le norme così come sono state concepite dal legislatore, il quale ha differenziato non poche ipotesi di reato (prima fra tutte quella dell’omicidio) sulla sola base dell’elemento psicologico che ha spinto l’agente alla sua perpetuazione.
Allora, l’autorità giudicante, al fine di comprendere al di là di ogni ragionevole dubbio quale fattispecie di reato sia stata concretamente posta in essere dall’agente, deve valutare e accertare il movente stesso della tenuta irregolare dei libri e delle scritture contabili. Viene da sé che ragionare per presunzioni dedotte dalla sola condotta materiale – seppure sia una tentazione umanamente giustificabile – costituisce operazione ermeneutica illecita. L’accertamento dell’elemento oggettivo è differente dall’accertamento di quello soggettivo; e, dal fatto dell’irregolare tenuta delle scritture contabili può ben essere dedotta sia la mera volontà di non tenerle regolarmente, sia la volontà che questa condotta costituisca il presupposto per confondere o rendere impossibile ai creditori la ricostruzione delle vicende patrimoniali dell’imprenditore. E’ doveroso, pertanto, chiarire e provare la ragione sottesa alla coscienza e alla volontà di conseguire l’impossibilità della ricomposizione patrimoniale, diversa dalla volontà di meramente trascurare la lecita tenuta delle scritture, senza però por mente alle conseguenze della condotta.
Sarebbe ellittica e apodittica l’asserzione secondo cui la carenza o l’assenza di documentazione contabile dimostri incontrovertibilmente la puntuale intenzione dell’imprenditore-debitore di più o meno ostacolare la ricostruzione dei movimenti e dell’effettiva consistenza del suo patrimonio societario.
L’accertata sussistenza del fatto materiale della scorretta e illecita tenuta dei documenti contabili, seppur sia sintomo, non è l’inconfutabile presupposto da cui si possa automaticamente inferire il dolo di arrecare danno ai creditori.
(avv. Claudio Bossi pubblicato su Diritto & Giustizia Giuffrè editore s.p.a)