Lavoro e Previdenza

Tuesday 12 June 2007

Pubblico impiego: il capo ufficio non può denigrare i sottoposti nelle comunicazioni scritte con i superiori.

Pubblico impiego: il capo ufficio
non può denigrare i sottoposti nelle comunicazioni scritte con i superiori.

Cassazione – Sezione sesta penale
– sentenza 10 aprile – 11 giugno 2007, n. 22702

Presidente Sansone – Relatore
Ambrosini

Pm Favalli – conforme –
Ricorrente Meaggia

Svolgimento del processo

La Corte d’appello di Cagliari
con sentenza 5.6.2006 confermava la sentenza 9.5.2006 del Tribunale della
stessa città di condanna di Meaggia Giovanni alla pena di anni uno di
reclusione per il reato di cui agli artt. 81, 323, 595 c.p.

Al Meaggia si addebita, in
qualità di direttore dell’aereoporto, di avere inibito a una funzionaria
(Biddau Maria Maddalena) l’esercizio di funzioni corrispondenti alla sua
qualifica attribuendole a un funzionario (Cabras) di livello inferiore e di
avere revocato alla stessa la funzioni vicarie in assenza del dirigente,
nonostante la sollecitazioni dei superiori e una
decisione del Tar che annullava il provvedimento di revoca.

Inoltre di avere usato
espressioni offensive della reputazione e della professionalità della Biddau in
ambiti diversi dalle formali contestazioni.

Ricorre la difesa dell’imputato
in primo luogo per violazione dell’art. 323 c.p. e difetto di motivazione sul
punto.

Assume che le norme indicate nel
capo di imputazione (gli artt. 20 d.p.r. 266/1987 e 56 d.lgs. 29/93) non hanno
i requisiti di specifica precettività richiesti per integrare la fattispecie di
cui all’art. 323 c.p.

Per contro il Meaggia, cessate le
esigenze temporanee che avevano comportato il
conferimento delle funzioni vicarie (alla Biddau), ara legittimato a riprendere
appiano dette funzioni.

Ed ancora all’epoca del fatto la
legge non prevedeva l’obbligo di ottemperanza alle decisioni cautelari del Tar
di sospensiva.

Rileva inoltra che la
conflittualità della Biddau con l’imputato era sorta
dopo il rientro di questi dall’assenza per malattia ed era dovuta al fatto che
egli aveva negato alla funzionaria la liquidazione di straordinari superiori al
monte-ore.

Contesta infine la sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato non essendo le condotte finalizzate
intenzionalmente al perseguimento di un danno ingiusto.

Con un secondo motivo denuncia la
violazione dell’art. 595 c.p. e il relativo difetto di motivazione.

La frasi ritenute offensive del
decoro della Biddau erano contenute in comunicazioni indirizzate esclusivamente
ai superiori gerarchici, unici legittimati ad adottare
eventuali provvedimenti nei confronti della Biddau. Dal che desume l’assenza
del requisito della volontà di divulgare il loro contenuto a terzi.

Con un terzo motivo si duole
della violazione dell’art. 539 c.p.p. e del relativo difetto di motivazione per
quanto riguarda la quantificazione della provvisionale.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso si
articola in una serie di censure aventi oggetti diversi, che vanno pertanto
singolarmente esaminate.

2. La prima di esse
concerne la precettività o meno delle norme di legge indicate dal capo di
imputazione che si assumono violate- Segnatamente l’art. 97 Cost.; gli artt. 13 e 31 d.p.r. 10.1.1957, n. 3; l’art. 20 d.p.r. 8.5.1987, n. 266;
l’art. 56 d.lgv. 3.2.1993, n. 29.

È principio consolidato in
giurisprudenza che, perché la violazione di legge possa integrare, con gli
altri elementi richiesti dall’art. 323 c.p., il
delitto di abuso di ufficio occorrono due presupposti. Il primo di essi è che la norma violata non sia genericamente
strumentale alla regolarità, dell’attività amministrativa, ma vieti
puntualmente il comportamento sostanziale del pubblico ufficiale. Il secondo
presupposto è che l’agente violi leggi e regolamenti che dì questi abbiano i
caratteri formali e il regime giuridico, non essendo sufficiente un qualunque
contenuto materialmente normativo della disposizione trasgredita.

Occorre dunque verificare se tali
presupposti sussistono in relazione alle norme sopra ricordate.

3. Per quanto concerne il comma i
dell’art. 97 della Costituzione, secondo cui i pubblici uffici sono organizzati
secondo disposizioni di legge in modo da assicurare il buon andamento e
l’imparzialità dell’amministrazione, la giurisprudenza consolidata (per tutte
Cass., sez. VI, 8.5.2003, Zardini, rv 226.706) sì
esprime nel senso che la norma non ha carattere precettivo e ha valore
meramente programmatico, sicché tali principi per il carattere generale che li
distingue non sono idonei a costituire oggetto della violazione che può dar
luogo alla integrazione del reato previsto dall’art. 323 c.p.

4. Per quanto concerne le altre
norme di legge menzionate nel capo di imputazione, di cui si assume la
violazione, la contestazione difensiva non appare decisiva. Innazitutto la
giurisprudenza citata nel ricorso non è specifica, ma
riferita a principi di carattere generale del tutto condivisibili, e condivisi
dal collegio, come ricordato al punto 2 che procede.

L’art. 56 d. lgv. 29/93 non può
considerarsi norma meramente programmatica o procedimentale, poiché stabilisce
un ordine prioritario nella assegnazioni di funzioni
corrispondenti alla qualifica funzionale e vieta quindi di alterare
quest’ordine con l’attribuzione delle funzioni a un soggetto avente qualifica
inferiore pur in presenza dì un funzionario di qualifica superiore. Salva,
ovviamente, una adeguata motivazione del provvedimento
che determini lo “scavalcamento” dell’ordine di priorità dei funzionari – che
nella specie non si riscontra.

5. Tanto basterebbe per
identificare la violazione di legge rilevante ai fini dell’applicazione
dell’art. 323 c.p.

Ma la sentenza impugnata
evidenzia altre violazioni di legge significative, quali quella relativa
all’art. 20 d.p.r. 266/87 per l’assegnazione delle funzioni vicarie a un
funzionario di rango inferiore; o quella relativa all’art. 16 d.p.r. 3/1957 che
impone il dovere di adeguare la propria condotta agli ordini ricevuti dai
superiori gerarchici (nella specie il Ministero dei trasporti).

6. Sempre nell’ambito del primo
motivo dì ricorso la difesa del ricorrente si attarda sulla questione delle
funzioni vicarie, prima attribuite e poi revocate alla persona offesa.

Sul punto la doglianza appare in
fatto, poiché sposta il quadro di riferimento alla riappropriazione delle
funzioni proprie del dirigente al momento di rientro in servizio dopo l’assenza
per malattia, ignorando la complessa vicenda della revoca dalle funzioni
vicarie anteriore al rientro in servizio – sulla quale si era
pronunciato anche il Tar con decisione contraria ai Provvedimenti
dell’imputato e senza ottemperanza ad essa da parte del medesimo.

7. Per quanto concerne la
conflittualità fra imputato e persona offesa, relativamente alla controversia
circa la liquidazione dei compensi per le ore straordinarie di lavoro, la
questione da un lato appare priva di rilevanza ai finì
della verifica della sussistenza degli estremi del reato di cui all’art. 323
c.p.p., dall’altro appare suscettibile di lettura ambivalente. non necessariamente favorevole alla posizione dell’imputato
(non a caso il diniego degli straordinari figura fra le contestazioni nel capo
di imputazione).

8. In ordine all’elemento
soggettivo del reato non pare necessario ricorrere a citazioni
giurisprudenziali consolidate, laddove è intuitiva – oltre che specificata
nella sentenza impugnata – la natura vessatoria delle condotte dell’imputato,
il quale – come si legge nell’ultima pagina della decisione (sia pure relativa
specificamente al reato di diffamazione) – «se riteneva in base ad elementi
oggettivi, rimasti peraltro non dimostrati, la Siddau assolutamente
inadeguata al suo ruolo ed incapace di assolvere alle
sue mansioni, avrebbe dovuto, avvalendosi dei suoi poteri di direzione
dell’ufficio, procedere a formali contestazioni».

La motivazione appare
ineccepibile e tale da evidenziare la volontà espressa dell’imputato di porre in essere atti in danno della persona offesa escludendo
aprioristicamente l’adozione di procedure conformi alla legge.

9. Il secondo motivo ricorso
denuncia il difetto di motivazione relativamente alla pronunciata condanna per
il reato di cui all’art. 595 c.p.

Sostiene la difesa del ricorrente
la mancanza dei presupposti del reato, essendo stato le lettere contenenti
espressioni critiche (e offensive) nei confronti della
dipendente Biddau inviato a soggetti individuati, ossia i superiori
gerarchici legittimati ad adottare provvedimenti amministrativi nei confronti
della stessa. La vastissima giurisprudenza in materia, non sempre uniforme,
consente in ipotesi la più ampia gamma di soluzioni.

10. La difesa non contesta
l’obiettiva offensività del contenuto delle missive inviate dall’imputato ai
titolari di organi pubblici.

Ciò che viene
messo in discussione è la volontà di divulgare il contenuto delle missive a un
numero indeterminato di persone. Sul punto la sentenza impugnata fornisce una adeguata motivazione, osservando che l’imputato poteva
giovarsi di strumenti formali di contestazione di eventuali addebiti
disciplinari o di incapacità nell’assolvere le funzioni attribuite.

La prassi, invece, di inviare
missive ad organi pubblici, con la conseguente possibilità concreta della
conoscenza del loro contenuto da parte di una molteplicità di soggetti (quanto
meno i funzionari addetti agli uffici cui le missive erano indirizzate), si
pone al di fuori delle formalità proprie cui è tenuto il soggetto preposto a un
pubblico ufficio e pone in essere una condotta del tutto anomala, il cui
significato è stato correttamente inteso dalla sentenza impugnata come volontà
di portare a conoscenza di terzi espressioni offensive
del decoro della persona oggetto delle missive.

11. L’ultimo motivo di
ricorso concerne il difetto di motivazione relativo alle statuizioni civili.

Il motivo appare infondato, a
fronte della decisione della Corte d’appello che conferma anche in punto pena
la decisione di primo grado e ne fa proprie le statuizioni civili, già
sufficentemente argomentate dal primo giudice.

12. Non si pone problema di
prescrizione del reato in considerazione delle sospensioni della stessa (pari a
un anno, 2 mesi e 5 giorni), così che il termine
prescrizionale resta fissato al 29.5.2007 e non è stato superato.

13. In questo quadro il
ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna al pagamento delle
spese processuali.

Il rigetto del ricorso comporta
la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte
civile in questo grado di giudizio, che vengono
equitativamente liquidate in complessivi euro 2,500,00, oltre Iva e Cpa.

PQM

La Corte Suprema di
cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali nonché a rifondere alla costituita parte civile le spese del grado
liquidate in euro 2.500,00, oltre Iva e Cpa.