Penale
Procedimento penale avanti il Giudice di Pace e definizione per particolare tenuità del fatto. Con una elegante ordinanza il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega. N. 308 ORDINANZA (Atto di promovime
Procedimento penale avanti il Giudice di Pace e definizione per particolare tenuità del fatto. Con una elegante ordinanza il Tribunale di Torino solleva questione di legittimità costituzionale per eccesso di delega
N. 308 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 marzo 2003.
Ordinanza emessa il 6 marzo 2003 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Luongo Giuseppe Processo penale – Reati di competenza del giudice di pace – Esclusione della procedibilita’ nei casi di particolare tenuita’ del fatto – Introduzione di una ipotesi di rinuncia alla potesta’ punitiva dello Stato – Eccesso di delega. – Decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, art. 34. – Costituzione, art. 76. Processo penale – Reati di competenza del giudice di pace – Esclusione della procedibilita’ nei casi di particolare tenuita’ del fatto – Insufficiente determinatezza dei presupposti – Violazione dei principi di stretta legalita’, di soggezione del giudice soltanto alla legge e di obbligatorieta’ dell’esercizio dell’azione penale. – Legge 24 novembre 1999, n. 468, art. 17, lett. f); d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, art. 34. – Costituzione, artt. 25, comma secondo, 101, comma secondo, e 112. (GU n. 22 del 4-6-2003)
IL TRIBUNALE
Alla pubblica udienza del 6 marzo 2003 ha pronunciato la seguente
ordinanza nella causa penale contro Luongo Giuseppe, nato il 14
agosto 1967 a Torino, elettivamente domiciliato in Grugliasco (TO),
via San Gregorio Magno, 21, difeso di fiducia dall’avv. Giacomo
Gribaudi del foro di Torino, libero presente, imputato del reato di
cui all’art. 590, primo e terzo comma, c.p., commesso in Grugliasco
il 19 marzo 2001. Con la presenza della parte civile Gaglioti Rosina,
costituita in giudizio con il patrocinio dell’avv. Ercole Cappuccio
del foro di Torino.
Con atto di querela in data 21 marzo 2001 Gaglioti Rosina
chiedeva procedersi penalmente nei confronti di Luongo Giuseppe per
il delitto di lesioni personali colpose aggravate, in relazione ad un
sinistro stradale verificatosi in Grugliasco due giorni prima.
Concluse le indagini preliminari, il p.m. esercitava l’azione
penale nei confronti del Luongo con citazione diretta in data 24
settembre 2001.
All’udienza dibattimentale del 25 gennaio 2002 Gaglioti Rosina si
costituiva parte civile nei confronti dell’imputato.
All’udienza del 12 aprile 2002 venivano ammesse ed assunte le
prove documentali e orali. Rinviando alla lettura del verbale di
causa, e’ qui sufficiente sintetizzare come, secondo i testi
d’accusa, l’imputato avrebbe tamponato l’autovettura della Gaglioti
mentre costei procedeva a bassissima velocita’, essendo in procinto
di posteggiare l’auto sul margine sinistro della pubblica via; l’urto
sarebbe stato cagionato, sempre stando alle prove d’accusa, dalla non
sufficientemente moderata velocita’ con cui il Luongo si sarebbe
immesso nella via percorsa dalla Gaglioti, nel medesimo senso di
marcia, provenendo da una perpendicolare.
Esaminati anche l’imputato ed i testi a difesa, l’udienza e’
stata rinviata all’odierna udienza per la discussione finale.
In esito alla discussione delle parti questo giudice ritiene di
dover sollevare d’ufficio questione di legittimita’ costituzionale di
alcune norme, norme contenute nell’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, le
quali delineano, accanto alle possibilita’ definitorie del processo
di cui agli artt. 529 – 533 c.p.p., una nuova ed ulteriore via
tramite cui questo giudice potrebbe pervenire alla definizione del
procedimento: la declaratoria di esclusione della procedibilita’ per
c.d. «particolare tenuita’ del fatto».
A) In ordine alla rilevanza.
In esito all’espletata istruttoria dibattimentale e’ emerso che:
il danno cagionato dal reato, vale a dire l’entita’ delle
lesioni sofferte dalla persona offesa in conseguenza dell’urto,
sembra essere di particolare tenuita’: e’ assai significativo che la
stessa parte lesa, sentita in udienza, abbia completamente omesso di
menzionare il modesto «colpo di frusta» giudicato guaribile in giorni
sette dai sanitari che la visitarono (cfr. referto medico in atti) e
che costituisce l’unica lesione per cui si procede, e si sia invece
soffermata solo sulle preoccupazioni che ebbe a nutrire per il feto
che portava in grembo (preoccupazioni peraltro escluse dai sanitari);
l’occasionalita’ del fatto dovrebbe evincersi dalla stessa
natura colposa del reato per cui si procede, considerata unitamente
all’incensuratezza dell’imputato;
il grado della colpa (ove la si dovesse ritenere provata,
cio’ su cui non e’ lecito fare anticipazioni) e’ minimo, considerato
che lo stesso capo d’imputazione non individua violazioni
particolarmente gravi di norme disciplinanti la circolazione
stradale, ma addebita al Luongo semplicemente di aver tenuto una
velocita’ non sufficientemente contenuta in relazione alle
circostanze di luogo. Peraltro la sostanziale inesistenza di danni
materiali ai veicoli coinvolti (la Passat dell’imputato riporto’ uno
striscio sul paraurti anteriore, mentre dal paraurti della Renault 5
della parte civile cadde un pezzo di plastica che fu rimesso a posto
dal marito della stessa) e’ indicativa di un eccesso di velocita’ che
(ove pure sia stato effettivamente sussistente) fu in concreto assai
modesto;
non si dubita, infine, che l’ulteriore corso del
procedimento, anche in eventuali successivi gradi di giudizio,
arrecherebbe pregiudizio alle esigenze di lavoro dell’imputato, che
risulta occupato come operaio (cfr. cert. anagrafico in atti).
Sembrerebbero percio’ sussistere, almeno ad un primo esame, tutte
le condizioni previste dall’art. 34 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274
per la pronuncia di una sentenza dichiarativa della «particolare
tenuita’ del fatto» con conseguente esclusione della procedibilita’.
La citata disposizione, prevista in via generale per il
procedimento penale avanti al giudice di pace, e’ applicabile anche
da parte questo giudice in virtu’ della norma transitoria di cui
all’art. 63, d.lgs. n. 274/2000, che espressamente indica l’art. 34
dello stesso decreto fra le norme applicabili da parte di giudici
diversi dal giudice di pace qualora si trovino a giudicare di uno dei
reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (tra i quali
rientra il delitto di lesioni colpose conseguenti a sinistro
stradale).
Questo giudice dubita pero’ di poter dare in concreto
applicazione alle disposizioni di cui all’art. 34, d.lgs.
n. 274/2000, apparendo non infondati i seguenti sospetti di
incostituzionalita’.
B) In ordine alla non manifesta infondatezza.
1. – Violazione dell’art. 76 Cost.
L’art 34 del d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274 («Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace») trova il suo fondamento
nell’art. 17, lett. f), della legge 24 novembre 1999 n. 468, che nel
delegare il Governo ad emanare un decreto legislativo in materia di
competenza penale del giudice di pace ha previsto in particolare la
«introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento nei
casi di particolare tenuita’ del fatto e di occasionalita’ della
condotta, quando l’ulteriore corso del procedimento puo’ pregiudicare
le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute della
persona sottoposta ad indagini o dell’imputato».
Ad avviso di questo giudice il legislatore delegante, nel
prevedere un nuovo «meccanismo di definizione del procedimento»,
aveva inteso introdurre un rito semplificato in relazione a fatti di
particolare tenuita’ per i quali appariva eccessivamente dispendioso
percorrere l’iter dibattimentale, inevitabilmente complesso e
potenzialmente confliggente con le esigenze lavorative, di studio
ecc. dell’imputato.
Dal punto di vista dell’interpretazione meramente letterale va
osservato che il termine «definizione», nell’uso comune e nella
prassi giudiziaria, sta ad indicare ogni e qualsiasi modalita’ di
conclusione di un grado del procedimento, dalla declatatoria di
improcedibilita’ fino alla condanna.
Tale interpretazione letterale sembra trovare altresi’ fondamento
in una lettura sistematica della legge n. 468/1999, la quale non
prevede – se si esclude la disposizione dell’art. 17, lett. f) –
alcun meccanismo definitorio diverso dalla celebrazione del
dibattimento. In altre parole, mentre il processo penale avanti al
giudice togato consta di un’ampia gamma di riti alternativi, tutti
finalizzati al risparmio di tempo e risorse, il processo penale
avanti al giudice di pace presenterebbe la stortura di non
contemplare alcuno di tali riti deflattivi, con l’irragionevole
risultato di costringere le parti a percorrere fino in fondo
l’accidentata via dibattimentale proprio per reati di scarso allarme
sociale.
L’esempio piu’ evidente di questa stortura e’ rappresentato dai
numerosi reati contravvenzionali attribuiti alla competenza del
giudice di pace, per i quali non e’ piu’ prevista la possibilita’ di
concludere il procedimento con l’emissione del decreto penale di
condanna. In questa linea pare assai significativo osservare che nel
processo penale minorile, in cui la c.d. «irrilevanza del fatto» da’
sicuramente luogo all’adozione di una «sentenza di non luogo a
procedere» (art. 27, d.P.R. 448/1988), restano invece praticabili la
maggior parte de riti alternativi: cosi’ dicasi per il giudizio
abbreviato, il giudizio direttissimo ed il giudizio per decreto (cfr.
art. 25 decreto cit.).
Per tornare al giudice di pace, ecco allora che ove si interpreti
l’art. 17, lett. f), della legge delega n. 468/1999 nel senso di
delegare al Governo la previsione di un rito semplificato, il sistema
ne risulterebbe piu’ completo, armonico e ragionevole. E sembra
invece arbitraria la drastica identificazione, fatta dal legislatore
delegato all’art. 34 d.lgs. n. 274/2000, del concetto di
«definizione» del procedimento con una pura e semplice rinunzia alla
potesta’ punitiva dello Stato.
Sotto questo profilo, la ricordata norma dell’art. 34 appare
illegittima per contrasto con l’art. 76 Cost., nella misura in cui
travalica i limiti di oggetto e non si attiene ai criteri direttivi
fissati dal Parlamento, secondo l’interpretazione qui proposta
(«eccesso di delega»).
Questo giudice non si nasconde, peraltro, che le opinioni
prevalenti sono nel senso di vedere nel meccanismo di cui all’art.
17, lettera f), della legge delega proprio uno strumento «deflattivo»
operante indefettibilmente come rinuncia alla potesta’ punitiva
statuale. Secondo questa interpretazione, l’art. 34, d.lgs.
n. 274/2000 sarebbe allora correttamente attuativo della delega
conferita dal Parlamento, con la conseguenza che eventuali dubbi di
incostituzionalita’ non possono non investire, unitamente al piu’
volte citato art. 34, anche l’art. 17, lett. f), della legge-delega.
Tali profili di incostituzionalita’ sono:
2. – Violazione degli artt. 25, comma 2, 101, comma 2, e 112
della Costituzione.
Lungi dal voler affrontare una troppo complessa disamina della
portata dei principi espressi dalle indicate norme costituzionali, il
remittente osserva come dette disposizioni consacrino, a livello
costituzionale, un sistema di supremazia e inderogabilita’ della
legge penale che esclude ogni discrezionalita’ applicativa da parte
del potere giudiziario: se e’ vero che ciascuno puo’ essere punito
solo laddove abbia commesso un fatto conforme ad una fattispecie
tipica prevista dalla legge (art. 25 comma 2), e’ altrettanto vero,
specularmente, che ogniqualvolta sia commesso un «fatto tipico»
l’autore deve essere assoggettato a sanzioni penali: il pubblico
ministero e’ obbligato ad esercitare nei suoi confronti l’azione
penale (art. 112), ed il giudice, soggetto solo alla legge (art. 101
comma 2), una volta accertata la conformita’ della condotta alla
norma incriminatrice deve applicare le sanzioni previste
dall’ordinamento.
L’art. 34, d.lgs. n. 274/2000, invece, demanda al giudice di
determinare, caso per caso, se l’esercizio dell’azione penale, pur in
presenza di un fatto tipico, «sia ingiustificato rispetto
all’interesse tutelato», sulla scorta dei seguenti indici: esiguita’
del danno o pericolo, occasionalita’ del fatto, grado della
colpevolezza.
Appare subito evidente come la formulazione usata dal legislatore
urti contro i principi costituzionali sopra ricordati: laddove un
fatto sia conforme alla fattispecie astratta prevista dal
legislatore, quel fatto e’ per definizione lesivo dell’interesse
tutelato dall’ordinamento, e non vi e’ spazio perche’ il giudice
dichiari invece che l’esercizio dell’azione penale e’
«ingiustificato».
E’ noto che questo principio soffre di eccezioni, costituite
dalle numerose «cause di non punibilita», di ordine generale o
speciale, oggetto di plurime previsioni all’interno dell’ordinamento
penale. Una trattazione esaustiva di tali cause di non punibilila’
non e’ probabilmente possibile ne’ necessaria in questa sede; ma e’
sufficiente un breve richiamo alle due principali categorie, le c.d.
cause di giustificazione (artt. 50 – 54 c.p.) e le c.d. cause di
esclusione dell’imputabilita’ (artt. 85 – 98 c.p.) per apprezzare il
fondamentale carattere ad esse comune: la predeterminazione
legislativa dei requisiti di applicabilita’ delle cause di non
punibilita’. In altre parole, nelle citate due grandi categorie la
decisione del giudice e’ strettamente vincolata dall’esistenza di
rigide condizioni normativamente previste, onde il giudice, anche
quando dichiara, per esempio, la non punibilita’ di chi ha agito per
legittima difesa ovvero in condizioni di totale infermita’ mentale,
rimane integralmente soggetto alla legge (art. 101, comma 2, Cost.).
Il problema dunque e’ quello di verificare se anche l’art. 34
d.lgs. n. 274/2000, nell’attribuire al giudice il potere di
dichiarare l’improcedibilita’ dell’azione penale per la «particolare
tenuita’ del fatto», definisca effettivamente le condizioni di
esercizio di tale potere.
Ad avviso di questo giudice la risposta deve essere negativa,
giacche’ i criteri previsti dal citato art. 34 sono meramente
apparenti ed insuscettibili di dar luogo ad un’applicazione pratica
che non sfoci nell’arbitrio. Piu’ in dettaglio:
l’esiguita’ del danno o del pericolo. Nel nostro sistema
penale essa non puo mai essere motivo di rinuncia all’esercizio
dell’azione penale, esercizio che e’ precluso soltanto laddove il
danno o il pericolo siano non gia’ esigui ma, piu’ radicalmente,
assenti. Al riguardo assume la valenza di principio generale la
disposizione dell’art. 49, comma 2, c.p. che, in piena coerenza col
sistema, esclude la punibilita’ nei casi di «inidoneita’ dell’azione
o inesistenza dell’oggetto di essa». Al contrario, il sistema penale
pullula di disposizioni che, in presenza di un danno o pericolo
particolarmente lieve, prevedono non gia’ l’esenzione da pena, ma
solo la sua attenuazione: artt. 62 n. 4, 323-bis, 648 comma 2, c.p. e
molte altre. Nel caso previsto dall’art. 34, d.lgs. n. 274/2000,
invece, si richiede al giudice di procedere ad una determinazione –
concettualmente e operativamente impossibile se non con un atto di
mero arbitrio – in virtu’ della quale il danno da reato, pur
sussistente, sarebbe cosi’ esiguo da sfuggire a sanzione penale; in
virtu’ della quale la modestia del danno si trasformerebbe
incomprensibilmente in «assenza» di danno. Si torna a ripetere che
questo e’ un criterio di valutazione soltanto apparente, che finisce
per lasciare il giudice solo con se’ stesso;
l’occasionalita’ del fatto. Anche in questo caso la fluidita’
della formula legislativa si presta ad inammissibili applicazioni
discrezionali. L’interprete potrebbe di volta in volta ricondurre
all’ipotesi del fatto occasionale quel fatto che sia commesso senza
premeditazione, o meglio con «dolo d’impeto» (il carattere
dell’occasionalita’ dovrebbe percio’ riconoscersi a tutti i delitti
colposi?); ovvero il fatto commesso da un incensurato o quanto meno
da un agente che non sia recidivo specifico. Ma altri potrebbero
considerare «occasionale» anche il fatto commesso da un recidivo
specifico, purche’ ad una cospicua (ma non legalmente determinata)
distanza di tempo dal reato precedente …
L’impossibilita’, alla stregua della formulazione normativa, di
delineare in modo preciso il concetto di occasionalita’ e’ un aspetto
tutt’altro che secondario, perche’ dalla delimitazione di tale
concetto non dipende (come normalmente avviene) solo il
riconoscimento delle attenuanti generiche, ovvero l’irrogazione di
una pena particolarmente mite a norma dell’art. 133 comma 1 n. 3) e
comma 2 n. 2) c.p., bensi’, assai piu’ drasticamente, la
delimitazione dell’ambito del penalmente rilevante rispetto a cio’
che rilevante non e’. L’impossibilita’ di definire in modo
sufficientemente predeterminato il concetto di «occasionalita» si
traduce dunque, ad avviso del remittente, in una violazione dell’art.
25, comma 2, Cost. Puo’ forse essere significativo, in termini di
raffronto, considerare il ben diverso livello di determinatezza
normativa che il legislatore ha avuto cura di assicurare, in tema di
sospensione condizionale della pena, all’art. 164 c.p.: tale norma
disciplina non gia’ la rinuncia definitiva alla potesta’ punitiva
statuale, bensi’ – piu’ modestamente – la sospensione (revocabile) di
essa; cionondimeno il legislatore ha fissato tassativamente al comma
2 i requisiti soggettivi, senza accontentarsi del concetto, troppo
indeterminato, di «occasionalita»;
il «grado della colpevolezza» presenta le medesime
difficolta’ sin qui evidenziate. In primo luogo va osservato che il
termine «colpevolezza» designa un risultato della valutazione del
giudice, e cioe’ l’attribuzione di responsabilita’ per un determinato
reato. In questo senso, la colpevolezza o esiste o non esiste, ed e’
insuscettibile di «gradi». Sembra pertanto che la locuzione
utilizzata dal legislatore debba essere intesa come equivalente della
locuzione di cui all’art. 133, comma 1, n. 3 c.p.: «intensita’ del
dolo o grado della colpa».
Se cosi’ e’, tornano a riproporsi le stesse perplessita’ esposte
con riferimento all’esiguita’ del danno: o dolo e colpa sussistono,
per quanto poco intensi, ed allora l’esercizio dell’azione penale non
puo’ ritenersi «ingiustificato»; ovvero non sussistono, ed allora
l’imputato dovra’ essere assolto «perche’ il fatto non costituisce
reato». In nessun modo il giudice potra’ compiere da solo, senza una
piu’ precisa guida normativa, quel salto – concettualmente
impossibile – che porta a trasformare una colpa lieve in assenza di
colpa.
Si e’ gia’ accennato, piu’ sopra, al fatto che il nostro
ordinamento conosce gia’ da molti anni, nel processo penale minorile,
l’istituto della sentenza di non doversi procedere per irrilevanza
del fatto (art. 27 d.P.R. 448/1988). Tale circostanza, ad avviso del
remittente, non puo’ tuttavia avere alcuna influenza sulla decisione
del quesito che ora si pone, perche’ l’istituto di cui all’art. 27
cit. trova applicazione all’interno di un sistema, quello minorile,
che e’ profondamente «altro» rispetto a quello in vigore per gli
imputati maggiorenni. In quel sistema, tutto ispirato alla
centralita’ della tutela del minore, vigono valori autonomi e possono
giustificarsi, alla luce di principi costituzionali specifici come
quello di cui all’art. 31 cpv. Cost., anche deviazioni da altri
principi costituzionali che restano invece inderogabili nei restanti
rami dell’ordinamento penale.
La questione che precede e’ gia’ stata sottoposta alla Corte
costituzionale da questo giudice con ordinanza del 23 maggio 2002; la
Corte, con ordinanza n. 34 del 16 gennaio/24 febbraio 2003, l’ha
dichiarata manifestamente inammissibile, perche’ i sopra esposti
profili di incostituzionalita’ erano stati presentati unitamente ad
altri (qui omessi) che avevano finito col rendere contraddittorio il
quesito posto alla Corte.
Nell’inchinarsi a tale decisione questo giudice non puo’ non
rilevare, tuttavia, il permanere dei dubbi di illegittimita’
costituzionale esposti nelle pagine che precedono, onde reputa
doveroso adire nuovamente la Corte costituzionale.