Famiglia

Tuesday 12 January 2010

Non costituisce causa di addebito l’aver taciuto da parte del coniuge circa l’esistenza di impotenza

Cassazione civile , sez. I, 19 marzo 2009, n. 6697

                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                  
                        SEZIONE PRIMA CIVILE                        
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                           
Dott. LUCCIOLI  Maria Gabriella                     Presidente    
Dott. SALVAGO   Salvatore                      rel. Consigliere   
Dott. PANZANI   Luciano                             Consigliere   
Dott. SCHIRO’   Stefano                             Consigliere   
Dott. GIANCOLA  Maria Cristina                      Consigliere   
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                       
sul ricorso 26247/2005 proposto da:
       F.C., elettivamente domiciliata in ROMA, FORO  TRAIANO  1/a,
presso  l’Avvocato  COSMELLI GIORGIO, che la  rappresenta  e  difende
unitamente all’Avvocato BORSACCHI STEFANO, giusta procura  a  margine
del ricorso;
                                                       – ricorrente –
                               contro
                      G.Z.D.N., elettivamente domiciliato in  ROMA,
VIA   ATTILIO  FRIGGERI  106,  presso  l’avvocato  TAMPONI   MICHELE,
rappresentato e difeso dall’avvocato CESARONI MASSIMO, giusta procura
a margine del controricorso;
                                                 – controricorrente –
avverso  la  sentenza n. 500/2005 della CORTE D’APPELLO  di  FIRENZE,
depositata l’08/03/2005;
udita  la  relazione  della causa svolta nella pubblica  udienza  del
27/01/2009 dal Consigliere Dott. SALVAGO SALVATORE;
udito, per la ricorrente, l’Avvocato COSMELLI GIORGIO, che ha chiesto
l’accoglimento del ricorso;
udito  il  P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale  Dott.
SORRENTINO  Federico, che ha concluso per l’accoglimento del  ricorso
per quanto di ragione.
                 


 

   

Inizio documento

Fatto

Il Tribunale di Firenze, con sentenza del 3 marzo 2003 pronunciò la separazione personale dei coniugi G.Z.D.N. e F.C., addebitandola al marito, che condannò a corrispondere alla moglie un assegno mensile di Euro 900,00.
In accoglimento dell’impugnazione del Z.G., la Corte di appello di Firenze, con sentenza dell’8 marzo 2005, ha invece addebitato la separazione al comportamento della moglie osservando:
a) che l’addebito a carico del marito di non averle rivelato di essere affetto da impotenza generandi non poteva ritenersi dimostrato nè dalla prova testimoniale assunta, nè dalla mancata prestazione dell’interrogatorio formale da parte del coniuge, in quanto alcuni testi si erano limitati a riferire i fatti narrati dalle stesse parti, mentre altri avevano dimostrato di non conoscerli a sufficienza. E perchè la stessa prova appariva non credibile dato che la F., dopo aver appreso dell’affezione del marito, non si era avvalsa del rimedio dell’annullamento del matrimonio di cui all’art. 122 c.c., ma aveva atteso circa due anni per intraprendere il giudizio di separazione, perciò con finalità meramente strumentale; b) che invece era fondato l’addebito di infedeltà rivolto dal G.Z. alla moglie perchè documentato dalle testimonianze addotte da quest’ultimo, una delle quali era stata resa proprio dall’uomo con cui la F. era stata sorpresa nella casa coniugale;e perchè proprio in seguito a quest’evento era cessata la convivenza tra i coniugi.
Per la cassazione della sentenza F.C. ha proposto ricorso per 3 motivi, illustrati da memoria; cui resiste il G.Z. con controricorso.

Inizio documento

Diritto

Con il primo motivo, la ricorrente, deducendo violazione degli art. 2697 c.c., artt. 116, 232, 253 e 257 c.p.c., nonchè omessa motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta che la sentenza impugnata sia incorsa in un’errata valutazione delle risultanze della prova testimoniale rivolta a dimostrare che il marito le aveva taciuto la propria impotenza, in quanto: a) aveva ritenuto che le deposizioni di due testi in contrasto si eliminassero a vicenda, senza avvedersi che quella della propria madre era invece confermata dall’altra resa dalla sorella del marito; b) aveva considerato insufficienti le altre testimonianze solo perchè i testi si erano limitati a confermare i capitolati senza saper aggiungere notizie sul comportamento successivo dei coniugi e perchè essa ricorrente aveva privilegiato il giudizio di separazione a quello di nullità del matrimonio: malgrado dette circostanze fossero del tutto ininfluenti per stabilire l’attendibilità dei testi e all’intera prova dedotta; c) non aveva attribuito alcun valore probatorio al rifiuto della controparte di rendere l’interrogatorio formale, pur ammesso un anno prima dell’udienza fissata, ancora una volta senza alcuna motivazione.
Il motivo è fondato.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che il vizio di motivazione deducibile con il ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte: in quanto sono riservati esclusivamente a quest’ultimo l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, potendo egli privilegiare, in via logica, alcuni mezzi di prova e disattenderne altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato.
Ha specificato altresì che anche la valutazione delle risultanze della prova testimoniale e il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla loro credibilità involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra alcun limite se non quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare ogni deduzione difensiva (Cass. 1554/2004; 1291272004;
16034/2002).
Ha tuttavia avvertito che il convincimento di detto giudice deve necessariamente realizzarsi attraverso l’apprezzamento di tutti gli elementi probatori acquisiti, considerati nel loro complesso; e che la relativa valutazione non può limitarsi all’esame isolato dei singoli elementi ma deve essere globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica che, ove immune da vizi di motivazione, diviene incensurabile in sede di legittimità. Per cui, se è vero che al giudice di merito è attribuito un ampio potere discrezionale al riguardo nel senso che è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove o risultanze di prove che ritenga più attendibili ed idonee alla formazione dello stesso, non gli è invece consentito di fondarlo sull’esame isolato di singoli elementi istruttori, nonchè di ritenere ciascuno insufficiente a fornire ragionevole certezza su una determinata situazione di fatto: dovendo il relativo giudizio derivare da una organica e complessiva valutazione di essi nel quadro unitario dell’indagine probatoria (Cass. 10650/2008; 4373/2003; 9504/1987; 6460/1982).
Proprio nella violazione di detto principio, ricavato dall’art. 116 c.p.c. è incorsa la sentenza impugnata, la quale ha riferito nella parte dedicata allo svolgimento del processo che in ordine alla impotentia generandi del G.Z., pacifica in punto di fatto, ma taciuta alla moglie secondo la richiesta di addebito, per un anno e mezzo dopo la celebrazione del matrimonio, erano stati escussi numerosi testi sia di parte attrice che del convenuto, ed ammesso l’interrogatorio formale di quest’ultimo, che non era stato reso. Per poi frazionare l’esame delle risultanze in tal modo acquisite, isolando anzitutto le testimonianze che avevano riferito su fatti e circostanze per esserne stati i testi informati da una delle parti (c.d. testi de relato), passare quindi alla valutazione separata delle altre, e ritenere infine superflua quella relativa alla mancata presentazione dell’appellante all’interrogatorio formale, che pur doveva concorrere per il disposto dell’art. 232 c.p.c., alla formazione, in positivo o in negativo, del convincimento del giudice.
Ma, anche all’interno di ciascuna categoria, la Corte ha disapplicato i principi che disciplinano la relativa prova: in quanto ha anzitutto ritenuto in assoluto prive di qualsiasi rilevanza probatoria le prime in quanto testimonianze “de relato ex parte”, e quindi da espungere, dopo avere riconosciuto, da un lato che “soprattutto in materia di separazione personale, l’accertamento delle condotte rilevanti ai fini dell’addebito può anche avvenire esclusivamente per il tramite di testimonianze indirette, giacchè è noto come in materia di separazione i fatti oggetto di prova attengono per lo più a comportamenti intimi e riservati delle parti non suscettibili di percezione diretta da parte dei testimoni” (pag. 7). Ed avere, dall’altro, ricordato la giurisprudenza di legittimità (pag. 6-7), non conforme al principio applicato almeno nella sua assolutezza:
avendo questa Corte ripetutamente affermato che la deposizione “de relato ex parte actoris” non ha alcun valore probatorio, nemmeno indiziario, soltanto se riguardata di per sè sola. Ma che, soprattutto in tema di separazione dei coniugi e di nullità del matrimonio, dette deposizioni possono concorrere a determinare il convincimento del giudice, ove valutate in relazione a circostanze obiettive e soggettive o ad altre risultanze probatorie che ne suffraghino il contenuto, specie quando la testimonianza attenga a comportamenti intimi e riservati delle parti, insuscettibili di percezione diretta dai testimoni o di indagine tecnica: quale è sicuramente l’intendimento di un coniuge di dar notizia all’altro delle patologie di cui soffre (Cass. 11844/2006; 2815/2006).
Non è comprensibile poi perchè “il caso concreto” (pag. 7) abbia indotto la Corte a discostarsi da detti principi ed a concludere che le testimonianze della madre della F. e della sorella di controparte dovessero “in pratica elidersi a vicenda” (pag. 8): quasi che al giudice di merito fosse devoluto il compito meramente aritmetico di procedere alla somma algebrica delle deposizioni che affermano la sussistenza di un fatto, e di quelle che lo disconoscono; si da ritenere raggiunta la prova solo se le prime risultano numericamente maggiori delle seconde. E da considerare le stesse in caso di parità tamquam non essent.
Al contrario, pur se con l’affermata “elisione a vicenda” la sentenza impugnata abbia inteso evidenziare che le due deposizioni avevano affermato circostanze tra di esse incompatibili, il compito del giudice di merito non poteva arrestarsi al calcolo strettamente numerico di esse in ordine al dato oggettivo del contrasto, ma doveva anzitutto accertare, con adeguata motivazione, se le deposizioni vertevano effettivamente sulle medesime circostanze di fatto; e quindi se il contrasto non risultasse superabile sulla scorta delle ulteriori risultanze istruttorie altresì idonee a dimostrare l’attendibilità di taluno dei testi. E soltanto se la Corte avesse rilevato affermazioni in sè non veritiere, reticenti, inverosimili o contrastanti con le altre risultanze istruttorie, tali da indurre ad un giudizio di inattendibilità della teste di parte attrice o di entrambe, detto giudizio avrebbe potuto riverberarsi in danno della F. su cui gravava l’onere della prova, comportando che nessun elemento poteva ricavarsi dall’una e/o dall’altra a conferma della circostanza che con essa si intendeva dimostrare (Cass. 6760/2003, – 5133/1999).
Ancor più incongrua dal punto di vista dei principi che regolano la prova testimoniale è la (separata) successiva valutazione degli altri testi escussi nel giudizio di merito di cui la sentenza ha valutato soltanto due deposizioni (testi B. e M.) che pur avevano confermato la circostanza dedotta dall’attrice nel capitolate, che il marito le aveva rivelato l’affezione soltanto un anno e mezzo dopo la celebrazione del matrimonio: dopo avere premesso, infatti, che gli stessi “in prima battuta” dovevano considerarsi immuni da sospetti di inattendibilità, la sentenza è pervenuta contraddittoriamente all’opposta conclusione della loro inattendibilità perchè alla conferma suddetta non avevano saputo aggiungere, neppure su sollecitazione del giudice o della parte interessata, circostanze di contorno alla rivelazione del G. Z. della sua affezione alla moglie:quali discussioni o litigi tra i coniugi, eventuali tentativi di avviare indagini e terapie atte a risolvere il problema.
Ha poi ritenuto che detta prova era comunque inidonea a documentare la tardiva conoscenza da parte della F. dell’impotenza generandi del marito, e comunque poco credibile, perchè costei pur avendo a disposizione il rimedio radicale tranciante costituito dall’azione di nullità del matrimonio di cui all’art. 122 c.c., non se ne era avvalsa nell’anno successivo alla scoperta dell’errore; ed aveva invece atteso che il marito prendesse l’iniziativa di interrompere la convivenza coniugale per proporre ben un anno e mezzo dopo la conoscenza della circostanza il ricorso per separazione personale.
Ma per smentire il regime di aprioristica valutazione negativa di credibilità presunto in modo assoluto dalla prima di esse, basta contrapporvi l’ipotesi egualmente plausibile, ma non considerata dalla sentenza, in cui alla effettiva rivelazione dell’impotenza di uno dei coniugi non segua “alcuna circostanza di contorno”, quale un litigio o una violenta discussione tra di essi, o ancora l’ipotizzato ricorso a diagnosi e terapie idonee a risolvere il problema nel caso, peraltro, giustificabile dalla stessa professione del portatore dell’affezione, che era un medico, perciò verosimilmente a conoscenza del suo carattere irreversibile. Ovvero, per converso, quella, pur essa trascurata dalla Corte di appello, di reale non conoscenza da parte di soggetti estranei al nucleo familiare di discussioni e reazioni che si siano esaurite soltanto all’interno di esso, e che ben possono non essere esternate dai coniugi neanche ai parenti più prossimi: come dimostra proprio la deposizione resa dalla madre del controricorrente, a conoscenza soltanto della patologia di cui era affetto il figlio (pag. 19 controric.), senza che per questo alcun soggetto del processo ne abbia posto in dubbio l’attendibilità.
Ma il giudizio di insufficienza dell’apporto delle due deposizioni appare altresì viziato da manifesta illogicità per il fatto che la sentenza non ha anzitutto specificato se il giudice o alcuna delle parti abbiano effettivamente chiesto ai testi suddetti, oltre che confermare il capitolato di prova, di riferire sulle menzionate “circostanze di contorno” e su quali di esse; ed ha poi limitato l’esame delle risultanze della prova alle menzionate due deposizioni soltanto, ignorando del tutto, senza spiegarne la ragione, le altre:taluna delle quali, interamente trascritta nel ricorso, proveniva da soggetti informati direttamente dei fatti di causa e che avevano riferito proprio in ordine alla impotenza generandi del dott. G.Z.. E soprattutto omettendo di apprezzare la mancata presentazione di quest’ultimo per rendere l’interrogatorio ammesso dal primo giudice, dal quale la Corte di merito, come si evince dai relativi capitolati trascritti dalla ricorrente, avrebbe potuto trarre le circostanze di contorno ricercate nell’ambito delle risultanze della prova orale.
Per cui il parametro di valutazione di detto mezzo istruttorio si rivela del tutto illogico e finisce per conseguire il solo effetto di limitare ingiustificatamente il diritto alla prova della F., che costituisce nucleo essenziale del suo diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost.).
Si deve aggiungere che neppure la sentenza impugnata vi si è attenuta allorchè ha giudicato pienamente attendibile il teste di controparte che ha confermato pur con numerose reticenze il rapporto extraconiugale intrattenuto con la F. e scoperto proprio dal marito:malgrado neppure questo teste abbia saputo riferire nè delle reazioni di costui, nè di successive discussioni o litigi avvenuti tra i coniugi in seguito all’accadimento, pur considerato dalla decisione di tale gravità da avere determinato esso solo la frattura del matrimonio.
Appare, allora, necessario ribadire che la valutazione della prova, anche con riguardo all’attendibilità delle fonti della medesima, deve essere compiuta, anzitutto, con riguardo alla formulazione ed al contenuto dei capitoli articolati dalla parte nonchè alla effettiva conoscenza che di essi mostri di avere il teste, e non già in funzione di eventuali domande integrative allo stesso rivolte durante la sua escussione, dirette solo a “chiarire” i fatti da provare; e quindi ancora una volta essere condotta sulla base della presa in considerazione dell’intero contesto di tutti gli elementi acquisiti nel processo, e non muovendo da moduli o schemi aprioristicamente precostituiti e fondati su incontrollati indici di probabilità per rivelarne l’inverosimiglianza. I quali finiscono con il perdere qualsiasi riferimento all’oggetto specifico del giudizio e, limitando alla parte il potere processuale di rappresentare al giudice la realtà dei fatti ad essa favorevole, con il negare o restringere il diritto, attribuito dal menzionato precetto costituzionale, di esibire i mezzi rappresentativi di quella realtà.
Le medesime considerazioni valgono, a fortiori, per la seconda ragione di disvalore, questa volta rivolta dalla Corte territoriale nei confronti della “credibilità” dell’intera prova testimoniale offerta dalla F.: esclusa ancor più illogicamente non già in base al contenuto delle dichiarazioni di ciascun teste, ovvero per la irrilevanza e non pertinenza dei capitolati rispetto ai fatti da provare, bensì per la strategia processuale perseguita dalla parte, che non si era avvalsa dell’azione di nullità concessa dall’art. 122 c.c., preferendo, invece, attendere un lungo lasso di tempo per poi intraprendere la separazione giudiziale di cui all’art. 151 c.c.. La quale non è invece sindacabile dal giudice l tenuto esclusivamente a verificare se la parte si sia attenuta al principio dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., che pone a suo carico l’onere di provare i fatti dedotti a fondamento di qualsiasi azione prescelta; ma nel contempo attribuisce esclusivamente alla stessa parte (salvo i casi tassativamente previsti d’iniziativa “ex officio” del giudice) la facoltà di indicare gli elementi di prova ritenuti utili a sostegno delle proprie domande ed eccezioni.
E fra dette prove rientra a pieno titolo quella testimoniale, che la legge ordinaria garantisce in modo effettivo, per cui alla Corte di appello non era consentito, attraverso un giudizio globale di non credibilità della stessa, peraltro in contrasto con quella di attendibilità dei singoli testi, di limitare in concreto l’esclusivo ed incoercibile potere dispositivo della parte di ricorrere ad essa:potendo detta limitazione provenire soltanto dal legislatore in ipotesi espressamente individuate e preventivamente disciplinate, che qui pacificamente non ricorrono, peraltro in presenza di esigenze di ®salvaguardia di altri diritti o altri interessi giudicati degni di protezione in base a criteri di reciproco coordinamento (Corte Cost.
53/1966; 112/1970; /1974).
L’inammissibile giudizio in questione ha per di più violato proprio le disposizioni degli artt. 122 e 151 c.c., che la sentenza impugnata intendeva applicare: perchè il diritto previsto in favore del coniuge incolpevole dalla prima di esse, per la situazione di vantaggio che attribuisce al suo titolare, comprende necessariamente tanto la facoltà di esercitare l’azione di nullità, quanto quella di non avvalersene. Siffatta facoltà non può perciò trasformarsi in conseguenza di tale seconda opzione, nella violazione di un obbligo o in inadempimento ed esporlo a sanzione: quale è la sostanziale improponibilità con il supporto di una prova testimoniale (in quanto ritenuta “singolare… non credibile, o…strumentale…”) della richiesta di separazione con addebito; la quale è egualmente accordata dall’art. 151 c.c., qualunque sia il motivo che induce detto coniuge a privilegiarla e pur se le ragioni della scelta siano meramente economiche, essendo le stesse espressamente previste e giustificate dal successivo art. 156 c.c..
Ed infine il convincimento dell’infondatezza di detta azione è stato raggiunto senza neppur valutare il rifiuto del G.R. di presentarsi nell’udienza già fissata da circa un anno per l’interrogatorio di cui si è detto, avendo la Corte di appello sbrigativamente ed incomprensibilmente dichiarato il mezzo “superato”, senza alcun’altra specificazione.
Ora, è vero che in caso di mancata risposta della parte all’interrogatorio formale, per il disposto dell’art. 232 c.p.c., il giudice non ha l’obbligo, come per la confessione, ma soltanto la facoltà di considerare i fatti dedotti con tale mezzo istruttorie come ammessi e quindi vincolanti ai fini della decisione (Cass. 3258/2007; 9254/2006). Sennonchè tale mancata risposta rappresenta un fatto qualificato, riconducibile al più ampio ambito del comportamento della parte nel processo e destinato dalla menzionata norma a fornire elementi di giudizio integrativi, idonei a determinare il convincimento del giudice sui fatti dedotti nell’interrogatorio medesimo; ed anche ad indurlo a riconnettere valore di ammissione dei fatti dedotti e così di prova secondo il suo prudente apprezzamento. E d’altra parte l’inciso “valutato ogni altro mezzo di prova” nel contesto della disposizione richiamata¯, considera nel contempo tale comportamento omissivo come circostanza da valutare nel più ampio quadro degli altri elementi probatori acquisiti (di cui deve comunque darsi menzione con enunciazione delle ragioni che sorreggono l’apprezzamento), e la relativa valutazione quale elemento concorrente necessario per la formazione del convincimento del giudice: perciò istituendo un collegamento necessario tra la valutazione stessa e l’apprezzamento positivo o negativo sull’efficacia della mancata o rifiutata risposta all’interrogatorio (Cass. 22407/2006; 9839/1996; 1264/1995).
Consegue che il giudice può negare ad essa qualsiasi valore, qualora ritenga che i fatti dedotti non siano suffragati da alcun elemento di riscontro, ma non prescindere dalla sua valutazione e raggiungere aliunde e senza di essa un giudizio sfavorevole in ordine alla prova dei fatti gravante sulla parte per poi evidenziare la superfluità dell’apprezzamento: come ha fatto nel caso concreto la Corte di appello. Così come, per converso, non può esercitare il potere discrezionale attribuitogli dalla norma in senso positivo o negativo senza adeguata motivazione, che renda palese che il risultato non è frutto di arbitrio, ma di una ponderata comparazione eseguita nel più ampio quadro degli altri elementi probatori acquisiti (di cui deve comunque darsi menzione con enunciazione delle ragioni che sorreggono l’apprezzamento), in tal modo dimostrando di averne saggiato la complessiva consistenza e la logicità (Cass. 27320/2005).
Per cui il giudice di rinvio dovrà, per un verso, procedere ad una nuova organica e complessiva valutazione dei vari elementi probatori acquisiti, considerandoli nel loro complesso, e non isolando l’esame di singoli elementi, quasi che solo da ciascuno di essi dovesse trarsi la ragionevole certezza sulla situazione di fatto dedotta dalla ricorrente; e dall’altro attenersi ai principi fin qui esposti nell’esame specifico di ciascuna risultanza pur nell’ambito del quadro unitario dell’indagine probatoria.
Le considerazioni svolte comportano l’accoglimento (nei limiti che seguono, anche del secondo motivo del ricorso con cui la F., deducendo violazione degli artt. 151 e 143 c.c., nonchè omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, si duole: a) che la sentenza abbia attribuito rilevanza decisiva all’episodio del proprio tradimento (anche se lo si volesse ritenere provato) senza considerare che si trattava di una condotta isolata;
che neppure controparte aveva in esso ravvisato una stabile relazione extraconiugale; b) che detto comportamento doveva comunque essere contrapposto alla precedente violazione da parte del marito, risultando anche temporalmente successivo rispetto alla stessa e del tutto ininfluente rispetto alla frattura del matrimonio già verificatasi; c) che la Corte di appello era invece venuta meno alla valutazione comparativa delle condotte di entrambi i coniugi richiesta dalla giurisprudenza di legittimità cancellando dalla realtà processuale quanto era accaduto tra i coniugi per avere lo Z.R. taciuto della propria impotenza generandi e si era soffermata esclusivamente sull’episodio del rapporto da essa avuto con il teste S. senza saggiarne l’efficienza causale in ordine alla separazione se non sotto il profilo temporale; senza avvedersi che anche dopo questa condotta i coniugi avevano continuato per diversi mesi la convivenza, durante la quale essa aveva ricevuto numerosi regali dal marito; ed infine che costui, malgrado il carattere irascibile e violento non aveva adottato alcuna iniziativa in merito alla separazione richiesta esclusivamente da lei quasi un anno dopo l’episodio suddetto.
Vero è infatti che la sentenza impugnata (questa volta) ha valutato in modo unitario le risultanze della prova testimoniale offerta al riguardo dal G.Z., che hanno confermato il rapporto intrattenuto dalla moglie con il teste S. nella casa coniugale ove il controricorrente li aveva sorpresi nel corso di una sera del mese di (OMISSIS), rientrando prima dell’orario previsto; ed ha accertato con apprezzamento incensurabile in questa sede di legittimità che l’errore di indicazione del giorno da parte di quest’ultimo, sul quale è incentrata quasi esclusivamente la doglianza, non poteva giovare alla ricorrente una volta stabilita la realtà storica dell’episodio, che d’altra parte neppure costei ha potuto specificamente contestare.
La giurisprudenza tuttavia ha ripetutamente affermato il principio, ormai del tutto consolidato, che il giudice non può fondare la pronuncia di addebito sulla mera inosservanza dei doveri di cui all’art. 143 c.c., dovendo, per converso, verificare l’effettiva incidenza delle relative violazioni nel determinarsi della situazione di intollerabilità della convivenza. Ed il collegio deve ribadire che, contrariamente all’opinione espressa dalla Corte di appello, a tale regola non si sottrae l’infedeltà di un coniuge, la quale può essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, e non anche, qualora risulti non aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza medesima:come avviene allorquando il giudice accerti la preesistenza di una rottura già irrimediabilmente in atto, dovuta al comportamento dell’altro coniuge ovvero ad altre ragioni; e comunque del tutto autonoma ed indipendente dalla successiva violazione del dovere di fedeltà (Cass. fin da sez. un. 2494/1982, nonchè 1198/1984; e da ult. Cass. 25618/2007; 13592/2006;
8512/2006).
Da qui il potere-dovere del giudice del merito di procedere ad un accertamento rigoroso e ad una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, onde stabilire se l’infedeltà di un coniuge (come in genere ogni altro comportamento contrario ai doveri del matrimonio) possa essere rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione, essendo stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, ovvero se non risulti aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza.
Siffatta valutazione era poi nel caso ineludibile perchè la F. aveva denunciato l’omessa informazione, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità “generandi”, in violazione dell’obbligo di lealtà: perciò lesiva del suo diritto alla autonoma determinazione al matrimonio ed alle aspettative di armonica vita sessuale nella sua proiezione verso la procreazione, costituente una dimensione fondamentale della persona nonchè una delle finalità del matrimonio (Cass. 9801/2005; 4671/1996; 6607/1986), e perchè questo il Collegio ha accolto il primo motivo del ricorso inerente all’erroneo apprezzamento di tale addebito a carico del marito, da parte della sentenza impugnata.
Per cui il giudice di rinvio dovrà anzitutto accertare, nei limiti innanzi precisati, se è stato leso il diritto fondamentale della F. di realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie ed eventualmente come madre; e quindi procedere in ogni caso ad un accertamento rigoroso e ad una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, non potendo la condotta dell’uno essere giudicata senza un suo raffronto con quella dell’altro, posto che solo tale comparazione consente di riscontrare se e quale incidenza esse abbiano rivestito, nel loro reciproco interferire, nel verificarsi della crisi matrimoniale (v. sul punto, tra le altre, Cass. 2004 n. 15101; 2001 n. 14162; 2000 n. 279, cit.;
1999 n. 2444). Ed in tale rinnovata valutazione dovrà stabilire infine se l’infedeltà di un coniuge (come in genere ogni altro comportamento contrario ai doveri del matrimonio) possa essere stata nel caso rilevante al fine dell’addebitabilità della separazione, essendo stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, ovvero se risulti non aver spiegato concreta incidenza negativa sull’unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza perchè intervenuta solo quando la frattura del matrimonio era già divenuta irreversibile per le trasgressioni dei doveri matrimoniale in cui era incorso l’altro coniuge.
Assorbito, pertanto il terzo motivo del ricorso principale, il Collegio deve cassare la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviare alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M

La Corte:
Accoglie i primi due motivi del ricorso nei sensi di cui in motivazione, ed assorbito il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per la liquidazione delle spese processuali alla Corte di appello di Firenze in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2009