Penale

Tuesday 23 March 2004

Niente stato di necessità per chi presta il garage ad esponenti della mafia. Cassazione Sezione quinta penale (up) sentenza 30 gennaio-27 febbraio 2004, n. 8855

Niente stato di necessità per chi presta il garage ad esponenti della mafia

Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 30 gennaio-27 febbraio 2004, n. 8855

Presidente Marrone – Relatore Rotella

Pm Geraci – ricorrente Messana

Premesso

1. La Corte d’Assise di Firenze, il 6 giugno 1998, ha condannato Messana Antonino ad anni 21 reclusione, escluse aggravanti speciali e con generiche prevalenti, per concorso con Bagarella Leoluca, Barranca Giuseppe, Giuliano Francesco, Calabrò Gioacchino, Ferro Giuseppe ed altri, nella strage commessa il 27 maggio 1993 in via dei Georgofili a Firenze, e reati connessi.

La Corte ha ritenuto che si era attivato con altri, prima dell’inizio e nel corso della fase esecutiva, fungendo da riferimento logistico e da punto di contatto dei correi, mediante la propria abitazione, l’attiguo garage e la propria utenza telefonica in Prato e mettendo a disposizione mezzi di locomozione. Ha escluso che fosse stato costretto da minaccia, come sostenuto da suo nipote Ferro Vincenzo, lui non comparso. Il 13 febbraio 2001 la condanna è stata confermata dalla Corte d’assise d’appello.

Questa Corte il 6 maggio 2002 ha annullato la sentenza d’appello con rinvio, limitatamente all’esimente dello stato di necessità.

Ritenuta la motivazione errata in diritto e carente in fatto, ha formulato il principio: «l’imputato non ha un vero onere probatorio circa l’esistenza della causa di giustificazione che invoca, bensì soltanto un onere di allegazione, in esito al quale peraltro, compiuti i necessari accertamenti, il giudicante deve assolvere ‑ in forza dell’articolo 530 comma 3 Cpp ‑anche se non vi è la prova della scriminante ma soltanto il dubbio sull’esistenza di essa».

Ha quindi stabilito che il Giudice di rinvio deve prendere posizione, in base alle risultanze di fatto, sul punto se vi è stata minaccia o se essa sia dubbia ovvero certamente da escludere, traendone le rispettive conseguenze previa valutazione dell’eventuale contenuto nella sua portata obiettiva ‑ considerando anche la personalità di chi l’ha effettuata e le reali possibilità di resistenza della vittima ‑ nonché sul modo come questa ha percepito le parole intimidatorie; considerando altresì se e perché il cambiamento di atteggiamento da parte del Messana ‑ dalla iniziale indisponibilità alla successiva ampia disponibilità ‑ possa essere ritenuto frutto di omertà, piuttosto che di pericolo reale o presunto, eventualmente ritenuto non evitabile neppure con denuncia alla polizia.

La sentenza del Giudice di rinvio conferma nuovamente quella di 1° grado. Ricostruisce i fatti in consecutivi momenti, relativi al diverso atteggiamento di Messana e contrassegnati da visite del nipote, quale mandatario di mafia, ed infine del suo stesso padre.

Suo nipote Ferro Vincenzo, figlio di Giuseppe capomandamento di Alcamo, e di sua sorella Grazia, recatosi da lui a Prato ‑ Galciana a fine aprile ‘93, gli aveva richiesto di procurare un garage, per incarico di Calabrò, capofamiglia di Castellammare del Golfo. Egli aveva risposto di non disporne. Calabrò, appreso del rifiuto, aveva detto a Ferro di far capire allo zio che doveva rispondere alla richiesta, perché altrimenti «ci sono mali discorsi per lui e per i suoi figli».

Esitando Ferro, lo stesso Calabrò a primi di maggio si era fatto accompagnare da lui, con Pizzo (organizzatore delle attività esecutive), presso Messana. Questi, avvertito dal nipote, si era recato alla stazione di Firenze, ove il nipote, appartatosi con lui in presenza degli altri, gli riferiva quanto detto da Calabrò. E Messana proponeva un garage abbandonato vicino casa sua. La visita a Prato durava pochi minuti. In seguito, Messana, irritato per il fastidio arrecatogli dai mandatari di Calabrò, li cacciava via. Il nipote. ancora sollecitato, si recava ancora da lui il 13 maggio, ed escludeva che i locali fossero adatti.

Finalmente Ferro Vincenzo il 19 maggio tornava di nuovo con sua madre dallo zio, dallo zio, che finalmente consentiva all’utilizzazione del proprio garage. Metteva a disposizione la sua Fiat Uno per il trasferimento dell’esplosivo dal camion con cui Carra, insieme Barranca e Spatuzza, lo aveva portato da Palermo. E concedeva l’auto agli attentatori, per recarsi a Firenze e studiare i luoghi e poi eseguire il furto del Fiorino, scortare questo con il carico di esplosivo a Firenze, e rientrare a Prato dopo il suo parcheggio nel luogo dell’attentato. Un suo figlio scortava infine Barranca e Spatuzza sino al camion di Carra con la sua auto, e l’altro accompagnava il cugino Ferro Vincenzo all’aeroporto di Pisa.

Ciò posto la sentenza, che a pag. 119 ha ritenuto unica, ma grave la minaccia di Calabrò, risponde in sintesi al dictum con tre proposizioni: (1) nel fatto che Calabrò, appreso del comportamento di Messana. avrebbe detto a Ferro Vincenzo di dire allo zio «ci sono mali discorsi per lui e per i suoi figli», non si ravvisa minaccia capace di costituire un pericolo imminente di un danno grave alla persona di Messana e dei suoi familiari o di produrre nell’imputato la rappresentazione erronea di un siffatto pericolo; (2) in tal senso depone sia la frase per se stessa, che i modi di riferimento da parte dell’intermediario, anche per la reciproca posizione del minacciante e del minacciato rispetto all’organigramma mafioso; (3) le oscillazioni di Messana non sono rilevanti, perché «Vi furono, è vero, tentativi successivi (all’accettazione iniziale della richiesta) di prendere le distanze da una vicenda, che si manifestava in tutta la sua gravità con atteggiamenti che non sono propri di chi vede incombere su di sé ed i suoi un male prossimo ed inevitabile, ma questi moti dell’animo e le manifestazioni esteriori oscillano dall’ira per essere stato coinvolto in un progetto di morte fino alla pressante domanda di ottenere, mediante la presenza del nipote sul posto, uno schermo tra quanto avveniva (e sarebbe accaduto) e la sua responsabilità». (pag. 21).

Spiega che Messana, indipendentemente da sollecitazioni minacciose, già fosse nella disposizione di collaborare, quando si era recato da Prato alla stazione di Firenze per ricevere Calabrò con il nipote e Pizzo. Aveva definitivamente consentito, non per minacce, ma per i rapporti familiari e l’autorità di Ferro Giuseppe che, dopo aver sentito Calabrò, gli aveva mandato sua sorella Grazia ed il nipote Vincenzo, appena dopo l’attentato del 14 maggio a via Fauro a Roma, ai danni del giornalista Costanzo. Soltanto aveva richiesto ed ottenuto la presenza del nipote per interporre la sua persona tra lui e gli esecutori (quando cioè era in grado di capire le vere ragioni della richiesta).

Finalmente avrebbe potuto evitare il pericolo. L’esimente, difatti, deve essere esclusa «quando il soggetto possa sottrarsi alla costrizione a violare la legge, facendo ricorso all’autorità» (Cassazione Sezione quinta, 4903/97). E tanto si sposa con il mutamento della posizione dello Stato nei confronti del fenomeno mafioso ed alle innovazioni legislative in tema di prevenzione in materia, tant’è che è stato ritenuto che è assistita dall’esimente dello stato di necessità «l’azione delittuosa commessa per, evitare un pericolo attuale ed inevitabile e non soltanto per il timore di future rappresaglie» (Cassazione, Sezione sesta, 27886/01).

2. Con il ricorso si denuncia: violazione dell’articolo 627/13 Cpp – articolo 628/1 e 2 sui punti non decisi ‑ violazione articoli 54 e 59 ultimo comma Cp. E si argomenta:

a) la motivazione reca, a pag. 4 e 11, locuzioni che dimostrano indirettamente l’intenzione del Giudice di rinvio di non uniformarsi al dictum della Cassazione;

b) la Cassazione ha ritenuto non solo errata in diritto, ma carente in fatto la sentenza annullata (si sottolinea: «se vi è stata minaccia o se essa sia dubbia ovvero certamente da escludere»); ma il Giudice di rinvio non osserva il principio e, formulata la premessa della grave portata intimidatoria della frase di Calabrò per Messana e figli (pg. 19), che supera quanto già ritenuto (che fosse un parto di fantasia di Ferro Vincenzo per alleggerire

la posizione dello zio), si contraddice di seguito, per sminuirne il rilievo;

c) difatti la Corte da un lato ritiene attendibile Ferro e dall’altro, invece, disattende alcune sue fondamentali dichiarazioni (la minaccia surriportata non è l’unica di Calabrò ‑ cfr. interrogatori Ferro, che ne ha profferita altra più pesante, che getta una luce sinistra sul suo viaggio a Prato con Pizzo e Ferro ‑ questi si apparta con lo zio, sotto l’occhio dei compagni, alla stazione di Firenze, e gli riferisce la minaccia, che la sentenza ritiene erroneamente de relato e aggiunge che se Ferro, di cui dimentica ruolo e posizione, avesse percepito di profilarsi di un danno grave per il persistere del diniego, non avrebbe mancato di avvertire lo zio in tempo utile); procede poi all’illazione che Messana si sia recato a Firenze per ricevere Calabrò con la considerazione che gli era dovuta, laddove Ferro ha detto che egli non sapeva che ci sarebbero stati anche Calabrò e Pizzo, e che non vi erano rapporti tra lo zio e Calabrò (il ricorso riporta i brani dell’interrogatorio di Ferro, anche per smentire il ritenuto scambio di numeri telefonici tra Messana e Calabrò), che non avrebbe avuto altrimenti ragione di p ortarsi da lui (il ricorso prosegue, sottolineando ulteriori illazioni circa il perché dell’acqusito di una terza autovettura da parte di Messina, che giù ne possedeva due e la brevità del periodo durante il quale Calabrò e l’esperto Pizzo si sarebbero trattenuti a Prato);

d) la Corte asserisce (pag. 20), senza dimostrarlo, che Messana è abituato alla prassi mafiosa e che la parentela con un boss avrebbe dovuto proteggerlo. Ma proprio dal figlio di quel boss gli provenivano richiesta e minaccia. È dunque errata anche la massima di esperienza: la mafia ammazza tutti (lo rammenta proprio Ferro Giuseppe);

e) erra in linea di principio, affermando: «lo stato di necessità assiste l’azione delittuosa commessa per evitare un pericolo attuale ed inevitabile e non soltanto per il timore di rappresaglia», principio tratto a sproposito da Cassazione, Sezione sesta, 27866/01, vieppiù che la sentenza ha ritenuto che si è trattato di una «promessa concreta ed inesorabile di aggressione o di lesioni al bene della vita di Messana e dei suoi familiari»;

f) non prende insomma posizione sul punto se vi è stata minaccia o se essa sia certamente da escludere e soprattutto se essa sia dubbia, travisando con illazioni la realtà che Messana era un ignorante, sprovveduto, ma onesto ed incensurato muratore di Prato, che aveva da sempre abbandonato la Sicilia e troncato ogni rapporto con il cognato, e dunque non valutandone l’inferenza anche sul piano putativo;

g) viola infine il dictum di questa Corte sul punto che Messana era inizialmente indisponibile, e che si doveva stabilire perché fosse divenuto disponibile in seguito, significando di non essere vincolata in punto di fatto, mentre la stessa ricostruzione di fatto è ormai intangibile per la parte non soggetta al rinvio: la Corte ha solo e proprio chiesto di valutare se sul passaggio di Messana, dalla iniziale indisponibilità alla disponibilità, abbia inciso l’omertà o un pericolo reale o presunto, ritenuto altrimenti inevitabile anche mediante denuncia alla polizia (di seguito ricostruisce le fasi del passaggio progressivo dal diniego all’accettazione, con riferimento agli atti); erra nel valutare la ragione per cui Messana non si è presentato in giudizio (pag. 12); travisa le dichiarazioni di Ferro Giuseppe (il cognato era un semplice operaio, estraneo al mondo mafioso); travisa gli stessi atteggiamenti di Messana ed il significato delle dichiarazioni di Grigoli (l’analisi si conclude anche con riferimento ad atteggiamenti dell’imputato, ritenuti marginali dalla Corte).

Ritenuto

1. Il ricorso è ammissibile. I riferimenti oltre il tenore della sentenza e la prospettazione di valutazioni alternative di fatto (v. in particolare sub C e G le indicazioni tra pa­rentesi in corsivo) non risultano rilevanti per l’argomentazione delle censure. Va all’uopo ribadito, alla luce dell’articolo 606/1 lettera e) – 3 Cpp, in particolare che la censura di travisamento di fatto non è verificabile attraverso gli atti, laddove è consentita la denuncia di mancata risposta a specifiche deduzioni d’appello (Su, Pulvirenti, 16 ottobre 1995, Dessimone, 30 aprile 1997, Jakani, 31 maggio 2000). Di più il giudice di diritto non può sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ancorché la diversa ricostruzione offerta nel ricorso sia parimenti logica (Su Clarke, 13 dicembre 1995 e Di Francesco, 19 giugno 1996).

Ed è infondato. Travisa questioni di metodo (articoli 627 ‑ 628 Cpp), per violazioni di legge penale (54 ‑ 59 Cp), eludendo infine il momento rilevante sotto entrambi i profili.

Talune obiezioni alla motivazione che lungo il suo percorso appare, in momenti non decisivi, per taluni versi corredata di argomenti più che illogici inutili, sono invero fondate. Ma la sentenza risulta incensurabile nel suo complesso e nell’inferenza conclusiva.

1.1. L’annullamento della precedente sentenza, fermo il fatto costitutivo di reato, è limitato all’esclusione dello stato di necessità, eccepito dalla difesa.

Questa Corte ha innanzitutto affermato che l’imputato non ha un vero onere probatorio in proposito, ma di allegazione e che, svolto l’accertamento, il giudice deve, anche in caso di dubbio, assolvere ai sensi dell’articolo 530/3 Cpp.

La censura del ricorso, di violazione dell’articolo 627/3 Cpp, trascura che la qualificazione negativa dell’onere dell’imputato concerne il risultato, non gli strumenti di prova.

Nel sistema, difatti, spetta all’accusa dimostrare fondata l’imputazione attraverso le “prove”(mezzi) allegate, ed al giudice ritenere conseguita la “prova” (risultato) d’innocenza (530 Cpp) o colpevolezza (533) attraverso le acquisizioni. E può disporre, se assolutamente necessario, lui stesso d’ufficio l’assunzione di nuove prove (507). Ma, se non gli sono fornite prove di colpevolezza e non sono assumibili, il giudice deve prendere atto di quanto risulta allo stato degli atti (articolo 129). Per questa ragione, la condanna segue solo alla certezza di risultato, in quanto superi anche l’allegazione eventuale della difesa di prove d’innocenza, e la carenza intrinseca dell’offerta dell’accusa implica assoluzione, quantomeno per dubbio (530/2), anche se l’imputato non ha addotto elementi a discolpa.

Per contro, certo il fatto, qualora l’imputato eccepisca l’esistenza di un quid pluris (altro fatto) che integri una causa di non punibilità, assume lui l’onere di allegazione. Se il giudice, assunte le “prove” indicate dall’imputato e quelle ritenute assolutamente necessarie, rileva la “prova” insufficiente sia per ritenere l’esimente che per escluderla, ovvero vi è dubbio intorno alla sua esistenza, deve del pari assolvere (articolo 530/3).

Ma proprio perciò l’allegazione deve concernere gli estremi della causa di esenzione, e non taluno soltanto dei suoi elementi costitutivi (ai fini dell’articolo 54 Cp, l’imputato deve allegare di aver agito per insuperabile costrizione, ovvero fornire elementi atti a dimostrare il nesso tra il pericolo di fonte esterna ed il suo comportamento, e dunque non solo di aver subito minaccia di un male proporzionato alla richiesta di fare, non fare o tollerare, o di averlo erroneamente ritenuto tale, ma anche di non averlo potuto altrimenti evitare, o di avere erroneamente ritenuto di non potersi ad esso sottrarre). La carenza di allegazione impedisce, men che di rilevare dubbio il risultato di prova dell’esimente, di non poterlo comunque conseguire, di talché il giudice deve arrestarsi alla prova di responsabilità fornita dall’accusa (è l’implicazione a contrario dell’articolo 129 Cpp).

1.2. Su questa premessa, il Giudice di diritto, nell’indicare il percorso al Giudice di rinvio e partito dal rilievo di ambiguità della sentenza annullata intorno alla stessa esistenza del pericolo. Ed ha stabilito che deve essere innanzitutto accertato (a) se è esistita minaccia di un male grave (e proporzionato) o vi è stato travisamento soggettivo scusabile.

Se il giudice di rinvio tanto esclude sul piano oggettivo o soggettivo, non ha ragione di proseguire. Ma se accerta che il pericolo aveva i requisiti richiesti, deve anche stabilire (b) se esso fosse altrimenti evitabile.

Sul punto, questa Corte ha osservato che la sentenza annullata dava conto di un mutamento di rotta dell’imputato. E, data la provenienza del pericolo, ha imposto di verificare se il mutamento fosse dovuto all’omertà o all’impossibilità di evitarlo, anche con denuncia alla polizia, sul piano oggettivo o soggettivo.

Se manca la “costrizione” che è ragione dell’esimente, diviene irrilevante ai fini dell’esenzione l’accertamento che ha imposto al giudice di merito di proseguire.

Difatti, se l’imputato non ha allegato ragione, anche solo per dubitare che potesse evitare o supporre di non poter evitare il pericolo certo e proporzionato, neanche con denuncia alla polizia, l’accertamento del pericolo risulta inutile ai fini dell’esenzione.

2. La sentenza impugnata risponde in sintesi (pag. 21, v. sopra), affermando (I) che nel fatto che Calabrò avrebbe detto a Ferro Vincenzo di riferire allo zio che «ci sono mali discorsi per lui e per i suoi figli» non si ravvisa minaccia capace di costituire un imminente di danno grave alle persone o di produrre nell’imputato la rappresentazione erronea di un siffatto pericolo. Il che significa che la minaccia è certa. Ma non integra gli estremi del primo requisito dello stato di necessità, sul piano oggettivo o soggettivo.

Proseguendo (II), la motivazione offre la giustificazione (criterio di valutazione) sotto i profili del tenore della frase per se stesso (oggettivo), e della reciproca posizione tra minacciante e minacciato rispetto all’organigramma mafioso (soggettivo). In questa luce la questione consecutiva di evitabilità del pericolo minacciato sarebbe assorbita in quella di non rilevanza della minaccia, ed il processo finirebbe qui.

In effetti la sentenza sembra contraddirsi: ha già riconosciuto la gravità della minaccia (nel 10 cpv. di pag. 19). Essa proviene dalla mafia, che non è solita farne invano, ed ha riferimento inequivoco ai beni primari delle persone. La gravità della minaccia, inoltre, deve essere commisurata a quanto si chiede a Messana (contribuire alla morte altrui, come è,stato accertato). Diversamente, lo si è detto, manca la proporzione e non è necessario proseguire nel ragionamento di prova dello stato di necessità.

Né s’intende, a prima vista, la valenza, attribuita alla reciproca posizione tra minacciante e minacciato rispetto all’organigramma mafioso. Messana non fa parte della mafia. È bensì il cognato di un capomafia, ma è il figlio di questo capomafia, suo nipote, il tramite della minaccia. Tanto perciò non dimostra per sé che si potesse ritenere il pericolo non imminente, per il tenore della frase e per li suo legame di famiglia con soggetti di mafia. Le obiezioni del ricorso sembrano fondate, onde è irrilevante se la minaccia sia stata o non ripetuta (come mira a ricostruire alternativamente): il pericolo grave incombe.

Il Giudice di rinvio doveva dunque andare avanti. Vi è stata minaccia grave e proporzionata, e non è ancora stabilito con certezza che li male minacciato fosse non imminente, come affermato in sentenza. E la motivazione difatti prosegue.

3. Sennonché Messana che prima ha recepito la minaccia, ha poi cacciato via i mandatari di Calabrò. Ed il nipote è ritornato, prima da solo, e poi ancora con sua madre (v. sopra). È per questa via ulteriore, in effetti confermato l’asserto che il pericolo non era imminente e che Messana non lo ha ritenuto tale. È finalmente chiaro che l’asserto iniziale letto, ponendo l’accento sull’ultima qualificazione del pericolo.

Alla luce di tanto, si doveva stabilire se Messana fosse passato dall’originaria indisponibilità alla successiva ampia disponibilità, per omertà o perché il pericolo minacciato era obiettivamente o subiettivamente ritenuto non evitabile, neppure con denuncia alla polizia.

La controversia sul cambiamento di atteggiamento di Messana, suscitata da un passo della sentenza impugnata (pag. 22), non ha ragion d’essere. La Cassazione ha preso atto del cambiamento di Messana dalla sentenza che ha annullato. L’apparente corollario del dictum è, in effetti, la ragione chiave della devoluzione dell’accertamento in dettaglio, non intendendosi diversamente perché Messana, che prima aveva negato il suo contributo agli emissari di mafia (dunque non appariva intimorito), poi si era assoggettato alla loro presenza in casa sua (ha tollerato), mettendo quanto gli si chiedeva a loro disposizione (ha fatto). E lo conferma la sentenza impugnata attraverso la ricostruzione offerta.

È pertanto meramente accademica l’affermazione di principio del Giudice di rinvio circa i suoi indiscussi poteri, censurata dal ricorso (sub G). Ha ritenuto reale e grave la minaccia e, per escluderne le implicazioni, sembra ora porne in dubbio la valenza per questa .via paradossale. Mentre il punto è proprio e solo il perché del mutamento di condotta.

A riprova, nel punto III, ammette finalmente il tentativo di Messana di prendere le distanze da una vicenda che si manifestava in tutta la sua gravità. Così dimostra proprio l’inutilità delle giustificazioni rese: la sopravvenienza della disponibilità è un fatto obiettivamente insuperabile. In effetti la sentenza vuoi ribadire che se Messana ha indugiato, è perché non riteneva imminente il pericolo e di poterlo evitare. Invero il Giudice di rinvio prosegue a sciogliere l’alternativa se il mutamento di Messana sia dovuto all’omertà, piuttosto che non all’inevitabilità del pericolo neppure con la denuncia alla polizia.

E finalmente offre la ragione di condanna, rilevando che gli atteggiamenti di Messana non sono propri di chi si senta minacciato da un male prossimo ed inevitabile, perché oscillano dall’ira per essere stato coinvolto in un progetto di morte fino alla pressante domanda di ottenere, mediante la presenza del nipote sul posto, uno schermo tra quanto avveniva (e sarebbe accaduto) e la sua responsabilità.

La sentenza spiega questo asserto con due argomenti.

Il primo poggia sull’osservazione che si era recato alla stazione di Firenze a ricevere Calabrò, condotto a lui dal nipote, che gli riferiva subito della sua minaccia. Tanto, secondo la Corte dimostrerebbe la disponibilità di Messana,,alla luce del sostenuto rapporto di cui al punto I. Ma in effetti non è ricostruito che sapesse che il nipote era accompagnato da chi intendeva minacciarlo e si tratta di una valutazione,più che illogica (così il ricorso), irrilevante, posto che solo in quella sede la minaccia, secondo la ricostruzione, gli viene riferita in tutta la sua gravità. Tuttavia, al di là del trascinamento del vizio d’origine, ormai gratuito per l’economia della motivazione, il fatto dimostra inequivocabilmente che egli, avesse o non rispetto per il ruolo di mafia degli ospiti, tuttavia da quel momento non faceva alcunché per evitare il pericolo, che inequivocabilmente gli stessi ospiti gli avevano minacciato. Anzi lo supponeva non imminente, se di poi mandava via gli emissari (v. sopra).

Il secondo argomento poggia sul fatto che, per superare la sua ulteriore resistenza alla richiesta, alla fine era intervenuto il cognato, uomo di prestigio della mafia (secondo il riconosciuto organigramma, capo dello stesso Calabrò), mandando anche la propria moglie, sua sorella, a Prato. E Messana aveva accettato ad una sola condizione.

Nell’incomprensione della risolutività di questo passaggio motivazionale si annida l’equivoco del ricorso. L’intervento del cognato, cioè del padre di quel nipote anche a mezzo del legame comune (rispettiva moglie, madre e sorella), fosse o non a fini d’imposizione, messo che sia possibile distinguere sul piano della valenza semantica l’imposizione dalla costrizione (non s’intende perciò la sottigliezza lessicale della sentenza), assume valenza assorbente, che dà conto a posteriori dell’inutile ambiguità degli asserti precedenti.

Messana, che aveva rifiutato prima il suo coinvolgimento in una vicenda di morte per il tramite della famiglia, ha accettato infine la richiesta di mafia proprio per ragioni di famiglia, con richiesta pressante dello schermo del nipote, per quanto si disponeva a fare (contributo positivo, accertato già prima dell’annullamento), tollerare (presenza in loco degli esecutori, già cacciati via), non fare (lo schermo di responsabilità è garanzia inversa di omertà). Questo è significato della sentenza alla luce della ricostruzione offerta.

E non è illogica la conclusione del Giudice di rinvio che il male minacciato, che la famiglia gli ha fatto intendere alfine insuperabile suo tramite, non era imminente ed inevitabile (momento sostanziale), se Messana aveva consentito solo a condizione che proprio la famiglia lo coprisse all’esterno. Semplicemente risulta che non si è posto mai, al di là del suo rifiuto iniziale e delle sue successive resistenze, a fronte di quel tramite costante, il problema dell’evitabilità del pericolo fuori della famiglia.

Tanto significa che non ha allegato (momento processuale) alcunché servisse a dimostrare che non si era potuto sottrarre, almeno putativamente, al pericolo minacciato.

Anzi, la prova insuperata di questa sua scelta risolve nella motivazione l’alternativa proposta nell’ultima parte del dictum della Corte, nel senso che la confusione del legame familiare con la cultura di mafia (omertà) porta alla condanna.

La Corte di merito ha ricostruito che Messana ha avuto ampia possibilità, alla luce della scansione temporale dei fatti, di risolvere altrimenti la questione, ed ha rilevato che non è comparso in giudizio per dire una sola parola che facesse supporre il contrario. Egli non era tenuto alla “prova” dell’esimente. Ma doveva indicare alcunché consentisse di verificare se il pericolo era evitabile fuori del contributo richiestogli, perché il giudice non può procedere ad illazioni. Per questa ragione il ricorso appare pretestuoso nell’affermazione del diritto dell’imputato di non comparire in giudizio. Semplicemente la Corte di merito non ne ha tratto elemento di prova, ma ha constatato l’assenza di allegazione.

Ciò è tanto vero che la difesa, per sopperire a questa carenza, affidando da ultimo la richiesta assolutoria al dubbio soggettivo di Messana, nella combinazione dell’articolo 530/3 Cpp con l’articolo 59 Cp, si è rifatta alla massima di esperienza circa il pericolo della minaccia di mafia, spostando la censura dal metodo à principio di diritto sostanziale.

3.1. Sennonché la presunzione di pericolosità intrinseca della mafia non basta: dà conto della serietà del pericolo, non della sua inevitabilità sul piano soggettivo al pari che su quello oggettivo dell’esimente. Difatti anche la mafia, ferme le sue indiscusse capacità, ha bisogno di tempo e modo. E se taluno non può, personalmente, far fronte ad una sua minaccia, quali che siano quel tempo e quel modo, non è escluso che possa farlo lo Stato. È quanto reca il dictum di questa Corte. Ed è il principio che era tenuto ad osservare ed osserva il Giudice di rinvio, con le sue argomentazioni conclusive circa la premessa minore, o storica, che esclude anche l’errore dell’imputato (al momento, peraltro, sottolinea, era già entrata in vigore la legislazione protettiva dei collaboratori di giustizia).

Pertanto la questione finale del ricorso è meramente ipotetica e non serve per sé a suffragare la censura di motivazione in punto di inevitabilità del pericolo, che è ragione dell’esimente. Anzi confonde, sul piano putativo, tale ragione con la paura.

Ma la giustificazione putativa dello stato di necessità si fonda sulla rappresentazione erronea della realtà da cui l’agente trae, il convincimento che il pericolo minacciato sia inevitabile, non sulla mozione interiore determinata dalla provenienza della minaccia. Insomma, l’assunto dell’impossibilità di stabilire il momento in cui il male minacciato dalla mafia si realizza (la difesa ha fatto riferimento all’uccisione dei magistrati nonostante la protezione dello Stato) è per sé apodittico, ovvero tautologico, perché presume indeterminabile il nesso di costrizione, al di là di ogni verifica in concreto.

In concreto, viceversa, la sentenza dimostra che l’imputato, estraneo alla mafia, ha confinato la sua scelta nel rapporto familiare. La famiglia è bensì il fondamento sociale naturale dello Stato, come rileva l’articolo 20 della Costituzione, ma anche dalla mafia, il cui strumento è l’omertà, che è indissolubile dalla paura. Il valore positivo della famiglia è dunque riconosciuto solo nell’osservanza della legge, che consente di superare la paura.

E non può conseguentemente essere ritenuto che Messana sia giustificato del suo contributo al delitto, essenzialmente positivo (fare), sol perché da un certo momento in posi si rende conto che la sua famiglia, in quanto legata alla mafia, non può esonerarlo dal pericolo minacciato in caso di rifiuto. La richiesta di scherno dello stesso nipote, giù veicolo della minaccia, dimostra la sua irragionevole chiusura ad ogni prospettiva di superamento del vincolo familiare, implicata dal dovere di rispetto della legge. Semplicemente, non si è affatto posto il problema.

Per questa ragione risulta incensurabile la motivazione che non aveva necessità oggettiva o soggettiva di salvare la sua vita e quella dei suoi figli, al prezzo della vita altrui.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a rifondere le spese sostenute dalle parti civili, che liquida in complessivi euro 6000 comprensivi di spese ed onorari.