Penale

Friday 23 May 2003

Niente spaccio se non c’ è prova tecnica della natura di stupefacente della merce ceduta.

Niente spaccio se non c’è prova tecnica della natura di stupefacente della merce ceduta

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, sentenza n.20966/2003

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da S. V. avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano dell’11/4/2002.

Fatto

Con sentenza del 18/9/2001 il GIP del Tribunale di Milano dichiarava S. V. colpevole del reato di cui agli artt.73 D.P.R. n.309 del 1990, 81 cpv. e 110 del codice penale [1], per avere – in concorso con M. M. e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso – detenuto sostanza stupefacente di natura chimica, verosimilmente ecstasy, e ceduto, tra gli altri, a M. A. B. ed a D. M. una pastiglia ciascuna e lo condannava alla pena di anni 3, mesi 6 e giorni 20 di reclusione e lire 24 milioni di multa.

Con la sentenza dell’11/4/2002, la Corte di Appello di Milano – in parziale riforma della suddetta sentenza – riconosceva l’ipotesi di cui al V comma dell’art.73 del D.P.R. n.309 del 1990 [2] e riduceva la pena dell’appellante S. V. a mesi dieci di reclusione e millecinquecento euro di multa, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

Avverso la sentenza di appello ricorre per cassazione il V., a mezzo del suo difensore, deducendo come primo motivo di ricorso l’illogicità della motivazione della decisione del giudice di appello.

Si sostiene al riguardo che il giudice di appello, pur avendo ridimensionato in modo rilevante la vicenda rispetto alla sentenza del giudice di primo grado, è incorso in una manifesta illogicità sia nel passaggio della motivazione in cui ha affermato che le pastiglie offerte dal V. e dal suo compagno alla B. ed alla M. sono da considerarsi ecstasy per il principio dell’ “id quod plerumque accidit” sia nell’altro passo della motivazione in cui – dopo aver testualmente rilevato che la vicenda in questione “è assai curiosa e mal raccontata dai verbalizzanti” – ha concluso che il racconto degli operanti “vitiatur sed non vitiat”, affermando la verità dell’episodio di spaccio riguardante il V..

Il secondo motivo di ricorso si appunta sulla assoluta mancanza di motivazione in ordine a due richieste avanzate dall’imputato con l’atto di appello e non accolte, concernenti la sospensione condizionale della pena ed il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario prevista dall’art.175 del codice penale.

In proposito si osserva che la carenza di motivazione è macroscopica non essendo stata spesa una sola parola sul punto nonostante che il V. sia persona incensurata e priva di altre pendenze giudiziarie e l’oggettiva modestia del fatto addebitatogli.

Diritto

1. Alla sentenza della Corte di appello di Milano dell’11/4/2002, il ricorrente muove due distinte censure: l’illogicità manifesta di passaggi decisivi della motivazione e l’assoluta carenza di motivazione in ordine a due richieste avanzate dall’imputato con l’atto di appello e non accolte, concernenti la sospensione condizionale della pena ed il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziario prevista dall’art.175 del codice penale.

Il primo motivo di ricorso imperniato sulla manifesta illogicità della motivazione è fondato ed il suo accoglimento ha effetto assorbente della seconda doglianza.

2. Pronunciando in sede di giudizio di appello avverso una sentenza di condanna del GIP presso il Tribunale di Milano emessa a seguito di giudizio abbreviato, la Corte territoriale ha ricostruito una vicenda verificatasi il 4 dicembre 2000 all’interno di una discoteca milanese e sfociata nell’arresto di S. V. e di altra persona per detenzione e spaccio di sostanza stupefacente di natura chimica (che nel capo di imputazione è definita “verosimilmente ecstasy”), affermando tra l’altro in motivazione che S. V. assieme a M. M., ha ceduto ad una ragazza presente nella discoteca una pastiglia di sostanza stupefacente individuata come ecstasy ed ha tentato di fare altrettanto con una sua amica.

Nella parte motiva della decisione il giudice d’appello incorre però in evidenti incongruenze logiche – puntualmente rilevate e messe in luce dalla difesa del V. nel suo primo motivo di ricorso – che impongono l’annullamento della pronuncia ed il rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello.

Il giudice di appello afferma essere “pacifico” che le due pastiglie – non rinvenute dagli agenti operanti e perciò mai analizzate – siano pasticche di ecstasy e motiva questo suo convincimento asserendo che “l’effetto euforizzante e l’assunzione orale delle pastiglie, compiuta nella discoteca (omissis) alla presenza degli operanti non lasciano ombra di dubbio secondo il buon senso comune e l’id quod plerumque accidit al giorno d’oggi nelle discoteche” sulla natura stupefacente e sul tipo di sostanza offerta.

Ora, la giurisprudenza di questa Corte ha più volte sostenuto che ai fini dell’accertamento dell’esatta natura di una sostanza ritenuta stupefacente non è necessaria una apposita perizia perché il giudice può, con adeguata motivazione, desumere il proprio convincimento da altri elementi probatori quali ad esempio le ammissioni dei coimputati, gli accertamenti di polizia o qualsiasi altro elemento di univoco significato (Cass., Sz. V, sent.n.849/1991, Saidi Abel; Cass., Sez. VI, n.8169/1992, Michetti).

Il punto è che nella fattispecie in esame il giudice di merito ha motivato il suo convincimento sulla “natura stupefacente” della sostanza e sullo specifico “tipo” di stupefacente ceduto (che è stato individuato come una sostanza stupefacente “maggiore”, l’ecstasy) con il richiamo a dati privi del necessario carattere di precisione ed univocità ed a regole di esperienza troppo vaghe per poterne derivare certezze.

Al riguardo si osserva innanzitutto che l’effetto euforizzante, assunto come sicuro indice del tipo di sostanza offerta, non poteva in motivazione essere correttamente riferito ad entrambe le ragazze perché – secondo la stessa ricostruzione operata nella sentenza ed il suo linguaggio – una sola delle due ragazze sarebbe stata “impasticcata”.

In secondo luogo, in assenza della descrizione di altri e più precisi sintomi, il generico riferimento ad un effetto euforizzante – attestato da una sola ragazza – non è, di per sé, dato univoco o comunque decisivo per affermare la “natura stupefacente” e soprattutto per identificare lo specifico “tipo” di sostanza offerta (dalla Corte territoriale indicata come ecstasy), posto che non è agevole sceverare la condizione di euforia potenzialmente prodotta dall’intero ambiente di una discoteca (musica, spesso ad altro volume, luci, danze) e quella attribuibile alla sostanza; di talché solo in presenza di ulteriori e più chiari sintomi soggettivi o di altri elementi circostanziali sarebbe stato possibile attribuire specifico rilievo anche all’effetto euforizzante per dedurne con certezza la qualità della sostanza offerta.

Ma tali ulteriori elementi circostanziali – se effettivamente esistenti – non sono stati ricercati ed esposti dal giudice milanese che, nella sua motivazione, ha finito con l’ancorare esplicitamente il proprio convincimento sulla natura stupefacente e sul tipo di sostanza – e conseguentemente sulla sussistenza del reato di spaccio di stupefacenti – alla pura e semplice evocazione del senso comune ed all’ “id quod plermque accidit” nelle discoteche, cioè ad una valutazione di mera e generica probabilità, incompatibile con il grado di razionale certezza richiesto in sede di accertamento di responsabilità penale.

Né è questa la sola incongruenza della decisione dal momento che, nel prosieguo della motivazione, il collegio giudicante, dopo aver manifestato più di un motivo di perplessità sulla versione dei fatti fornita dagli agenti operanti (parlando tra l’altro di “vicenda… assai curiosa e mal raccontata dai verbalizzanti”) non si è dato cura di spiegare come, nell’ambito di un giudizio abbreviato e dunque celebrato allo stato degli atti, fossero superabili e siano state effettivamente risolte le perplessità originate dal racconto dei verbalizzanti.

Sul punto la Corte territoriale si è invece limitata ad affermare, con una formula ellittica scarsamente esplicativa dell’iter logico seguito, che “il racconto degli operanti vitiatur sed non vitiat” senza illustrare adeguatamente su quale altra base essa abbia potuto formare il suo convincimento, una volta riscontrate le lacune e le imprecisioni della versione dei verbalizzanti.

Ne consegue che la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano per un nuovo giudizio nel quale – ai fini dell’accertamento dell’esatta natura della sostanza ritenuta stupefacente – si faccia applicazione del principio più volte enunciato da questa Corte secondo cui il giudice, in assenza di una perizia sulla sostanza, deve fornire una adeguata motivazione delle ragioni che lo inducono a ritenere che la sostanza stessa sia stupefacente indicando con precisione gli elementi probatori utilizzati quali ad esempio ammissioni di coimputati, accertamenti di polizia o altri elementi di univoco significato (Cass., Sz. V, sent.n.849/1991, Saidi Abel; Cass., Sez. VI, n.8169/1992, Michetti).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.

Così deciso il 18 marzo 2003.

Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2003.