Lavoro e Previdenza

Wednesday 17 September 2003

Niente ritardo nella contestazione disciplinare se il datore di lavoro attende l’ esito del procedimento penale a carico del dipendente

Niente ritardo nella contestazione disciplinare se il datore di lavoro attende lesito del procedimento penale a carico del dipendente

Sentenza.

Presidente V. Trezza – Relatore F. Curcuruto

Svolgimento del processo

M.G. D.R., dipendente dell’ (omissis) ora (omissis) in qualità di portapacchi, fu licenziata senza preavviso il 6 marzo 1996, per motivi disciplinari, con riferimento ad una sentenza di applicazione della pena di un anno e cinque mesi di reclusione, a suo carico, ex art. 444 c.p.p., per i reati di falso e peculato, commessi nell’adempimento del servizio, con l’appropriarsi di molti plichi postali che avrebbe dovuto consegnare, e delle somme ricevute per altri plichi consegnati in contrassegno. La D. R. impugnò il licenziamento dinanzi al Pretore di Trento, al quale chiese anche un decreto ingiuntivo nei confronti del datore di lavoro per le retribuzioni che questo non le aveva corrisposte, avendole trattenute a titolo di ristoro del pregiudizio patrimoniale subito, per avere, a sua volta, dovuto risarcire gli utenti danneggiati dall’illegittimo comportamento della dipendente.

L’ Ente (omissis) contrastò l’impugnativa e propose opposizione al decreto ingiuntivo.

Riunite le due cause, il Pretore dichiara illegittimo il licenziamento, ritenendo che la sanzione fosse stata irrogata tardivamente rispetto al momento in cui l’Ente aveva acquisito conoscenza dei fatti, e che, in ogni caso, non vi fosse prova concludente e sicura degli addebiti rivolti alla lavoratrice. Ne ordinò quindi la reintegrazione nel posto di lavoro, e condannò l’ente al risarcimento del danno ex art. 18 Stat. Lav., liquidandolo in un importo pari alle retribuzioni globali di fatto dal giorno dell’efficacia del licenziamento sino a quello della reintegra, detraendone l’aliunde perceptum ammesso dalla D. R., oltre agli accessori . Rigettò infine l’opposizione al decreto ingiuntivo, condannando l’Ente Poste Italiane a pagare alla dipendente £ 2.113.240, oltre ad accessori. L’Ente Poste, trasformatasi in Poste Italiane s.p.a, propose appello, contestando la valutazione di tardività. Osservò, in proposito, che la sentenza di gatteggiamento aveva consentito di accertare l’assenza di prove di innocenza della dipendente ed aveva svolto così, nella vicenda, un ruolo essenziale, si da poter esser considerata fatto nuovo idoneo a giustificare la sanzione.

Contestò anche il giudizio di infondatezza degli addebiti, mettendo in rilievo che, sebbene mancasse la prova diretta dei fatti di appropriazione, la dimensione degli indizi a carico della lavoratrice era tale da rendere inverosimile ogni ipotesi diversa. Il Tribunale di Trento, all’udienza del 14 gennaio 1999, emise il seguente testuale dispositivo: ” in parziale riforma della decisione impugnata, revoca il decreto ingiuntivo emesso dal Pretore a favore dell’appellante ed ogni condanna di risarcimento del danno e dichiara interamente compensate tra le parti le spese di lite per entrambi i gradi di giudizio; conferma la sentenza quanto alla reintegrazione nel posto di lavoro della D. R.”.

Il giudice d’appello, condividendo la tesi del Pretore circa la tardività della contestazione disciplinare, ha ritenuto che i fatti che avevano determinato la risoluzione del rapporto fossero già noti alla datrice di lavoro nel maggio 1995, epoca alla quale risaliva la relazione interna a firma dell’ispettore M.. La sentenza penale intervenuta nell’ottobre successivo aveva, del resto, richiamato proprio quella relazione quale fonte di prova, chiarendo così che a quegli atti non si era aggiunta altra indagine. Né, d’altra parte, per la sua natura la sentenza poteva contenere un accertamento di colpevolezza della dipendente. Dunque, contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, essa non costituiva un fatto nuovo, al quale far riferimento per valutare la tempestività della contestazione e del successivo licenziamento. La novità riguardava non i fatti, già conosciuti dal datore di lavoro, ma la loro interpretazione da parte dell’autorità giudiziaria, ma, trattandosi solo di una interpretazione, essa non influiva in termini concreti sulla loro gravità a fini disciplinari. Sulla base di tali argomenti, la decisione del Pretore doveva quindi esser confermata “nella sua parte essenziale, ove dichiara la illegittimità del licenziamento”.

Secondo il Tribunale, essa meritava, invece, di esser “riformata nella parte di merito, ove ritiene la infondatezza degli addebiti mossi alla dipendente”, con le inerenti conseguenze ” in punto di rigetto della pretesa della appellata alla rifusione delle somme trattenute dal datore a rifusione del danno subito” nonché ” di risarcimento del danno comunque motivato”, risarcimento che non poteva “essere considerato illegittimo se era fondato l’addebito solo perché la relativa contestazione fu tardiva”. Ne derivava che “alla revoca del licenziamento” dovesse quindi “far seguito solo il pagamento dello stipendio per il periodo di vigenza dello stesso, dedotto l’aliunde perceptum e nessun’altra voce”.

A sostegno di tale decisione, il Tribunale osservava che gli addebiti mossi alla lavoratrice trovavano base su indizi numerosi ed univoci, ossia tali da impedire una ricostruzione del fatto diversa da quella formulata dall’accusa. Pur mancando la prova diretta che la lavoratrice si fosse appropriata dei plichi, si erano certamente verificati ben sedici casi di sparizione di pacchi che apparivano consegnati da lei e nove episodi di appropriazione degli incassi dei contrassegni nella zona di sua competenza. Per negare la concludenza di tali indizi, sarebbe stato, quindi, necessario formulare supposizioni inverosimili, quali la presenza costante di qualcuno che si fosse impadronito dei pacchi subito dopo la consegna, o di qualche collega della lavoratrice sostituitosi ad essa per appropriarsi dei corrispettivi dei contrassegni.

Ne derivava, per la D. R., l’obbligo di rimborsare il datore di lavoro delle somme da questo erogate ai clienti danneggiati.

Per la cassazione di questa sentenza le Italiane s.p.a hanno proposto ricorso, formulando un unico complesso motivo articolato su due profili.

La D. R. resiste con controricorso, e propone anche ricorso incidentale, formulando due motivi di censura.

Il ricorrente principale resiste a sua volta, con controricorso, al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

I due ricorsi, diretti contro la stessa sentenza, devono esser riuniti.

Con l’unico motivo del ricorso principale (omissis) denunziano, sotto due profili, violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300, nonché omessa o insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Quanto, al primo profilo, innanzitutto, secondo il ricorrente, nessuna norma di legge prescrive l’immediatezza della contestazione disciplinare, mentre giurisprudenza e dottrina hanno dedotto dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori il diverso principio della tempestività della contestazione.

Ma questo principio non può esser considerato fine a se stesso e deve essere inteso con ragionevole elasticità, dal momento che esso è funzionalizzato a talune speciali esigenze. Infatti, se giusta causa di risoluzione del rapporto è quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto stesso, l’intervallo temporale deve esser tale da non contraddire al carattere stesso della giusta causa, dimostrando l’implicita accettazione della situazione da parte del datore di lavoro, con acquiescenza alla prosecuzione del rapporto.

Inoltre, la tempestività è funzionale alla garanzia del diritto di difesa del lavoratore: quindi l’intervallo temporale non può esser tale da menomare la capacità di difesa del lavoratore che riceve l’incolpazione.

Il Tribunale di Trento, discostandosi da questi principi, non aveva tenuto conto che l’(omissis) aveva acquisito consapevolezza della vicenda in modo progressivo e che, solo con la sentenza di patteggiamento, gli accertamenti condotti in precedenza avevano ricevuto piena conferma.

Il Tribunale aveva, quindi, applicato il principio della tempestività in modo meccanico, valutando il “ritardo” nella contestazione secondo un mero e perciò rozzo parametro temporale, senza tener alcun conto della particolarità della vicenda, come avrebbe invece dovuto fare alla luce dell’insegnamento secondo cui l’immediatezza della contestazione dell’addebito va valutata in senso relativo, tenendo conto delle ragioni oggettive – quali l’accertamento dei fatti in sede penale – che possono far ritardare il momento della percezione o del definitivo accertamento dei fatti contestati.

Con un secondo profilo del motivo la sentenza è criticata per non aver esaminato in alcun modo se il presunto ritardo nella contestazione avesse compromesso il diritto di difesa della lavoratrice.

Il ricorso incidentale propone due censure.

Con la prima, si denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia e si assume che il Tribunale, pur avendo condiviso la ricostruzione dei fatti operata dal Pretore, era giunto alla conclusione di responsabilità della lavoratrice, per non aver considerato, quanto all’addebito di mancata consegna dei pacchi, le diverse specifiche modalità con cui la consegna doveva avvenire, secondo la varia tipologia del pacco (ordinario, contrassegno, raccomandata-pacco, raccomandata-pacco-contrassegno) e, quanto alla appropriazione di una somma corrispondente ad un pacco consegnato, che si trattava della consegna di una raccomandata ordinaria, per la quale, come pure era emerso dalle testimonianze, non poteva esservi stata erogazione di denaro da parte del destinatario.

Con il secondo motivo, la pronunzia è censurata, per violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché difetto e contraddittorietà di motivazione in ordine a un punto decisivo, nella parte in cui, pur avendo dichiarato illegittimo il licenziamento, ha ritenuto, nel dispositivo, di escludere il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno. Si assume che tale statuizione sarebbe contraddittoria rispetto alle affermazioni contenute in motivazione circa il diritto della lavoratrice al pagamento dello stipendio, “per il periodo di vigenza” del licenziamento, e che essa comunque si porrebbe in contrasto con la norma di legge appena richiamata, la quale non attribuisce al giudice alcuna discrezionalità circa le conseguenze di un recesso dichiarato illegittimo, dovendo egli stabilire, comunque, in favore del lavoratore licenziato, l’indennità nella misura minima prevista dal cit. art. 18.Il ricorso principale, sottoponendo alla Corte la questione della legittimità o non del licenziamento, in relazione alla tempestività della contestazione, va esaminato prioritariamente.

Circa il primo dei due profili in cui esso, come detto, si articola, deve osservarsi ché, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, la quale sul punto richiama gli accertamenti compiuti dal primo giudice, dichiarandoli del tutto completi, il licenziamento della D. R. era stato tardivamente irrogato perché i fatti erano già noti all’(omissis) attraverso la relazione dell’ispettore M., risalente al maggio 1995, mentre la procedura sanzionatoria era stata avviata, con la contestazione dell’addebito, solo nel febbraio dell’anno successivo.

Il Tribunale afferma, inoltre, che la stessa sentenza penale avrebbe richiamato quale fonte di prova la menzionata relazione ispettiva con i relativi allegati, chiarendo così che, oltre a quella, non vi erano state altre indagini. Quindi, la sentenza penale non conteneva né l’enunciazione di un fatto nuovo, perché non aggiungeva nulla a quel che l’Ente Poste già sapeva per effetto della relazione ispettiva, né una dichiarazione di colpevolezza della lavoratrice.

Il Tribunale ravvisa poi la ragione che aveva indotto l’Ente a non emettere provvedimenti disciplinari gravi dopo la relazione ispettiva, nel fatto che l’ispettore aveva concluso espressamente per l’assenza di prove certe a carico della lavoratrice in ordine ai fatti di appropriazione, sicchè era sembrato sufficiente lo spostamento della lavoratrice ad altra unità operativa, mentre il successivo intervento disciplinare, come risultava anche dalla lettera di addebito, era dovuto al fatto che il datore ” informato del diverso e più grave significato che il PM e il GIP avevano attribuito a quello stesso quadro probatorio, ritenne di intervenire”.

Ma, secondo il giudice d’appello, che afferma, infatti, di ritenere prive di rilievo a favore dell’Ente le circostanze appena ricordate, questa successiva diversa valutazione, costituendo interpretazione dei medesimi fatti, non farebbe venir meno l’intempestività del licenziamento, poiché nel momento della contestazione di addebito, intervenuta nel febbraio 1996, la situazione a carico della dipendente “era rimasta esattamente la stessa che nel maggio 1995”.

E’ opportuno porre in evidenza, ai fini dell’esame del motivo, che il problema della tempestività della contestazione di addebito, secondo l’impostazione della sentenza impugnata, si pone quindi in relazione all’intervallo fra il maggio 1995, e la data del 15 febbraio 1996 in cui l’azienda contestò l’illecito alla lavoratrice, e che il Tribunale non assegna alcun rilievo alla pendenza del procedimento penale, in relazione alle modalità con cui esso si concluse.

Ciò premesso, l’affermazione del Tribunale muove dal presupposto che nel maggio 1995 la dimensione del fatto a carico della lavoratrice fosse perfettamente nota all’(omissis). Ma lo stesso Tribunale, come s’è visto, dà atto che la relazione ispettiva, pur mettendo in luce vari indizi a carico i della dipendente, aveva escluso che vi fosse la prova certa in ordine ai fatti di appropriazione. Proprio tenendo conto di questa circostanza, la motivazione del Tribunale si rivela, sul punto, inadeguata, dal momento che sarebbe stato necessario chiarire compiutamente per quale ragione la successiva sentenza ex art. 444 c.p.p. a carico della lavoratrice non poteva il avere rilievo ai fini della tempestività della successiva contestazione, se essa, consentendo di superare i dubbi non risolti dalla ispezione interna dell’ (omissis), determinava in quest’ultimo la effettiva consapevolezza dei fatti disciplinarmente rilevanti, nella loro reale portata. Né, a tal fine, basta dire che il tipo di sentenza resa in sede penale non comporta accertamento di colpevolezza, perché qui il fatto rilevante non è direttamente il contenuto della sentenza ma la nuova situazione determinatasi nello stato dell’informazione sui fatti, a seguito della scelta processuale del lavoratore in sede penale. Tale scelta, inducendo nel datore di lavoro la consapevolezza della responsabilità del dipendente i per il fatto di rilievo disciplinare, può infatti determinare uno stato di cose assai diverso dal precedente quadro di mero sospetto.

L’insufficienza della motivazione deriva, peraltro, nella specie, dall’errore di diritto, denunziato nel motivo in esame, concernente l’esatta portata del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, desumibile dall’art. 7 della legge 20 maggio 1970. n. 300.

E’ noto, infatti, come, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio ritiene di aderire, l’immediatezza sia da intendere pur sempre in senso relativo, vale a dire come tempo necessario al datore di lavoro per verificare convenientemente e poi ricostruire e valutare la condotta del lavoratore e per consentire una contestazione il più possibile specifica e circostanziata, e come, pertanto, tale criterio vada applicato con la necessaria elasticità, ossia senza trascurare la peculiarità della fattispecie, e, quindi, tenendo conto anche delle concrete possibilità del datore di lavoro di venire a conoscenza della illegittimità della condotta del lavoratore e di reagire: possibilità da valutarsi anche in considerazione della complessità delle indagini necessarie per accertare l’illecito e della complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica ( v. in tal senso, fra le molte, Cass. 16 maggio 2000, n. 6348; Cass. 26 maggio 2000, n. 6925; sul carattere relativo del principio v. anche Cass. 14 giugno 1999, n. 5891; Cass. 5 novembre 1997, n. 10855).

Né, per quel che specificamente rileva ai fini della presente decisione, e salve valutazioni di carattere più generale, si pongono problemi di contrasto fra tale orientamento e il più restrittivo indirizzo in tema di tempestività espresso dalla sentenza 8 gennaio 2001, n. 150, di questa Corte, nella quale, riconoscendosi le esigenze di accertamento del fatto da parte del datore di lavoro, si è negato che possa trovare tutela un suo “interesse a prolungare le indagini senza uno specifico motivo oggettivamente valido (da accertarsi e valutarsi rigorosamente)” in pregiudizio del “diritto del lavoratore ad un pronta ed effettiva difesa”.

Quale sviluppo del prevalente indirizzo, cui s’è accennato, questa Corte ha poi ritenuto che, quando il fatto, oltre che sul piano disciplinare rilevi anche su quello penale, la compatibilità fra il principio della immediatezza della contestazione rispetto al fatto, e l’intervallo necessario all’accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, conduce ad escludere che incorra nella violazione di tale principio il datore di lavoro il quale, ai fini di un corretto accertamento del fatto, anziché procedere a proprie indagini, scelga di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale (Cass. 9 settembre 2000, n. 11889) ed ha anche rilevato che non contrasta con il principio della immediatezza la protrazione, per tutto il corso del procedimento penale, della misura cautelare della sospensione dal servizio, eventualmente prevista nei contratti collettivi, proprio in quanto correlata alla esigenza che i provvedimenti da assumere siano il risultato di un accertamento dei fatti più esauriente (rispetto a quello sia pur scrupoloso che sarebbe consentito da un procedimento disciplinare avviato in base alla sola imputazione) e che vengano acquisiti altri e più completi elementi di giudizio circa la gravità dei comportamenti del lavoratore, con possibilità di più ponderata valutazione dei medesimi Cass. 23 novembre 1998, n. 624).

Tali principi, condivisi dal Collegio, vanno applicati al caso, del tutto analogo, in cui il datore di lavoro, avviate le proprie indagini non pervenga ad un sicuro accertamento di colpevolezza del dipendente, e, per contestare l’addebito, attenda che le vicende del procedimento penale abbiano reso chiaro ed inequivoco il quadro degli indizi a carico del dipendente. Nel contesto di tali premesse, l’affermazione del Tribunale secondo cui, sia prima che dopo la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p, intervenuta nell’ottobre 1995, la situazione a carico della lavoratrice era rimasta la stessa, sicché ai fini della tempestività della contestazione si doveva tener presente solo quel che era emerso nel precedente mese di maggio, è inadeguatamente motivata, poiché muove da una nozione sostanzialmente rigida ed inesatta di tempestività della contestazione, nella quale non vi è posto per le esigenze di adeguata informazione del datore di lavoro sulla complessiva dimensione del fatto disciplinarmente rilevante.

Dal punto di vista di quelle esigenze, invece, la scelta processuale del lavoratore, che ha condotto alla sentenza ex art. 444 c.p.p., assume sicuro rilievo, a prescindere dalla non equiparabilità, in positivo, di tale sentenza ad una dichiarazione di colpevolezza. Qui infatti non si tratta di attribuire alla sentenza efficacia ai fini dell’accertamento di un fatto di rilievo disciplinare ma di tener conto di una condotta che, riflettendosi sulla preesistente situazione solo indiziaria, determina una rappresentazione dei fatti diversa da quella precedente, perché priva di incertezze e ambiguità.

Circa il secondo profilo del motivo in esame, va tenuto presente che il requisito della immediatezza della contestazione dell’addebito, rispetto al momento della commissione, o della conoscenza, del fatto contestato, è collegato all’esigenza di garantire al lavoratore un’adeguata possibilità di difesa, che riuscirebbe evidentemente pregiudicata quando egli dovesse difendersi da addebiti lontani nel tempo per la maggiore difficoltà di ricordare i fatti e di reperire eventuali elementi a discarico.

Questo specifico profilo, costantemente sottolineato nella giurisprudenza I di questa Corte ( Cass. 10 dicembre 1998, n. 12452; Cass. 21 maggio 1998, n. 5090; 5 novembre 1997, n. 10855; v. anche Cass. 23 marzo 2002, n. 4170), si traduce, quindi, in un particolare aspetto della valutazione di tempestività della contestazione, che compete al giudice di merito di compiere, tenendo conto di tutti gli elementi della situazione concreta.

Tale aspetto, per contro, è totalmente ignorato dalla sentenza impugnata e la lacuna è tanto più rilevante sotto il profilo della motivazione, in quanto il procedimento penale a carico della dipendente per gli stessi fatti oggetto della successiva contestazione, rendeva quantomeno presumibile che, una volta mossole l’addebito disciplinare, essa potesse agevolmente recuperare a suo vantaggio ogni elemento favorevole utilizzato in precedenza.

Il ricorso principale, fondato in entrambi i profili dell’unico motivo, deve essere accolto e la sentenza va quindi cassata con rinvio ad altro giudice di merito il quale, nel nuovo esame della causa, si atterrà innanzitutto, ex art. 384 c.p.c. al principio di diritto per cui “quando il fatto che dà luogo a sanzione disciplinare abbia anche rilievo penale, il principio della immediatezza della contestazione, non pregiudicato dall’intervallo di tempo necessario all’accertamento della condotta del lavoratore ed alle adeguate valutazioni di questa, non può considerarsi violato dal datore di lavoro, il quale, avviate le proprie indagini senza pervenire ad un sicuro accertamento di colpevolezza, avendo scelto ai fini di un corretto accertamento del fatto di attendere l’esito degli accertamenti svolti in sede penale, contesti l’addebito solo quando attraverso le scelte processuali del lavoratore nel procedimento penale, conclusosi con sentenza di applicazione della pena a richiesta dell’ imputato, abbia acquisito piena consapevolezza della riferibilità dei fatti al dipendente, a nulla rilevando che tale sentenza sia priva di efficacia vincolante nel giudizio disciplinare, scaturito dai fatti ascritti, non venendo in questione il contenuto della sentenza ma la condotta del lavoratore nel processo, quale elemento che, integrandosi con l’insieme degli indizi già acquisiti, attribuisce alla situazione complessiva la nuova caratteristica della chiarezza e della univocità.”

Il giudice di rinvio valuterà la tempestività della contestazione dell’addebito alla D. R., alla luce delle considerazioni svolte da questa Corte nell’esame del secondo profilo del motivo di ricorso, e provvederà sulle spese del giudizio.

L’accoglimento del ricorso principale comporta, nella specie, assorbimento di quello incidentale, il quale concerne temi che dipendono dalla indagine sulla legittimità o no del licenziamento, da compiersi dal giudice di rinvio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale, cassa e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Venezia.