Penale

Saturday 02 August 2003

Magistrato sottoposto a procedimento penale e durata massima delle misrure cautelari. Il parere della Corte Costituzionale N. 264 SENTENZA 3 – 22 luglio 2003.

Magistrato sottoposto a procedimento penale e durata massima delle misrure cautelari. Il parere della Corte Costituzionale

N.  264 SENTENZA 3 – 22 luglio 2003. 

  Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Magistratura – Magistrato sottoposto a procedimento penale – Sospensione preventiva (dalle funzioni e dallo stipendio) discrezionalmente disposta in base a valutazione sommaria nel merito dei fatti dedotti nel procedimento penale – Omessa previsione di un termine di durata massima della misura cautelare – Prospettata disparita’ di trattamento rispetto alla durata massima quinquennale della misura cautelare sospensiva stabilita per gli altri pubblici dipendenti sospesi «a causa del procedimento penale» – Non fondatezza della questione. – Legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, secondo comma; regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, art. 31. – Costituzione, art. 3. (GU n. 30 del 30-7-2003) 

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita’ costituzionale degli artt. 9, comma 2,

della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze,

sospensione  condizionale  della  pena  e  destituzione  dei pubblici

dipendenti) e 31 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 411

(recte: 511) (Guarentigie della magistratura), promosso con ordinanza

del 12 luglio 2002 dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore

della  magistratura, iscritta al n. 396 del registro ordinanze 2002 e

pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, 1ª serie

speciale, dell’anno 2002.

    Visto  l’atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei

ministri;

    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 9 aprile 2003 il giudice

relatore Valerio Onida.

                           Ritenuto in fatto

    1. – Con  ordinanza  pronunciata  il 12 luglio 2002 e pervenuta a

questa  Corte il 6 agosto 2002, la sezione disciplinare del Consiglio

superiore  della  magistratura  ha sollevato questione incidentale di

legittimita’  costituzionale  degli  articoli 9, comma 2, della legge

7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione

condizionale  della pena e destituzione dei pubblici dipendenti) e 31

del regio decreto legislativo del 31 maggio 1946, n. 411 (recte: 511)

(Guarentigie  della  magistratura),  in  relazione  all’art. 3  della

Costituzione,  nella  parte in cui tali disposizioni non prevedono un

termine  di  durata  massima della misura cautelare della sospensione

dalle funzioni e dallo stipendio del magistrato ordinario, sottoposto

a  procedimento penale (art. 31, terzo comma, del r.d.lgs. n. 511 del

1946).

    Espone  il  remittente di doversi pronunciare, in un procedimento

disciplinare,  sull’istanza  di  revoca  della misura cautelare sopra

indicata, proposta da un magistrato ordinario.

    Premette   la   sezione   disciplinare   che   tale   magistrato,

destinatario  di  ordinanza  applicativa della misura cautelare della

custodia  in  carcere  in  relazione  al delitto di partecipazione ad

associazione  a  delinquere di stampo camorristico (art. 416-bis cod.

pen., commi primo, terzo, quarto e quinto), fu sospeso dalle funzioni

dalla  stessa  sezione  remittente  con  collocamento fuori dal ruolo

organico della magistratura e con attribuzione di assegno alimentare,

in  applicazione  dell’art. 31,  primo comma, del r.d.lgs. n. 511 del

1946, che prevede, in caso di «ordine di cattura», la sospensione «di

diritto» del magistrato.

    A  seguito di annullamento in sede giurisdizionale dell’ordinanza

che  aveva  disposto  la  misura della custodia in carcere (stante la

ritenuta   insussistenza   di   esigenze   cautelari),   la   sezione

disciplinare  revoco’  il  provvedimento sospensivo, ricollocando nel

ruolo il magistrato.

    Successivamente    questi   fu  rinviato  a  giudizio  innanzi  al

Tribunale  di  Salerno,  in relazione all’imputazione originariamente

formulata e al delitto di corruzione.

    La  sezione  disciplinare  adotto’, quindi, su conforme richiesta

del  Ministro della giustizia, nuovo provvedimento di sospensione, ai

sensi  dell’art. 31,  terzo  comma,  del  r.d.lgs.  n. 511  del 1946,

rigettando poi un’istanza di revoca di tale misura.

    Il provvedimento cautelare fu annullato con rinvio dalla Corte di

cassazione  a  sezioni   unite,  che,  superando il proprio precedente

orientamento,   ritenne   necessario   che  la  sezione  disciplinare

valutasse  non  la  gravita’  in  astratto  dell’imputazione,  ma  la

consistenza  e  la  serieta’  dei  fatti  contestati nel procedimento

penale,  sia pure nei limiti di una mera delibazione allo stato degli

atti.

    La  sezione  disciplinare,  sulla  base dei predetti presupposti,

sospese   nuovamente   il   magistrato   dalle   funzioni   ai  sensi

dell’art. 31,  terzo  comma, del r.d.lgs. n. 511 del 1946; il ricorso

avverso tale provvedimento fu rigettato dalle sezioni unite.

    Successivamente  il  magistrato  fu  giudicato colpevole in primo

grado  dal  Tribunale  di  Salerno dei reati ascrittigli e condannato

alla  pena  di  anni 6  di  reclusione, con interdizione perpetua dai

pubblici uffici.

    Il  3 gennaio  2002 il magistrato, premesso che l’efficacia della

misura cautelare di sospensione dalle funzioni si era protratta oltre

il  periodo  quinquennale  previsto dall’art. 9, secondo comma, della

legge   n. 19   del  1990  (che  impone,  in  relazione  al  pubblico

dipendente,  la  revoca  di diritto della misura assunta «a causa del

procedimento  penale»,  ove  compiutosi  tale termine), ha chiesto di

essere reintegrato nelle funzioni.

    La   sezione  disciplinare  ha  rigettato  tale  ultima  istanza,

osservando in primo luogo che la misura cautelare era stata disposta,

in  applicazione  del  principio  di  diritto enunciato dalle sezioni

unite,   a   seguito  di  una  ponderata  valutazione  del  fumus  di

commissione  del  delitto, cio’ che, in armonia con la giurisprudenza

costituzionale  (sentenze  n. 447  del 1995, n. 206 del 1999 e n. 454

del  2000),  consentirebbe  di  sottrarla ad un prefissato termine di

decadenza;  in  secondo  luogo,  che,  quand’anche  si fosse ritenuto

applicabile  al  magistrato  ordinario l’art. 9 della legge n. 19 del

1990,  tuttavia  l’art. 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul

rapporto  tra  procedimento  penale  e  procedimento  disciplinare ed

effetti  del  giudicato  penale  nei  confronti  dei dipendenti delle

amministrazioni  pubbliche)  avrebbe  dovuto  condurre alla reiezione

della domanda.

    Tale disposizione, infatti, stabiliva, al tempo in cui la sezione

disciplinare  si  e’  pronunciata,  che  la  sospensione del pubblico

dipendente  dal servizio, seguita di diritto alla condanna, anche non

definitiva,  per  il delitto, tra gli altri, di cui all’art. 319 cod.

pen.,  perdesse  efficacia «decorso un periodo di tempo pari a quello

di prescrizione del reato».

    In  seguito,  ricorda  la  sezione remittente, e’ sopraggiunta la

sentenza   n. 145  del  2002  di  questa  Corte,  che  ha  dichiarato

l’illegittimita’  costituzionale  dell’art. 4  della  legge n. 97 del

2001,  nella  parte  in  cui  disponeva  che  la sospensione perdesse

efficacia  decorso  un periodo di tempo pari a quello di prescrizione

del  reato,  ed  ha  individuato  nel  termine  di cinque anni di cui

all’art. 9  della  legge  n.19  del 1990 l’espressione di «una vera e

propria  clausola  di  garanzia,  avente  portata  generale  e dunque

comprensiva,  in difetto di diversa disciplina legislativa, di ogni e

qualsiasi  ipotesi di «sospensione cautelare dal servizio a causa del

procedimento penale», sia facoltativa che obbligatoria».

    Alla  luce  di  tale  pronuncia,  il  magistrato  ha reiterato la

propria   istanza   di   revoca  della  misura  cautelare  di  natura

disciplinare   per   decorrenza  del  termine,  originando  cosi’  il

procedimento a quo.

    Evidenzia  il  remittente  che, con la decisione n. 145 del 2002,

questa   Corte   avrebbe   affermato   che  compete  al  legislatore,

nell’esercizio    di    una   non   irragionevole   discrezionalita’,

identificare  ipotesi  circoscritte  nelle quali l’esigenza cautelare

che  fonda  la  sospensione e’ apprezzata in via generale ed astratta

dalla   stessa   legge  e  che,  tuttavia,  nel  caso  di  specie  il

collegamento  della  durata  della  misura  cautelare  al  termine di

prescrizione del reato si palesava irragionevole e lesivo dell’art. 3

della Costituzione.

    Tale giurisprudenza, prosegue la sezione disciplinare, ha percio’

per oggetto le ipotesi di sospensione dal servizio applicata «a causa

del  procedimento  penale», nelle quali, vale a dire, e’ direttamente

la  legge  a  porre  l’obbligo  per  l’amministrazione di disporre la

misura  in  ragione  della  pendenza  del  procedimento  penale (c.d.

sospensione  automatica),  ovvero  nelle quali l’amministrazione, pur

chiamata ad esprimere un giudizio, tuttavia opera una «valutazione in

astratto  della  gravita’  dell’imputazione»,  incentrata  sulla sola

«pendenza del procedimento (penale) in se’ e per se’ considerata».

    La  pronuncia  da  ultimo  intervenuta  si  porrebbe, prosegue la

sezione  remittente,  nel  solco di un consolidato orientamento della

Corte,  maturato fin dalla sentenza n. 447 del 1995, e proseguito con

le decisioni n. 206 del 1999 e n. 454 del 2000.

    Nel  sistema normativo vigente, conclude il remittente sulla base

di  tali   precedenti,  non  e’  previsto un termine massimo di durata

della  misura  cautelare,  legato  al  mero  decorso  del  tempo, con

riguardo    all’ipotesi    di    sospensione    cautelare    disposta

dall’amministrazione  in  relazione  alla pendenza di un procedimento

penale,  ma in base ad un’autonoma (sia pur sommaria) delibazione nel

merito dei fatti contestati.

    La  sezione disciplinare non intende negare che esista diversita’

di  situazione  tra tale ultima ipotesi ed il caso in cui, viceversa,

la  misura  cautelare  sia  applicata  solo «a causa del procedimento

penale»,  nell’accezione  gia’  descritta  di questa espressione. Ne’

ignora  la sentenza n. 454 del 2000 di questa Corte, con cui e’ stata

rigettata questione di costituzionalita’ concernente l’art. 140 della

legge  notarile, posto che l’inabilitazione prevista da tale norma in

via  cautelare  segue  ad un procedimento fondato su una valutazione,

seppur   sommaria,   dei   fatti,   viene   applicata  da  un  organo

giurisdizionale  con  garanzia  del contraddittorio, e resta comunque

revocabile.

    Tuttavia  il  remittente  ritiene  che  la  predetta  diversita’,

dapprima  stimata costituzionalmente ammissibile dalla stessa sezione

disciplinare, abbia cessato di essere «razionalmente giustificata», a

seguito della sentenza n. 145 del 2002 di questa Corte.

    Premesso  infatti  che l’art. 9, secondo comma, della legge n. 19

del  1990  si  rende  applicabile ai magistrati, in virtu’ del rinvio

disposto  dall’art. 276  del  regio  decreto  30 gennaio  1941, n. 12

(Ordinamento  giudiziario)  alle  disposizioni generali relative agli

impiegati  civili  dello  Stato, ne seguirebbe che la sospensione del

magistrato  disposta  «automaticamente» a seguito di condanna penale,

pur non definitiva (in forza dell’art. 4 della legge n. 97 del 2001),

sarebbe   destinata   a   perdere   efficacia,   decorso  il  termine

quinquennale,  mentre  la  sospensione  applicata  sulla  base di una

valutazione  sommaria  dei  fatti  non  incontrerebbe alcun limite di

durata.   Cio’,  prosegue  la  sezione  disciplinare,  nonostante  il

bilanciamento  tra  l’esigenza cautelare e l’interesse del dipendente

sia  stato  operato  dal  legislatore,  fissando un limite massimo di

durata   della   sospensione  dal  servizio,  che  resterebbe  invece

inapplicabile alla misura disposta ai sensi dell’art. 31 del r.d.lgs.

n. 411   del   1946,   sia   pure  sulla  base  di  un  apprezzamento

discrezionale  in  ordine alla sussistenza del fumus degli addebiti e

delle  esigenze  cautelari, ma «pur sempre in relazione alla pendenza

di  un  procedimento  penale  ed  ai  fatti  per  i  quali in esso si

procede».

    Nel  caso  di  specie,  aggiunge  il remittente, il magistrato e’

stato  sospeso  dalle  funzioni a seguito di una valutazione sommaria

dei fatti addebitatigli nel procedimento penale.

    Inoltre, essendo difficile immaginare mutamenti delle circostanze

poste  a fondamento della contestazione, suscettibili di giustificare

una  revoca  della  misura cautelare, non riconducibili agli sviluppi

del  procedimento  penale,  la  misura stessa finirebbe per avere una

«durata indefinita».

    Pertanto,  conclude  la sezione remittente, la mancata previsione

nelle  disposizioni  censurate  di un termine di durata massima della

misura  cautelare  applicata  a  seguito  di  delibazione  dei  fatti

apparirebbe  in  contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto

introdurrebbe   una  disparita’  di  trattamento  non  giustificabile

rispetto  al  modo in cui e’ disciplinata l’ipotesi della sospensione

applicata «a causa del procedimento penale».

    2. – E’  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei

ministri, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che

la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

     Con  memoria depositata in prossimita’ della camera di consiglio,

l’Avvocatura,   ripercorse   le   tappe  del  procedimento  penale  e

disciplinare  a  carico  del magistrato, ha osservato che il giudizio

demandato  alla  sezione disciplinare del CSM e’ autonomo rispetto al

processo  penale  per  i  medesimi  fatti, posto che tende a «rendere

concreto il diritto all’autotutela dell’amministrazione giudiziaria»,

garantendo l’immagine e la credibilita’ dell’ordine giudiziario.

    Pertanto, conclude l’Avvocatura, benche’ la mancata previsione di

un  termine  massimo  di  durata  della misura cautelare comporti una

«discriminazione»  tra  i magistrati e gli altri pubblici dipendenti,

tuttavia quest’ultima e’ da ritenersi non irragionevole.

    Vi  sarebbe,  infatti, la necessita’ di precludere il rientro del

magistrato  nell’esercizio  delle  funzioni,  fino a quando sia stato

fugato ogni dubbio sull’«irreprensibilita» del suo comportamento.

                       Considerato in diritto

    1. – La   sezione  disciplinare  del  Consiglio  superiore  della

magistratura,  chiamata  a  pronunciarsi sull’istanza di revoca di un

provvedimento  di sospensione di un magistrato dalle funzioni e dallo

stipendio,  disposto a seguito del rinvio a giudizio del medesimo con

l’imputazione  di  partecipazione  ad  associazione  a  delinquere di

stampo  camorristico  e  di  corruzione,  ha  sollevato  questione di

legittimita’   costituzionale,   in   riferimento   all’art. 3  della

Costituzione,  dell’art. 9,  secondo  comma,  della  legge 7 febbraio

1990,   n. 19   (Modifiche   in   tema  di  circostanze,  sospensione

condizionale  della  pena  e destituzione dei pubblici dipendenti), e

dell’art. 31  del  regio  decreto  legislativo 31 maggio 1946, n. 511

(Guarentigie  della  magistratura),  nella parte in cui non prevedono

«un   termine   di   durata  massima  della  misura  cautelare  della

sospensione discrezionalmente disposta in base a valutazione sommaria

nel merito dei fatti dedotti nel procedimento penale».

    La  sezione  remittente  premette  che il magistrato imputato era

stato  sospeso,  ai  sensi  dell’art. 31,  terzo  comma, del r.d.lgs.

n. 511  del  1946  (secondo  il  quale  «il  magistrato  sottoposto a

procedimento   penale   per  delitto  non  colposo  puo’  …  essere

provvisoriamente  sospeso  dalle  funzioni  e  dallo stipendio»), con

un’ordinanza  che  –  a  seguito  dell’annullamento  di un precedente

analogo  provvedimento,  e  in  conformita’  al  principio di diritto

enunciato dalla Corte di cassazione – era stata adottata non gia’ sul

mero  presupposto  della  pendenza  del  procedimento penale e di una

valutazione  in  astratto  della  gravita’  dell’imputazione, ma alla

stregua di una autonoma valutazione, sia pure contenuta nei limiti di

una  delibazione  sommaria, del merito in ordine alla responsabilita’

del  magistrato, al rilievo disciplinare della condotta attribuitagli

e  alla sussistenza di esigenze che in concreto rendevano inopportuna

la sua permanenza in servizio.

    La  sezione  richiama  la  giurisprudenza  di questa Corte, dalla

quale  ricava il principio secondo cui la regola della durata massima

quinquennale    della    misura   cautelare   sospensiva,   stabilita

dall’art. 9,  comma 2,  della  legge  n. 19  del 1990 in relazione ai

pubblici  dipendenti  sospesi «a causa del procedimento penale», vale

come  clausola  di garanzia di portata generale applicabile sia nelle

ipotesi  in  cui  la sospensione e’ disposta in base ad un obbligo di

legge  (c.d.  sospensione  «automatica»),  sia  in quelle in cui, pur

essendo  rimesso  all’amministrazione il potere di disporre la misura

cautelare,  l’applicazione  di  questa consegua ad una valutazione in

cui  e’  la  pendenza  del  procedimento  penale  in  se’  e  per se’

considerata,  in  ragione  della  gravita’  dei  fatti  contestati, a

costituire  la ragione giustificatrice sufficiente dell’esercizio del

potere   discrezionale  da  parte  dell’amministrazione  medesima;  e

sottolinea   la   differenza   tra  l’ipotesi  di  misura  sospensiva

applicabile    automaticamente   e   quella   di   sospensione   c.d.

«discrezionale»  conseguente ad una valutazione nel merito dei fatti,

sia pure contenuta nei limiti di una delibazione sommaria.

    Tuttavia  la  sezione, alla luce della recente sentenza di questa

Corte   n. 145   del   2002,  che  ha  dichiarato  la  illegittimita’

costituzionale  dell’art. 4,  comma 2,  della  legge n. 97 del 2001 –

relativo   alla  sospensione  obbligatoria  dei  dipendenti  pubblici

condannati,  anche non definitivamente, per determinati reati – nella

parte  in  cui  disponeva  che la sospensione perdesse efficacia solo

decorso  un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato,

rendendo  cosi’  applicabile  alla fattispecie la regola della durata

massima  quinquennale  di  cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 19

del  1990,  reputa  che non sia razionalmente giustificata, alla luce

dell’art. 3 della Costituzione, una diversita’ di disciplina per cui,

mentre la sospensione cautelare dal servizio disposta automaticamente

per  effetto  di  una  sentenza  penale  di  condanna perde efficacia

decorsi  cinque anni, e’ invece suscettibile di protrarsi anche oltre

tale    termine    la    sospensione    disposta    discrezionalmente

dall’amministrazione  in  base  ad un’autonoma e sommaria valutazione

dei  fatti  dedotti  nel  procedimento penale, e quindi pur sempre in

relazione  alla  pendenza  del  procedimento penale ed ai fatti per i

quali in esso si procede. E aggiunge che, nel caso concreto, restando

lo    sviluppo   del   procedimento  disciplinare  condizionato  dallo

svolgimento del procedimento penale, apparirebbe difficile ipotizzare

mutamenti  di  circostanze  suscettibili  di  giustificare una revoca

della  misura  cautelare,  che  non  siano sopravvenuti nel corso del

procedimento penale e non si riconducano agli sviluppi di esso.

    2. – La questione non e’ fondata.

    Come  la  stessa sezione remittente ricorda, la giurisprudenza di

questa  Corte  ha  affermato  da  tempo  la  necessita’ che le misure

cautelari  sospensive  nei  confronti  di  pubblici  impiegati  o  di

esercenti  funzioni  pubbliche siano adottate, in linea di principio,

dall’amministrazione  competente in base ad un apprezzamento concreto

sia  degli  addebiti,  sia delle esigenze cautelari; ha precisato che

non  puo’  pero’  negarsi al legislatore, in circoscritte ipotesi, la

possibilita’  di  effettuare  direttamente  l’apprezzamento  di  tali

esigenze   cautelari   in   relazione   alla   pendenza,   a   carico

dell’interessato,  di  procedimenti  penali per fatti suscettibili di

avere  anche rilievo disciplinare, e comunque per accuse suscettibili

di   rendere   inopportuna,   per  l’amministrazione,  la  permanenza

dell’interessato nell’esercizio delle funzioni; ha affermato che, ove

la   misura   cautelare  si  colleghi  esclusivamente,  come  effetto

«automatico»,  alla  pendenza  di un procedimento penale, un corretto

contemperamento  degli  interessi  di rilievo costituzionale in gioco

esige  che  sia  fissata  una  ragionevole durata massima alla misura

cautelare (cfr. sentenze n. 766 del 1988, n. 595 del 1990, n. 239 del

1996,  n. 447  del 1995, n. 206 del 1999, n. 454 del 2000, n. 145 del

2002).

    L’esigenza di tale limitazione temporale e’ connessa al carattere

«automatico»  della  misura  o  quanto  meno  alla circostanza che la

sospensione  sia  disposta  sulla  base  del  mero dato formale della

pendenza  del  procedimento  penale,  cioe’  e’ connessa al fatto che

l’apprezzamento  dell’esistenza  delle  esigenze  cautelari, anziche’

essere  frutto  di  una autonoma valutazione dell’amministrazione, e’

compiuto «in astratto» dal legislatore, e collegato all’accusa penale

«solo  in  quanto e’ la pendenza dell’accusa, come tale, che mette in

pericolo interessi» dell’amministrazione (sentenza n. 206 del 1999).

    Quando   invece   la   misura   cautelare   sia  di  applicazione

discrezionale,  nel  senso  che  «in  tanto  puo’ essere adottata, in

quanto  l’autorita’  competente  riscontri in concreto la sussistenza

delle  esigenze  cautelari  che  la motivano, e puo’ essere mantenuta

solo  fino  a  quando  tali  esigenze  permangano»,  allora  «si deve

escludere  che sia costituzionalmente necessaria la determinazione di

un  limite  massimo  di  durata,  oltre  il quale la misura non possa

essere  mantenuta, pur permanendo, in ipotesi, le esigenze cautelari»

(sentenza n. 454 del 2000).

    Da  questi  principi non si discosta la sentenza n. 145 del 2002,

invocata  dalla  sezione  remittente:  in  essa  si  ribadisce che la

clausola di garanzia della durata massima della misura comprende ogni

«ipotesi di sospensione dal servizio a causa del procedimento penale,

sia  facoltativa che obbligatoria», con riferimento ai casi in cui e’

la sola pendenza del procedimento penale, in quanto tale, che conduce

alla  sospensione,  indipendentemente  da  un  autonomo apprezzamento

delle esigenze cautelari in concreto ad opera dell’amministrazione: e

infatti  l’applicazione  del principio fatta dalla Corte in quel caso

riguarda  proprio  una  ipotesi  – quella di cui all’art. 4, comma 2,

della  legge n. 97 del 2000 – che prevede la sospensione obbligatoria

(c.d.  «automatica») a seguito di condanna, anche non definitiva, per

determinati delitti.

    In  coerenza  con questa impostazione, la stessa Corte, quando ha

giustificato  costituzionalmente  la  durata limitata nel tempo della

sospensione  del  dipendente  a  causa  del  mero  dato formale della

pendenza  del  procedimento  penale,  o ha fornito un’interpretazione

costituzionalmente conforme di norme che prevedevano siffatte ipotesi

di  sospensione, ritenendole vincolate ad una durata massima limitata

nel  tempo, ha sottolineato che, scaduto il termine massimo di durata

della    sospensione    «a    causa    del    procedimento   penale»,

all’amministrazione  resta  il  potere  di ricorrere, sussistendone i

presupposti, alla sospensione facoltativa o discrezionale, per motivi

non  piu’ consistenti nella mera pendenza del procedimento penale, ma

fondati  sulla  cognizione  sia  pure  sommaria dei fatti costituenti

illecito disciplinare e sull’apprezzamento in concreto delle esigenze

cautelari  (sentenza  n. 447  del  1995  e n. 206 del 1999; ordinanza

n. 278 del 1999, e cfr. anche sentenza n. 454 del 2000).

    3. – La   normativa   tuttora  vigente,  relativa  ai  magistrati

ordinari,  prevede  che  all’inizio  o  nel  corso  del  procedimento

disciplinare  l’organo  competente  (oggi la sezione disciplinare del

CSM),  su  richiesta  del  Ministro  o del pubblico ministero, possa,

sentito  l’incolpato,  «disporne  la  sospensione  provvisoria  dalle

funzioni  e  dallo  stipendio»  (art. 30,  primo  comma, del r.d.lgs.

n. 511  del 1946); che il magistrato sottoposto a procedimento penale

sia  sospeso  di diritto dalle funzioni e dallo stipendio «dal giorno

in  cui  e’  stato  emesso contro di lui mandato o ordine di cattura»

(art. 31, primo comma); e che il magistrato sottoposto a procedimento

penale per delitto non colposo possa «essere provvisoriamente sospeso

dalle funzioni e dallo stipendio» (art. 31, terzo comma).

    Non  sembra dubbio che, nell’impostazione originaria della legge,

tale  ultima  sospensione,  pur  facoltativa,  si  configurasse  come

conseguenza del semplice dato formale della pendenza del procedimento

penale,  comportando  per  l’amministrazione solo il potere-dovere di

apprezzare  in  astratto  la  gravita’  dell’accusa. E dunque, fino a

quando  questo  era il senso attribuito a tale norma – in conformita’

anche  alla  meno  recente  giurisprudenza di legittimita’ -, ad essa

avrebbe  dovuto  assegnarsi  portata  analoga a quella di altre norme

simili  che  prevedono  la  sospensione  «a  causa  del  procedimento

penale»,  con  conseguente  applicabilita’ della garanzia relativa al

termine di durata massima.

    Ma  non  e’  questo  il  significato  che  alla  norma  impugnata

attribuisce  la  sezione remittente: la quale, fondandosi su una piu’

recente   giurisprudenza   di  legittimita’,  formatasi  proprio  con

riguardo al caso concreto davanti ad essa in esame, e che ha corretto

il  precedente  orientamento  (Cass.,  sez.  un. civ., 3 giugno 1997,

n. 4965;  8 luglio  1998, n. 6631), intende la norma in questione nel

senso  che la misura cautelare puo’ essere disposta non gia’ sul mero

presupposto della pendenza del procedimento penale e sulla base di un

esame solo formale dell’accusa contestata in quel procedimento, ma in

base  ad  una  autonoma  delibazione  «del  merito … in ordine alla

responsabilita’   del   magistrato,  al  rilievo  disciplinare  della

condotta   attribuitagli  e  alla  sussistenza  di  esigenze  che  in

concreto» renderebbero «inopportuna la sua permanenza in servizio», e

dunque  in  base  ad un apprezzamento «in ordine alla sussistenza del

fumus  degli  addebiti  e  delle  esigenze  cautelari», ancorche’ pur

sempre in relazione alla pendenza del procedimento penale ed ai fatti

per i quali in esso si procede.

    In   tale  contesto,  la  misura  cautelare  non  ha  piu’  nulla

dell’«automatismo»  che  secondo  la  giurisprudenza  di questa Corte

comporta,    per   ragioni   di   contemperamento   degli   interessi

costituzionali  in  gioco,  la  necessita’  di una durata rigidamente

limitata  nel  tempo:  essa  puo’ dunque legittimamente durare fino a

quando  permangano le esigenze cautelari discrezionalmente apprezzate

dall’amministrazione.

    D’altra parte possono ipotizzarsi anche mutamenti di circostanze,

tali  da  poter  comportare  una  revoca  della  misura,  che  non si

riconducano  alle  vicende  del  procedimento  penale;  e  l’esigenza

cautelare  puo’  e deve sempre essere rivalutata dall’amministrazione

anche  in  relazione  al  tempo trascorso e ad eventuali sviluppi del

procedimento penale che possano avere specifico rilievo a tali fini.

    4. – E’  pur  vero  che, interpretato l’art. 31, terzo comma, del

r.d.lgs.  n. 511  del  1946  nel  senso  fatto  proprio dalla sezione

remittente  e  dalla  piu’  recente  giurisprudenza  di legittimita’,

vengono  a  sfumare  considerevolmente  i  confini fra questa ipotesi

normativa  e  quella  della  sospensione  per  gravi  motivi adottata

all’inizio  o  nel  corso  del  procedimento  disciplinare,  prevista

dall’art. 30,  primo  comma, dello stesso r.d.lgs. n. 511 del 1946. E

tuttavia  tale circostanza, se puo’ fondare l’auspicio di un riordino

legislativo    dell’intera    materia,   non   muta   i   presupposti

costituzionali  su  cui  si  fonda la giurisprudenza di questa Corte,

secondo  i quali la necessita’ di un termine rigido di durata massima

della  misura  cautelare  vale  solo  nei  casi  in  cui essa non sia

adottata   in   base   ad   una  autonoma  valutazione  discrezionale

dell’amministrazione  in  ordine  ai  presupposti  di  fatto  e  alla

sussistenza delle esigenze cautelari.

    Nella  specie,  cio’  conduce a ritenere non fondata la questione

nei  riguardi  delle  norme  impugnate, interpretate nel senso dianzi

visto e fatto proprio dalla sezione remittente.