Penale

Saturday 25 February 2006

Lo psichiatra può essere ritenuto responsabile dell’ omicidio commesso dal paziente.

Lo psichiatra può essere ritenuto
responsabile dell’omicidio commesso dal paziente.

Tribunale di Bologna – Ufficio
Gip – sentenza 25 novembre 2005-27 gennaio 2006

Giudice Gamberini

Motivazione

Nei confronti di POZZI Euro,
MORINI Laura, PASSARELLI Angiola Maria, GALASSI Alba e CAVEDONI Alessandra, il
P.M. chiedeva il rinvio a giudizio in ordine al
delitto meglio specificato in rubrica.

All’udienza del 22 settembre
2004, i difensori degli imputati e quelli delle persone offese chiedevano
congiuntamente un differimento dell’udienza sul presupposto che fossero in fase molto avanzata le trattative per il
risarcimento dei danni.

Il 10 dicembre 2004, dopo che era
intervenuta la costituzione di parte civile di Bendini Ivana (madre di Cardelli
Ateo), Cardelli Alessandro (figlio dello stesso) e Bertolasi Monica (moglie del
deceduto), i procuratori speciali del Pozzi chiedevano
la definizione del procedimento nelle forme del rito abbreviato, che veniva
ammesso da questo giudice con ordinanza.

Il successivo 17 dicembre 2004,
questo giudicante, ritenuto di non potere decidere allo stato degli atti,
disponeva procedersi – ai sensi dell’articolo 441 comma V Cpp – a perizia in ordine ai fatti oggetto del procedimento e nominava
all’uopo come periti il prof. Giambattista Traverso e il dott. Angelo Addabbo.

Il 19 gennaio 2005 aveva luogo
l’udienza per il conferimento dell’incarico peritale e per la formulazione dei
quesiti. I periti chiedevano un termine di 90 giorni per il deposito
dell’elaborato che veniva concesso dallo scrivente.
Nei mesi successivi, i periti – in ragione dell’estrema complessità
dell’incarico conferito loro – chiedevano due volte una proroga di detto
termine che veniva ogni volta accordata.

All’udienza del 21 settembre
2005, a seguito del deposito della perizia e delle controdeduzioni dei
consulenti della difesa, si procedeva all’esame dei
periti. Nella stessa sede, i difensori del Pozzi
depositavano documentazione medico – sanitaria concernenti i ricoveri di
Giovanni Musiani successivi al 24 maggio 2000.

In data 25 novembre 2005, il Pozzi chiedeva di essere interrogato sui fatti oggetto di
incolpazione. Nella stessa udienza, dopo che le parti avevano concluso come da verbale, questo giudice si ritirava in
camera di consiglio per deliberare il dispositivo della presente sentenza.

* * * * *

La mattina del 24 maggio 2000,
una pattuglia del commissariato P.S. di Imola
interveniva presso la comunità di ricovero ‘Albatros’, dove era stata segnalata
l’aggressione di un inserviente da parte di un paziente. Intervenuti sul posto,
gli agenti constatavano che Musiani Giovanni, soggetto affetto da schizofrenia
paranoide cronica, aveva accoltellato l’operatore Cardelli Ateo. Quest’ultimo,
attinto alla regione sottoclaveare sinistra, nonostante venisse
sottoposto immediatamente alle cure del medico, intervenuto prontamente con
un’ambulanza, decedeva alle ore 9,30 per arresto cardiocircolatorio. Gli
operanti, dopo avere tratto in arresto il Musiani, rinvenivano sotto il
materasso del letto in uso al medesimo un coltello da cucina con una lama di 22 cm., ancora
sporco di sangue, utilizzato dal paziente per colpire il Cardelli.

Nella c.n.r.
si legge testualmente: “… Dalle dichiarazioni essenzialmente è emerso che il Musiani
negli ultimi tempi aveva manifestato un peggioramento della sua condizione
mentale; infatti rifiutava il cibo ritenendo che fosse avvelenato, si era
isolato diventando ossessionato da tutto quello che lo circondava evitando di
assumere i medicinali che gli erano stati prescritti. Si è evidenziato che
questo peggioramento è stato una conseguenza della diminuzione del dosaggio dei
farmaci disposto dal Dr. Pozzi Euro,
psichiatra che ha in cura il Musiani dal novembre scorso”.

A seguito dell’omicidio, Musiani
Giovanni veniva arrestato e allo stesso veniva
applicata dal G.I.P. la misura di sicurezza del ricovero presso un ospedale
psichiatrico giudiziario. Lo stesso veniva quindi
ristretto presso la struttura di Montelupo Fiorentino.

Tutti i soggetti operanti nella
comunità Albatros sentiti nelle immediatezze del fatto riferivano di avere
constatato un notevole peggioramento dell’umore e del comportamento da parte
del Musiani nelle ultime settimane prima del tragico evento (cfr. s.i.t. Mancuso Maria, Gobbi Sprocagnocchi Paola, Dovesi
Carla, Zanelli Silvia).

Significative
sono le dichiarazioni rese da D’Attanasio Federica, assistente di base della
Comunità, la quale riferiva quanto segue: “… Circa quindici giorni fa, il dott.
Pozzi, ritenendo che le condizioni del Musiani fossero sensibilmente
migliorate, gli ha modificato la terapia farmacologica ed in particolare ha
ritenuto di non praticargli più una particolare terapia intramuscolare… In
coincidenza di tale fatto, ho potuto constatare un sensibile cambiamento di
umore da parte del Musiani. Infatti, egli tendeva
spesso ad isolarsi ed era divenuto un po’ aggressivo nei confronti degli ospiti
dell’Albatros ed in particolare con alcuni operatori di sesso maschile (…). Il
Musiani, a seguito di questo cambiamento di umore,
rifiutava il cibo e qualsiasi terapia medica propostagli. Egli era solito
recarsi in qualche bar a consumare i suoi pasti. In
verità ero molto preoccupata per tale atteggiamento tanto che tale
preoccupazione si era trasformata in paura quando il
Musiani aveva cominciato a chiedermi di aiutarlo ad ammazzare, come diceva lui,
tutti. Tale richiesta, come ho saputo successivamente,
il Musiani l’ha fatta anche al Foschini Aldo. Avevo fatto presente questo fatto
alla mia coordinatrice ed avevo annotato il tutto nel quaderno delle consegne
che voi avete sequestrato. Tali richieste sono
cominciate circa 15 giorni fa a seguito dell’interruzione della terapia
intramuscolare. Avevo la strana sensazione che qualcosa dovesse
accadere…”.

La dott.ssa
Morini Laura, coordinatrice della Comunità Albatros, dichiarava agli operanti
che il Musiani aveva da sempre esternato la volontà di interrompere la terapia
farmacologica ma che i precedenti medici che lo avevano in cura non avevano mai
ritenuto opportuno accontentarlo. Il dott. Pozzi, al contrario, aveva cominciato a diminuire il dosaggio delle iniezioni,
mantenendo inalterata la terapia orale; lo stesso si era peraltro raccomandato
di avvertirlo nel caso in cui fossero subentrate delle novità o dei motivi di
preoccupazione. La Morini riferiva inoltre di avere avvertito
Pozzi, verso la metà del mese in corso, dei primi segnali di malessere
manifestati dal paziente; dopo qualche giorno lo aveva informato che la
situazione stava rapidamente peggiorando e gli aveva chiesto di anticipare la
visita programmata per il giorno 23 maggio; lo psichiatra le aveva quindi
suggerito di accompagnare il Musiani nel pomeriggio del giorno 18 maggio.
Tuttavia, poiché il paziente si era rifiutato di recarsi alla visita, dopo
varie insistenze da parte della Morini, il Pozzi si
era recato presso la struttura residenziale ove aveva incontrato il Musiani;
quest’ultimo si era però opposto a che gli somministrassero nuovamente il
neurolettico depot, non riconoscendo al Pozzi il suo ruolo di medico. Alla
fine, il Pozzi si era lasciato convincere dal paziente
che il giorno successivo si sarebbe fatto praticare l’iniezione dalla dott.ssa
D’Angelo (medico di base del paziente), cosa che effettivamente era avvenuta il
giorno dopo. La coordinatrice aggiungeva che il giorno 22 maggio era stata informata
da uno degli operatori che il Musiani non aveva
assolutamente cambiato il suo comportamento e che stava ulteriormente
peggiorando. La stessa aveva telefonato al dott. Pozzi, il quale, tuttavia,
essendo di fretta, le aveva risposto di chiamarlo alle successive ore 17,00; nell’occasione la Morini gli aveva riferito che il
Musiani da alcuni giorni si rifiutava di assumere le gocce di ‘Valium’ ed
‘Entumin’ e il Pozzi le aveva replicato che era sua intenzione inserire nella
terapia anche del Clopixol. Dichiarava infine la Morini: “i
rapporti fra il Musiani e il Cardelli sono sempre stati in un ambito di
normalità e fra i due non ci sono mai stati episodi di litigi; solo in questi
ultimi giorni il Musiani si comportava con il Cardelli nella stessa misura in
cui si comportava con la maggior parte degli operatori e cioè rifiutava
qualsiasi contatto fisico e visivo”.

L’odierno imputato (le cui
dichiarazioni risultano in questa sede pienamente
utilizzabili in quanto rese in un momento in cui non emergevano nei suoi
confronti indizi di reità) riferiva ai verbalizzanti di avere cominciato a
seguire il Musiani dal novembre 1999, allorquando la dott.ssa Cavedoni,
psichiatra referente del paziente, e la dott.ssa Passarelli lo pregarono di
subentrare alla prima per delle difficoltà di carattere relazionale che si
erano manifestate. Dichiarava il Pozzi che “il
paziente presentava un quadro di schizofrenia paranoide cronica in condizioni
di buon compenso e per questa patologia assumeva costantemente neurolettici
depot, neurolettici per bocca, farmaci anti parkinsoniani e tranquillanti tipo
benzodiazetipinico; inoltre il Musiani presentava alcune problematiche del tipo
medico quali blocco atrio-ventricolare, altre problematiche del tipo
ipertensivo; infine, a causa della costante assunzione di farmaci neurolettici
presentava segni di parkinsonismo iatrogeno”. Spiegava quindi di avere
inizialmente deciso di proseguire la terapia esistente, verificando ad ogni
somministrazione di neurolettici depot – che avveniva ogni tre settimane – il
quadro clinico del paziente. Nei mesi successivi, dopo avere accertato che
permanevano le sue condizioni di buon compenso psicopatologico, tenuto conto
dei problemi di tipo parkinsoniano che presentava il paziente, della sua
collaborazione ad assumere la terapia per bocca e della sua manifestata volontà
di interrompere il trattamento depot, il Pozzi aveva
deciso di diminuire a scalare il dosaggio di questo tipo di neurolettici,
invitando al contempo gli operatori a fornirgli elementi e notizie “nel caso
avessero notato alterazioni dello stato psichico del paziente”. Riferiva,
inoltre, che una decina di giorni prima della tragedia, il personale della
comunità gli aveva comunicato che il Musiani stava ripresentando aspetti
deliranti di chiusura e di rifiuto del cibo. In giorno 19 maggio era prevista
la visita del Musiani ma questi si era rifiutato di
recarsi dallo psichiatra; il dottore si era quindi recato personalmente presso
la comunità Albatros ove aveva constatato il peggioramento della situazione
psicopatologica del paziente; costui, infatti, aveva rifiutato di avere
rapporti con il medico nonché di farsi fare l’iniezione di neurolettici. Dopo
avere parlato con il Musiani ed avere ricevuto assicurazioni che si sarebbe fatto fare l’iniezione il giorno successivo dal suo
medico curante, il Pozzi aveva lasciato il farmaco depot ai responsabili in
modo che, il giorno dopo, la dott.ssa D’Angelo avrebbe potuto
somministrarglielo per iniezione. Nel frattempo, lo psichiatra aveva preso
contatti con il dott. Giovannini, il collega che sarebbe subentrato per le
urgenze, avvertendolo che, nel caso in cui il Musiani avesse rifiutato la
terapia, sarebbe stato necessario chiedere un T.S.O.
Tuttavia, il giorno successivo, era stato rassicurato dai colleghi sul fatto
che l’uomo aveva accettato di farsi praticare l’iniezione dalla dott.ssa
D’Angelo. Nella mattinata del giorno prima l’accoltellamento, la Morini aveva
contattato l’attuale imputato per riferirgli che, sebbene fosse stato
somministrato al Musiani il farmaco depot, lo stesso presentava ancora aspetti
deliranti, per cui il Pozzi le aveva indicato di
introdurre nella terapia serale un nuovo neurolettico in compresse.

Il giorno successivo, gli
operanti provvedevano ad escutere a s.i.t. la dott.ssa
Passarelli Angiola Maria, la quale ebbe a lavorare presso l’ospedale
psichiatrico di Imola per nove anni, sino alla chiusura avvenuta nel 1996,
proprio nel reparto in cui era ricoverato il Musiani. La stessa dichiarava
testualmente: “…Durante il mio servizio di lungo degenza
al reparto n. 7, ricordo che il dott. Vinci, che era il primario, si raccomandò
di non calare la terapia neurolettica al Musiani, anche se lui continuamente lo
chiedeva, perché c’era la possibilità che il paziente si scompensasse. Questo
tipo di raccomandazione l’avevo trasmessa alla
dott.ssa Cavedoni dal momento in cui lei iniziò a seguire il Musiani e,
successivamente, quando subentrò alla dott.ssa Cavedoni il dott. Pozzi, ritenni
opportuno ribadire anche a lui la predetta raccomandazione”.

La dott.ssa
Cavedoni Alessandra riferiva di essere stata il consulente psichiatra di
Musiani Giovanni dalla primavera del 1997 (data nella quale lo aveva preso in
carico dalla collega Passarelli) sino all’autunno del 1999. La stessa asseriva
che il Musiani era sempre stato un paziente difficile da trattare “in quanto
non ha mai accettato facilmente la somministrazione di medicinali perché lui
riteneva di non averne bisogno”; proprio per questo motivo, la psichiatra aveva
accettato di diminuire la terapia orale. La donna
dichiarava, tuttavia, che il Musiani – per quanto lei potesse
ricordare – non aveva mai manifestato comportamenti aggressivi nei confronti
delle altre persone.

Foschini Aldo, assistente di base
presso il centro Albatros, affermava che, sino a qualche mese prima, il Musiani
si era sempre comportato in maniera tranquilla ed era sempre apparso
disponibile alla compagnia; ad un certo punto, tuttavia, a seguito del decesso
di due donne ricoverate nella struttura, il paziente aveva iniziato a chiudersi
sempre di più in sé stesso, rifiutando anche di nutrirsi e di assumere la terapia orale.

L’addetta alle
pulizie Gobbi Sprocagnocchi Paola dichiarava di avere notato che, già da
alcuni giorni, il Musiani era diventato silenzioso e triste e che parlava
sovente da solo; in un’occasione le aveva detto: “Paola, vai, vai, che qui si
muore”, probabilmente riversando su di lei la paura della morte.

Frau Andrea, volontario del
servizio civile da circa tre mesi, asseriva che il Musiani, nei primi due mesi
e mezzo, gli era parso disponibile e cordiale; tuttavia, nell’ultimo periodo –
in particolare da quando gli era stata tolta l’iniezione di
neurolettici – lo stesso era divenuto introverso, sospettoso e aveva
difficoltà a riconoscere le persone. Di tutto ciò egli aveva informato
i responsabili della comunità. Il volontario non era però in grado di affermare
con certezza se il Musiani assumesse o meno la terapia
orale.

L’assistente di base Mancuso
Maria confermava quanto riferito dagli altri operatori in
ordine all’atteggiamento assunto dal paziente negli ultimi quindici
giorni e riferiva di avere avuto la netta sensazione che il Musiani non
assumesse più la terapia orale, per cui di ciò ne aveva fatto menzione nelle
consegne giornaliere. La donna sosteneva inoltre di avere visto negli ultimi
due giorni il Musiani con uno sguardo strano e che ciò le aveva fatto pensare che l’uomo stesse meditando “qualche cosa di
poco piacevole”.

Il 17 giugno 2000, gli operanti
procedevano all’escussione di Olivieri Manuela,
operatrice nel campo dell’assistenza, legata sentimentalmente al Cardelli da
tre anni. La donna dichiarava che il compagno aveva iniziato a lavorare presso
la comunità Albatros da circa un anno, dopo che era stato allontanato dal
precedente posto di lavoro (assistenza a portatori di handicap) in quanto si
era reso responsabile di comportamenti nei confronti di un assistito che
“avevano leso l’immagine della capacità di assistenza
dei Servizi Sociali imolesi”. Il Cardelli le aveva in
più occasioni raccontato che vi era un ospite della residenza che più volte lo
aveva avvicinato e, in dialetto, lo aveva minacciato di morte. Un mese prima di morire, la vittima aveva manifestato alla
Olivieri i propri timori, riferendo che il Musiani era notevolmente scompensato
ed aveva intensificato le minacce. La donna, evidentemente preoccupata, gli
aveva consigliato di metterne a conoscenza il dott. Pozzi e si era informata
se quest’ultimo avesse pensato ad intervenire per consentire al paziente di
superare la fase di scompenso ma la futura vittima le
aveva risposto di essere al corrente del fatto che il medico aveva pensato a
dei cambiamenti ma, non avendolo mai incontrato, di non sapere di cosa si
trattasse. Nell’ultimo periodo, il Cardelli le aveva riferito
che il Musiani stava sempre più peggiorando, che aveva smesso di uscire dalla
propria stanza e che non voleva più assumere la terapia farmacologica. La sera
della tragedia, la zia del Cardelli le aveva raccontato che il
giorno prima, recandosi a casa sua per prendere il figlio, il nipote le
aveva detto che quel pomeriggio il Musiani, in dialetto, aveva nuovamente
minacciato di ucciderlo con un coltello.

Il P.M. incaricava il dott.
Renato Ariatti della consulenza tecnica in ordine alla
capacità di intendere e di volere del Musiani al momento del fatto criminoso
nonché all’attuale pericolosità sociale.

Lo psichiatra, dopo avere
incontrato il paziente presso l’O.P.G. di Montelupo
Fiorentino, nel concludere per una palese condizione di incapacità di intendere
di volere al momento del fatto e di evidente pericolosità sociale, nella sua
relazione scriveva: “(…) Tutta la documentazione esaminata, che copre un arco
di moltissimi anni, nonché gli accertamenti recentemente condotti, orientano in
modo inequivocabile per una grave patologia schizofrenica, esordita oltre
trenta anni fa, e poi cronicizzatasi nonostante le diverse terapie tentate. Nella
storia del periziando infatti si ritrovano, variamente
associati fra loro, anche se in epoche cronologicamente diverse, e con
prevalenza ora dell’uno, ora dell’altro, tutti i sintomi patognomonici della
schizofrenia, e che costituiscono i criteri universalmente accettati in ambito
scientifico per porre diagnosi di tale patologia. Sono
infatti ampiamente descritti, nelle cosiddette fasi “attive” o floride
del disturbo, idee deliranti, a prevalente contenuto persecutorio,
allucinazioni, soprattutto uditive, eloquio a tratti incoerente e
disorganizzato, comportamento sovente inadeguato, con lunghe fasi di
appiattimento dell’affettività, abulia, negativismo, ritiro e “chiusura”. Si
può concordare, più nello specifico, con la diagnosi posta in più occasioni dai
colleghi imolesi di “schizofrenia paranoide. (…) I
temi persecutori, soprattutto in questa variante della malattia, rappresentano,
unitamente ad una modalità di comportamento stenica ed oppositiva, l’aspetto
più rilevante ai fini del rischio di manifestazioni di violenza eterodiretta
(…)”.

Il P.M. procedeva altresì ad
incaricare il prof. Michele Schiavon e il dott. Mario Iannucci della consulenza
tecnica avente ad oggetto, tra l’altro, il seguente quesito: “se la patologia della quale è affetto Musiani fosse tale da
far prevedere la consumazione di fatti di violenza in danno di persone ed, in
particolare, degli operatori con i quali era in contatto al momento
dell’omicidio e, in caso positivo, se il trattamento farmacologico e
terapeutico prestato al medesimo Musiani nel periodo immediatamente precedente
e concomitante ai fatti di causa fosse o meno idoneo a contenerne la
pericolosità sociale”. Delle risultanze di tale
consulenza tecnica si darà conto nel corso della trattazione.

In data 23 settembre 2003, il
Musiani decedeva presso l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia per “uno shock
emorragico derivato da un’imponente emorragia digestiva, derivata
dalla fistolizzazione di un vaso mediastinico di un voluminoso diverticolo
paraesofageo” (cfr. esiti consulenza tecnica disposta
dal P.M. di Reggio Emilia).

* * * * *

Preliminarmente ad ogni
valutazione di merito, è necessario, ad avviso di questo giudicante,
evidenziare il quadro psico – patologico del Musiani al momento del fatto, con
particolare riguardo all’anamnesi personale e patologica del medesimo e al
progressivo riacutizzarsi della malattia e degli impulsi di aggressività
manifestatisi nelle settimane anteriori all’accoltellamento del Cardelli.

A tale proposito va sottolineato che vi è un sostanziale accordo tra tutti gli
psichiatri che si sono interessati della vicenda (o perché medici curanti del
paziente o perché incaricati di redigere consulenze o perizie in questo
procedimento) sulla patologia psichiatrica dalla quale era affetto il Musiani:
si trattava di una forma di “schizofrenica paranoide cronica” in fase di
parziale remissione.

Con riguardo all’anamnesi del
medesimo e ai suoi trascorsi giudiziari e clinici, significativa
è la ricostruzione operata – attraverso l’esame della copiosa documentazione
acquisita presso i vari O.P.G. e il Dipartimento di Salute Mentale di Imola –
dai consulenti tecnici del P.M. Nella stessa si legge:

“(…) L’esordio certo della storia
psichiatrica di Musiani è collocabile nel novembre del 1970, periodo nel quale,
essendosi reso autore di un reato di resistenza a pubblico ufficiale, venne sottoposto a perizia psichiatrica e giudicato non
imputabile per totale infermità di mente. Trascorse allora quattro anni
(1970-1974) in misura di sicurezza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario (nelle
sedi di Reggio Emilia e Aversa) e al termine di detto periodo venne trasferito all’Ospedale Psichiatrico di Imola per
proseguimento cure. L’esame puntuale delle cartelle di ricovero in detti OO.PP.GG., reso in parte problematico per parziale
illeggibilità delle stesse, consente comunque di annotare come sussistesse una
conclamata condizione psicotica, con ideazione delirante, e come fossero
presenti manifestazioni di aggressività e intolleranza tali da comportare
frequenti provvedimenti di contenzione, evidenziandosi mancanza di
collaborazione col personale e aperta ostilità verso le proposte di terapia.
Dall’anamnesi redatta nell’OPG di Reggio Emilia si apprende che già nel 1963
(all’età di 22 anni) aveva avuto un episodio acuto
psichiatrico, definito come “crisi catatonica”. Tuttavia il disturbo non venne trattato per l’indisponibilità del paziente a curarsi.
Ricorrono spesso annotazioni che segnalano una “latente pericolosità verso gli altri”, ma sono anche registrati palesi scompensi comportamentali,
con atteggiamenti di estrema violenza, in presenza di uno stato dissociativo.
Nella relazione prodotta per il trasferimento in OPG ad Aversa si conclude che Musiani è affetto da schizofrenia
similcatatonica, che è estremamente pericoloso in senso psichiatrico e che
necessita di continue cure ed assistenza. “Malgrado le
continue terapie eseguite – continua la
relazione – le condizioni psichiche non sono di molto migliorate ma perlomeno
dette cure sono riuscite a sedare la violenta aggressività e a controllare la
continua pericolosità”. Nel marzo 1974, conclusa la permanenza in OPG con
revoca della misura di sicurezza dopo un anno di proroga, viene
inviato dapprima presso l’O.P. S. Maria Maddalena di Aversa
e quindi, per competenza di zona, viene trasferito all’Ospedale Psichiatrico S.
Maria della Scaletta di Imola. In questa sede rimane ricoverato per oltre 20
anni in maniera praticamente continuativa, fino
all’atto di definitiva dimissione, nel 1995. Interessa riportare, per rendere in modo
sintetico i contenuti delle relative cartelle, talune delle annotazioni più
idonee a descrivere il decorso clinico e gli approcci terapeutici applicati.

All’ingresso (settembre 1974) le
condizioni psico-comportamentali erano stabilmente caratterizzate come molto
gravi:

23.9.1974: “scontroso,
impaurito e a tratti incoerente”

28.12.1974: “continua
il processo di regressione dimostrando di non aver più fiducia in nessuno e
manifestando una ideazione incoerente con tendenza ad organizzare idee di tipo
persecutorio in modo però frammentario e scarsamente comprensibile”

10.1.1975 :
“rifiuta qualsiasi terapia. Rifiuta di alimentarsi per cui
si deve ricorrere ad ogni sorta di trucchi e di stimoli perché si alimenti in
modo sufficiente [… ]”

26.1.1975 :
“[ … ] si tenta una terapia iniettiva con quei pochi farmaci che ancora non
sono stati usati ma la reazione alle iniezioni compare ogni giorno sempre più
violente e ostinata, aumentando l’ostilità nei nostri riguardi “

10.10.1975:
“Nuovo peggioramento dello stato mentale: molto dissociato, scontroso,
verbalmente minaccioso, incoerente”

18.10.1975: “[ … ] sitofobia e
mutacismo ostinato. Lo si contiene”

9.1.1976: “Stamane ha aggredito
il medico di reparto alle spalle tentando di strangolarlo. Sono occorsi 3 infermieri
per ridurlo a letto”

20.1.1976 :
“( …] Ogni volta che gli si pratica una fleboclisi occorre che il personale
ingaggi una lotta per tenerlo fermo […]”

Interessante l’annotazione del
16.12.76: “Stesso comportamento scontroso, taciturno. Ha raptus di violenza
durante i quali aggredisce ed è veramente pericoloso.
Tuttavia le sue aggressioni appaiono sempre premeditate in quanto esse avvengono proditoriamente […]”

10.9.1977: “Estremamente
scontroso, non si presta assolutamente al colloquio, quando parla l’eloquio è
sconnesso, incoerente, sempre con contenuti minacciosi verso chiunque”

18.3.1978 :
“Sempre scontroso, disordinato, minaccioso, aggressivo spesso con
premeditazione”

17.5.1978: “Dopo aver rotto
alcuni bicchieri, con un frammento ha procurato una lieve ferita al capo al
degente S (…)”.

Si registrano, nell’estate del
1978, un’attenuazione dei disturbi comportamentali e una maggiore adeguatezza. Viene quindi provata una dimissione con affidamento ai
familiari, “con l’impegno [inoltre] di seguirlo nel limite delle possibilità a
domicilio”. Esce, il 13 luglio 1978, con diagnosi di schizofrenia paranoide.
Dopo appena un mese tuttavia, il 14 agosto 1978, Musiani deve essere ricoverato
ancora una volta presso il Servizio Psichiatrico Ospedaliero di S. Maria della
Scaletta, avendo espresso nuovi e gravi disturbi del pensiero e delle condotte.
Si legge infatti che “ha presentato comportamenti
violenti ed aggressivi nei confronti dei vicini di casa”. E,
ancora una volta, la cartella clinica documenta un prolungato periodo di grave
disordine psico-comportamentale, con reiterati rifiuti della terapia
neurolettica prescritta e con episodiche reazioni violente.

20.2.1979: “Si sospende Moditen
depot per grave stato di impregnazione”

Nuovo allarmante
episodio di aggressività il 21.7.1979: “Ha avuto un tentativo di aggressione
nei confronti di un infermiere. Si è scoperto che teneva una bottiglia di vetro
che si teme volesse usare come arma. Si sostituisce
con bottiglia di plastica”. Sono presenti anche comportamenti bizzarri:

31.8.1979: “[…] è sudicio e continua a gettare escrementi dalla finestra
[…] “.

Dal 10.10.1979 viene
dimesso e accolto a Villa dei Fiori, con diagnosi di psicosi delirante. Il
ricovero, che si protrae fino al marzo 1981, mette in
evidenza i consueti comportamenti caratterizzati da sporadica
impulsività, aggressività verbale, con ideazione delirante.

In data 19.2.1981 è stato inserito in
una nota di persone che devono essere trasferite all’ O.P. durante la validità
della proroga concessa ai termini della legge 180 “.

Il 6 marzo 1981 riprende dunque
il ricovero in OP, alla “Scaletta” di Imola, ricovero
che si protrarrà fino al 30 dicembre 1995. Il diario clinico documenta un
prolungato periodo caratterizzato da disordine, bizzarrie, impulsività ed è
indicativo del peggioramento connesso alla processualità schizofrenica.
Persistono la totale assenza di coscienza di malattia, l’ostilità, i rituali
alimentari indicativi del delirio di veneficio. Nel maggio 1984 viene reimpostata una terapia con neurolettico depot (1/2 fl
di Moditen depot) abbinando opportuna terapia di controllo dei concomitanti
effetti extra piramidali (manifestazioni che in precedente tentativo avevano
indotto alla sospensione del trattamento). La nuova terapia induce significativi miglioramenti (2.7.84: “Dati i risultati
conseguiti, e in certo modo ormai insperati, continua nella terapia con Moditen
Depot”) e consente di ripristinare modalità di discreto adeguamento alla realtà
da parte del paziente. Risulta molto attenuata la
clamorosità comportamentale e il paziente prende qualche timida iniziativa
(21.1.85 “esce, a sua discrezione, dal
reparto, girando per il parco e andando al Centro sociale, facendo qualche
acquisto, mantenendo, in breve, comportamento corretto e rientrando
regolarmente ; [permangono tuttavia atteggiamenti patologici di fondo, visto
che la nota clinica continua così:] “sempre piuttosto chiuso, di poche parole,
a volte sospettoso o turbato da qualche sensazione o percezione abnorme, ma
senza manifestazioni di impulsività”). Negli anni seguenti permane la
sostanziale riduzione delle anomalie comportamentali, spesso è sottolineato un
atteggiamento tranquillo, disciplinato e adattato, anche se si rileva un
contegno improntato a petulanza e stolidità, con grave ipocritica. Nel 1988
viene anche avviato al lavoro presso il centro sociale, risultando
tranquillo e disponibile al colloquio, “persino ironico e scherzoso”. Prosegue
il trattamento con neurolettico depot e non vengono
più annotate segnalazioni di scompenso psico-comportamentale, venendo apposti
soprattutto aggiornamenti di interesse internistico. Nell’ultimo (14.8.95)
aggiornamento della terapia si conferma la prescrizione del Moditen Depot 1 fl
ogni 3 settimane, insieme con terapia neurolettica orale. La dimissione è
attuata il 30.12.1995: “su disposizione del dr.
Venturini il paziente viene dimesso non necessitando
ulteriormente di regime di ricovero ospedaliero, con diagnosi di sindrome
residuale in psicosi schizofrenica”.”.

Il quadro clinico relativo a oltre trent’anni di ricoveri in strutture psichiatriche è
inequivocabile: si trattava di un paziente affetto da una forma di schizofrenia
molto grave, caratterizzata da importanti disturbi comportamentali e da
frequenti manifestazioni di violenza o aggressività. Parimenti, non vi è dubbio
come l’introduzione di una terapia a base di antipsicotici
depot (dal maggio 1984) avesse comportato un significativo miglioramento delle
condizioni del paziente e una concreta attenuazione degli scompensi psico –
comportamentali.

Questa è sostanzialmente la
situazione del Musiani allorquando, nel dicembre 1995, dimesso dall’ospedale
psichiatrico, fece ingresso nella comunità Albatros di Imola.

Va peraltro evidenziato che, dal
momento dell’ingresso in comunità sino al marzo 1999, non si registrano
annotazioni nella cartella clinica del paziente; il che (oltre a costituire uno
degli addebiti contestati dal P.M. alle dott.sse
Passatelli e Cavedoni) rende assai ardua una esaustiva e puntuale ricostruzione
della storia clinica del Musiani nei primi tre anni all’interno della
struttura.

Nel primo periodo Giovanni
Musiani fu affidato alle cure psichiatriche della dott.ssa
Passarelli, la quale era anche lo psichiatra referente del D.S.M. per la
comunità Albatros. Durante il corso del 1998, tuttavia, a causa di difficoltà
insorte nella relazione terapeutica con il paziente, la Passarelli chiese alla
collega Cavedoni di subentrarle come psichiatra curante. Nel 1999, fu la dott.ssa Cavedoni a domandare all’odierno imputato di
prendere in carico il Musiani, anche in questo caso per difficoltà relazionali
nel rapporto medico – paziente.

Non ha una data certa il
passaggio delle consegne tra la Cavedoni e il Pozzi;
tuttavia non si ha ragione di dubitare di quanto riferito dall’imputato in sede
di interrogatorio reso innanzi a questo giudicante, allorquando egli ha
dichiarato che ciò avvenne negli ultimi mesi del 1999 (tale circostanza
peraltro trova conferma nelle dichiarazioni rese dalla stessa Cavedoni alla
P.G. il 25 maggio 2000). Ciò che è certo è che il 1° ottobre 1999 il dott.
Pozzi è lo psichiatra curante del Musiani posto che in tale data risulta avere redatto la sua prima annotazione nella
cartella clinica del malato.

Ha riferito il
Pozzi (cfr. interrogatorio in data 25 novembre
2005) che si trattava di “un paziente difficile, ostile, paranoico,
caratterizzato da rabbiosità in condizioni di deterioramento cognitivo in fase
stazionaria”; tuttavia non vi erano più
manifestazione di recrudescenza patologica da alcuni anni e che aveva una
propria autonomia di vita (si preparava da mangiare, usciva per compere personali, ecc.). Lo stesso
imputato, peraltro, ha sostenuto con i consulenti del P.M. che la collega
Cavedoni, nel passaggio delle consegne, non gli riferì
in alcun modo che, in passato, il Musiani era stato internato in O.P.G.

Dal canto suo, la Passarelli ha
esplicitamente dichiarato di avere trasmesso sia alla Cavedoni, sia successivamente al Pozzi, la raccomandazione fattagli dal
dott. Vinci, primario dell’ospedale psichiatrico di Imola, “di non calare la
terapia neurolettica al Musiani, anche se lui continuamente lo chiedeva, perché
c’era la possibilità che il paziente si scompensasse”.

Importantissimi elementi in ordine al vissuto del Musiani all’interno della comunità
e all’excalation della recrudescenza della sua patologia possono trarsi dalle
annotazioni riportate – per la verità, con regolarità e puntualità – nel diario
relativo tenuto dagli operatori della residenza nonché dai verbali delle
riunioni settimanalmente tenute dagli stessi operatori mentre le annotazioni
sulla cartella clinica (invero riferibili soltanto all’odierno imputato) sono
rare e laconiche.

In questa sede, appare opportuno
riportare le annotazioni più significative ai fini che
ci riguardano.

Assai rilevante, in quanto
sintomatica di un’aggressività fino in fondo mai sedata, è l’annotazione datata
2 ottobre 1999 (il giorno successivo alla formale presa in carico del paziente
da parte del Pozzi): “Oggi a tavola Pezzi, in uno dei
suoi raptus, ha minacciato con un pugno chiuso e ripetutamente Musiani, il
quale con fare repentino portava il coltello, con il quale stava tagliando la
braciola, tra le sue gambe. Dato che quando distribuiamo i coltelli (solamente
a quelle persone che sanno tagliarsi il cibo autonomamente) li controlliamo
ancora più strettamente non ci è sfuggita la mossa
repentina. Ce lo siamo fatto consegnare immediatamente
(…). Alle nostre domande sul suo gesto, Giovanni ha risposto in modo
consapevole che lo avrebbe usato, il coltello, come arma di difesa, nel caso
che Pezzi lo avesse aggredito …”.

La prima nota a firma del dott.
Pozzi porta la data del 22 novembre 1999; scrive in quella data lo psichiatra
sulla cartella clinica del paziente: “(…) è costantemente seguito dal nostro
servizio dal 1974 per psicosi schizofrenica paranoide cronica. E’ attualmente seguito con una costante terapia farmacologica
(neurolettici, neurolettici depot, ansiolitici) ed un progetto riabilitativo
individualizzato portato avanti dagli educatori che operano presso la comunità.
II quadro psicopatologico è tuttora invariato, ma non presenta più significativi episodi di recrudescenza”.

Il 21 gennaio 2000, un’operatrice
annota: “Musiani ha tentato per due volte di toccarmi e baciarmi”.

Altro episodio di
incontrollata rabbia si verifica il 18 febbraio 2000, allorquando viene
riportato sul diario: “Giovanni ha avuto una “sclerata” convogliando la sua
aggressività nei confronti di Franca. La motivazione era che lei non mangiava
il cibo che le veniva proposto perciò lui spendeva dei
soldi per comperare delle vivande che poi vengono gettate (…). L’alterco è
stato piuttosto lungo (…)
L’espressione del viso e la foga che lo animava, faceva supporre
che Giovanni si sentisse defraudato effettivamente da Franca e si sentisse
‘CONTAMINATO’ perché per preparare la pasta in bianco per lei usavamo i suoi
pentolini”.

Il 25 febbraio, gli operanti
trascrivono l’avvenuto incontro con il dott. Pozzi: “…Accompagnato alla Villa
dei Fiori x la puntura. Alla prossima, tra 3 settimane, dovrà anche fare 1
colloquio col suo psichiatra, dott. Pozzi, al quale sicuramente chiederà di
eliminare le medicine”. Il successivo 16 marzo vi è un’annotazione relativa alla prima riduzione della terapia farmacologica
operata dall’attuale imputato: “…accompagnato Musiani a fare la puntura alla
Villa e il colloquio con il dott. Pozzi. E’ stata portata a
1/2 la puntura di Moditen che fa ogni 3 settimane mentre invariata
quella di Lyseen. Da oggi fino al 7.4.2000 c’è da controllare che non abbia
problemi in modo che al prossimo colloquio verrà
riferito al medico la situazione che ha creato la riduzione della puntura o se
tutto va bene”.

A proposito della riduzione della
terapia, in data 16 marzo è annotato dal Dr. Pozzi: “Stiamo progressivamente diminuendo un po’ alla volta le
medicine”. Infatti in quella data veniva praticato un
dimezzamento della terapia depot (Moditen depot 1/2 fl).

Un evento che contribuisce
all’aggravarsi della situazione del Musiani e ad alimentare la diffidenza verso
gli altri è annotato il 3 aprile 2000: “…insiste
parecchio per essere accompagnato in Banca, perché vuole ritirare i 30 milioni
che ha depositato più di un lustro fa. A nulla valgono le nostre spiegazioni
sul punto che lui non possiede più quella somma, usata in questi anni per
pagare tutto ciò che gli serve per vivere. (…)
continua a ripetere, caparbiamente, che quei soldi, se qualcuno non li ha
rubati, devono essere ancora lì depositati (…) e se non facciamo qualcosa per
farglieli avere si rivolgerà ai Carabinieri”. Il tema del denaro “sparito” non
è contingente ma ritorna anche successivamente; così
viene riportato il successivo 11 aprile: “ … ‘Mi hanno portato via i soldi e
vogliono che io paghi!’. Da giorni infatti è molto
irritato x la questione denaro (…). Di questa cosa, nonostante ripetutamente informato,
non riesce a capacitarsi ed ha bisogno di attribuire per forza a qualcuno la
‘colpa’ di non avere più i soldi di un tempo. Rifiuta ogni confronto”.

Il 7 aprile 2000, vi è l’appunto relativo all’incontro con il Pozzi e alla somministrazione
dell’ultima fiala di depot (prima di quella del 19 maggio): “Accompagnato x la
puntura. Incontra velocemente il dott. Pozzi che, non avendo tempo, rimanda la
valutazione sulla attuale terapia iniettiva alla
prossima volta. Qualche giorno prima della puntura del
28.4 chiamerò lo psichiatra x fornire eventuali informazioni.
Scrivete tutto l’osservabile possibile se non rientra nel solito andamento di
Musiani”. Il 18 aprile viene annotato: “Chiamo il
dott. Pozzi per fare un po’ l’aggiornamento di Musiani. Gli racconto l’episodio
dell’arrabbiatura con noi, quando si parlò del calo del suo conto in banca.
Pozzi mi risponde che anche continuando a fare la puntura, non
è che si risolva questo problema. Pozzi quindi è intenzionato a togliere
definitivamente la puntura…”.

Scrive l’attuale imputato sulla
cartella clinica del paziente il 24 aprile 2000: “La diminuzione del dosaggio
di Moditen non ha avuto effetti negativi. Proverò questa volta a sospendere
completamente con l’accordo di vederci fra circa 1 mese e valutare assieme
(operatori + paziente) come sta andando. Sospeso Lyseen e sospeso
Moditen (si mantiene Entumin orale 5 + 8 gtt) “.

A proposito della decisione dello
psichiatra di interrompere la somministrazione del depot, il 28 aprile 2000 un
operatore scrive: “Incontro fra Musiani ed il dott. Pozzi, il quale dopo un
breve colloquio a tre, decide di sospendere le
iniezioni di Moditen e Lyseen fino a prossima verifica del 13.5.2000. Occorre
quindi raccogliere osservazioni su eventuali variazioni di comportamento …”.

Numerose, poi, sono le
annotazioni che concernono il difficile rapporto del Musiani con il cibo nonché l’idea costante del veneficio e della
“contaminazione” (così l’11 maggio: “Questa mattina (…) non accettava la
pasta e quindi si è cotto una pasta di suo gradimento. Al momento del pranzo
non ha accettato neanche il secondo dicendomi che le uova, come tutte le altre
cose che comperiamo, sono cattive e (truccate!) che le persone dove ci rechiamo a comperare il cibo truccano tutto. Ha richiesto di
mangiare le scatolette che quelle vanno bene!”; ancora il giorno successivo:
“Questa mattina Musiani è venuto in cucina e ha controllato con me il menù, che
è stato accettato (la pasta però bianca) lo sgombro
che avevo preparato nel vassoio l’ha rifiutato e ha richiesto le scatolette
sigillate. (…) non riesce a capire come mai le uova
sono così truccate e che non sa come la gente riesca a truccarle dentro (…).
P.S. (Questa mattina anche il latte non era più buono)”; il 15 maggio viene riportato: “Invitato a partecipare alla stesura del
menù alza le mani in alto, come in segno di resa, e sale nella sua camera. (…) Rifiuta il primo, minestrone di verdura, accetta il
formaggio che va a lavare nel lavandino del bagno dove consuma la cena. Non usa
né i piatti né le posate. Non accetta nessun tipo di dialogo
ma si guarda continuamente in giro e osserva tutto e tutti”).

Dalla metà di maggio, i segni di
un ingravescente malessere interiore nel paziente appaiono
sempre più accentuati. Il 14 maggio un operatore annota: “Musiani ha
un’espressione in volto di qualcuno che non è molto tranquillo, come se avesse
qualcosa di grave. Durante la cena gli ho chiesto se aveva
qualcosa che non andava, ha fatto un gesto come per dire vai…”. La mattina
del 15 viene annotato “Musiani resta tutto il tempo
seduto sul divano sempre con la stessa espressione, come se fosse arrabbiato! (…) Ho notato anche che dorme di meno rispetto a prima;
anche se resta a letto fino a tardi non dorme: la notte al minimo rumore di
Mario apre gli occhi, cosa che prima non faceva”; con riguardo alla stessa
notte viene riportato: “durante la notte poi quando va al bagno sembra
ispezionare le camere”.

Significativa
è l’appunto del 16 maggio, con riguardo ai rapporti con il medico psichiatra e
all’assunzione dei farmaci: “(…)
riferisco a Musiani dell’appuntamento di giovedì prossimo col dott.
Pozzi. La risposta di Giovanni è “Non è l’uomo per me,
lui non capisce niente, cosa vuoi che mi faccia?”. (…)
secondo me Musiani nel rito del lavaggio del bicchiere dopo la terapia butta
via le gocce…”.

Nella stessa giornata, la dott.ssa Morini riferisce nel verbale delle riunioni della
comunità Albatros: “[Musiani] ha avuto un crollo allarmante. Ho chiamato Pozzi
e ho preso l’appuntamento per giovedì pomeriggio. Ho raccontato gli ultimi
episodi avvenuti: il modo di guardare; ieri sera non ha posato il cibo nel
piatto. Da un mese e mezzo gli è stato tolto il depò. Dopo parlerò con Musiani
per dirgli che l’appuntamento è stato anticipato” e ancora: “Musiani è molto
attento a tutte quelle cose che gli riportano la memoria di altre
morti vissute. Forse la terapia è stata tolta troppo in fretta “.

Datata 17 maggio è una lunga
annotazione da parte dell’operatrice Federica che riporta, con dovizia di
particolari, tutta una serie di atteggiamenti psico –
patologici notati nel Musiani; della stessa appare opportuno riportare un breve
stralcio: “…mi comunica che il suo medico è morto; gli spiego che si sta
sbagliando e che se voleva chiedevamo conferma a Laura. Laura gli dice che il
suo medico attuale non è morto e che quel medico che nominava lui era un medico che lo seguiva molto tempo [prima]. Fa storie dicendo
che la D’Angelo non è brava perché non lo visita e che lo manda a fare delle
visite da dei medici che non capiscono niente (…)”.

Molto importante è altresì il
resoconto del giorno 18 maggio, in quanto significativo
della fondata preoccupazione che nutrono gli operatori della comunità per il
peggiorarsi delle condizioni mentali del paziente: “Insistiamo col dott. Pozzi
di venire in struttura a visitare Musiani dal momento che egli non ha voluto
recarsi alla Villa dei Fiori al consueto appuntamento. Musiani molto cupo ed a
tratti quasi delirante (pronunciava parole inesistenti nella realtà) ha ribadito a Pozzi con tono deciso (in un momento allungando
verso di lui le mani) che ormai la puntura gli è stata tolta e non la farà più.
Pozzi ed i suoi infermieri sono entrati in casa sua
invadendo il suo spazio, ma Musiani non lo conosce e non gli riconosce il ruolo
di medico psichiatra. Musiani ha inoltre negato di non mangiare, né di vivere
in modo appartato; ha negato in breve di stare male. Pozzi ha
modificato la terapia orale. Ho manifestato i nostri dubbi rispetto alla effettiva assunzione da parte di Giovanni. Pozzi dice di controllare meglio e dice anche che è diritto di
Musiani rifiutare che gli venga fatta la puntura, tuttavia domattina si tenterà
l’approccio con la dott. D’Angelo. Se funzionerà o meno,
lo dirò all’infermiera del Dr. Pozzi e si farà poi nuova verifica”.

Dal canto suo, il
Pozzi registra quanto avvenuto sulla cartella clinica del Musiani nel
modo che segue: “Chiamata urgente dalla comunità. Da alcuni giorni non si
alimenta più (cibi secondo lui avvelenati) è molto
chiuso e presenta spunti di riferimento. Al colloquio in V.D.
(ndr visita domiciliare) nega ogni problema, è aggressivo. Proveremo a utilizzare il M.M.G. (ndr medico di medicina generale) per
fargli ricominciare il depot. Non bisogna più togliere il depot, perché quando
sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile”.

La ricorrente ossessione del
paziente per la morte ritorna nelle annotazioni del registro delle consegne del
giorno successivo (giornata tragica per il Musiani poiché
gli viene comunicata la morte di due pazienti alle quali si sentiva legato
affettivamente): “non mi ascolta quando gli chiedo di bere le gocce prima di
andare in bagno per lavare il bicchiere (…) poi esce e va in sala (…)
quando Enzo ripassa gli dice “non vedi che stiamo morendo tutti!” indicando i
tavoli vuoti”; nello stesso giorno, all’ora di pranzo, un operatore annota
l’ennesima esternazione del Musiani: “Qua vogliono ammazzarci tutti. Hanno ammazzato le mie donne, hanno ammazzato Deanna”. Di
seguito viene trascritto: “la dr.ssa D’Angelo, molto
razionale ed essenziale, riesce a fargli accettare la puntura, nonostante lui
ripeta ugualmente di avere paura di essere ammazzato e che quella sarà l’ultima
volta che la farà. Più tardi lo raggiungo in camera con Ateo e gli dico che
purtroppo Deanna, in ospedale da tanto tempo, non, ce l ’ha
fatta x cardiopatia. Lui mi ha accusato (delirando) che l’ho ammazzata io e lui
invece vuole vivere. Lo rassicuriamo – ma sicuramente senza convincerlo – che
lui vivrà (…)”; ancora nello stesso pomeriggio: “Comunico a Musiani la morte di
Franca. Lui è a letto, mi guarda, e appena glielo dico chiude gli occhi e
scuote la testa, gli chiedo se vuole vederla e lui mi risponde di no scuotendo la testa. Non ha detto nessuna parola”.

Il 21 e il 22 maggio vengono riportate delle interessanti annotazioni relative
alla manifesta difficoltà nel fare assumere al malato la terapia prescritta
(“…appena mi avvicino all’armadietto dei medicinali alle 8.00 mi si avvicina
dicendomi che lui le medicine non le prenderà più… Rifiuta la terapia del
pomeriggio… Rimane tutto il pomeriggio
al piano superiore, quasi sempre chiuso nella stanza da bagno. Invitato a cena
non scende”; “Musiani stasera appena mi sono accostata all’armadietto delle
terapie, mi ha presa per le spalle invitandomi ad andarmene a casa, rifiuta la
terapia”; “Giovanni chiede di poter andare al bar, cerco di convincerlo ad
assumere prima la terapia, in un primo momento sembra rifiutarsi fermamente,
dicendo che le medicine non erano più buone, che erano
scadute e che, se insistevo, voleva dire che volevo morire anch’io. Poi
ha preso le scatole delle pillole… le
ha aperte e si è preso da solo la terapia. Le gocce le ha comunque
rifiutate”).

Altri episodi significativi
di una grave recrudescenza della patologia psichiatrica da cui è affetto il
Musiani si manifestano il giorno 22 maggio; l’operatore registra: “Paola è
scesa da me in cucina dicendomi che Musiani aveva fatto la pipì contro alla
porta e sul pavimento dalla parte di Mario, e poi vi ha versato sopra il
bagnoschiuma, dicendo che così “disinfettava!” (…). Dopo pranzo salgo in camera da Giovanni per dargli la terapia, lui
insiste nel rifiutare, ribadendo che in farmacia ci va lui a prendere ciò che
gli serve e dopo una mia insistenza ha “minacciato” di ammazzarmi,
dispiacendosi di doverlo fare”.

Il giorno antecedente l’omicidio,
è lo stesso Cardelli a narrare di una vicenda assai allarmante
(di fatto un’anticipazione della tragedia che si sarebbe consumata il giorno
dopo); l’operatore annota sul diario: “Ore 14,20 c. a. (…)
salgo con le confezioni di compresse intonse, in modo da non “CONTAMINARE” le
pasticche che Giovanni deve prendere (…). Lo trovo in uno dei 3 bagni. Mi
accoglie iniziando a dire di lasciarlo vivere. Gli rispondo che sono lì in quel
luogo solamente per offrirgli la terapia. Lui afferra una ‘padella’ e mi
colpisce. Lo disarmo facilmente e gli dico che non ho paura di lui. Si siede,
poiché è sedata la sua aggressività fisica, ma non certamente quella
psicologica. Inizia a sproloquiare dicendo che mi ha già detto di non seguirlo,
lui si era ‘nascosto’ in bagno ed io sono andato lì e l’ho importunato… poi
che dovevo andare in cucina a biascicare la roba… che lui il suo caffè se lo
compera al bar… che non ha bisogno delle medicine… che c’è già altra gente
che ha pensato a lui… Gli dico di prendere intanto
la terapia. La prende e poi si alza e minaccioso si avvicina a me parlando come
sopra. Mi pongo immobile, sguardo nello sguardo, di
fronte a lui, e dopo poco, visto che cede, cerco di riportarlo alla realtà,
alzando la voce e intimandogli di smettere di dire sciocchezze. Ha sicuramente
ragione Laura, che lui in questo momento è completamente fuori
dalla realtà ed è inutile cercare di farlo ragionare logicamente o
cercare di farlo rientrare nel mondo usando i metodi che sono validi con i
bambini…”.

L’ultima annotazione sul diario a
proposito del Musiani viene registrata nel pomeriggio
del 23 maggio ed è del seguente tenore: “(…) L’espressione è spaventata,
addolorata, smarrita. Mi si avvicina e mi chiede “E’ morta la,
la, la … “ non gli viene il nome, balbetta, è spaventatissimo.
“Franca!” dico io, e lui mi risponde “sì!, li hai
chiamati tu i becchini, vero?” Gli rispondo di sì, che l’ho fatto assieme a
Laura e lui “se muore qualcun altro sarai tu a chiamarli di nuovo, vero!” io
gli rispondo: “se sarò in turno, ma ora non dovrebbe morire più nessuno, stai
tranquillo!” A questo punto chiude la porta e mi spinge fuori. Non ho colto
accuse, contro di me, ma solo una disperata ricerca di sicurezza. Non è sceso a
cena”.

Il “caso” Musiani è all’ordine
del giorno della riunione della comunità tenutasi lo
stesso 23 maggio; nel verbale si legge: “All’origine dello scompenso di Musiani
si era pensato che potessero esserci tutti gli eventi luttuosi di questo
periodo (Deanna e Franca). In realtà i primi segnali di scompenso sono arrivati
prima e sono cresciuti di forza e di numero nei giorni subito successivi. Ora
sta male, chiuso in camera o in bagno. Va al bar per
mangiare, sceglie le persone con cui rapportarsi sia al bar che in
comunità…”.

In tale data compare anche
l’ultima annotazione del Pozzi sulla cartella clinica:
“Sabato mattina il MMG. ha praticato il Moditen. Oggi,
dopo avere sentito l’operatrice Laura decidiamo di introdurre anche un
Clopixol 25 mg ore 21 poiché permangono gli aspetti persecutori e non siamo
certi che assuma con regolarità le gocce di Entumin”.

* * * * *

Preliminarmente, occorre
evidenziare i profili di colpa, generica e specifica, addebitabili all’attuale
imputato, per poi affrontare le tematiche della
sussistenza di un nesso causale tra la condotta e l’evento, della concreta
prevedibilità di quest’ultimo, del concorso di cause e del concorso colposo nel
reato doloso.

In buona sostanza, ad avviso di
questo giudicante, sulla base dell’analisi del materiale probatorio e delle
argomentazioni di carattere tecnico scientifico apportate dagli specialisti, le
violazioni delle regole di condotta dell’attività medico –
psichiatrica ascrivibili al Pozzi possono essere così riassunte:

1) nell’avere modificato la
terapia farmacologica del paziente (prima riducendo e poi sospendendo la
somministrazione del farmaco depot), in assenza di un’adeguata conoscenza
dell’anamnesi personale e patologica, remota e prossima, dello stesso, senza
valutarne adeguatamente la condizione del momento con riferimento alla
recrudescenza dei sintomi di aggressività manifestati
e senza coordinarsi con i responsabili e gli operatori della comunità;

2) nel non avere commisurato, per
qualità e quantità, le visite al Musiani alla reale necessità e cogenza che la
situazione invece richiedeva e nel non avere accompagnato alla riduzione della
terapia farmacologica l’approntamento di quelle misure di supporto che
avrebbero potuto in qualche modo contenere la riacutizzazione
della patologia;

3) nel non avere richiesto, come
invece la legge gli imponeva, nel momento in cui lo scompenso psicopatologico
del paziente era assolutamente manifesto, il T.S.O.

Trattasi, come
è evidente, di una condotta da valutarsi nel suo complesso, in cui i
profili di colpa commissiva (consistita nell’avere modificato la terapia
farmacologica) si intrecciano necessariamente con profili di colpa omissiva
(difetto di informazione, mancato
approntamento delle necessarie cautele, mancata attivazione delle procedure per
il T.S.O.). Una valutazione parcellizzata di questi profili, avulsa da una
considerazione più generale dell’operato del professionista, potrebbe
ingenerare, infatti, l’errato convincimento che ciascuna delle condotte
(commissive od omissive) poste in essere dallo stesso fossero comunque conformi
alle leges artis della professione medico – psichiatrica.

Con riguardo al primo dei profili
di condotta colposa sopra evidenziati, appare chiaro che la valutazione in ordine alla correttezza della scelta terapeutica operata
dallo psichiatra è uno degli aspetti più rilevanti e controversi della vicenda
in questa sede in esame.

Sul dato storico relativo alle
modalità e ai tempi della modificazione della terapia farmacologica vi è
assoluta concordanza tra tutti gli esperti che hanno fornito il loro contributo
conoscitivo e valutativo al procedimento. In data 16 marzo 2000, il Pozzi dà attuazione al suo proposito di riduzione della
somministrazione di neurolettici depot, riducendo la dose a metà fiala di
Moditen. La successiva iniezione (sempre di mezza fiala) avviene, come fino a
quel momento avvenuto, dopo tre settimane, il 7 aprile. Alla data del 24 aprile,
il Pozzi – rilevando che “la diminuzione del dosaggio
di Moditen non ha avuto effetti negativi” – decide di “sospendere
completamente” (sono parole dell’imputato) la somministrazione, con l’accordo
di rivedere il paziente dopo un mese. Il 18 maggio – su sollecitazione della dott.ssa Morini che “insiste” perché visiti il Musiani – il
Pozzi reintroduce il farmaco depot a dosaggio pieno (iniezione che viene
materialmente effettuata il giorno successivo dal medico di base).

Sul perché si determinò
a tale scelta terapeutica, il dott. Pozzi ha fornito esaurienti spiegazioni. Ha
riferito, anche in sede di interrogatorio reso innanzi
a questo giudice, che il Musiani aveva allora 59 anni circa, ma sembrava molto
più anziano, avvertiva dolori e tremori continui e presentava una patologia
cardiaca (ipertensione arteriosa labile e turbe cardio-respiratorie); i farmaci
assunti avevano prodotto nel corso degli anni danni irreversibili al cervello
e, in particolare, ai nuclei della base che controllano il movimento. Questi
sintomi extrapiramidali erano conseguenza diretta
dell’assunzione di detti farmaci. Essendo un paziente paranoide in fase di
remissione, il Pozzi aveva ritenuto opportuno rivedere
la terapia, sia perché la rabbiosità manifestata dallo stesso poteva essere
dovuta proprio all’assunzione di questi medicinali, sia per cercare di ottenere
una maggior fiducia e di instaurare un rapporto più collaborativo con il
paziente.

Le motivazioni che hanno condotto
il terapeuta a modificare il trattamento farmacologico del paziente
non sono state considerate fondate dai consulenti tecnici del P.M, che hanno,
al contrario, considerato la condotta dell’attuale imputato “non ispirata agli
indispensabili criteri di prudenza, di perizia e di diligenza”. Hanno osservato
gli stessi che il Pozzi dispose dapprima di ridurre il
Moditen depot e poi di sospenderlo, “pur avendo del caso clinico una sommaria
conoscenza e benché la relazione terapeutica con il paziente fosse molto
lontana dall’essere stabilita ancor più che dall’essere consolidata”; tale
decisione, poi, non solo non venne a suo tempo sufficientemente motivata
(niente risulta scritto sulla cartella clinica ambulatoriale), ma anche gli
argomenti che sono stati addotti dallo psichiatra appaiono privi di una reale
consistenza: infatti, “le patologie organiche (cardiache in particolare) che
Musiani presentava allora, apparivano stabilizzate e non erano di tale gravità
da controindicare la somministrazione di neurolettici, che si era continuato a
somministrare per anni; i sintomi extrapiramidali causati dal Moditen, ove
presenti, non impedivano comunque al paziente di andarsene in giro per la
città, di frequentare qualche locale pubblico, di avere una notevole autonomia
nella cura della persona (…), di mantenere insomma piccole ma non trascurabili
relazioni sociali; il paziente si avvia inoltre verso un’età senile, ma non è
certo vecchio al punto tale che una terapia neurolettica, di fronte alla
persistenza di sintomi produttivi psicotici, debba essere sospesa. Infine,
secondo i consulenti, l’argomentazione del Pozzi,
relativa alla opportunità di utilizzare la riduzione della terapia neurolettica
iniettiva per stringere una migliore alleanza terapeutica con il paziente,
considerando che quest’ultimo insisteva spesso per farsi togliere le terapie,
deve essere riguardata criticamente. Infatti, può essere assai controproducente
“assecondare un paziente psicotico che non perde occasione per chiedere di non
essere sottoposto a un terapia, qualora permangano
chiari segni di una produttività psicotica e qualora le richieste del paziente
emergano da un difetto pressoché totale, in lui, della consapevolezza di
malattia”.

Al contrario,
tale scelta terapeutica è stata ritenuta corretta e adeguata dai
consulenti tecnici nominati dalla difesa. I proff. Berti Ceroni e Borghesi sono
partiti dalla patologia da cui risultava affetto il
Musiani (“schizofrenia paranoide cronica” in fase di parziale remissione…
permanevano dei tratti tipici di una personalità paranoidea quali diffidenza,
sospettosità e ostilità, e, prevalenti al momento, sintomi della serie
“negativa” quali isolamento, introversione, negativismo, appiattimento”), hanno
analizzato le patologie organiche presenti nel malato e gli effetti
extrapiramidali derivanti dal lungo trattamento farmacologico a cui lo stesso è
stato sottoposto (“…Le patologie organiche presenti erano ipertensione
arteriosa instabile, turbe della conduzione cardiaca, esiti di un processo
specifico polmonare, positività dell’Antigene Au (quindi problemi epatici e
conseguentemente ridotta capacità di eliminazione farmaci). Tra le patologie
iatrogene: tremore distale agli arti superiori (a riposo), rigidità, ipertonia
extrapiramidale, ipocinesia, deterioramento cognitivo, senso di pesantezza agli
arti inferiori; in particolare acatisia, irrequietezza psicofisica, rabbiosità,
malumore che orientavano per una disforia soggettiva da neurolettici”) e hanno
valutato il dosaggio di neurolettici somministrato al
paziente (“La terapia deve essere considerata nel suo complesso (Moditen+Entumin)
e tradotta in dosi equivalenti corrisponde a circa 14 mg/die di aloperidolo
oppure a circa 700 mg/die di clorpromazina. Si tratta pertanto di un dosaggio
di neurolettici assai alto”), per concludere – sulla
base anche della letteratura scientifica e delle linee guida internazionali più
accreditate (American Psychiatric Association e Bethelm & Maudsley Hospital
per il Trattamento della Psicosi) – che “la riduzione della terapia
neurolettica e la sua eventuale sostituzione con antipsicotici atipici non era
un’opzione possibile, ma un’indicazione di fatto vincolante, anche ai fini di
potenzialmente ridurre le manifestazioni (da un lato uno sfumato deterioramento
cognitivo, dall’altro un corteo di sintomi – malumore, rabbia, irrequietezza,
impulsività – che orientavano verso una disforia soggettiva) che potevano
disporre al riproporsi di una pericolosità sociale”.

I consulenti tecnici della difesa
hanno mosso le loro considerazioni dalle più recenti acquisizioni della
letteratura psichiatrica internazionale che, sulla base di
studi scientifici sugli effetti negativi dell’eccessivo dosaggio di farmaci
depot in pazienti schizofrenici per periodi prolungati, ha elaborato due
diverse strategie: 1) la completa sospensione della terapia neurolettica
(strategia di somministrazione intermittente – targeted strategy) e suo
ripristino nel momento della comparsa di eventuali prodromi psicotici (Herz et
al., 1991; Carpenter et al., 1987); 2) la ricerca delle dosi minime efficaci
(low-doses strategy) (Kane et al., 1986; Marder et al., 1987).

Secondo i due psichiatri, la
strategia delle “dosi minime efficaci”, non solo riduce gli effetti negativi
dei farmaci, ma favorisce anche gli interventi socioriabilitativi e
psicoeducazionali che rivestono un ruolo essenziale nel migliorare la qualità
della vita dei pazienti affetti da psicosi croniche.

Nel caso di specie, a parere
degli stessi consulenti di parte, la strategia adottata dal dott. Pozzi è stata
consona e pertinente: in una prima fase, lo psichiatra curante ha operato una
riduzione progressiva del neurolettico depot, nel frattempo mantenendo la
terapia neurolettica per via orale; successivamente,
di fronte all’evidenza dello scompenso, la terapia è stata rapidamente
potenziata, sia per os (aggiunta di Clopixol in gocce) che per iniezione per
depot.

Dal canto loro, i periti nominati
da questo giudice, in risposta al quesito relativo
alla correttezza dell’opzione terapeutica dell’odierno imputato, hanno
preliminarmente dato conto che “esiste un’evidenza crescente che l’esito a
lungo termine della schizofrenia sia correlato agli interventi farmacologici
precoci ed ad una prevenzione efficace delle ricadute. Uno dei risultati meglio
documentati e più riprodotti nella ricerca sull’esito in psichiatria è che il
trattamento a lungo termine con gli antipsicotici sia il fattore principale
nella prevenzione delle ricadute e delle recidive del disturbo. Il rischio di
ricadute è ridotto di circa due terzi se viene
mantenuto il trattamento a lungo termine con farmaci antipsicotici…Quindi, a
tutti i pazienti sofferenti di schizofrenia, compresi quelli al primo episodio,
viene consigliato di proseguire il trattamento di base a lungo termine…”
(Fleischhacker).

Hanno poi spiegato che i più
autorevoli studi scientifici sull’interruzione delle terapie di trattamento
antipsicotico hanno documentato unanimemente rischi elevati di ricaduta; “i
pazienti multi-episodici dovrebbero essere in remissione da almeno cinque anni,
prima che sia possibile discutere l’interruzione del trattamento antipsicotico”.
L’autore citato dai periti evidenzia che “se è indicata una riduzione della
dose, non la si dovrebbe effettuare a passi superiori
al 20% della dose precedente. Gli intervalli tra questi passi dovrebbero durare
tra i 3 ed i 6 mesi, poiché si sa bene che le ricadute a seguito di dosi
insufficienti di neurolettici possono presentarsi con un ritardo di tempo significativo. Naturalmente, si dovrebbe tentare di trattare
i pazienti con la dose minima efficace. Nella pratica clinica questo non è sempre
facile ed è possibile che, cercando di raggiungere questo dosaggio, si corra il
rischio di sottodosare e di giungere alla conseguente ricaduta”.

Sempre con riguardo all’uso dei
farmaci antipsicotici nella “fase stabile” della malattia schizofrenica e alla
ricerca della c.d. dose minima efficace, le linee-guida dell’American
Psychiatric Association affermano che “decidere circa la dose di un medicamento
antipsicotico durante la fase stabile è spesso difficile. Per alcuni pazienti
stabilizzati, i farmaci antipsicotici attivamente sopprimono i sintomi
psicotici. Quando la terapia è interrotta o le dosi sono significativamente ridotte, questi individui peggiorano quasi immediatamente”;
e ancora: “l’interruzione della terapia può anche essere presa in
considerazione per pazienti con pregressi multipli episodi che sono rimasti
stabilizzati per 5 anni senza sintomi positivi e che aderiscono al trattamento.
La somministrazione continuata indefinita di farmaci antipsicotici è
raccomandata per pazienti con una storia di seri tentativi di suicidio o di
comportamento violento, aggressivo”.

Sulla base degli elementi di
fatto sopra evidenziati e dell’analisi e comparazione delle conclusioni rese
dagli esperti tecnici che hanno interloquito nell’ambito del procedimento, è
convinzione di questo giudicante che la scelta terapeutica operata
dall’imputato non sia stata improntata a quei criteri
di prudenza, diligenza e perizia esigibili, nel caso concreto, dallo
psichiatra. E ciò sotto una molteplicità di profili che, seppure singolarmente
considerati, risultano tra loro interconnessi e – per
quanto si vedrà successivamente – hanno contribuito a determinare l’evento.

In primo luogo, appare
incontestabile che la decisione di modificare la terapia farmacologica sia
avvenuta, da parte del dott. Pozzi, sulla base di un
substrato informativo assolutamente carente e
comunque inadeguato.

Già si è detto della circostanza
che sulla cartella clinica del Musiani, durante il soggiorno nella comunità
Albatros, dal 1995 al marzo 1999, non compaia alcuna
annotazione. Il passaggio di consegne tra la Cavedoni e il
Pozzi deve essere avvenuto in modo assai approssimativo, tanto che
l’imputato ha dichiarato in sede di interrogatorio che, benché la collega gli
chiese di subentrarle nell’incarico già nella primavera del 1999, soltanto
nell’autunno successivo, egli venne a conoscenza del fatto che era il nuovo
terapeuta del Musiani. Il Pozzi ha inoltre asserito
che la collega non gli riferì che il paziente era stato nel passato internato
in un O.P.G. (circostanza peraltro smentita dalla stessa Cavedoni) e che dalle informazioni
ricevute dalla stessa aveva tratto la conclusione che “la storia del Musiani
fosse sovrapponibile a quella di tantissimi altri pazienti”.

Peraltro, risulta
chiaro come l’imputato, come sarebbe stato invece suo dovere di terapeuta, non
si sia minimamente preoccupato di acquisire la documentazione anamnestica che
avrebbe facilmente reperito (come fatto dai consulenti tecnici del P.M.) presso
gli istituti, giudiziari o civili, nei quali il Musiani era stato ricoverato.

Nessun dubbio che una maggiore
conoscenza dell’anamnesi patologica del paziente, del suo andamento clinico e
del percorso terapeutico sino a quel momento seguito avrebbe potuto indirizzare
il dott. Pozzi ad una scelta terapeutica più consona alla reale situazione
psicopatologica del Musiani.

Dalla lettura della
documentazione relativa ai precedenti ricoveri era,
infatti, facilmente accertabile come il paziente aveva più volte dato concrete
dimostrazioni delle sue inclinazioni violente e della potenziale pericolosità
del suo comportamento (tra i tanti episodi, nel 1976 aveva aggredito il medico
di reparto alle spalle tentando di strangolarlo; mentre nel 1979, dopo avere
assalito un infermiere, si è scoperto che teneva una bottiglia di vetro da
usare come arma). Pertanto, deve ritenersi destituita di ogni
fondamento la valutazione operata dal Pozzi in ordine alla sostanziale
ordinarietà del “caso” Musiani.

Parimenti censurabile appare il
mancato coordinamento del Pozzi con il personale della
comunità, ovvero con quelle persone che quotidianamente erano in contatto con
il malato ed erano in grado, pur non avendo specifiche professionalità in campo
psichiatrico, di valutarne e comprenderne comportamenti e reazioni.

Gli incontri tra lo psichiatra e
gli operatori avvenivano soltanto nelle occasioni e nei brevi minuti in cui il
Musiani veniva condotto dal Pozzi per la somministrazione
del depot e, per quanto è dato di evincersi, durante tali contatti non si
verificava quell’interscambio di informazioni
e di notizie che sarebbe stato necessario per una migliore valutazione della
situazione clinica del paziente.

Inoltre, come evidenziato
anche dai consulenti del P.M., “non risulta infatti che fosse mai stato
elaborato quel “progetto individualizzato condiviso dall’équipe del CSM e dallo
staff della struttura” che il DSM individua come uno degli “obiettivi
specifici”….omissis… Risulta in ogni caso incontrovertibilmente che, per
quanto concerne Giovanni Musiani, non sono state eseguite le verifiche
programmate da parte dell’équipe che segu[iva] il paziente (non meno di n. 4
all’anno)…”.

Ciò peraltro, oltre ad integrare una
palese negligenza nell’operato dell’imputato, è in
aperto contrasto con quanto stabilito dal documento redatto dal Dipartimento di
Salute Mentale di Imola che nell’attribuire ai responsabili medici il compito
di assumere le misure necessarie per i singoli pazienti, prevede che ciò va
fatto tenendo conto delle segnalazioni che gli altri membri dell’équipe
forniscono loro.

Relativamente
al momento in cui il dott. Pozzi decise di modificare la terapia
farmacologica, molto si è discusso su quale fosse la reale condizione del
paziente Musiani.

Come si è detto, secondo i
consulenti della difesa, si trattava di un paziente in stato di “schizofrenia
paranoide cronica” in fase di parziale remissione, senza episodi significativi di recidiva negli ultimi quindici anni; per
cui era corretta e doverosa una rimodulazione della terapia attuata attraverso
la ricerca della “dose minima efficace”.

Al contrario, i periti nominati
da questo giudice hanno valutato il Musiani come un paziente da sempre
particolarmente “difficile” (tenuto conto della sua storia clinica precedente
all’ingresso in comunità e il fatto che, negli ultimi tre anni anteriori
all’omicidio, ben tre psichiatri lo avevano avuto in cura proprio per le
difficoltà a rapportarsi con lui) e molto problematico
da gestire, date la sua scarsa compliance alla terapia, le sue cariche
aggressive e la sua scarsa tolleranza alle frustrazioni (vedi episodio del 2
ottobre 1999). Gli stessi hanno reputato che la situazione clinica presentata
dal Musiani al momento della modifica della terapia “non era quella di un
soggetto in “remissione” sintomatologica ma, al
contrario, era da tempo un paziente sull’orlo dello scompenso, e quindi ad alto
rischio di scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività
nonché di sintomi “positivi”.

Questo giudicante è giunto alla conclusione che, in considerazione dello status
del paziente, certamente problematico e ostile, con trascorsi importanti in
termini di atti di violenza e impulsi di aggressività, ma da parecchi anni in
fase di “remissione”, con assenza di
sintomi psicotici rilevanti e in presenza di un unico – anche se non
trascurabile – episodio sintomatico (quello più volte citato del 2 ottobre
1999), una decisione di rivalutazione e modificazione del trattamento farmacologico
nell’ambito di una ricerca della c.d. dose minima efficace non fosse, almeno in
astratto, un’opzione terapeutica totalmente errata.

Ciò che risulta, invece,
censurabile in quanto contrario ai criteri di dilgenza, prudenza e imperizia
oltre che alle leges artis della professione medico –
psichiatrica sono le modalità concrete con le quali l’attuale imputato
ha attuato la sua scelta.

Non vi è incertezza, come
peraltro affermano i periti nominati da questo giudice, sul fatto che la
riduzione (e poi la completa sospensione) della somministrazione del Moditen
depot sia avvenuta troppo rapidamente, senza un’adeguata osservazione e
ponderazione delle conseguenze di tale scelta. La letteratura scientifica sopra
evidenziata documenta, infatti, come nell’attuazione di una strategia di
riduzione delle dosi di neurolettici depot “non la si
dovrebbe effettuare a passi superiori al 20% della dose precedente. Gli
intervalli tra questi passi dovrebbero durare tra i tre e i sei mesi, poiché si
sa bene che le ricadute a seguito di dosi insufficienti di neurolettici possono
presentarsi con un ritardo di tempo significativo”.

Nel caso di specie, appare
assolutamente palese come tali indicazioni di metodo siano
state completamente disattese: il 16 marzo 2000, il Pozzi ha ridotto del
50 % la dose di Moditen e tre settimane dopo, il 7 aprile, ha somministrato
l’ultima mezza fiale di depot, prima di quella, a dosaggio pieno, iniettata il
successivo 18 maggio, a seguito della constatazione della situazione di
evidente scompenso del paziente.

I periti hanno correttamente
stimato che, nel valutare una revisione della terapia,
“sarebbe stato più che sufficiente allungare i tempi di somministrazione del
depot, portando, gradualmente nel tempo, gli intervalli da 3 a 6 settimane (ci
sono infatti studi, condotti con il metodo del doppio cieco, che ben dimostrano
che l’iniezione di 25 mg. di flufenazina decanoato ogni 6 settimane, per la
durata di 54 settimane, è in grado di incrementare la compliance e lo stato
soggettivo di benessere dei pazienti, così come è in grado di diminuire gli
effetti di accumulo di antipsicotico, senza aumentare i tassi di ricaduta e la
sintomatologia psicopatologica, rispetto alla consueta somministrazione del
farmaco ogni 2 settimane”).

La difesa dell’imputato
(supportata dalle argomentazioni dei consulenti tecnici di parte) ha
sostanzialmente contestato quanto affermato dai periti e dai consulenti tecnici
del P.M. in ordine alla circostanza che il Pozzi
avrebbe interrotto la terapia depot, sostenendo che, in realtà, vi sarebbe
stata dapprima una riduzione del dosaggio dei farmaci e, successivamente, una
dilatazione dei tempi di somministrazione (da tre a sei settimane). Tale
interpretazione dei fatti, ad avviso di questo giudicante, non corrisponde a
quella che appare essere stata la scelta operata dal Pozzi:
se le parole hanno un senso (“proverò questa volta a sospendere completamente
con l’accordo di vederci fra circa un mese e valutare insieme come sta
andando”), non c’è dubbio che l’intenzione del medico sia stata quella di
eliminare la somministrazione del farmaco depot, salvo poi valutare, in tempi
abbastanza contenuti, le conseguenze di tale decisione.

Peraltro, le decisioni del 16
marzo 2000 di dimezzare il dosaggio e del successivo 24 aprile di sospendere
completamente il depot (per quanto quest’ultima giustificata dal
Pozzi in cartella con il fatto che “la diminuzione del dosaggio di
Moditen non ha avuto effetti negativi”) appaiono in realtà assunte
frettolosamente e senza una chiara consapevolezza dell’evoluzione del quadro
clinico del paziente.

L’educatrice Cinzia Bertozzi ha
dichiarato a s.i.t. che, il 16 marzo, quando lei
accompagnò il paziente a Villa dei Fiori alla visita psichiatrica, a fronte
delle lamentele del Musiani sulle iniezioni che gli davano dolore alle gambe e
che non avrebbe voluto più fare in quanto riteneva di stare bene, il dott.
Pozzi, fattasi descrivere dall’educatrice la giornata tipo del paziente, decise
di dimezzare la dose di Moditen Depot “senza avere visto la cartella clinica
che l’assistente stava ancora cercando”. Dal canto suo, l’operatore che accompagnò il paziente alla visita del 24 aprile ha annotato
sul diario della comunità: “Incontro fra Musiani ed il dott. Pozzi, il quale,
dopo un breve colloquio a tre, decide di sospendere le iniezioni di Moditen e
Lyseen fino a prossima verifica…”.

Peraltro, nonostante che il Pozzi abbia chiesto agli operatori di annotare
scrupolosamente ogni comportamento del Musiani che fosse fuori dalle sue
abitudini, lo stesso non si è mai recato – almeno sino al 18 maggio – presso la
comunità Albatros e quindi non vi è prova che abbia consultato il diario tenuto
dal personale della stessa.

Risulta
chiaro come il Pozzi abbia colposamente sottovalutato i sintomi della
progressiva recrudescenza della patologia psichiatrica del Musiani. Così è per
la vicenda della scoperta da parte del paziente di non possedere più la somma
di denaro che alcuni anni prima aveva depositato in
banca. Le varie annotazioni sul diario della comunità e il tenore delle stesse evidenziano come l’evento in questione abbia notevolmente
inciso sull’umore e sul comportamento del Musiani; al contrario, l’imputato, informato
di quanto avvenuto, ha glissato osservando che “anche continuando a fare la
puntura, non è che si risolva questo problema”.

Anche successivamente,
nonostante le forti preoccupazioni manifestate dagli operatori per l’aggravarsi
delle condizioni mentali del Musiani, il dott. Pozzi risulta sostanzialmente
assente e appare non sufficientemente consapevole della gravità della
situazione. Sono state, infatti, necessarie le insistenze della
dott.ssa Morini perché lo psichiatra decidesse di recarsi presso la struttura
per visitare il paziente. E’ a questo punto che lo stesso, resosi conto della
situazione di scompenso e, probabilmente, del suo errore terapeutico, decise di
reintrodurre la somministrazione del depot. E’ lo stesso psichiatra, difatti, a
scrivere: “Non bisogna più togliere il depot, perché quando sta male assume la
terapia per os in modo totalmente inaffidabile”.

Peraltro, che il Musiani fosse
riluttante ad assumere la terapia orale e che,
probabilmente, in alcune occasioni approfittava del lavaggio del bicchiere per
buttare via le gocce era stato oggetto di frequenti annotazioni da parte del
personale. Evidenziano a tale proposito i periti “la scarsissima compliance
alla terapia psicofarmacologica con antipsicotici per os da parte del Musiani
(elemento perdurante “da sempre” nella storia clinica del paziente), legata
(forse da sempre) sia ad una pressoché assente coscienza di malattia (…), sia
alla presenza in lui di una ideazione delirante di
“veneficio”, sintomo anch’esso da sempre
(seppur in misura variabile quanto ad intensità e “convinzione”) presente e mai
“rimesso” del tutto…”.

Anche
gli eventi traumatici degli ultimi giorni (le morti di Franca e Deanna, ospiti
della comunità a cui il Musiani si sentiva affettivamente legato) sono stati
sottostimati da parte dello psichiatra. E’ lo stesso Pozzi
a riferire successivamente di non essere stato a conoscenza dei sentimenti che
il paziente nutriva per queste donne e di non avere compreso le ragioni della
richiesta degli operatori affinché fosse lui a comunicare all’uomo la notizia
della morte delle stesse (cfr. consulenza tecnica
Schiavon – Iannucci). Ciò, oltre a confermare il quadro di sommaria conoscenza
da parte del Pozzi delle condizioni psichiche e
psicologiche del malato, è certamente indice di una scarsa empatia nei
confronti dello stesso.

Non vi è dubbio che il Pozzi nell’adottare una opzione terapeutica fondata sulla
riduzione e poi sulla sospensione del trattamento farmacologico depot abbia
operato una scelta rischiosa, tenuto conto dei numerosi studi scientifici che
hanno documentato i rischi elevati di ricaduta che sono frequentemente connessi
a tali comportamenti.

E’ regola comune di esperienza che, in qualunque attività umana,
all’accrescersi dei rischi deve corrispondere l’approntamento di un sistema di
cautele e precauzioni idoneo a scongiurare il verificarsi di eventi dannosi o
pericolosi.

Nel caso in esame, tenuto conto
della tipologia del paziente e dei suoi trascorsi psichiatrici caratterizzati
da condotte violente e aggressive, ad avviso di questo giudice, il Pozzi, nel rivedere la terapia farmacologica attraverso
una drastica diminuzione di dosaggio di neurolettici, aveva il dovere di
predisporre quelle necessarie misure di supporto che avrebbero potuto in
qualche modo contenere la riacutizzazione del male e gli episodi di recidiva.
E’ questo il secondo profilo di colpa (necessariamente integrato con il primo)
ascrivibile all’imputato.

Le indagini preliminari hanno
permesso di accertare, in modo inconfutabile, che le visite mediche effettuate dal dott. Pozzi nei confronti del Musiani sono
sempre state, oltre che contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e
superficialità.

Dopo il 1° ottobre 1999, data in
cui il dott. Pozzi visitò per la prima volta il
Musiani, è dimostrato che lo psichiatra ha rivisto il paziente all’incirca ogni
21 giorni, allorquando, presso il CSM di Villa dei Fiori, veniva somministrato
allo stesso il Moditen depot. Come già evidenziato, di tali incontri
l’imputato non ha mai fatto cenno sulla cartella ambulatoriale.

In realtà, nella maggior parte
delle occasioni in cui il paziente venne condotto a
Villa dei Fiori, il Pozzi non lo ha visitato. Ciò trova conferma,
principalmente, nelle dichiarazioni della dott.ssa
Morini, la quale ha riferito che, quando è stata lei ad accompagnare il
paziente per la ripetizione del Moditen depot (il 22/10/99, il 12/11/99, il 3/12/99
e il 25/2/00), lo psichiatra non ha sottoposto a visita Giovanni Musiani. In
sede di interrogatorio delegato dal P.M. alla P.G. (21
gennaio 2002), la stessa Morini ha ulteriormente specificato che il Pozzi, dopo
avere visitato il paziente per la prima volta nell’ottobre 1999, lo ha
sottoposto nuovamente a visita solo nel mese di aprile dell’anno successivo. A riscontro di tali dichiarazioni vi è l’annotazione sul diario
interno dell’Albatros a firma della stessa Morini: “25.02. 2000: accompagnato
alla Villa dei Fiori per la puntura. Alla prossima, tra 3 settimane,
dovrà anche fare un colloquio col suo psichiatra, dott. Pozzi, al quale
sicuramente chiederà di eliminare le medicine”.

Ma l’intensità e la qualità delle
visite non è mutato – come invece sarebbe stato
doveroso – allorquando il terapeuta ha deciso di ridurre la terapia
farmacologica. Di tale conclusione vi è traccia scritta nel diario della
comunità (“7.4.2000: “Accompagnato x la puntura. Incontra velocemente il dott.
Pozzi che, non avendo tempo, rimanda la valutazione sulla attuale
terapia iniettiva alla prossima volta.”; “28.04.2000: “Incontro fra Musiani ed
il dott. Pozzi, il quale dopo un breve colloquio a tre, decide di sospendere le
iniezioni di Moditen e Lyseen fino a prossima verifica del 13.5.2000.”).

La negligenza dello psichiatra
nel non adeguare la frequenza e la qualità delle visite alla mutata situazione
(dal punto di vista della terapia farmacologica) del paziente è documentata
anche dalle linee guida internazionali.

Si legge nella perizia dei prof.
Traverso e Addabbo che le linee-guida dell’American Psychiatric Association
prevedono che “quando si prende una decisione di interrompere il trattamento
antipsicotico, precauzioni addizionali dovrebbero
essere prese per minimizzare il rischio di una ricaduta psicotica. Queste
precauzioni possono includere una graduale riduzione della dose nel corso di
parecchi mesi, più frequenti visite, l’utilizzo di strategie di
intervento precoce, o tutte quante le precedenti salvaguardie. In questo
contesto, lo psichiatra dovrebbe insegnare al paziente
ed alla famiglia a riconoscere i sintomi precoci di ricaduta e a collaborare
per sviluppare piani di azione in caso di comparsa dei segni. (…) Durante gli episodi prodromici, i pazienti ed i membri
della famiglia dovrebbero essere visti più frequentemente per il trattamento,
il monitoraggio, ed il supporto, e ulteriori assertivi interventi, come le
visite domiciliari, dovrebbero essere utilizzati allorché indicato”.

Gravemente imprudente e
negligente appare poi la decisione di delegare il controllo sulle condizioni
psichiche del paziente alla osservazione da parte del
personale della comunità, il quale non era sufficientemente preparato sul piano
professionale a valutare i sintomi della recrudescenza della patologia
psichiatrica.

Peraltro, occorre dare atto che
gli operatori dell’Albatros di avere scrupolosamente annotato e descritto in
maniera dettagliata tutti i comportamenti e gli atteggiamenti del Musiani che potessero, in qualche modo, avere una valenza “patologica” e
di essersi resi conto, con evidente preoccupazione, del crescente disagio
psicologico e dei prodromi dello scompenso acuto che poi è degenerato nel gesto
estremo.

Inoltre, non può certamente
essere rimproverato ai predetti operatori un difetto di informazione
nei confronti dell’attuale imputato. Al contrario, risulta
pacificamente dimostrato come in più occasioni la dott.ssa Morini e gli altri
addetti abbiano contattato il dott. Pozzi, specialmente nel periodo di
conclamato e grave scompenso psico-comportamentale del Musiani, per renderlo
edotto delle loro preoccupazioni in ordine al paziente.

E’, invece, il
Pozzi a sottovalutare colposamente i “sintomi” che gli venivano
minuziosamente descritti.

Così il 18 aprile 2000, quando
gli viene raccontato l’episodio della scoperta da
parte del Musiani dell’esaurimento dei suoi fondi bancari e della
“drammatizzazione” da parte dello stesso della vicenda, lo psichiatra,
evidentemente non cogliendo appieno il significato della stessa per il malato,
replica “che anche continuando a fare la puntura, non è che si risolva questo
problema”.

Ancora, il 12 maggio quando la dott.ssa Morini telefona al dott. Pozzi per avvertirlo, come
lui aveva chiesto, dell’aggravarsi del quadro, lo stesso appare laconico e
inadeguato, come testimonia l’annotazione sul diario della comunità (“Mi
consulto col dott. Pozzi […] riportandogli quanto è
stato qui sopra scritto. Il dott. consiglia di tenere controllato questo
discorso del cibo, cercando possibilmente di scavare più a fondo, raccogliendo
+ parole, frasi che dice. Gli ho chiesto se dobbiamo
orientarci verso domande specifiche, ma lui, rimanendo sul vago, ha ribadito
solo di cercare di approfondire con Musiani”).

Alla Bertozzi che gli chiede un
aiuto per comunicare al paziente la notizia della morte della Deanna (vicenda
che, come si è dato conto, ha inciso in misura rilevante sulla destabilizzazione del paziente), lo psichiatra risponde di
non essere in grado di poterli aiutare in quanto non conosceva tale Deanna e non
sapeva nulla dei rapporti della stessa con il Musiani.

Ancora, il 18 maggio, allorquando
la Morini deve insistere perché il Pozzi si rechi
presso la comunità e gli esterna i suoi dubbi in ordine all’effettiva
assunzione della terapia via orale, l’attuale imputato si limita a suggerire di
controllare meglio e che, comunque, “che è diritto di Musiani rifiutare che gli
venga fatta la puntura”.

Ugualmente inadeguato appare lo
psichiatra il successivo 22 maggio, quando la stessa Morini gli telefona per informarlo
che il Musiani “non aveva assolutamente cambiato il suo comportamento”,
ma l’imputato, avendo fretta, le dice “di chiamarlo alle successive ore
17,00”.

Ora, l’imputato ha più volte
riferito nel corso del procedimento di non avere pienamente compreso la gravità
della situazione di disagio psichico del Musiani. Ciò
è probabilmente vero ma la responsabilità di tale mancata percezione (nonché del mancato approntamento di misure contenitive) è
attribuibile esclusivamente a lui stesso.

Quale sarebbe stata da parte
dell’imputato la condotta adeguata ed esigibile nel caso concreto?

Non c’è dubbio che, operata la scelta (rischiosa) della riduzione farmacologica,
il medico avrebbe dovuto intensificare le visite di controllo, anche
domiciliari; ciò – per usare le parole dei periti – “gli avrebbe permesso sia
di monitorizzare l’evoluzione sintomatologica del paziente di fronte alla nuova
strategia terapeutica (valutando anche più precisamente la compliance alla
residua terapia orale, ed il ruolo di “cibo avariato” che stava assumendo lo
stesso trattamento farmacologico), sia di vagliare la situazione ambientale
nella quale il Musiani era immerso (e di comprendere, di conseguenza, sia la
portata che per il paziente avevano assunto i due decessi delle “donne del Musiani”,
sia la reale consistenza della gestualità aggressiva attuata dal Musiani nei
confronti degli operatori, delle “minacce” verbali di morte nei confronti di
singoli operatori, nonché le dinamiche interattive fra il Musiani e gli stessi
operatori), sia, infine, in modo più complessivo, di emettere una accurata,
prudente, cauta prognosi, basata sull’evidenza, circa la probabilità del
comportamento violento futuro del soggetto in questione”.

Inoltre, una maggiore assiduità
nelle visite e un più diretto contatto con il malato, avrebbero permesso
all’attuale imputato di rendersi conto tempestivamente della sostanziale
inefficacia della reintroduzione del farmaco depot e gli avrebbero consentito
di modificare la terapia in considerazione della “fase acuta” della malattia
schizofrenica o, eventualmente, di richiedere il T.S.O.

Molto si è discusso tra
consulenti e periti in ordine alla correttezza ed
adeguatezza della scelta di somministrare il Moditen depot ad un paziente in
fase di scompenso acuto.

Hanno sostenuto a tale riguardo i consulenti tecnici della difesa – anche valendosi di un
parere redatto dal prof. Altamura – che “la dose di Flufenazina somministrata
il 19 maggio 2000, al di là delle concentrazioni e stato di equilibrio come già
accennato difficilmente prevedibile, permette tuttavia di affermare che,
essendo il picco relativo alla somministrazione individuabile con una notevole
certezza entro i primi due-tre giorni dall’iniezione, è da ritenersi che in
quinta giornata il paziente avesse concentrazioni con molta probabilità
adeguate ad antagonizzare i sintomi psicotici di cui il soggetto soffriva, il
che tuttavia non sempre assicura una adeguata protezione dagli agiti
impulsivi/aggressivi auto o eterodiretti”.

Al contrario i periti d’ufficio
hanno reputato, citando la letteratura scientifica sul punto, che la scelta di
reintrodurre il Moditen depot al paziente in uno stato di scompenso conclamato
non sia stata affatto corretta e che il semplice rialzo del picco ematico della
Flufenazina non poteva garantire il ripristino di una sintomatologia che era
ormai senza controllo; scelta terapeutica più adeguata sarebbe stata quella “di
sostenere la terapia del decanoato con un farmaco più incisivo e a maggiore
velocità di azione” (cfr. prof.
Addabbo in udienza 21 settembre 2005).

Sulla stessa lunghezza d’onda, i
consulenti tecnici del P.M. hanno sostenuto che “il Moditen Depot è infatti un farmaco long-acting, che viene assorbito
gradualmente e che non garantisce il controllo di fasi psicotiche acute, che
necessitano di essere trattate con farmaci a pronto assorbimento, il cui
dosaggio è maggiormente adattabile all’evolvere di una situazione in rapida
progressione”.

In realtà, ad avviso di questo
giudice, la questione non ha rilievo assorbente, tenuto conto che, dato
incontestabile, la somministrazione della dose intera di Moditen depot non ha sortito di fatto alcun effetto e il paziente non è
assolutamente migliorato ma, al contrario, ha continuato progressivamente e
sensibilmente ad aggravarsi. Non è dato di affermarsi con sicurezza se la
decisione di somministrare nuovamente il neurolettico depot nel paziente
totalmente scompensato sia stata o meno la scelta
terapeutica più corretta; quello che è invece certo è che tale opzione non ha
comportato per il paziente alcun effetto positivo.

Il punto fondamentale è un altro
– e ciò ci conduce al terzo dei profili di colpa evidenziati in premessa –
ovvero che lo psichiatra, constatato stato di gravissimo scompenso psicotico
del paziente e la totale inefficacia della terapia farmacologica somministrata,
avrebbe dovuto attivare le procedure per il
Trattamento Sanitario Obbligatorio.

In sede di interrogatorio,
l’imputato ha affermato di avere pensato di chiedere tale misura restrittiva ma
di non averlo fatto per non contravvenire alla legge; infatti il paziente si
era mostrato disponibile ad assumere la terapia depot purché a
somministrargliela fosse la dott. D’Angelo.

Va preliminarmente evidenziato
che la legge (articolo 2 della legge 180/78, riprese nel 4° comma dell’articolo
34 della legge 833/78) prevede il Trattamento Sanitario Obbligatorio in regime
di degenza ospedaliera come un provvedimento di carattere eccezionale che può
essere adottato nella contemporanea sussistenza di tre presupposti: 1)
l’esistenza di alterazioni psichiche tali da
richiedere urgenti interventi terapeutici; 2) la non accettazione degli stessi
da parte dell’infermo; 3) l’assenza di condizioni e circostanze che consentano
di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere.

Nell’ipotesi in questa sede in
esame, nessuna incertezza può residuare in ordine
all’esistenza del primo presupposto. Tutti gli psichiatri che hanno prestato la
propria consulenza nell’ambito di questo procedimento – compresi i consulenti
tecnici della difesa – hanno concordato sul fatto che, nei giorni precedenti
l’omicidio, il Musiani si trovasse in uno stato di grave scompenso psichico.

Contrariamente a quanto sostenuto
nel loro elaborato dagli esperti nominati dalla difesa, è convinzione di questo
giudicante che sussistesse anche il secondo dei
presupposti richiesti dalle legge. Infatti, nonostante che – dopo ripetuti
tentativi – il Musiani avesse accettato di farsi praticare l’iniezione di depot
dal medico di base, era opinione comune tra gli operatori ed era stato fatto
presente anche al Pozzi che il paziente non assumeva
più i farmaci per via orale, i quali costituivano una parte essenziale della
terapia.

Sul punto fanno testo le numerose
annotazioni sul diario della comunità e le dichiarazioni rese
da responsabili e operatori nel corso delle indagini preliminari sopra
riportate (cfr. s.i.t. rese da D’Attanasio Federica,
Morini Laura, Frau Andrea, Foschini Aldo, Mancuso Maria e Olivieri Manuela).
Riguardo a ciò, la dott.ssa Morini,
nell’interrogatorio reso il 21 gennaio 2002, ha riferito che, in occasione
della visita del Pozzi al Musiani presso la comunità il 18 maggio 2000, lei
ribadì allo psichiatra che non aveva senso aumentare la terapia orale, in
quanto il malato non la assumeva; ma di tale considerazione l’attuale imputato
non tenne minimamente conto. Inoltre è lo stesso Pozzi
ad affermarlo allorquando, all’esito della visita, annotò sulla cartella
clinica del Musiani: “proveremo ad utilizzare il medico di medicina generale
per fargli ricominciare il depot. Non bisogna più togliere il depot perché
quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente inaffidabile” nonché quando successivamente riportò: “…Oggi, dopo avere
sentito l’operatrice Laura decidiamo di
introdurre anche un Clopixol 25 mg ore 21 poiché permangono gli aspetti
persecutori e non siamo certi che assuma con regolarità le gocce di Entumin”.

In ogni caso, come si è visto, nonostante la reintroduzione del farmaco nella
forma depot, il paziente non solo non migliorò ma le sue condizioni si fecero
giorno dopo giorno più critiche. Per questo motivo, la decisione di chiedere
una misura contenitiva era di fatto per il medico –
psichiatra vincolante.

Parimenti, il
Pozzi avrebbe dovuto rendersi conto del fatto che la comunità Albatros
non era una struttura idonea a fare fronte alla grave crisi psicotica del
paziente.

Sul punto, anche gli stessi
consulenti tecnici di parte esprimono delle perplessità laddove affermano: “in merito alla condizione 3) prevista dalla legge, può
essere discutibile se una comunità riabilitativa sia un luogo in assoluto
idoneo per far fronte a una condizione acuta di un paziente psicotico. In assoluto
certamente no, perché essa non prevede la costante presenza di personale
sanitario (medico e infermieristico). Questo fatto non esclude che essa sia una
condizione extra ospedaliera sufficientemente idonea, anzi non si capisce quali
possano essere le alternative a cui allude la legge se
non quelle che si avvalgono di personale specializzato (educatori ed assistenti
di base) in ambito psichiatrico, che possono rivolgersi in qualsiasi momento al
medico psichiatra di turno (sulle 24 ore) presso la sede, che quindi può
garantire una quotidiana osservazione, vigilanza e contenimento delle angosce
del paziente scompensato”.

La comunità Albatros è una
comunità residenziale gestita dal Consorzio Ippogrifo, vincitore di un pubblico
appalto; la stessa veniva condotta sulla base di
protocolli organizzativi fissati dal Dipartimento di Salute Mentale di Imola
(cfr. documento di presentazione della struttura in
atti). Per ogni comunità, veniva individuata una mini
– equipe formata da un medico psichiatra, con funzioni di consulente esterno, e
un assistente sociale, con il ruolo di referente istituzionale del
Dipartimento. Secondo il documento, il medico psichiatra svolgeva funzioni di:
1) assistenza specialistica agli ospiti della comunità secondo le modalità ritenute
più opportune (nella residenza o nell’ambulatorio) e a
seconda delle necessità; 2) supervisione mensile sullo staff degli
operatori delle comunità; 3) indirizzo e verifica dei progetti terapeutico –
riabilitativi. Con riguardo alle altre figure professionali previste dalla
struttura, il capitolato speciale relativo alla gara d’appalto dell’azienda
U.S.L. di Imola del 6 febbraio 1996, prevedeva la
presenza di un referente coordinatore, di educatori professionali in possesso
del diploma di educatore o della laurea in scienze dell’educazione o di
esperienza di almeno un anno nella posizione funzionale corrispondente, di
operatori addetti all’assistenza di base.

Si trattava dunque di una
struttura di carattere riabilitativo, con un approccio prevalentemente sociale
nella gestione dei malati psichiatrici, priva di personale medico e
infermieristico, e, pertanto, del tutto inadeguata a gestire situazioni di emergenza come quella presentatasi con il “caso” Musiani.

Tale conclusione trova peraltro
conferma in un documento redatto dalla presidenza del consorzio Ippogrifo pochi
giorni dopo il tragico evento, nel quale – dopo avere evidenziato i punti
critici dell’organizzazione di siffatte comunità – si censurava il sostanziale
fallimento delle equipe medico – sociali composte dal medico psichiatra e
dall’assistente sociale rilevando come “tali figure sono state assorbite ed
integrate nelle equipe territoriali, con conseguente aggravio dei carichi di
lavoro che hanno portato ad una presenza in riunione dell’assistente sociale
ogni due – tre settimane e del medico psichiatra una volta al
mese nella migliore delle ipotesi. La scarsa disponibilità di tempo anche per
le visite, consulenze, ecc. ha reso ancora più sporadica e insufficiente la
presa in carico dal punto di vista clinico dei residenti delle
comunità”. Quanto poi alla specifica competenza
professionale degli operatori della comunità, il documento rilevava come “le
figure professionali impiegate nelle comunità non hanno competenza/preparazione
di sanitario, il che li espone maggiormente a rischi”. A tale proposito, la
presidenza del consorzio chiedeva esplicitamente “una formazione specifica,
promossa dall’Azienda U.S.L., intesa almeno a
qualificare maggiormente gli operatori delle comunità nel compito di somministrare
i farmaci”.

Concorda questo giudicante su
quanto affermato dai consulenti della difesa in ordine al
fatto che l’odierno imputato non poteva farsi carico delle disfunzioni della
struttura nella quale egli prestava un incarico di consulente esterno. Tuttavia,
non vi è dubbio che il dott. Pozzi, nella sua veste di medico psichiatra del D.S.M. di Imola, consulente di più strutture residenziali,
non poteva non rendersi conto di tali carenze organizzative, specialmente sotto
il profilo delle competenze professionali degli operatori della comunità
Albatros, nonché della sostanziale impossibilità di fare fronte adeguatamente
in quel contesto alla grave crisi psicotica manifestata dal Musiani.

Tenuto conto dell’assenza nella
struttura di personale medico e infermieristico con specifica formazione
psichiatrica e dell’impossibilità di contenere efficacemente la
situazioni di crisi del paziente, il Pozzi aveva quindi l’obbligo
giuridico di chiedere l’attivazione delle procedure per il Trattamento
Sanitario Obbligatorio.

Il non averlo
fatto integra senza dubbio un profilo di grave imprudenza e negligenza da parte
del medico – psichiatra.

Inaccettabile e puramente
formalistica appare dunque la giustificazione data dall’imputato con riguardo
alla sua decisione di non chiedere la restrizione temporanea del malato in
idonea struttura psichiatrica per non essere costretto a “violare la legge”.

* * * * *

Non può sorgere alcuna incertezza di sorta sull’esistenza, in capo al medico
psichiatra oggi imputato, di un obbligo di garanzia nei confronti del malato di
mente, nella forma della posizione di controllo che impone al soggetto
obbligato la neutralizzazione di determinate fonti di pericolo in modo da
tutelare tutti i beni giuridici che si trovano in contatto con esse e che, per
questa ragione, possono versare in una situazione di pericolo.

La fonte di tale posizione di
garanzia risiede principalmente nella volontaria assunzione da parte del Pozzi, psichiatra dipendente dal D.S.M. di Imola, del
ruolo di consulente della comunità Albatros per quanto concerneva il paziente
Musiani.

Nelle controdeduzioni depositate
il 15 settembre 2005, i consulenti di parte pongono di fatto
in discussione l’esistenza di un tale obbligo, evidenziando che, sulla base del
protocollo organizzativo predisposto dal D.S.M. di Imola, il medico psichiatra
era incaricato prevalentemente della gestione della terapia farmacologica dei
pazienti con un incontro mensile di “supervisione” su tutti i casi. Con
riguardo poi al “caso Musiani”, secondo gli esperti, la vicenda risultava anomala, in quanto la comunità Albatros aveva come
psichiatra consulente la dott.ssa Passarelli, mentre il ruolo del dott. Pozzi
era limitato alla specifica gestione del suddetto paziente, essendo peraltro lo
stesso consulente esterno di un’altra comunità. Egli quindi non aveva avuto
alcun obbligo di presenza alle riunioni e aveva notizia del comportamento del
paziente solo dai suoi stessi racconti e dai resoconti degli operatori.

In realtà, in tema di colpa
professionale, il concreto e personale espletamento di
attività medico – terapeutica da parte del sanitario comporta sempre
l’assunzione diretta della posizione di garanzia nei confronti del paziente,
sicché su di lui incombe l’obbligo della osservanza delle leges artis, che hanno
per fine la prevenzione del rischio non consentito ovvero dell’aumento del
rischio.

La Suprema Corte ha affermato, in tema di
responsabilità professionale, che sussiste la posizione di garanzia del medico
che, sia pure a titolo di semplice consulto, accerti l’esistenza di una
patologia ad elevato ed immediato rischio di aggravamento.
Tale medico ha l’obbligo di attivarsi disponendo personalmente i trattamenti
terapeutici ritenuti idonei oppure facendo immediatamente ricoverare il
paziente in un reparto specialistico (Cass. pen., sez.
IV, 3 febbraio 2003, n. 4827, Perilli
Ludovico).

E’ chiaro quindi che il dott.
Pozzi, indipendentemente dalla sua qualifica formale e dai suoi
compiti delegati, aveva un obbligo di garanzia nei confronti del Musiani, in quanto
suo esclusivo medico – psichiatra curante.

Ulteriore e fondamentale momento
della trattazione è quello concernente l’evento del reato, da individuarsi nel
grave atto eteroaggressivo posto in essere dal Musiani
nei confronti del Cardelli.

Il primo aspetto da sviscerare è
quello relativo alla prevedibilità da parte
dell’agente dell’evento dannoso come sopra descritto.

A tale proposito, questo
giudicante condivide pienamente e fa proprie le conclusioni elaborate dal dott.
Ariatti, incaricato dal P.M. di valutare la capacità di intendere e di volere
del Musiani al momento del fatto criminoso. Lo
psichiatra, nella sua relazione tecnica, ha spiegato come
“l’excalation di produttività delirante, a contenuto di veneficio, degli ultimi
tempi, ci propone il quadro di un paziente immerso nel suo mondo
delirante, popolato di persecutori, in cui l’angoscia della morte,
dell’avvelenamento, della contaminazione domina la sua quotidianità. Egli si
sente contaminato dai farmaci, dal cibo, minacciato e invaso nel suo “spazio”,
che ritiene inviolabile, dalla riproposizione giornaliera del rituale
dell’assunzione dei farmaci e della contrattazione rispetto ad essa. Si rifugia in bagno, evita il cibo preparatogli, vuole
solo scatolette sigillate, chiede di comprarsi lui al bar quello che gli
occorre, chiede di “essere lasciato vivere”. (…). Il gesto estremo che egli
mette in atto la mattina del 24-5-2000 altro non è che
l’estrinsecazione di tale angosciosa percezione della realtà esterna, e
rappresenta, nel suo vissuto delirante, un modo per difendersi da ciò che egli
sentiva essere un pericolo incombente ed imminente. Trattasi cioè
di un “gesto sintomatico”, espressione diretta della psicopatologia di cui egli
è affetto…”.

Su tali conclusioni vi è peraltro
la piena adesione sia dei consulenti tecnici del P.M. sia dei periti nominati
in sede di giudizio abbreviato.

In particolare, i primi, partendo
dalla constatazione che “il tipo paranoide della schizofrenia costituisce la
categoria diagnostico psichiatrica che annovera la più elevata percentuale di
reati gravi contro la persona”, hanno evidenziato come i comportamenti
espressi, nell’ultimo periodo, dal Musiani in termini dì aggressività, diretta
o simbolica, dovevano far prevedere al medico curante
la concreta possibilità che il medesimo “avrebbe potuto replicare comportamenti
aggressivi, potenzialmente anche gravi e idonei a procurare lesioni fisiche a
terzi, anche se di sostanziale e profondo significato difensivo”.

Dal canto loro i periti d’ufficio
hanno documentato – sulla base di autorevoli studi
scientifici e di dati statistici – che “esiste una relazione fra disturbi
mentali maggiori e delinquenza, così come esiste una relazione fra schizofrenia
(o altre psicosi) e comportamento violento”. Dalla perizia appare opportuno
citare un brano del Trattato italiano di Psichiatria che si attaglia al caso in
esame: “In diversi studi è stato evidenziato come la
diagnosi psicopatologica più spesso associata con i comportamenti ostili è la
schizofrenia. Sembra infatti che a questa patologia
appartengano pazienti più violenti che non a quella dei disturbi di personalità
o alla patologia affettiva o alla patologia organica cerebrale e anche
risulterebbe che, nell’ambito di valutazioni compiute in regime di ricovero
ospedaliero, i pazienti schizofrenici siano mediamente più aggressivi dei
pazienti con dipendenza dall’alcool o dalle droghe. Nell’ambito della
schizofrenia è indubbio che esistano delle differenze che dipendono dalla forma
clinica, dal decorso della malattia, dal tipo di episodio
e dalla risposta alla terapia. Ad esempio i pazienti con schizofrenia di tipo
paranoide possono presentare comportamenti aggressivi in rapporto a un particolare delirio e quindi solitamente diretti verso
una o più persone specifiche…”.

Gli stessi psichiatri hanno
inoltre affermato che, pur non esistendo criteri (statistici, clinici,
biochimici, ecc.) obiettivi per una prognosi certa del comportamento violento
nell’ambito della malattia mentale, è tuttavia compito dello psichiatra cercare
di identificare il paziente che potrà commettere agiti di violenza. Secondo la
letteratura scientifica, la prognosi psichiatrica del comportamento violento
può essere generica, condizionale o imminente (Nivoli e altri, 1993).

La prognosi può dirsi generica quando il
paziente presenta sintomi psichiatrici aspecifici di un probabile comportamento
violento non ancora iniziato in modo concreto. Ad esempio, un
soggetto schizofrenico con delirio strutturato a contenuto persecutorio può in
linea di principio passare all’azione con comportamenti violenti verso i
supposti persecutori; tuttavia, l’esperienza clinica dimostra che sono
statisticamente assai limitati i soggetti schizofrenici con deliri a contenuto
persecutorio che in realtà passano all’azione violenta su persone. In
questi casi, la capacità di previsione dello psichiatra è assai limitata e
soggetta a molti errori.

Nel caso di prognosi
condizionale, pur non essendosi ancora manifestato alcun comportamento
violento, la prevedibilità di un siffatto agire può essere, sotto il profilo
clinico e statistico, desunta da uno specifico sintomo o da specifiche
“costellazioni di sintomi” scatenanti. Per esempio, può essere considerato
significativamente probabile un comportamento violento se un soggetto
schizofrenico con delirio a contenuto persecutorio presenta unitamente a questo
sintomo: uno stato di agitazione psicomotoria, oltre
due notti trascorse insonni ed in stato eretistico, “minacce calde”, chiaramente identificata una
vittima, precedenti di aggressione sulle persone per percepiti soggettivi e
contesti sociali analoghi all’attuale. In queste ipotesi lo psichiatra deve
essere in grado di individuare gli specifici sintomi o le specifiche
costellazioni di sintomi scatenanti il comportamento violento e di adottare
tutte le misure necessarie per evitare il verificarsi di fatti dannosi.

Infine, “nella prognosi imminente
il comportamento violento del paziente è già iniziato in modo concreto ed è
richiesto allo psichiatra un intervento rapido in termini di neutralizzazione di
dinamiche di agiti violenti”. E’ questo il caso, ad
esempio, del soggetto affetto da psicosi maniacale che, in stato di violenta
agitazione psicomotoria,
inizia a percuotere la porta del servizio di psichiatria,
esprimendosi ad alta voce, con minacce adeguate e calde in crescendo,
richiedendo di essere prontamente dimesso dal reparto ove è stato ricoverato
contro la propria volontà. In queste ipotesi, lo specialista è ancora più in
grado, rispetto alla prognosi condizionale, di prevedere le manifestazioni
violente e di predisporre le necessarie misure contenitive, anche di tipo
restrittivo.

Nella fattispecie in esame,
concorda questo giudicante sul fatto che l’emergenza manifestatasi nella
seconda decade di maggio, con tutta la costellazioni
di sintomi significativi di uno scompenso acuto (forti timori di essere
ammazzato, le minacce di morte nei confronti di vari operatori, l’aggressione
posta in essere contro la futura vittima con l’uso di una padella, ecc.), anche
in considerazione dell’anamnesi psicopatologica del Musiani, doveva far
elaborare al dott. Pozzi, alla luce della sua qualifica e della sua esperienza
clinica, una prognosi di violenza “condizionale”, se non addirittura di
violenza “imminente”, tenuto conto che il comportamento aggressivo e violento
era di fatto già iniziato.

L’impulso eteroaggressivo che è
sfociato nel ferimento a morte dell’operatore Cardelli non
è stato dunque un evento inaspettato e imprevedibile, bensì si è trattato di un
atto ben inquadrabile nella patologia psichiatrica da cui era affetto il
paziente e tipico della grave crisi psicotica in cui lo stesso versava. Non vi
è dubbio quindi che l’odierno imputato avrebbe potuto
e dovuto immaginare il possibile (se non probabile) verificarsi di tale evento.

Ulteriore e fondamentale problema
da trattare è quello relativo alla sussistenza di un
nesso eziologico tra le condotte, commissive e omissive, attribuibili al Pozzi
e l’evento dannoso come sopra descritto.

A tale proposito, va
immediatamente evidenziato che oggetto di valutazione in questa sede saranno soltanto quegli aspetti della condotta colposa
dell’imputato che hanno natura prevalentemente commissiva o comunque mista
(l’avere ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica depot senza
l’approntamento di misure idonee a contenere la prevedibile “ricaduta” del
paziente”), dal momento che non può porsi alcun dubbio circa la sussistenza di
un rapporto causa – effetto tra la mancata attivazione delle procedure per il
T.S.O. e il verificarsi dell’evento. Non vi è, infatti, alcuna necessità di
motivare sul fatto che, se il Musiani fosse stato ricoverato in idonea struttura
psichiatrica (come sarebbe stato invero necessario), questi non avrebbe potuto ferire a morte l’inserviente Cardelli.

Non si nasconde questo giudice la
difficoltà di stabilire con certezza l’esistenza di un rapporto causa – effetto
in campo psichiatrico tra l’adozione (o la mancata adozione)
di una scelta terapeutica e l’esacerbazione della patologia del paziente.

A tale riguardo, va rilevato che
la più avveduta e moderna giurisprudenza ha ripudiato, nel procedimento di
spiegazione causale, il metodo deduttivo che, presupponendo
una completa conoscenza di tutte le condizioni iniziali del processo
causale e una perfetta dimostrabilità scientifica ed empirica di tutte le fasi,
pretende di fornire una risposta certa e assoluta perché fondata su leggi universali.
Non vi è dubbio che, specie in materia di colpa medica, un’imputazione
oggettiva dell’evento fondata su base strettamente causale, condizionalistica,
tenuto conto della misura di incertezza che permea la
materia della clinica e della medicina in genere, comporterebbe la sostanziale
rinunzia a sanzionare penalmente comportamenti spesso anche gravemente
trascurati che incidono sul bene primario della vita umana. Al criterio di
“certezza scientifica” si è quindi progressivamente sostituito quello di “certezza
processuale”, sulla base del quale sussiste il necessario nesso di causalità
allorquando la condotta dell’agente sia stata condizione necessaria dell’evento
con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o
“probabilità logica” (cfr. Cass. pen., S.U., 13
febbraio 2002, Franzese).

Nella pratica giudiziaria si
osserva come sussistano ipotesi relative a condotte
colpose e commissive nelle quali l’accertamento del nesso causale non diverge
da quello che si avrebbe qualificando come omissiva la condotta dell’agente. E’
chiaro che il sanitario che sbaglia la cura è in colpa avendo, dal punto di
vista eziologico, posto in essere le condizioni
positive dell’evento lesivo ma, allo stesso tempo, dal punto di vista
giuridico, non avendo attivato le condizioni negative dello stesso. La sua
condotta quindi da un lato è condizione dell’evento perché lo determina (quanto
meno accelerando i tempi del processo), dall’altro lo è ugualmente perché non
attiva condizioni impeditive del medesimo.

La difesa dell’imputato,
attraverso i consulenti tecnici dalla stessa nominati, ha fortemente contestato
l’asserita riconducibilità dello scompenso psicotico del Musiani alla scelta
terapeutica operata dal Pozzi e, in particolare, alla
riduzione del dosaggio di Moditen depot.

I consulenti hanno spiegato –
avvalendosi anche della letteratura scientifica in materia – come la
flufenazina (il principio attivo del Moditen), nella formulazione depot, è
legata a un eccipiente che trattiene il farmaco
nell’organismo e, rilasciandolo un po’ alla volta, gli consente di dispiegare
il proprio effetto farmacologico per un certo periodo di tempo. Mentre per i pazienti che non hanno mai assunto in
precedenza il farmaco, dopo l’iniezione, la concentrazione raggiunge
nell’organismo il picco massimo nelle successive 24 – 48 ore per poi decrescere
progressivamente e dimezzarsi in 6 – 10 giorni; nei soggetti che hanno una
lunga storia di somministrazione di tale prodotto, il farmaco si accumula
nell’organismo e il tempo di dimezzamento si porta da 14 a 100 giorni. Secondo
gli specialisti della difesa, tenuto conto che il Musiani assumeva il Moditen
da circa tre lustri e dell’età avanzata del medesimo (che comporta un
rallentamento dei processi di eliminazione dei farmaci
a livello epatico), deve presumersi che il tempo di dimezzamento fosse tendente
verso l’estremo più elevato del range (100 giorni). Peraltro, è la conclusione
degli stessi, in considerazione dell’intervallo tra la somministrazione del
depot del 7 aprile e quella del 19 maggio, deve escludersi che il paziente fosse, al momento del fatto criminoso, “scoperto” sotto il
profilo farmacologico.

Tali conclusioni sono
completamente disattese da tutti gli altri consulenti e psichiatri che hanno
interloquito nell’ambito del presente procedimento. In particolare, i periti
d’ufficio hanno esplicitamente affermato che – a loro parere – deve ritenersi
sussistente “un legame causa-effetto tra modificazione della terapia
farmacologia somministrata al Musiani (riduzione fino alla sospensione del Moditen
depot) e la riacutizzazione della sua patolgia schizofrenica, con comparsa di
una condizione di scompenso acuto, e che, a sua volta, vi sia un legame,
quantomeno di significativa concausalità, tra il
suddetto scompenso acuto e le manifestazioni di aggressività che hanno condotto
il paziente a compiere l’atto delittuoso di cui alla presente causa”.

A supporto delle loro
conclusioni, gli psichiatri nominati da questo giudice hanno citato la
letteratura scientifica internazionale che documenta come l’interruzione (o la significativa riduzione) delle dosi di antipsicotico può
produrre, come di fatto produce, un peggioramento anche molto rapido (anche se
per pazienti in trattamento con farmaci depot i tempi di recidiva possono
allungarsi per la persistenza nel sangue di dosi subcliniche di farmaco
long-acting) delle condizioni cliniche di pazienti “stabilizzati” senza segni
psicotici.

Questo giudicante condivide e fa
proprie le documentate e ponderate conclusioni dei periti in
ordine alla sussistenza di un nesso di causalità tra la modifica del
trattamento farmacologico operata dall’attuale imputato e la recrudescenza
della patologia psichiatrica del malato che ha poi portato al tragico atto del
24 maggio 2000.

Le argomentazioni di carattere
scientifico portate dai periti non risultano in alcun
modo scalfite dalle considerazioni dei consulenti di parte, i quali si limitano
ad affermare che, nei casi di pazienti già precedentemente trattati con farmaci
a base di flufenazina, il periodo di dimezzamento del farmaco nell’organismo
varia da 14 a 100 giorni. Ora, va considerato che, nel caso di specie, il Pozzi aveva già operato, in data 16 marzo, un
dimezzamento della dose precedentemente somministrata e che, dal 7 aprile (data
dell’iniezione di mezza dose) e il 19 maggio (ripristino dell’intera fiala)
sono trascorsi ben 45 giorni, periodo certamente idoneo – secondo gli studi
scientifici in materia – a determinare una significativa riduzione della
concentrazione di principio attivo; concentrazione peraltro già precedentemente
diminuita a seguito del dimezzamento delle dosi da parte dello psichiatra
curante.

Oltre alle valutazioni di
carattere scientifico, sono le stesse osservazioni dal punto di vista clinico
che confortano la conclusione sopra tratta.

Significativa,
a questo proposito, è la raccomandazione fatta dal prof. Vinci, primario
dell’ospedale psichiatrico di Imola ove era stato ricoverato il Musiani, alla
dott.ssa Cavedoni (dalla stessa poi rivolta allo stesso dott. Pozzi),
allorquando la stessa prestava servizio presso il predetto istituto, di non
ridurre mai la terapia di neurolettici depot al paziente per il concreto
rischio che lo stesso si scompensasse.

Inoltre, gli stessi operatori che
giornalmente sono stati in contatto con il Musiani e hanno potuto osservare il
progressivo deteriorarsi del suo stato psichico, pur senza basi scientifiche e
professionali adeguate, hanno tutti quanti posto in relazione tale evenienza con la riduzione del trattamento
farmacologico (cfr. verbali di s.i.t. e annotazioni
sopra riportate).

Infine, è lo
stesso Pozzi, con l’annotazione sulla cartella clinica del Musiani del
18 maggio 2000, in qualche modo, a porre in relazione lo stato di scompenso del
paziente con la sospensione della terapia avvertendo che “non bisogna più togliere
il depot, perché quando sta male assume la terapia per os in modo totalmente
inaffidabile”. Peraltro, che anche l’imputato abbia posto
in correlazione i due eventi è dimostrato dal fatto che, constatata la crisi,
la sua scelta terapeutica è stata quella di reintrodurre immediatamente il
farmaco depot.

Sempre sul tema della causalità,
i proff. Berti Ceroni e Bernardi hanno ipotizzato che alla base dello scompenso
del Musiani possano esservi state cause diverse dalla
modificazione della terapia farmacologica, quali eventi traumatici o stressanti
come le morti delle compagne di comunità Franca e Deanna, per le quali il
Musiani provava sentimenti di affetto profondo. Affermano i consulenti che i
più recenti studi hanno dimostrato che i pazienti schizofrenici, per quanto dissociati dalla realtà, presentano sovente
“disturbi della sfera affettiva che possono conseguire a legittime e
prevedibili reazioni a lutti e perdite “.

E’ convinzione di questo giudice
che gli eventi traumatici indicati dagli specialisti della difesa (insieme
peraltro alla vicenda relativa alla scoperta
dell’esaurimento dei suoi fondi bancari) abbiano decisamente inciso sullo stato
psichico del Musiani. Tuttavia, rispetto alla condotta oggetto di incolpazione, deve ritenersi che questi fattori abbiano
agito solo come concause, da sole non sufficienti a determinare l’evento. Deve,
infatti, applicarsi, in questa materia, il principio giuridico dell’equivalenza
delle cause, secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla
quale la precedente sia da considerare tamquam non esset; mentre tale nesso non
può essere escluso allorquando la causa successiva abbia soltanto accelerato la
produzione dell’evento (Cass. pen., sez. V, 14 luglio 2000, Falvo).

Nel caso di specie, non si
tratta, invero, di cause sopravvenute eccezionali, tali da interrompere il
nesso causale tra l’evidenziata condotta colposa e l’evento dannoso, bensì di eventi, dotati di una rilevante incidenza causale, che tuttavia
si inseriscono nell’alveo di una situazione (progressivo scompenso psichico del
malato) già determinatasi a cagione del comportamento dell’agente. Peraltro,
come si è dimostrato, si tratta di eventi che il Pozzi
avrebbe dovuto conoscere e sulla base dei quali avrebbe avuto l’obbligo di
commisurare l’adeguatezza del suo intervento terapeutico.

In ogni caso, come testimoniato
dalle dichiarazioni dei soggetti operanti nella struttura residenziale e come
riportato nelle annotazioni sul diario della comunità e sul verbale delle
riunioni, la crisi aveva cominciato a manifestarsi ben prima di tali fatti
luttuosi che risalgono al 19 maggio 2000. A tale proposito, significativa
è l’annotazione sul verbale delle riunioni del 23 maggio che recita:
“all’origine dello scompenso di Musiani si era pensato che potessero esserci
tutti gli eventi luttuosi di questo periodo (Deanna e Franca). In realtà i
primi segnali di scompenso sono arrivati prima e sono cresciuti di forza e di
numero nei giorni subito successivi…”.

Totalmente fuorviante è poi
l’argomentazione difensiva – tratta peraltro dalle conclusioni dei periti –
secondo la quale, posto che una certa percentuale di
pazienti psicotici (circa il 20% all’anno) ha una ricaduta anche ricevendo
iniezioni depot ad effetto prolungato, non vi sarebbe alcuna dipendenza causale
tra l’opzione terapeutica posta in essere dall’imputato e l’evento omicidiario.

In realtà, il dato statistico –
sicuramente significativo – indica soltanto che la
recidiva può verificarsi anche con pazienti sottoposti a profilassi
antipsicotica. Ma ciò non inficia la premessa iniziale secondo la quale
l’osservazione scientifica e clinica ha dimostrato che
l’interruzione della somministrazione di neurolettici depot determina nei
pazienti schizofrenici un peggioramento, talvolta anche assai rapido, delle
condizioni psichiche. E’ ovvio, infatti, che, pure se lo scompenso avrebbe
potuto ugualmente verificarsi anche con il paziente sottoposto a terapia di
mantenimento, la diminuzione e la successiva interruzione della terapia,
insieme agli altri fattori traumatici non tenuti in considerazione da parte
dello psichiatra, hanno certamente agevolato le condizioni del suo manifestarsi
e quindi ne costituiscono condizione necessaria.

A seguito dell’udienza di discussione
della perizia, come si è detto in premessa, la difesa si è premurata di
acquisire la documentazione clinica relativa ai ricoveri in O.P.G.
del Musiani negli anni successivi all’omicidio e, col consenso delle parti, di
produrla agli atti del fascicolo.

Sulla base dei dati emergenti da
tale documentazione, i consulenti tecnici di parte hanno formulato ulteriori osservazioni tecniche con riguardo ai tre distinti
periodi di detenzione.

Ricoverato presso l’O.P.G. di Montelupo Fiorentino (27 maggio 2000 – 7 febbraio
2003), il Musiani, nonostante fosse sottoposto a trattamento depot,
inizialmente manifesta una notevole aggressività, giungendo più volte ad
assalire infermieri e personale. In un periodo successivo, viene
annotato uno “scarso controllo dell’impulsività”; mentre nell’ultimo anno e
mezzo viene descritto come “oppositivo” ma non più aggressivo. Il suo quadro
clinico si evolve in una demenza senile con deficit di tipo cognitivo.

L’8 febbraio 2003, il paziente viene trasferito presso l’O.P.G. di Napoli, ove rimane
ricoverato sino al 4 aprile 2003. Nonostante trattato
con dosi importanti di depot, lo stesso ricade in comportamenti aggressivi.

Tali comportamenti non mutano
anche a seguito del successivo trasferimento presso l’omologa struttura di
Reggio Emilia, ove l’aggressività del paziente non permette ai sanitari neppure
di avvicinarsi per i prelievi del sangue.

Osservano quindi gli psichiatri
che “in tutto il periodo della sua detenzione presso i tre O.P.G.
il paziente è sottoposto ad una terapia farmacologica massiccia e costante, ma
gli episodi di aggressività non sembrano risentirne e proseguono immutati. E quando si attenuano, questo non accadrà mai a seguito di
un incremento farmacologico”. Sulla base di queste
constatazioni, gli stessi concludono che “le manifestazioni comportamentali del
paziente sono una variabile dipendente dai cambiamenti ambientali – relazionali
e non del trattamento farmacologico”.

E’ convinzione di questo
giudicante (pur non avendo avuto sul tema specifico l’apporto conoscitivo e
valutativo dei periti, essendo state depositate le deduzioni in limine litis)
che queste trancianti conclusioni non siano
accettabili.

Ciò, in primo
luogo, perché partono da una premessa errata: il Musiani ricoverato il 27
maggio 2000 presso la struttura di Montelupo Fiorentino non è – dal punto di
vista psichiatrico – la stessa persona che, soltanto un mese prima, cominciava
a manifestare i primi problemi comportamentali presso la comunità residenziale
ove era ospitato. Il paziente ricoverato a seguito del crimine è un
soggetto che, sulla grave crisi psicotica in atto, si innestano
due traumi di rilevante entità: l’omicidio perpetrato con modalità estremamente
violente e lo sradicamento da un contesto ambientale tranquillizzante come era
la comunità residenziale Albatros e la restrizione paracarceraria in una
struttura prevalentemente contenitiva quale è l’ospedale psichiatrico
giudiziario.

Dall’altro lato, perché – come si
è osservato in precedenza – è ragionevole ritenere che
la situazione di grave scompenso psicotico del Musiani non sia stata
determinata dall’uno o dall’altro fattore (la modifica della terapia o da
condizioni esterne quali lutti o traumi), bensì dal combinarsi di tutte queste
condizioni che, lasciate senza controllo, hanno reso possibile il verificarsi
dell’evento omicidiario.

Conforta tale conclusione la
constatazione che, dopo un primo periodo di ricovero a Montelupo caratterizzato
da impulsi di violenza e aggressività, il Musiani, ambientatosi nella nuova
realtà e nuovamente sedato con la somministrazione di neurolettici, ha
progressivamente diminuito i suoi agiti e si è,
quantomeno negli ultimi tempi, sostanzialmente stabilizzato. Quanto ai
successivi ricoveri, la progressiva evoluzione della patologia in “psicosi
organica” e i fattori traumatici derivanti dai trasferimenti in nuove realtà
ambientali impediscono di comprendere e valutare compiutamente l’eziologia
delle sue manifestazioni aggressive.

* * * * *

Ultimo punto oggetto di
trattazione è quello che ha determinato il provvedimento di reiezione da parte di altro G.I.P. di questo ufficio della richiesta avanzata
dal P.M. di procedere, nelle forme dell’incidente probatorio, a perizia medico
– legale in ordine agli eventuali profili di colpa professionale nella condotta
dei soggetti a quella data iscritti nel registro degli indagati.

Il ragionamento del giudice si
fondava su una pretesa impossibilità di configurare, dal punto di vista
giuridico, un concorso colposo degli allora indagati nel reato doloso posto in essere dal Musiani. Conformemente ad
un’impostazione dottrinaria, tale ipotesi sarebbe inconciliabile con la
struttura del reato in concorso che esclude la possibilità che i correi possano
rispondere dello stesso evento con differenti elementi soggettivi. Si citava a
tale proposito una pronunzia della Suprema Corte che enunciava che “il concorso
colposo non è configurabile rispetto al delitto doloso, richiedendo l’articolo
42 comma II c.p. un’espressa previsione che manca, in quanto l’articolo 113
c.p. che parla di cooperazione nel delitto colposo e non già di cooperazione
colposa nel delitto, contempla solo il concorso colposo nel delitto colposo”
(Cass. pen., sez. IV, sent. 11 ottobre 1996, n. 9542).

Tale impostazione, peraltro
completamente disattesa dalla più moderna dottrina penalistica, è stata
recentemente capovolta anche dalla Cassazione, la quale ha esplicitamente
affermato che “il concorso colposo è configurabile anche rispetto al delitto
doloso, non ostandovi la previsione di cui all’articolo 42, comma II, c.p., che riferendosi soltanto alle parti speciali del
codice, non interessa le disposizioni di cui agli artt. 110 e 113 c.p.” (Cass. pen., sez. IV, 9 ottobre 2002, n. 39680,
Giancarlo: trattasi di una vicenda nella quale è stata affermata la
responsabilità a titolo di colpa di un soggetto che aveva contribuito a porre
in essere le condizioni, per lo stato di abbandono e di negligente
trascuratezza in cui aveva tenuto un deposito di materiale gommoso, per il
verificarsi di un incendio, poi in realtà appiccato da ignoti).

In realtà, nel caso di specie,
non appare neppure necessario scomodare la problematica del concorso colposo
nel reato doloso, posto che tale non può essere considerato l’atto
dell’incapace di intendere e di volere. Ragionando diversamente si dovrebbe infatti escludere la punibilità della condotta della
maestra elementare, la quale, omettendo colposamente di esercitare la
necessaria vigilanza, non impedisce che un alunno “volontariamente” ferisca il
compagno di giochi. Anche il bambino – al pari
dell’infermo psichico – per la legge penale è soggetto privo della capacità di
intendere e di volere; tuttavia, dal punto di vista psicologico, non può
escludersi che lo stesso possa commettere un atto intenzionalmente. A tale
proposito, la moderna dottrina parla, con riguardo agli stati psicologici degli
incapaci di intendere e di volere, di “pseudo – dolo” e “pseudo – colpa”.

Ciò che, in realtà, si rimprovera
all’attuale imputato non è di avere concorso con la
propria condotta colposa nell’attività delittuosa del Musiani, bensì di non
avere impedito un evento (la morte del Cardelli) che, in qualità di
destinatario di una posizione di garanzia, egli aveva l’obbligo giuridico di
impedire.

* * * * *

Affermata la penale
responsabilità dell’imputato in ordine al delitto in
contestazione, devono essere passati in rassegna i profili afferenti al
trattamento sanzionatorio e alle determinazioni civili della sentenza.

Vanno certamente riconosciute al Pozzi le circostanze attenuanti generiche, in
considerazione dello stato di incensuratezza nonché al fine di adeguare la pena
al concreto disvalore penale della condotta, tenuto conto della particolare
delicatezza e importanza sociale del ruolo professionale svolto dallo stesso.

Con riguardo alla determinazione
della pena occorre fare riferimento ai criteri stabiliti dall’articolo 133 c.p.
A tale riguardo va considerato che, seppure la condotta dell’imputato appaia
spesso connotata da superficialità comportamentale e da palese inadeguatezza,
la scelta terapeutica adottata (seppure non con le modalità che il caso
concreto imponeva) risulta invece conforme ad
un’interpretazione più evoluta e moderna della psichiatria che vede il ruolo
del medico più in una prospettiva terapeutico – sanitaria che in quella
contenitiva della pericolosità sociale del paziente. Non si possono non
condividere le argomentazioni difensive laddove si è evidenziato che il medico,
quando avrebbe potuto adottare una scelta di comodo mantenendo il paziente
sedato sino alla fine dei suoi giorni, ha comunque
adottato una scelta terapeutica al fine di consentire al Musiani una migliore
qualità della vita. Pertanto, tenuto conto anche della limitatissima capacità a
delinquere del reo, appare equa e congrua una pena base pari a nove mesi di
reclusione. La stessa deve essere poi ridotta a mesi sei per la concessione
delle circostanze attenuanti generiche e ancora diminuita di un terzo per la
scelta del rito, pervenendosi così alla pena finale di quattro mesi di
reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

Sussistono le condizioni
(incensuratezza e giudizio prognostico sfavorevole in ordine
a future condotte recidivanti) per la concessione al condannato della
sospensione condizionale della pena.

Il Pozzi
deve essere poi condannato al risarcimento dei danni in favore delle parti
civili costituite Bendini Ivana, Bertolasi Monica e Cardelli Alessandro, da
liquidarsi in separato giudizio innanzi al competente giudice civile.

In questa sede, sussistendone i
presupposti, deve essere concessa a favore delle stesse parti civile una
provvisionale pari a euro 50.000,00 ciascuno a favore
di Bendini Ivana e Cardelli Alessandro e a euro 20.000,00 a favore di Bertolasi
Monica. Il condannato sarà altresì tenuto a risarcire le predette parti civili
delle spese processuali dalle stesse sostenute nella misura indicata in
dispositivo.

PQM

Il giudice, visti gli artt. di legge in epigrafe., 62 bis c.p., 442, 533 e 535 Cpp,
dichiara POZZI Euro colpevole del reato ascrittogli in rubrica e, concessegli
le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito, lo
condanna alla pena di mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle
spese processuali.

Visti gli artt. 163 e ss. c.p., ordina che l’esecuzione della pena come sopra inflitta
rimanga sospesa nei confronti del predetto Pozzi per anni cinque alle
condizioni di legge.

Visti gli artt. 538 e ss. Cpp, condanna Pozzi Euro al risarcimento dei danni in
favore delle parti civili costituite Bendini Ivana, Bertolasi Monica e Cardelli
Alessandro, da liquidarsi in separato giudizio innanzi al competente giudice
civile.

Condanna il
predetto Pozzi al pagamento, a titolo di provvisionale immediatamente
esecutiva, della somma di euro 50.000,00 a favore di Bendini Ivana e Cardelli
Alessandro e di euro 20.000,00 a favore di Bertolasi Monica.

Condanna altresì il medesimo alla
rifusione delle spese processuali sostenute dalle stesse parti civili, che
liquida in complessivi euro 4.640,00 (escluse le spese in quanto non
documentate), oltre a IVA e CPA, come per legge, a
favore di Bendini Ivana, e euro 4.720,00, oltre a IVA e CPA, a favore di
Bertolasi Monica e Cardelli Alessandro.