Famiglia
Le sezioni unite della Cassazione sul reato di cui all’ art. 570 c.p.
Le sezioni unite della Cassazione
sul reato di cui all’art. 570 c.p.
Sentenza n. 8413 del 20 dicembre
2007 – depositata il 26 febbraio 2008
(Sezioni
Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore C. G. Brusco)
La Corte osserva:
I) La Corte d’Appello di Trieste, con
sentenza 20 aprile 2006, ha
respinto l’appello proposto da C.A. contro la sentenza 4 dicembre 2003 che
l’aveva condannata alla pena di mesi tre di reclusione ed euro 150,00 di multa
per il delitto di cui all’art. 570 commi 1° e 2° cod.
pen. per aver fatto mancare i mezzi di sussistenza ai
figli E.M., E.A. e E.F.S. (questi ultimi due minori di
età) omettendo di corrispondere al marito separato E.A. quanto stabilito dal
giudice in sede di separazione (lire 250.000 complessive).
La Corte di merito – dopo aver
precisato che l’imputazione doveva ritenersi riferita soltanto al secondo comma
n. 2 dell’art. 570 cod. pen. – ha confermato la valutazione del primo giudice
sottolineando che era stato accertato che l’imputata disponeva, almeno in
parte, delle risorse necessarie per adempiere all’obbligo
nei confronti dei figli che erano stati affidati al padre e che era irrilevante
che all’obbligo di mantenimento avesse adempiuto un terzo (il marito separato).
Infine la Corte ha ritenuto adeguata
la pena inflitta dal primo giudice.
II) C.A. ha proposto ricorso
contro la sentenza del giudice di appello e ha dedotto i seguenti motivi
d’impugnazione:
– l’inosservanza degli artt. 516,
521 comma 2° e 522 c.p.p., nonché mancanza e manifesta
illogicità della motivazione; la ricorrente sottolinea di essere stata rinviata
a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 570 commi 1° e 2° cod. pen.
mentre poi è stata condannata soltanto per l’ipotesi
prevista dal secondo comma della norma indicata; ciò avrebbe generato
indeterminatezza dell’accusa, il pubblico ministero non vi avrebbe ovviato con
la modificazione dell’imputazione e il giudice avrebbe omesso di adottare le
necessarie iniziative trattandosi di fatto diverso da quello contestato;
– l’inosservanza o l’erronea
applicazione dell’art. 570 cod. pen. nonché la
mancanza o la manifesta illogicità della motivazione: la Corte di merito avrebbe
infatti correttamente premesso che il mancato versamento dell’assegno fissato
dal giudice civile non comporta necessariamente la violazione della norma
indicata – dovendosi verificare se l’avente diritto sia rimasto privo dei mezzi
di sussistenza – ma non avrebbe tratto le necessarie conseguenze da questa
premessa sia non tenendo conto della circostanza che i figli non si trovavano
affatto in stato di bisogno (erano infatti alloggiati in accademie militari che
sostenevano le spese di vitto e alloggio e corrispondevano loro una paga
giornaliera); inoltre la sentenza impugnata non avrebbe preso in considerazione
l’oggettiva impossibilità, da parte della ricorrente, di corrispondere
l’assegno in questione dovendo far fronte, con il suo stipendio, al mutuo
contratto per l’acquisto della casa e ai frequenti viaggi a Trieste per
visitare i figli; la ricorrente evidenzia inoltre, producendo la relativa
dichiarazione, che il marito ha revocato la costituzione di parte civile;
– l’inosservanza o erronea
applicazione degli artt. 81 e 570 cod. pen.;
erroneamente, secondo la ricorrente, i giudici di merito avrebbero ritenuto
l’esistenza del concorso formale per l’esistenza di più aventi diritto ai mezzi
di sussistenza dovendosi ritenere, al contrario, l’unicità del reato;
– il vizio di motivazione con
riferimento ai criteri di valutazione della testimonianza della persona offesa
per non avere, la sentenza impugnata, indicato alcun elemento a sostegno della
veridicità delle dichiarazioni della persona offesa;
– il medesimo vizio con riferimento
al trattamento sanzionatorio per non avere, i giudici di merito, tenuto conto
della non particolare gravità del fatto applicando la pena nel minimo di legge.
III) La ricorrente depositava
motivi nuovi con i quali si ribadivano, in particolare, la censura che si
riferisce alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza;
quella che si riferisce alla violazione dell’art. 570 cod. pen. non avendo, i giudici di merito, accertato né lo stato di
bisogno degli aventi diritto né la possibilità per la ricorrente di far fronte
all’obbligo su di lei gravante; l’inapplicabilità dell’istituto del concorso
formale nel caso di più aventi diritto ai mezzi di sussistenza e la censura
attinente alla valutazione della persona offesa.
Con ordinanza 3 ottobre 2007 la
sesta sezione di questa Corte trasmetteva gli atti a queste sezioni unite
avendo rilevato un contrasto, nella giurisprudenza di legittimità, sulla
possibilità di ipotizzare il concorso formale nel caso di violazione dell’art.
570 cod. pen. in presenza di più aventi diritto alla
corresponsione dei mezzi di sussistenza.
IV) Osservano le sezioni unite
che la più parte dei motivi proposti con il ricorso e con i motivi aggiunti è
inammissibile.
Manifestamente infondato è
innanzitutto il primo motivo che si riferisce alla violazione del principio di
corrispondenza tra contestazione e sentenza di condanna difettando proprio il
presupposto per potersi affermare l’esistenza di questo scostamento.
La ricorrente la ricava dalla
circostanza che, nell’imputazione originaria, è stato indicato anche il primo
comma dell’art. 570 cod. pen. mentre la condanna è
avvenuta per l’ipotesi prevista dal comma 2° n. 2 della medesima norma ma è
sufficiente rilevare, in contrario, che nel capo d’imputazione è indicato anche
il secondo comma della norma e che la condotta descritta nel capo d’imputazione
corrisponde esattamente a quella per cui è intervenuta condanna per rendersi
conto della palese pretestuosità della censura. E’ infatti
ovvio che non è violato il ricordato principio di corrispondenza qualora solo
una parte dei fatti contestati venga ritenuta esistente; tanto più se – come
nel caso in esame – il dappiù sia costituito dalla sola enunciazione normativa
senza che vi corrisponda la descrizione di una condotta.
V) Inammissibili sono anche i motivi secondo (per una parte) e quarto del proposto
ricorso.
Quanto al secondo motivo deve
rilevarsene la manifesta infondatezza per quanto riguarda l’asserita erronea
applicazione dell’art. 570 cod.pen. Non corrisponde infatti
al vero che i giudici di merito abbiano preso ad esclusivo riferimento – per
ritenere realizzato il fatto tipico di aver fatto mancare i mezzi di
sussistenza ai figli – l’importo dell’assegno fissato in sede di separazione
dal giudice civile. Al contrario i primi giudici, con analitica motivazione
condivisa dalla Corte d’Appello, hanno preso in considerazione il reddito di
cui l’imputata godeva per sottolineare come, indipendentemente dall’importo
dell’assegno, alcun contributo, nell’ambito delle disponibilità economiche
dell’imputata, fosse stato dato dalla medesima per il mantenimento dei figli.
Inammissibile – perché
manifestamente infondato e concernente una censura che si risolve in una
richiesta di rivalutazione dei fatti accertati nei precedenti gradi di giudizio
– è parimenti il secondo motivo per quanto riguarda l’esistenza dello stato di
bisogno degli aventi diritto avendo, i giudici di
merito, incensurabilmente accertato l’esistenza di tale stato rilevando come
tutti i costi del mantenimento dei figli, le rette per la frequentazione delle
scuole e degli istituti militari e tutte le altre necessità fossero state
sostenute dal padre correttamente sottolineando come l’adempimento da parte di
un terzo non elida la rilevanza penale della condotta accertata (v. Cass., sez.
VI, 9 gennaio 2004 n. 17692, Bencivenga, rv. 228491; 21 marzo 1996 n. 5525,
Pulga, rv. 204875).
Manifestamente infondato è infine
il quarto motivo, per quanto attiene alla valutazione delle dichiarazioni della
persona offesa risolvendosi, anche questa censura, nella richiesta di
rivalutazione dell’accertamento logicamente condotto dai giudici di merito. Va
peraltro sottolineato che il motivo si caratterizza anche per la mancanza di
decisività essendo incontroversa la mancata corresponsione di alcuna somma da
parte della ricorrente fino al luglio 2002 ed avendo il primo giudice (la cui
sentenza è richiamata da quella d’appello) fondato essenzialmente la sua
decisione sulle allegazioni difensive della ricorrente e sulle dichiarazioni testimoniali
diverse da quelle del marito.
VI) Infondata è invece la parte
del secondo motivo che si riferisce all’accertamento della possibilità di
adempiere i propri obblighi da parte dell’imputata.
Su questo punto la motivazione
contenuta nella sentenza impugnata è effettivamente da ritenere insufficiente
perché si limita ad affermare che la possibilità di adempiere, almeno
parzialmente, agli obblighi di assistenza emerge dalla circostanza che, da un
certo momento (luglio 2002) in avanti, C.A. iniziò ad inviare piccole somme per
il mantenimento dei figli, sia pure inferiori all’assegno di separazione.
Non v’è, nella sentenza
impugnata, una disamina precisa sul dedotto stato di bisogno in cui si sarebbe
trovata la ricorrente prima dell’epoca indicata ma la motivazione
può ritenersi integrata da quella della sentenza di primo grado – espressamente
richiamata da quella d’appello sia pure in termini generali – che ha effettuato
un calcolo analitico delle disponibilità dell’imputata nel periodo in questione
pervenendo alla conclusione della possibilità per la medesima di adempiere, sia
pure parzialmente, ai suoi obblighi di solidarietà familiare.
E poiché l’insufficienza della
motivazione non può costituire motivo di annullamento della sentenza impugnata
e la motivazione della sentenza di appello può ritenersi integrata da quella di
primo grado che, nella sostanza, aveva fornito una risposta alle censure
contenute nell’appello il motivo di ricorso deve essere respinto perché
infondato.
VII) Passando all’esame del terzo
motivo di ricorso, ribadito nel terzo motivo nuovo, va premesso che occorre
preliminarmente esaminarne l’ammissibilità ai sensi dell’art.
606 comma 3° del codice di rito perché la violazione di legge dedotta
con questa censura non era stata proposta con i motivi di appello.
Ritiene la Corte che la questione
proposta con il motivo in esame, non essendo il ricorso da dichiarare
inammissibile per tutti i motivi, sia rilevabile d’ufficio e che possa dunque essere esaminata (v. in questo senso, tra le
altre, Cass., sez. V, 9 luglio 2004 n. 36293, Raimo, rv. 230636).
Ma la doglianza deve ritenersi
ammissibile anche sotto un diverso profilo; una censura rivolta
all’affermazione dell’unicità del reato, piuttosto che del concorso formale o
della continuazione, comporta l’affermazione che l’imputato deve essere
ritenuto responsabile per un solo reato e non per più reati. Può dunque
legittimamente affermarsi che la richiesta è rivolta all’applicazione dell’art.
129 comma 1° del c.p.p. perché vi si contesta la sussistenza, verificabile
d’ufficio, dei reati ulteriori di cui è stata affermata l’esistenza, e senza
che questa verifica comporti accertamenti in fatto o valutazioni di merito
incompatibili con i limiti del giudizio di legittimità.
Ne consegue che, sotto il duplice
profilo indicato, è consentito l’esame del motivo proposto per la prima volta
con il ricorso in cassazione.
VIII) Il motivo è peraltro da
ritenere infondato.
Il contrasto creatosi all’interno
della sesta sezione di questa Corte trova la sua origine in una diversa visione
del bene tutelato dalla norma incriminatrice; fermo restando che i due
orientamenti non disconoscono l’ordine familiare come bene protetto dalla
norma, essi si differenziano però quanto alla tutela dei singoli aventi diritto
che, per l’orientamento maggioritario, costituirebbe soltanto una conseguenza
naturale e riflessa della tutela primaria.
Secondo Cass.,
sez. VI, 14 gennaio 2004 n. 1251, Cipriani, rv. 228226 – che costituisce il più
recente ed argomentato precedente che si rifà a questa linea di tendenza – “la
norma penale indica come oggetto di repressione una condotta indifferenziata
rispetto al numero ed alla qualità dei soggetti lesi, sicchè in sostanza il
legislatore, non considerando singolarmente le posizioni degli individui,
difende il complesso di obblighi che fa capo alla famiglia come entità distinta
dai suoi componenti”.
Il diverso orientamento,
minoritario, ritiene invece che i singoli aventi diritto sarebbero soggetti
direttamente tutelati dalla norma e fonda questo convincimento sulle profonde
trasformazioni che hanno caratterizzato, nella seconda metà del secolo scorso,
l’istituzione familiare “con uno spostamento di attenzione del legislatore dal
gruppo in sé ai suoi componenti all’interno della formazione sociale famiglia
che questi contribuisce a formare, con una valorizzazione dei singoli rapporti
che in essa traggono origine e si sviluppano” (così
Cass., sez. VI, 19 giugno 2002 n. 36070, Armeli, rv. 222666).
IX) Ritengono le sezioni unite
che la soluzione corretta del problema sia quella proposta dal secondo
orientamento riferito anche se il percorso
argomentativo di queste decisioni non appare del tutto condivisibile.
Va premesso che, come
correttamente si afferma in alcune delle sentenze adesive all’orientamento
maggioritario, la natura plurioffensiva del reato in esame non vale a risolvere
il problema dandosi casi di reati certamente plurioffensivi (per es. la strage,
il falso in bilancio ecc.) che restano ipotesi di reato unico
anche se le persone offese sono più d’una. Parimenti non sembra che il
problema possa essere risolto in base alla formulazione letterale dell’art. 570
cod. pen. cpv. n. 2 sul rilievo che la norma non
considererebbe singolarmente le posizioni degli individui; argomento
ambivalente perché la formulazione letterale della norma potrebbe giustificare
anche l’opposta soluzione fondata sulla circostanza che la norma individua gli aventi diritto ai mezzi di sussistenza – la cui mancata
somministrazione è penalmente sanzionata – ma non fa riferimento, a differenza
del comma 1°, a condotte contrarie “all’ordine e alla morale delle famiglie”.
E’ condivisibile invece la
ricostruzione del percorso storico giuridico riguardante la famiglia con la
considerazione che l’impianto originario, ma tuttora vigente, del codice penale
– che inserisce il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare
nel titolo XI (delitti contro la famiglia) – era forse idoneo a legittimare una
considerazione globale dell’ordine familiare tale da giustificare una tutela
unitaria e indifferenziata senza che venissero in
considerazione le specificità delle situazioni individuali dei singoli
componenti.
Già in questa costruzione era
difficile individuare una concezione della famiglia come formazione sociale
esclusiva che in qualche modo ricomprende in sé anche i diritti dei suoi
componenti. Tanto più, come è stato affermato nella sentenza 19 giugno 2002 n.
36070, Armeli, rv. 222666, che “il concetto di famiglia nel diritto penale non
è esattamente delineato essendo controverso se in esso
sia adottata una propria ed autonoma nozione ovvero se si debba far riferimento
a quella recepita nel diritto civile, anch’essa peraltro non compiutamente
formulata e quindi tale da richiedere di volta in volta le necessarie
specificazioni per stabilire a quale nozione di famiglia ci si intenda riferire
(legittima o illegittima, naturale o civilmente riconosciuta, etc.)”. Ma le
norme della Costituzione (artt. 2, 29, 30 e 31) e le riforme legislative
successivamente intervenute in tema di diritto di famiglia hanno sicuramente
rafforzato anche la tutela dei singoli componenti.
Non sembra però
corretta la premessa metodologica dalla quale prendono le mosse entrambi i
contrastanti orientamenti che sembrano prender le mosse dal presupposto che la
norma incriminatrice (l’intero art. 570) preveda condotte assimilabili in
categorie omogenee. In realtà si tratta di una norma che fa riferimento ad un
ventaglio di condotte di natura diversa che, fermo restando il fine di tutela
della famiglia e dei rapporti di assistenza nell’ambito familiare, prende in
considerazione condotte ed eventi di diversa natura per i
quali ben possono individuarsi beni non omogenei ma parimenti tutelati.
E per ciascuna di queste ipotesi ben possono darsi soluzioni diverse quanto al
tema dell’unicità o pluralità di reati.
Per esemplificare: l’abbandono
del domicilio domestico previsto dal 1° comma dell’art. 570 in esame costituisce un
reato unico perché diretto a tutelare esclusivamente la convivenza familiare e
non essendo ipotizzabile una tutela differenziata dei vari componenti della
famiglia (non si può abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti
di uno dei componenti della famiglia). Chi abbandona la famiglia sottraendosi
agli obblighi di assistenza non la abbandona in relazione alle singole
posizioni individuali; per questa ipotesi sarebbe dunque impossibile affermare
una lesione per così dire “frazionata” dell’interesse protetto. E così chi si
sottrae ai medesimi obblighi, serbando una condotta contraria all’ordine o alla
morale delle famiglie, analogamente compromette quest’ordine indipendentemente
da quanti e quali sono i componenti della famiglia.
In questi casi è dunque legittimo
affermare che il bene protetto dei singoli si identifica con quello della
famiglia intesa nella sua unità e che quindi il reato deve essere considerato
unico indipendentemente da quanti siano i componenti del nucleo familiare. Del
resto, come si fa ad abbandonare il domicilio domestico soltanto nei confronti
di taluni di coloro che vi abitano ?
X) Ben diverso è il contesto in
cui si collocano le ipotesi previste dal secondo comma dell’art. 570 cod. pen. dirette a tutelare non un’astratta unità familiare o un
ordine o una morale familiare dai contorni indistinti ma ben precisi interessi
economici quali la tutela del patrimonio del soggetto “debole” (n. 1) e la vera
e propria sopravvivenza economica di questi soggetti (n. 2).
Non è possibile parlare di tutela
indifferenziata per l’interesse patrimoniale o economico di singoli soggetti i
quali, oltre tutto, possono trovarsi nelle più diverse situazioni. Questa
tutela patrimoniale ed economica del singolo componente della famiglia ben
poteva essere distinta da quella generica della famiglia già nell’impianto
originario della norma; e non è possibile affermarla oggi che addirittura
alcune posizioni (quelle del più debole, il minore) sono state distinte dalle
altre che sono divenute perseguibili a querela.
In realtà v’è una considerazione
dirimente che vale a risolvere ogni dubbio che possa legittimamente perdurare
su questo problema. Come – nel caso previsto dal n. 1 del
comma 2° dell’art. 570 cod. pen. – è possibile che l’agente malversi o
dilapidi i beni di uno dei soggetti protetti e non degli altri così, nel caso
previsto dal n. 2, è possibile che l’adempimento degli obblighi di assistenza
economica avvenga per uno o più degli aventi diritto e
non per l’altro o per gli altri e questa considerazione vale, da sola, ad
escludere l’unicità del reato.
Se si pone mente alla
formulazione della norma nella logica del reato unico quando
vi siano più aventi diritto sarebbe addirittura esclusa – nel caso di
adempimento solo a favore di taluno degli aventi diritto – la tipicità della
condotta perché l’adempimento soggettivamente frazionato non è descritto nella
condotta prevista dalla norma incriminatrice. E va precisato che, in adesione
al principio affermato, ove più siano le omissioni (per es. nel caso in cui
l’agente fosse tenuto a separati versamenti) deve ritenersi, sia pure con
identiche conseguenze sul trattamento sanzionatorio, l’esistenza del reato
continuato di cui al primo cpv. dell’art. 81 in esame e non il concorso formale.
E’ dunque corretta la soluzione
dei giudici di merito che hanno ritenuto l’esistenza del concorso formale
perché l’agente, con un’unica omissione, ha commesso più violazioni della
medesima disposizione di legge (art. 81 comma 1° cod. pen.).
Questa soluzione non differisce
peraltro da quella che la giurisprudenza di legittimità ha accolto in altri casi, in particolare per l’ipotesi analoga relativa al
reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 cod. pen. nel
caso di più soggetti passivi della condotta (v. Cass., sez. VI, 21 gennaio 2003
n. 7781, Simonella, rv. 224048).
Deve dunque affermarsi che
“configura una pluralità di reati l’omessa somministrazione di mezzi di
sussistenza nell’ipotesi in cui la condotta sia posta in essere nei confronti
di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare”.
XI) Inammissibile è invece
l’ultimo motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio, con il quale
la ricorrente si duole che non sia stata, dal giudice d’appello, ridotta la
pena inflitta dal primo giudice in considerazione della scarsa gravità del
fatto contestato.
E’ infatti
da considerare che la determinazione della pena da infliggere in concreto
rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito che, per l’art. 132
cod. pen., l’applica discrezionalmente indicando i motivi che giustificano
l’uso di tale potere discrezionale. In sede di legittimità è invece consentito
esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale,
si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e
abbia motivato adeguatamente il suo convincimento e salvo che il caso concreto
non consenta anche una motivazione implicita (per es. quando la pena viene
applicata nel minimo di legge).
Nel caso in esame la sentenza impugnata
si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego
di riduzione della pena, alle circostanze indicate nell’art. 133 cod. pen., e ha ritenuto adeguata quella inflitta del primo giudice
ritenendo, incensurabilmente in questa sede, che il primo giudice (che peraltro
aveva applicato una pena non lontana dal minimo) avesse tenuto conto, oltre che
dell’incensuratezza, della condotta dell’imputata che non aveva comunque fatto
mancare ai figli il sostegno morale.
Alle considerazioni in precedenza
svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna della ricorrente al
pagamento delle spese processuali.
P. Q. M.
la Corte
Suprema di Cassazione, sezioni unite penali, rigetta il
ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.