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Le “incredibili” dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
La valutazione sulla credibilità dei collaboratori di giustizia deve prescindere dalle utilità che i medesimi possono ricevere nell’ambito del trattamento loro assicurato dalla legge e dall’interesse che, per continuare ad usufruire di detto trattamento, essi avrebbero nel fornire ulteriori dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi.
Inoltre, in tema di dichiarazione de relato, qualora la persona alla quale il collaboratore di giustizia ha fatto riferimento sia stata chiamata a deporre e non abbia risposto, ovvero abbia fornito una versione contrastante, il giudice può ritenere attendibile, all’esito di una valutazione complessiva della credibilità del dichiarante diretto, la deposizione del dichiarante de relato in quanto, da un lato, l’art. 195 c.p.p. non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e, dall’altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il principio del libero convincimento del giudice, cui compete in via esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti da privilegiare. Così ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 8218/19, depositata il 25 febbraio, nella quale ha sancito due principi di diritto riguardanti le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia.
(Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza n. 8218/19; depositata il 25 febbraio)
Il caso. La Corte d’Appello di Bari, in totale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale di Trani, assolveva gli imputati dai reati loro ascritti, ritenendo insufficienti gli elementi probatori a loro carico costituiti dalle dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, ritenuti non attendibili in quanto avrebbero riferito in merito a fatti appresi de relato da altri soggetti che a loro volta avevano negato di esserne a conoscenza, nonché, con particolare riguardo ad uno di essi collaboratori, di confidenze ricevute in carcere da uno degli imputati.
La Corte d’Appello, inoltre, pur escludendo che il movente possa costituire fonte indiziaria, ha ritenuto che la pluralità di moventi alternativi fosse tale da non poter ritener superata, alla luce dell’incertezza del quadro accusatorio incerto, la soglia del ragionevole dubbio.
Ricorreva il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Bari, deducendo quattro motivi di ricorso, di cui uno, ritenuto infondato dagli Ermellini, riguardante l’obbligo di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello rispetto a diversa valutazione del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese prima di modificarne il relativo giudizio di attendibilità precedentemente formulato; i restanti tre, con riguardo alla credibilità dei collaboratori di giustizia e all’attendibilità delle dichiarazioni de relato rese dagli stessi.
Il primo principio di diritto: la valutazione della credibilità dei collaboratori di giustizia. Il Supremo Collegio ha ritenuto meritevoli di accoglimento i suddetti tre motivi formulati dal Procuratore Generale, sancendo due distinti principi di diritto in punto, cui dovrà attenersi la Corte d’Appello di Bari per colmare i vizi motivazionali rilevati dalla Cassazione.
Con il primo di essi, gli Ermellini hanno statuito come «la valutazione sulla credibilità dei collaboratori di giustizia deve prescindere dalle utilità che i medesimi possono ricevere nell’ambito del trattamento loro assicurato dalla legge e dall’interesse che, per continuare ad usufruire di detto trattamento, essi avrebbero nel fornire ulteriori dichiarazioni accusatorie nei confronti di terzi».
La Cassazione è pervenuta a tale conclusione richiamandosi a molteplici pronunce della giurisprudenza di legittimità e ribadendo i criteri che il giudicante è chiamato a seguire ai fini della prova di responsabilità penale dell’accusato, nei casi di chiamata in correità nei quali l’esame della fonte diretta risulti impossibile.
In particolare, ha statuito come, in punto di riscontro estrinseco alla chiamata in correità o in reità de relato, possa essere utilizzato qualunque elemento probatorio, diretto o indiretto, purché estraneo alle dichiarazioni da riscontrare.
Il secondo principio di diritto: l’attendibilità della dichiarazione de relato. Il Supremo Collegio ha poi enunciato un secondo principio di diritto riguardante l’attendibilità della dichiarazione de relato rese dai collaboratori di giustizia, muovendo da analoga disamina dell’iter giurisprudenziale cha l’ha condotto a tale conclusione, nonché dal richiamo alle norme processualpenalistiche.
Così, la Cassazione ha statuito come la reciproca conferma dell’attendibilità delle dichiarazioni imputate in procedimenti connessi non impone che queste ultime riguardino l’idem dictum, essendo sufficiente che i fatti rappresentati siano in rapporto di univoca implicazione rispetto alla specifica condotta criminosa da provare.
Muovendo da tali assunti, gli Ermellini hanno enunciato il principio di diritto in base al quale, «in tema di dichiarazione de relato, qualora la persona alla quale il collaboratore di giustizia ha fatto riferimento sia stata chiamata a deporre e non abbia risposto, ovvero abbia fornito una versione contrastante, il giudice può ritenere attendibile, all’esito di una valutazione complessiva della credibilità del dichiarante diretto, la deposizione del dichiarante de relato in quanto, da un lato, l’art. 195 c.p.p. non prevede alcuna gerarchia tra le dichiarazioni e, dall’altro, una diversa soluzione contrasterebbe con il principio del libero convincimento del giudice, cui compete in via esclusiva la scelta critica e motivata della versione dei fatti da privilegiare».
Alla luce del corposo ragionamento giuridico compiuto, la Corte di legittimità ha dunque accolto il ricorso, annullando la sentenza con rinvio per nuovo giudizio avanti ad altra Sezione delle Corte d’Appello di Bari.
Avv. Claudio Bossi