Lavoro e Previdenza
La responsabilità oggettiva del datore di lavoro per gli infortuni dei dipendenti.
La responsabilità oggettiva del
datore di lavoro per gli infortuni dei dipendenti.
Cassazione – Sezione terza civile
– sentenza 14 gennaio – 25 febbraio 2008, n. 4718
Presidente Varrone – Relatore
Lanzillo
Pm Fedeli –
conforme – Ricorrente De Bellis Snc – Controricorrente Iammarrone
Svolgimento del processo
Con atto notificato il 10.4.2004
a Rosa Iammarone ved. Roberto ed a Generoso Roberto, la s.n.c. Fratelli De
Bellis, di Michele e Donato De Bellis, ha proposto ricorso per cassazione
contro la sentenza 4 giugno-20 ottobre 2003 n. 992 della Corte di appello di
Bari, che ha respinto l’appello proposto contro la condanna al risarcimento dei
danni emessa a suo carico dal Tribunale di Foggia, a seguito della morte sul
lavoro del suo dipendente, Antonio Roberto.
Il medesimo ricorso per
cassazione è stato successivamente notificato, in data 8.6.2004, a Rosa
Roberto, per un errore nella prima richiesta di notificazione.
Espone la ricorrente che il
26.11.1987, all’interno della cava di pietra da essa
gestita, Antonio Roberto è deceduto mentre eseguiva lavori di manutenzione su
di un autocarro provvisto di cassone ribaltabile, a causa dell’improvvisa
chiusura del cassone, che l’operaio aveva sollevato per eseguire i lavori.
Gli accertamenti compiuti dai
carabinieri, dall’Ispettorato provinciale del lavoro di Foggia e dalla Regione
Puglia avevano accertato che la vittima aveva manomesso gli spinotti siti sul
carrello e non aveva utilizzato i puntelli di sostegno del cassone,
durante
l’esecuzione dei lavori. Le indagini iniziate a carico dell’impresa dalla
Procura della repubblica di Foggia sono state pertanto archiviate.
Gli eredi del Roberto però – cioè
la moglie, Rosalba lammarone, e i due figli, Generoso e Rosa Roberto – hanno
convenuto la De Bellis
davanti al Tribunale di Foggia, per sentirla condannare al risarcimento dei
danni subiti a causa della morte del loro congiunto.
La società ha resistito alle
domande, affermando che l’incidente era da ascrivere alla colpa esclusiva della
vittima.
Nel corso del giudizio è
volontariamente intervenuto l’Inail, chiedendo il rimborso di Euro 302.714.448,
per prestazioni erogate in. favore dei superstiti, ed è stata disposta ed
esperita CTU sulle cause del sinistro e sulle misure antinfortunistiche
adottate dall’impresa.
Con sentenza n. 16080/2001 il
Tribunale di Foggia ha attribuito alla De Bellis la responsabilità
dell’incidente e l’ha condannata a pagare agli attori Euro 307.125.000 (pari ad
Euro 102,375.000 per ciascuno di essi), ed Euro 23.250.000 in favore
della Iammarone, in risarcimento del danno biologico da essa, subito; oltre
alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali su tutte le somme. Si è
invece dichiarato incompetente a decidere sulla domanda dell’Inail, ritenendo
la causa
di
competenza del giudice del lavoro.
La De Bellis ha proposto
appello, chiedendo il rigetto di tutte le avversarie domande e la dichiarazione
di inammissibilità della domanda della Iammarone di risarcimento del danno
biologico, perché non tempestivamente proposta. In subordine, ha chiesto che venisse accertato quanto meno il concorso di colpa della
vittima, previo esperimento di nuova Ctu, alla luce degli accertamenti
contenuti in una perizia di parte da essa depositata.
La Corte di appello di Bari,
con la sentenza impugnata in questa sede, ha respinto l’appello, ponendo a
carico dell’appellante le spese del grado.
La De Bellis propone sei
motivi di ricorso per cassazione, illustrati da memoria, a
cui resiste con controricorso Rosa Iammarone.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente
deduce l’omessa o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della
controversia, per la mancata rinnovazione della consulenza tecnica di ufficio
in grado di appello, nonostante le denunciate incongruenze. Il Ctu infatti, dopo avere premesso che all’epoca del fatto non
esistevano mezzi tecnici idonei a garantire il fermo assoluto del cassone
ribaltabile dell’autocarro, allorché era sollevato, ha imputato alla De Bellis
di non avere predisposto le misure per il fermo assoluto, e il giudice di
appello ne ha seguito le conclusioni, sebbene la ricorrente avesse prodotto una
relazione tecnica di parte, ove si dimostrava che il cassone si è chiuso poiché
il Roberto lo aveva disancorato dal carrello, sfilando i due pistoni di
supporto.
Con il secondo motivo la
ricorrente denuncia la violazione dell’art. 82 d.p.r. n. 547 del 1955, e
l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, per le stesse ragioni di
cui sopra, cioè per avere la sentenza impugnata imputato all’impresa la
responsabilità di non avere adottato misure di prevenzione, senza specificare
quali mezzi essa avrebbe dovuto adottare e senza motivare in ordine al fatto
che la disgrazia avrebbe potuto verificarsi anche se
il Roberto avesse utilizzato i puntelli di sostegno del cassone. In tal modo, la Corte di appello ha
interpretato il citato art. 82 d.p.r. n. 547 del 1955 come se le relative
disposizioni addossassero al datore di lavoro una responsabilità oggettiva,
indipendente dal grado di colpa a lui riferibile.
Con il terzo motivo la ricorrente
deduce la violazione dell’art. 6 d.p.r. 547 del 1955 e l’omessa o insufficiente
motivazione su punti decisivi della controversia, per avere la Corte di appello trascurato
di prendere in esame prove orali e documentali determinanti al fine di
dimostrare che il sinistro non è ad essa imputabile.
Ha omesso di esaminare, in particolare, le risultanze probatorie da cui risulta
che il Roberto aveva eseguito di sua iniziativa operazioni e manovre non di sua
competenza, idonee a compromettere la sua sicurezza, senza rispettare il
disposto del citato art. 6 e le misure precauzionali prescritte dall’impresa.
Dall’istruttoria della Regione Puglia era infatti
emerso che l’infortunio non è stato provocato dal cedimento di una parte
strutturale dell’attrezzatura di ribaltamento, né dal malfunzionamento della
stessa, ma dalla manomissione dei pistoni da parte del Roberto.
Con il quinto motivo – la cui
trattazione logicamente precede quella del quarto motivo, che attiene solo alla
liquidazione dei danni – la ricorrente lamenta la violazione degli art. 2043,
2056, 1226, 1227, 1^ e comma 2, 2087, 2697 cod. civ.,
40 e 41 cod. pen., 6 legge n. 547 del 1955, nonché l’omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione, nella parte in cui la Corte di appello, alla luce
di tutte le censure di cui ai primi tre motivi, non ha attribuito
all’infortunato quanto meno un concorso di colpa in ordine al sinistro.
I primi tre motivi ed il quinto
motivo vanno esaminati insieme, poiché tutti attengono ai criteri in base ai
quali la Corte
di appello ha ricostruito le modalità del fatto ed ha attribuito l’intera
responsabilità dell’incidente alla De Bellis.
I suddetti motivi di ricorso non
sono fondati.
In primo luogo non ricorre alcuna
delle denunciate violazioni di legge. L’art. 82 del d.p.r. 27 marzo 1955 in tema di prevenzione
degli incidenti sul lavoro, enuncia esattamente il principio a
cui si è attenuta la
Corte di appello: cioè l’obbligo di far sì che le macchine
che "….per le operazioni di caricamento, registrazione, cambio di pezzi,
pulizia, riparazione e manutenzione, richiedono che il lavoratore si introduca
in esse o sporga qualche parte del corpo fra organi che possono entrare in
movimento, devono essere provviste di dispositivi che assicurino in modo
assoluto la posizione di fermo della macchina e dei suoi organi durante la
esecuzione di dette operazioni"
Non si può ovviamente
rimproverare al datore di lavoro di non avere utilizzato strumenti tecnici
all’epoca inesistenti, ma il risultato della maggior possibile sicurezza deve
essere nondimeno garantito.
Qualora poi non sia tecnicamente
possibile conseguire la sicurezza assoluta, il rischio e i costi degli
eventuali incidenti non possono certo farsi gravare sul lavoratore infortunato.
La responsabilità conseguente
all’inosservanza dell’art. 82 cit. – norma che va coordinata con i principi
generali enunciati dall’art. 2087 cod. civ. – è (anche) una responsabilità
oggettiva, contrariamente a quanto afferma la ricorrente, dovendo gravare sull’impresa,
e non sui lavoratori o sui terzi, il rischio inerente all’eventuale
pericolosità dei macchinari di cui essa si avvalga,
per l’esercizio della sua attività e nel suo interesse.
Solo la responsabilità oggettiva,
infatti, garantisce una certa efficacia dissuasiva dall’uso di mezzi o
attrezzature pericolose, facendo gravare i costi degli incidenti sull’impresa
che tali mezzi utilizza, anziché sui lavoratori o sui terzi danneggiati.
Né è prospettabile violazione
dell’art. 6 d.p.r. 547 cit., ove non ne risultino
dimostrati i presupposti di fatto: cioè che il dipendente infortunato non abbia
utilizzato i dispositivi di sicurezza a disposizione o li abbia negligentemente
manomessi; che non abbia informato il datore di lavoro degli eventuali difetti
degli stessi, che si sia intromesso in mansioni e attività non di sua
competenza, ecc.
La valutazione relativa al
ricorrere delle suddette circostanze attiene al merito della vertenza e spetta
esclusivamente ai giudici delle fasi di merito, sicché le censure della
ricorrente possono assumere rilievo solo sotto il profilo dell’eventuale
difetto di motivazione, risultando per il resto inammissibili.
La sentenza
impugnata ha accertato che la
De Bellis non ha fornito alcuna prova che il Roberto abbia
tenuto comportamenti in violazione dell’art. 6; che l’automezzo non era dotato
di alcun dispositivo di sicurezza né di alcun mezzo idoneo ad impedirne il
ribaltamento; che tali non si possono considerare i puntelli, che non
costituiscono di per sé soli un adeguato sistema di sicurezza; che dalle prove
testimoniali è emerso che, tra le varie mansioni, il Roberto svolgeva anche
quella di manutenzione sul telaio del mezzo meccanico; che accanto al cadavere
dell’infortunato sono stati trovati due pezzi di semiasse, sì che non si può
escludere che il puntello posto a sostegno del ribaltabile si sia spezzato in
due, provocando la caduta del cassone; che non vi è prova che la vittima avesse
posto mano ai lavori di manutenzione di sua iniziativa e senza averne ricevuto
l’incarico, né vi è prova che egli abbia tenuto alcuno dei comportamenti
vietati dall’art. 6 d.p.r. 547/1955.
La motivazione appare quindi
ampia e coerente ed il convincimento dei giudici di merito si richiama a tutte
le risultanze probatorie, documentali e testimoniali, acquisite nel corso del
giudizio, di cui non è consentito in questa sede il riesame e la discussione,
al fine di pervenire ad una diversa valutazione in ordine alle responsabilità.
Né la
ricorrente afferma di avere fornito le prove che la Corte di merito ha ritenuto
mancanti quelle idonee ad esimerla da responsabilità: in particolare, la prova
di avere impartito al dipendente l’espresso divieto di provvedere di persona ai
lavori di manutenzione del cassone; di averlo istruito, soprattutto, circa le modalità
con cui provvedere a detti lavori; di avergli illustrato i pericoli insiti nel
lavorare sotto il cassone rialzato, rendendolo edotto della mancanza di mezzi
tecnici idonei a garantire il fermo assoluto, come prescritto dall’art. 4 lett.
b) e c) d.p.r. 547, secondo cui il datore di lavoro deve "rendere edotti i
lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro conoscenza le
norme essenziali di prevenzione mediante affissione, negli ambienti di lavoro,
di estratti delle presenti norme o, nei casi in cui non sia possibile
l’affissione, con altri mezzi" {lett. b); deve inoltre
"disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di
sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro
disposizione” (lett. c).
Se è
vero che mezzi tecnici dell’epoca non consentivano di garantire l’adozione
delle misure di sicurezza previste dalla legge, particolarmente accurate
avrebbero dovuto essere le disposizioni del datore di lavoro circa il divieto
per i dipendenti di intraprendere date attività, o le istruzioni impartite al
fine di renderli edotti dei rischi a cui erano esposti e dei mezzi per
evitarli.
A proposito dell’applicazione
dell’art. 115 d.p.r. 547/1955 si è affermato che il principio per cui i macchinari utilizzati dall’impresa debbono essere
muniti dei prescritti dispositivi di sicurezza va coordinato con le
disposizioni degli art. 4, 68 e 72 dello stesso d.p.r., la prima delle quali
impone al datore di lavoro un dovere di assidua ed effettiva vigilanza
sull’attività dei dipendenti, al fine di prevenire che gli stessi subiscano
infortuni; nonché con la già richiamata disposizione dell’art. 2087 cod. civ.,
concernente l’ulteriore e più ampio obbligo di provvedere alla tutela delle
condizioni di lavoro (Cass. civ. 30 gennaio 1985 n. 633).
La circostanza indicata dalla
ricorrente, secondo cui la stessa vittima avrebbe manomesso
i pistoni di aggancio del cassone al carrello, creando la situazione di
pericolo, non sarebbe significativa – pur se fosse pienamente provata, ciò che la Corte di appello ha escluso
– in mancanza della prova che il dipendente era stato debitamente istruito
circa il funzionamento della macchina e delle sue diverse parti e circa i
pericoli che essa poteva presentare, o che era stato espressamente diffidato
dall’eseguire il lavoro o dal compiere le manovre che hanno creato la
situazione di pericolo.
Ha ritenuto questa Corte che la
colpa o la negligenza del lavoratore non necessariamente possono considerarsi
concausa dell’evento dannoso, ove abbiano potuto esplicare efficacia causale
solo a causa degli inadempimenti del datore di lavoro, soprattutto per la
mancata adozione delle, cautele e della vigilanza
prescritte per l’utilizzazione delle macchine (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 1981
n. 6542; Cass. civ. 26 maggio 1981 n. 3453).
La decisione impugnata risulta
quindi incensurabile anche nella parte in cui ha escluso il concorso di colpa
della vittima.
Con il quarto motivo la
ricorrente lamenta l’omessa o insufficiente motivazione, nella parte in cui la Corte di appello ha respinto
la sua eccezione di inammissibilità della domanda della Iammarone di
risarcimento del danno biologico, domanda formulata non con l’atto introduttivo
del giudizio, ma in corso di causa, all’atto della richiesta di ammissione
dalla consulenza tecnica di ufficio.
Il motivo non è fondato.
La Corte di appello ha
giustamente rilevato in proposito che la Iammarone ha formulato, con l’atto di citazione,
una domanda ampia e onnicomprensiva di risarcimento di tutti i danni materiali
e morali subiti a causa del sinistro, nella misura che sarebbe stata ritenuta
di giustizia, e che tale espressione è da ritenere comprensiva anche del danno
biologico.
Ed invero, in tema di
risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di
tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei
confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente anche la
richiesta volta al risarcimento del danno biologico anche se non dovesse contenere alcuna precisazione in tal senso, in
quanto la domanda, per la sua orini comprensività, esprime la volontà di
riferirsi ad ogni possibile voce di danno (Cass. civ., Sez. III, 26 febbraio
2003 n. 2869; Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2006 n. 14456).
Con il sesto motivo la ricorrente
deduce la violazione degli art. 1219, 1223, 1224, 1226 e 2056 cod. civ., nonché l’omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione, per avere la Corte
di appello indebitamente attribuito la rivalutazione monetaria e gli interessi
legali sulle somme liquidate in risarcimento dei danni, sebbene i danneggiati
non abbiano formulato espressa domanda in materia e sebbene le somme fossero
state già rivalutate al momento della decisione.
Il motivo è infondato, sia perché
in tema di responsabilità civile il danno da svalutazione monetaria non deve
essere specificamente provato, essendo l’obbligazione risarcitoria obbligazione
di valore, sia perché non risulta che la somma attribuita dal Tribunale in
risarcimento sia stata determinata con riferimento alla data della liquidazione,
anziché alla data dell’illecito, né la ricorrente ha indicato gli elementi da
cui ciò si dovrebbe desumere.
Il ricorso deve essere pertanto
rigettato. Considerata la natura della controversia e delle questioni trattate,
si ritiene che ricorrano giusti motivi per compensare le spese del presente
giudizio.
PQM
La Corte di Cassazione rigetta
il ricorso e compensa le spese processuali relative al giudizio di cassazione.