Lavoro e Previdenza

Tuesday 13 March 2007

La responsabilità del datore di lavoro per gli infortuni dei dipendenti.

La responsabilità del datore di
lavoro per gli infortuni dei dipendenti.

Cassazione – Sezione quarta
penale (up) – sentenza 22 gennaio – 9 marzo 2007, n. 10109

Presidente Brusco – Relatore
Piccialli

Ricorrente Pedone ed altri

Fatto e diritto

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Bari, in
riforma della sentenza di primo grado, in accoglimento dell’impugnazione
proposta dalla parte civile, dichiarava anche Pedone Michele responsabile ai
fini civili dei reato di omicidio colposo aggravato
dalla violazione della normativa antinfortunistica in danno di Maggio Matteo e
confermava la sentenza di condanna per il medesimo reato nei confronti di Di
Paola Gerardo e Zaffaro Carmine, condannando tutti gli imputati in solido al
risarcimento dei danno in favore della costituita parte civile ed al pagamento
di una provvisionale di euro 70.000
in favore della medesima.

L’ infortunio era occorso in data
28 gennaio 1998 in
danno dei lavoratore Matteo Maggio, muratore alle
dipendenze della I.M. P.S.A Cons. Srl, che, durante l’esecuzione dei lavori per
la costruzione del nuovo ospedale di Cerignola, precipitava al suolo dall’alto
all’ interno di un manufatto edilizio in costruzione, riportando lesioni
mortali.

L’ ipotesi accusatoria era stata
formulata con una contestazione alternativa nel senso che nella ricostruzione
del nesso eziologico era stata individuata quale causa della morte
dellavoratore o la caduta dalla scala o dal piano di lavoro all’interno
dell’edificio in costruzione.

A carico di Pedone Michele, nella
qualità di amministratore responsabile della suddetta ditta appaltatrice, di Di Paola Gerardo, in qualità di direttore dei cantiere ed
addetto alla sicurezza e di Zaffaro Carmine, nella qualità di capo cantiere,
erano stati ravvisati profili di colpa, sia generica, per aver omesso di
verificare ed imporre al lavoratore il rispetto delle cautele suggerite dalla
comune prudenza, sia specifica, fondata, quest’ultima, sulla inosservanza dei
disposto degli articoli 8, comma 9, 11, comma 7, lettera d), 389, lettera c),
Dpr 547/55, e articoli 8, comma 6, e 77, lettera c), Dpr 164/56, per avere gli stessi omesso di
rendere edotto il lavoratore dei rischi specifici a cui era esposto e per non
avere esercitato la necessaria vigilanza affinché lo stesso utilizzasse i
dispositivi individuali di protezione (casco e cintura di sicurezza) nonché per
non avere adottato misure tecniche ed organizzative adeguate a prevenire il
rischio specifico di caduta dall’alto.

Il giudizio dì primo grado si era
concluso con l’assoluzione dell’ing. Pedone dal reato contestatogli per non
aver commesso il fatto e la condanna degli altri imputati, concesse le
attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, alla pena di mesi
sei di reclusione.

La sentenza del Tribunale, in
sostanza, non aveva operato una scelta tra le due ipotesi alternative nella
ricostruzione del nesso eziologico, avendo il giudicante ritenuto che Zaffaro e
Di Paola sarebbero stati penalmente responsabili in entrambe le ipotesi.

La pronuncia assolutoria
dell’ing. Pedone era stata, invece, fondata sulla perizia d’ufficio, alla luce
della quale il giudice rilevava che l’infortunio non era riconducibile
all’imputato, il quale aveva adempiuto a tutti gli
obblighi previsti in materia di sicurezza, attraverso la nomina dei rispettivi
responsabili, la presentazione dei piani di sicurezza ed il conferimento delle
deleghe nell’ambito di un cantiere di notevoli dimensioni.

Tale decisione veniva
modificata con la sentenza di secondo grado.

La sentenza di secondo grado,
innanzitutto ricostruiva la dinamica dei sinistro
affermando – alla luce della posizione in cui fu rinvenuto il corpo della
vittima al suolo, della natura delle lesioni mortali, della situazione
estremamente insidiosa dell’impalcato, privo di qualunque protezione,
dell’accertato smontaggio di un “cassero” dalla parte interna della cassaforma
proprio in corrispondenza dei punto in cui fu trovato il Maggio- che il
lavoratore era caduto dall’impalcato.

I giudici, in accoglimento
dell’appello proposto dalla parte civile ai soli effetti della responsabilità
civile, ravvisavano la sussistenza di una grave colpa dei
Pedone, che aveva contribuito in maniera preponderante al verificarsi
dei sinistro. Al riguardo sottolineavano che la sentenza di primo grado aveva
valorizzato alcuni dati emergenti dalla perizia di ufficio, che conteneva
“rilievi e considerazioni che risulta[va]no all’evidenza
contraddittori, illogici, incongrui, gratuiti e, per certi versi, anche
paradossali” e peraltro “ancora più discutibili alla luce di quanto dichiarato
dagli stessi periti nel corso dell’audizione dibattimentale”. In particolare, i
due periti di ufficio, dopo aver dato atto che la pedana interna dei manufatto non era praticabile perché ricca di inciampi
per i travetti trasversali posti su di essa e priva di un parapetto di
protezione, contraddittoriamente avevano osservato, benché non richiesti, che
nel complesso del cantiere le impalcature e le altre opere provvisionali apparivano
di buona qualità e correttamente montate. Analogamente, nella perizia, si
affermava che per le lavorazioni da intraprendere sul lato interno non protetto
sarebbe stato possibile agire in condizioni di sicurezza adottando
provvedimenti preventivi, quali l’impiego di una cintura di sicurezza ancorata
tramite cavo alle impalcature, e si sottolineava successivamente che “purtroppo
a questi provvedimenti preventivi normalmente non si ricorre specie nel caso di
altezze non eccessive e di un quadro operativo agevole, ritenendoli addirittura
di impaccio”.

La sentenza escludeva, altresì,
la sussistenza di un comportamento abnorme ed esorbitante dei
lavoratore, dovendosi ritenere che questi stava effettuando una
ordinaria attività lavorativa, costituita dal disarmo della trave, facente
parte dei processo di lavorazione cui il medesimo era addetto.

Avverso la predetta decisione
propongono ricorso per cassazione Pedone Michele, Zaffaro Carmine e Gerardo Di
Paola.

Per comodità espositiva vengono esposti i motivi di ricorso di ciascuno dei
ricorrenti e, di seguito, le ragioni per le quali le doglianze non possono
trovare accoglimento perché infondate, ad eccezione di quella formulata, con il
quinto motivo, dal difensore dei Di Paola, relativa all’intervenuta estinzione
dei reato per prescrizione.

In via preliminare deve, infatti,
darsi atto della intervenuta prescrizione dei reato,
commesso in data 28.1.1998.

La declaratoria di estinzione del
reato, a fronte della pronuncia di condanna in primo e secondo grado, non esime
però il giudice dell’impugnazione, in ossequio al disposto dell’articolo 578
Cpp. dal decidere sull’impugnazione agli effetti delle
disposizioni dei capi della sentenza concernenti gli interessi civili e, per
tale decisione, è necessario ovviamente esaminare e valutare i motivi della
impugnazione proposta dall’imputato (in tal senso, ex plurímis, Cassazione,
Sezione quinta, 4 febbraio 1997, Coltro).

A tal riguardo, dovendosi
ricordare, sulla scia di un orientamento consolidato, che in
presenza di una causa estintiva dei reato (come, nella specie, la
prescrizione), il giudice deve pronunciare l’assoluzione nel merito solo nei
casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua
rilevanza penale o la non commissione da parte dell’imputato, emergano dagli
atti in modo assolutamente incontestabile, tanto che la valutazione da compiere
in proposito appartiene più al concetto di “constatazione” che a quello di
“apprezzamento”. Ciò in quanto il concetto di “evidenza”, richiesto dal comma 2
dell’articolo 129 Cpp, presuppone la manifestazione di una verità
processuale così palese da rendere superflua ogni dimostrazione, concretandosi
in una pronuncia liberatoria sottratta ad ’un particolare impegno motivazionale
(ex pluríbus, Cassazione, Sezione quinta, 11 novembre 2003, Marcenaro; Sezione
terza, 30 aprile 2003, proc. gen. App. Bari in proc.
Mascolo).

Coerente con questa impostazione
è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che,
fondandosi anche sull’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non
punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che
dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere
rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare
l’estinzione del reato (v., di recente, Cassazione, Sezione quarta, 13 luglio
2006, Fania, ed i riferimenti in essa contenuti).

Nel giudizio d’impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle
restituzioni pronunciata dal primo giudice (o dal giudice d’appello) ed essendo
ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto
dell’articolo 578 Cp, è ritenuto, quando accerti l’estinzione del reato per
amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione. In
questi casi la cognizione,del giudice penale, sia pure
ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve
interamente verificare l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie
penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle
restituzioni o al risarcimento pronunciata dal primo giudice ( o dal giudice di
appello nel caso in cui l’estinzione dei reato venga pronunziata dalla Corte di
cassazione).

In conclusione, deve essere
ritenuto un principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la
condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il
giudice penale ritenga accertata la responsabilità
penale dell’imputato; anche se l’estinzione dei reato non gli consente di
pronunziare condanna penale (v., in tal senso, la citata sentenza, Sezione
quarta, Fania).

Ciò premesso, il Pedone articola un
unico motivo con il quale lamenta il difetto di motivazione della sentenza
impugnata, che proporrebbe una ricostruzione dei fatti di causa attraverso una
rilettura delle perizie tecniche d’ufficio e delle deposizioni testimoniali
priva di adeguata motivazione. La censura evidenzia, in particolare, che non sarebbero stati indicati, contrariamente a quanto sostenuto
in sentenza, gli elementi oggettivi che avrebbero fatto emergere le
incongruenze della consulenza tecnica di ufficio. Il giudice di secondo grado
sarebbe, pertanto, venuto meno all’obbligo gravante sul giudicante dì motivare
il dissenso rispetto alle conclusioni del perito, evidenziando gli elementi in
senso contrario. Si sostiene, inoltre, riproponendo il problema della
responsabilità in tema di sicurezza del lavoro,che
l’evento era stato imputato al Pedone, nella qualità di amministratore della
società, a titolo di responsabilità oggettiva, in violazione dei principi
affermati dalla giurisprudenza secondo la quale ai fini della individuazione
dei titolare della posizione dì garanzia occorre apprezzare l’apparato
organizzativo che si è costituito, superando il dato formale della qualifica
ricoperta in azienda.

In particolare la Corte di merito
illogicamente non avrebbe ritenuto dimostrata l’esistenza dì una delega, sia
pure orale, delle funzioni in materia di sicurezza dell’ambiente di lavoro a
favore dei Di Paola e non avrebbe tenuto conto che la
soluzione dei problemi particolari nella organizzazione del cantiere era
comunque affidata al responsabile della sicurezza specificamente indicato,
essendo riservata al datore di lavoro soltanto l’organizzazione generale dei
cantiere e di quanto richiesto dalla disciplina antinfortunistica.

Alla luce poi dell’ambiguità dei concorso dei lavoratore nella produzione dell’evento, la Corte di appello avrebbe
illogicamente ricondotto l’evento alla responsabilità dei Pedone, ritenendo che
fosse esigibile dal datore di lavoro anche una condotta volta a garantire
specificamente la disponibilità degli strumenti necessari idonei alla
prevenzione, quali, nel caso di specie, cinture di sicurezza e moschettonì,
rinvenibili agevolmente in azienda da parte dei lavoratori.

La doglianza è infondata,
risolvendosi in una censura sulla valutazione delle emergenze fattuali della
vicenda come ricostruite dal giudice di appello, pur in
presenza di una motivazìone coerente e logica.

La Corte di appello ha
analizzato i diversi presupposti fattualí posti a fondamento della sentenza di
assoluzione pronunciata dai giudici di primo grado e ha evidenziato la illogicítà della pronuncia liberatoria proprio alla luce
della rivalutazione degli stessi elementi contenuti nella perizia di ufficio,
dei quali ha sottolineato l’incongruenza e la contraddittorietà (definendoli
anche paradossali), soprattutto alla luce delle dìchiarazioni rese dagli stessi
perití nel corso dei dibattìmento di primo grado.

Proprio attraverso la disamina
della citata perizia, i giudici dell’ appello hanno
ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell’
imputato, sia pure solo agli effetti civili.

In particolare, a base
dell’affermato giudizio di colpevolezza, la Corte di merito ha posto, non solo l’assenza
della predisposizione, ma persino l’individuazione di specifiche misure di
prevenzione idonee a consentire lo svolgimento dell’attività di rimozione della
cassaforma dalla facciata interna, ciò desumendolo proprio dall’elaborato
scritto dei due periti di ufficio, oltre che dalle risultanze oggettive
ricavabili dai rilievi tecnici eseguiti nell’immediatezza del fatto.

Il giudice di appello, in vero,
sottoponendo ad analisi le emergenze probatorie, ivi compresi i rilevi
fotografici acquisiti agli atti, ha ritenuto dimostrato che all’epoca dei fatto, l’impalcato interno alla trave, sul quale il
Maggio stava eseguendo le operazioni di disarmo della trave stessa, non era in
alcun modo protetto e non era pertanto conforme alla normativa
antinfortunistica. Correttamente pertanto, la sentenza impugnata ha evidenziato
la contraddittorietà di tale dato con le conclusioni apodittiche dei
consulenti, secondo i quali le impalcature e le altre opere provvisionali apparivano
di buona qualità e adeguatamente protette.

A giustificazione dei mancato rispetto della normativa antinfortunistica, i
periti avevano altresì prospettato l’usuale mancata adozione dei normali
provvedimenti preventivi (quali l’impiego di una cintura di sicurezza ancorata
tramite cavo alle impalcature) nel caso di altezze non eccessive e di un quadro
operativo agevole.

Anche tale valutazione è stata
efficacemente evidenziata nella sentenza impugnata per sottolinearne la illogicità, alla luce della stessa premessa fattuale
contenuta nella perizia, secondo la quale l’altezza dei piano di lavoro, nella
specie, era di 4, 80 metri
e che lo stesso era stato descritto, in precedenza e proprio dai periti, come
insidioso e privo di protezione.

La conclusione cui è pervenuta la
sentenza di appello, in merito al mancato rispetto della normativa
antinfortunistica da parte del Pedone è, pertanto, indubbiamente esatta in
diritto, essendo lo stesso venuto meno agli obblighi su di lui gravanti nella
qualità di datore di lavoro.

La decisione gravata appare
corretta siccome adottata in piena aderenza a quello che, per assunto pacifico,
è il contenuto precettivo dell’articolo 2087 Cc.

Come è noto, in forza della
disposizione generale di cui all’articolo 2087 dei codice civile e di quelle
specifiche previste dalla normativa antinfortunistica, il datore di lavoro è
costituito garante dell’incolumità fisica e della salvaguardia della
personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che,
ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l’evento lesivo correttamente
gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall’articolo 40,
comma 2, Cp.

Ne consegue che il datore di
lavoro, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici.e
del fatto che il lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di
sicurezza, vigilando altresì a che le condizioni di sicurezza siano mantenute
per tutto il tempo in cui è prestata l’opera.

In altri termini, il datore di
lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le
attività lavorativo in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da
parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per
ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa: tale obbligo
dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più
generalmente, al disposto dell’articolo 2087 Cc, in forza del quale il datore
di lavoro è comunque costituito garante dell’incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia
conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo
correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo previsto dall’articolo
40, comma 2, Cp (v., da ultimo, Cassazione, Sezione quarta, 6 novembre 2006,
Nuzzo; Sezione quarta, 4 luglio 2006, Civelli; Sezione quarta, 12 gennaio 2005, Cuccu).

Tale obbligo comportamentale, che
è conseguenza immediata e diretta della “posizione di garanzia” che il datore
di lavoro assume nei confronti dei lavoratore, in
relazione all’obbligo di garantire condizioni di lavoro quanto più possibili
sicure, è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una
responsabilità colposa del datore di lavoro allorquando questi tali condizioni
non abbia assicurato, pur formalmente rispettando le norme tecniche,
eventualmente dettate in materia al competente organo amministrativo, in
quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni
specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste
pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e
l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un
nocumento a terzi.

Né è dubitabile la posizione di
garanzia in cui si trovava il Pedone, essendo rimasta indimostrata la tesi
sostenuta dal ricorrente in appello e riproposta in questa sede, secondo la
quale le funzioni in materia di sicurezza dell’ambiente di lavoro erano state
da lui delegate
al Di Paola, nella qualità di responsabile.

Non risulta, infatti, che nel
corso dei giudizio di merito, l’imputato abbia
adempiuto l’onere della prova dell’avvenuto conferimento della delega, onere
che si estende ai contenuti ed ai limiti della delega stessa.

In proposito, è assolutamente
pacifico il principio secondo cui l’atto di delega per essere rilevante devo
essere espresso. lnequivoco e corto, dovendo inoltre
investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni
tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato
lo specifico incarico; fermo restando, comunque, l’obbligo per il datore di
lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la
delega secondo quanto la legge prescrive (da ultimo, tra le tante, Cassazione,
Sezione quarta, 19 giugno 2006, Del Frate).

Cosicchè, deve senz’altro
escludersi la legittimità di una. delega inespressa o
implicita, presumibile solo dalla ripartizione interna all’azienda dei compiti
assegnati ad altri dipendenti o dalle dimensioni dell’azienda stessa; non
foss’altro perché una delega di tal genere impedirebbe di apprezzare – a tacer
d’altro- l’accettazione da parte del delegato.

Nella fattíspecie, la Corte di merito, in
sostanziale applicazione dei suindicati principi, ha correttamente escluso la
sussistenza di una valida delega conferita dal Pedone per la predisposizione
delle misure antinfortunistiche idonee a prevenire i rischi connessi ai lavori
di disarmo della trave. Sul punto i giudici dell’appello hanno, dei resto, evidenziato il carattere incongruo ed addirittura
paradossale delle dichiarazioni rese in dibattimento dai periti di ufficio,
secondo i quali la legge prevederebbe una delega automatica con l’indicazione
nel piano di sicurezza del rappresentante della sicurezza, al quale il datore
di lavoro attribuisce la gestione del piano di sicurezza (ciò, anche
prescindendo dalle circostanze, pure evidenziate nella sentenza impugnata, che,
nella fattispecie, il piano di sicurezza non prevedeva alcuna delega di
funzioni e che lo stesso Pedone nel corso dell’esame dibattimentale aveva
implicitamente escluso di avere delegato tale funzione).

Il ricorso va, pertanto,
rigettato, con la condanna dei ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

Zaffaro Carmine articola cinque
motivi.

Con il primo motivo, si duole
della nullità della sentenza per violazione dei principio
della correlazione tra accusa e sentenza ex articolo 521 Cpp., sul rilievo
della indeterminatezza della contestazione prospettata, alla luce di due
diverse ricostruzioni dei fatto (caduta dalla scala o caduta dal piano di
lavoro), nella forma dell’alternatività, accettata dal giudice di primo grado.
La diversa conclusione del giudice di appello che ha accolto la dinamica della
caduta dal piano di lavoro, non porterebbe a conclusioni diverse, essendo stato
il diritto di difesa vulnerato sin dall’ atto di
citazione, sotto il profilo della valutazione delle prove e della diversa
strategia difensiva.

Con il secondo motivo si duole
della nullità della sentenza derivante dalla nullità, già eccepita in sede di
appello, della ordinanza ammissiva quale teste dei consulente tecnico del
pubblico ministero che, nella fase istruttoria, aveva
partecipato quale ausiliario del Pm all’audizione dei testi.

Con il terzo motivo prospetta la
nullità della sentenza, fondata anche sulle dichiarazioni di due testi, che,
pur sentiti del Pm al
termine delle indagini preliminari, non erano stati inseriti nella lista
testimoniale ex articolo 468 Cpp.

Con il quarto motivo si duole
della nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione con
specifico riferimento al nesso di causalità ed alla colpa dei
lavoratore. Sotto il primo profilo, sostiene che era
stata immotivatamente tralasciata dalla sentenza impugnata la tesi dalla
caduta dalla scala (avvalorata dal rinvenimento del martello agganciato alla
scala e dalla posizione del corpo del lavoratore) e del malore della vittima.
Sotto il secondo profilo, si sostiene l’abnormità del comportamento del
lavoratore, che avrebbe assunto l’iniziativa di salire sulla scala ed il
difetto della motivazione, laddove, propendendo per la tesi della caduta dal
piano di lavoro sulla base del cassero mancante, non terrebbe conto che il
manufatto venne posto immediatamente sotto sequestro
dopo l’incidente, per cui la mancanza di ulteriori casseri al momento delle
perizie avvalorerebbe la tesi che essi fossero caduti a causa del vento, come
anche sarebbe stato precisato dai testi.

Con il quinto motivo si duole
dell’assenza di motivazione in ordine alla sospensività della provvisoria
esecuzione o, comunque, in ordine alla congrua riduzione di essa;
si duole anche dalla scarsa motivazione in ordine alla mancata conferma
dell’esclusione del beneficio della non menzione della condanna ex articolo 175
Cp.

Il primo motivo con il quale si
denuncia la pretesa violazione dell’articolo 521 Cpp, per indeterminatezza
della contestazione prospettata alla luce di due diverse ricostruzioni del
fatto è infondato.

Anche a non voler considerare che
l’indeterminatezza dell’accusa, ove sussistente, non darebbe luogo ad una
nullità generale ai sensi dell’articolo 178 Cpp., ma,
semmai, ad una nullità solo relativa, ai sensi dell’articolo 181 Cpp., che
avrebbe dovuto essere eccepita entro il termine di cui all’articolo 491 Cpp
(Cassazione, Su, 11 aprile 2006, Sepe), qui non potrebbe affatto sostenersi,
con la difesa, che prospettando le due diverse ricostruzioni del fatto (caduta
dalla scala o dal piano di lavoro) sarebbe stato violato il principio di
necessaria correlazione tra la sentenza e la contestazione.

Tale violazione non vi è stata
alla luce di quella che risulta essere stata la contestazione formulata nei
confronti dell’odierno ricorrente, delle ampie possibilità defensionali che
questi ha avuto, in relazione a tutti i profili di colpa addebitatigli.

Del resto, le norme che
disciplinano le nuove contestazioni, la modifica dell’imputazione e la
correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza (articoli 516 – 522
Cpp.) hanno lo scopo di assicurare il contraddittorio sul contenuto dell’accusa
e, quindi, il pieno esercizio del diritto di difesa dell’imputato. Ne consegue
che le norme anzidette non devono essere interpretate in senso rigorosamente formale ma con riferimento alle finalità alle quali sono
dirette, cosicchè non possono ritenersi violate da qualsiasi modificazione
rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione
dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato. In altri
termini, poiché la nozione strutturale dì “fatto”, contenuta nelle disposizioni
in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di
reprimere solo le effettive lesioni dei diritto di difesa, il principio di
necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere dei
pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto dei potere dei
giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un
fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia
potuto difendersi.

Questo principio, assolutamente
condivisibile, va del resto apprezzato considerando che, secondo assunto
pacifico, in presenza di una condotta dell’imputato
tale da richiedere un approfondimento dell’attività dibattimentale per la
definitiva qualificazione dei fatti contestati, e’ senz’altro legittimo formulare
nel decreto che dispone il giudizio contestazioni alternative, in quanto, tale
metodo risponde a un’esigenza della difesa, posto che l’imputato e’ messo in
condizione di conoscere esattamente le linee direttrici sulle quali si
svilupperà il dibattito processuale ( v in senso conforme, Cassazione, Sezione
quinta, 18 marzo 2004, Garramone ed altri).

Anche la seconda censura relativa
all’asserita nullità della ordinanza ammissiva quale teste consulente tecnico
del Pm, è infondata.

Nei confronti del consulente
tecnico del pubblico ministero non può valere, infatti, la condizione di
incompatibilità a testimoniare prevista dall’articolo 197, comma 1, lett. d)
Cpp., dovendo essere riconosciuta al consulente
tecnico – di cui le parti abbiano chiesto l’ammissione ed il giudice l’abbia
accolta – sostanziale qualità di testimone, con la conseguente possibilità per
il giudice di desumere elementi di prova e di giudizio dalle loro dichiarazioni
e dai loro chiarimenti (cfr. articolo 501, comma 1,
Cpp.)n (cfr. Cassazione, Sezione seconda, 4 ottobre 2006, Fiordalisi).

Destituita di fondamento è anche
la doglianza, di cui al terzo motivo, relativa all’escussione di due testi
(Lucafò ed Anzalotta), non inseriti nella lista testimoniale dal Pm ex articolo
468, comma 1, Cpp..

Sul punto, si osserva
innanzitutto che l’ammissione di prove non tempestivamente indicate dalle parti
nelle apposite liste, o indicate in modo generico quanto all’oggetto, non
comporta alcuna nullità, ne’ le prove in questione, dopo
essere state assunte, possono essere considerate inutilizzabili, posto che
l’articolo 507 Cpp. consente al giudice di assumere
d’ufficio anche prove irregolarmente indicate dalle parti, ed in ogni caso non
sussiste un divieto di assunzione che possa attivare la sanzione di
inutilizzabilità prevista dall’articolo 191 dello stesso codice ( v. in senso
conforme, Cassazione, Sezione sesta,
Zaratin e Sezione quinta, 11
novembre 2004, Scuderi ed altri).

Nella fattispecie è, inoltre,
decisiva la considerazione che l’affermazione di responsabilità degli imputati
non è stata fondata sulle dichiarazioni rese dai testi sopra indicati, per cui, anche a voler accedere alla tesi della
inutilizzabilità di siffatti elementi di prova, il vizio non avrebbe rilievo ai
fini della decisione.

Non può trovare accoglimento
neanche il quarto motivo di ricorso articolato con specifico riferimento al
nesso di causalità ed alla asserita sussistenza della condotta colposa dei lavoratore.

Sotto il primo profilo,
contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente con riguardo all’apparato
argomentativo a supporto dei ritenuto addebito di
colpa, la sentenza di merito appare congruamente motivata in relazione a tutti
i profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di
accertamento della colpa e di nesso di causalità.

La Corte di appello, attraverso
un’analitica disamina degli atti di causa, ha infatti
ampiamente argomentato sui profili della ritenuta responsabilità dell’imputato,
corrispondendo del resto puntualmente rispetto alle doglianze proposte con
l’appello.

In particolare, i giudici di
appello, con motivazione logicamente ineccepibile, hanno ostruito la dinamica
del sinistro, indicando puntualmente gli elementi che hanno consentito di
accertare che il Maggio era caduto dal piano della impalcatura interna
all’erigendo manufatto edilizio, estremamente insidiosa ( il piano aveva una
larghezza di soli 40 cm,
era attraversato ogni 50160
cm da travetti di legno, e proprio in corrispondenza dei punto di caduta del Maggio l’intavolato metallico era
stato rimosso, con la collocazione nello spazio vuoto di una tavola di legno
avente una larghezza di 30 cm)
e priva di ogni protezione.

Non è pertanto dubitale che
l’evento mortale sia riconducibile anche al comportamento colposo dello
Zaffaro, che, nella qualità di capo cantiere, in ragione dei propri compiti
all’interno dell’azienda, era tenuto ad attivarsi
positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, e,
pertanto, non avrebbe dovuto consentire che si procedesse a compiere dei lavori
di disarmo su strutture provvisorie prive dei requisiti di sicurezza previsti,
mediante l’utilizzo di una scala che insisteva sul lato interno privo di
protezione (in ossequio agli obblighi comportamentali impostigli dalla legge:
articoli 8, comma 6, e16 Dpr 164/56 ed articoli 1, comma 7, lettera d) e 27
Dpr 547/55).

Sotto il secondo profilo,
siffatta censura, volta a prospettare l’interruzione dei nesso causale basata
sul comportamento della vittima (che avrebbe inopinatamente assunto
l’iniziativa di salire sul piano dì lavoro), non tiene conto che, poichè le
norme di prevenzione antinfortunistica mirano a tutelare il lavoratore anche in
ordine ad incidenti che possano derivare da sua negligenza, imprudenza ed imperizia,
la responsabilità dei datore di lavoro e, in generale, del destinatario
dell’obbligo di adottare le misure di prevenzione può essere esclusa, per causa
sopravvenuta, solo in presenza di un comportamento del
lavoratore che presenti i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità,
dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ad alle precise direttive
organizzative ricevute, che sia del tutto imprevedibile o inopinabile.
Peraltro, in ogni caso, nell’ipotesi di infortunio sul lavoro originato dall’assenza
o inidoneità delle misure dì prevenzione, nessuna efficacia causale, per
escludere la responsabilità del datore di lavoro, può essere attribuita al
comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all’evento,
quando questo sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di
quella cautela che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il
rischio dì siffatto comportamento (ex pluribus, Cassazione, Sezione quarta, 16 novembre 2006,
Perin; Sezione quarta, 6 novembre 2006, Nuzzo).

Partendo da queste premesse
indiscutibili in diritto, deve ritenersi corretta la decisione del giudice di
merito che, con ricostruzione dei fatti e analisi convincente, ha escluso che
la condotta dell’operaio avesse integrato alcunchè di esorbitante o di
imprevedibile, tale da poter rilevare ai fini dell’interruzione del nesso
causale, avendo ravvisato questo, sempre con argomentazioni qui incensurabili e
giuridicamente corrette, nelle inosservanze coIpose
ascritte all’imputato (in particolare, di non essersi preoccupato assolutamente
della sicurezza ed incolumità fisica del lavoratore, consentendogli quelle
attività sopra descritte in assenza assoluta di condizioni di sicurezza, come
dimostrato tra l’altro, dal fatto che il Maggio indossava il casco non
allacciato).

Quanto alle doglianze contenute
nel quinto motivo, va innanzitutto rilevata la carenza di interesse in
relazione alla decisione in ordine al dedotto vizio di motivazione in merito
alla richiesta sospensione della provvisoria esecuzione, essendo state
confermate in questa sede le statuizioni civili della sentenza di condanna.
Palesemente inammissibile è l’asserito vizio circa la scarsa motivazione in
ordine all’esclusione del beneficio della non menzione ex articolo 175 Cp, laddove
il giudice, apprezzando gli elementi indicati nell’articolo 133 Cp ed
esprimendo un giudizio di gravità dell’azione e della colpa, congruamente
motivato, ha ritenuto, nell’esercizio dei potere
discrezionale conferitogli dalla legge, di negare il suddetto beneficio.

Di Paola Gerardo propone due
ricorsi attraverso due distinti difensori. L’avv.to Vincenzo Bruno Muscatiello
articola quattro motivi.

Con il primo, argomentato sotto
due profili, lamenta innanzitutto la violazione di legge, con riferimento agli
articoli 40 e 41 Cp, assumendo la violazione dei principi in tema di posizione
di garanzia. In sintesi, si sostiene che l’ammissione della responsabilità dell’ ing. Pedone, affermata dai giudici di secondo grado
sotto il profilo dell’omessa predisposizione delle misure di sicurezza e della
inesistenza di una delega in materia di prevenzione, assorbirebbe ad avviso
della difesa, qualsiasi ulteriore addebito di responsabilità penate. Gravando,
infatti, sul preposto, come affermato nella stessa sentenza, solo un obbligo di
sorveglianza sull’uso delle misure predisposte dal datore di lavoro, resterebbe
esclusa la responsabilà del Di Paola, che, nella
qualità di preposto, come tale imputabile solo sotto il profilo della culpa in
vigilando, non avrebbe potuto esercitare alcuna forma di controllo su misure e
cautele omesse.

Sotto il secondo profilo, si
duole dell’erronea applicazione dell’articolo 133 Cp laddove la Corte, assegnando
espressamente un ruolo preponderante alla responsabilità dei datore di lavoro,avrebbe dovuto conseguenzialmente procedere alla
rideterminazione della sanzione con riferimento agli altri due imputati, così
esprimendo in concreto la valutazione del diverso peso soggettivo ed eziologico
delle omissioni derivate da quelle del datore di lavoro.

Con il secondo motivo lamenta
l’erronea applicazione dell’articolo 597 Cpp e la violazione del principio
devolutivo del gravame, sul rilievo che la ricostruzione del fatto operato dai
giudici di appello aveva portato all’enunciazione di
una condotta omissiva relativa alla predisposizione del ponteggio completamente
diversa da quella operata dal giudice di primo grado con riferimento alla
scala.

Con il terzo motivo sostiene,
inoltre, il vizio della motivazione in ordine alla sussistenza del nesso di
causalità, in quanto la Corte
di appello non avrebbe tenuto conto che il
comportamento dell’infortunato, eccezionale ed imprevedibile, aveva interrotto
il nesso di causalità ponendosi come causa esclusiva dell’infortunio ed
autonoma rispetto alla precedente condotta del datore di lavoro. A tal
proposito richiama gli articoli 4, comma 5, lettera f), D.Lgs 626/94 e 4 del
Dpr 547/55, che
impongono al datore di lavoro di disporre e di esigere il rispetto da parte dei
singoli lavoratori delle norme di sicurezza e dei dispositivi di protezione
messi a loro disposizione. In particolare i giudici del merito, nella
ricostruzione dei nesso eziologico non avrebbero
tenuto conto che se il Maggio avesse rispettato le mansioni affidatigli,
rimanendo, pertanto, a terra, piuttosto che salire su di una scala, la caduta
non si sarebbe verificata.

Con il quarto motivo lamenta il
difetto di motivazione sul rilevo che entrambe le sentenze fondandosi su numerose incertezza processuali emerse nel corso dei
dibattimento, non avevano monitorato la tesi accusatoria, adagiandosi su
valutazioni apodittiche.

Con il quinto motivo invoca
l’applicazione della prescrizione, risalendo l’illecito al 28 gennaio 1988.

L’Avv. Francesco Paolo Sisto
articola sette motivi.

Con il primo si duole dei difetto e dell’erronea motivazione in merito alla
sussistenza del rapporto di causalità che sarebbe stato dedotto automaticamente
dall’assenza delle misure antinfortunistiche, con una illogica attribuzione di
uguale responsabilità in capo ai tre imputati.

La contraddittorietà della
sentenza sarebbe evidente laddove, da una parte afferma che l’obbligo di
predisporre le misure di sicurezza incombe esclusivamente sul datore di lavoro,
che nella fattispecie non aveva operato alcuna delega a favore del Di Paola e, dall’altra, conferma la penale
responsabilità del preposto, per il quale, ai fini dell’esclusione della
responsabilità varrebbe il principio dell’affidamento incolpevole.

Anche con il secondo motivo si
duole del difetto
di motivazione in ordine al rapporto di causalità, assumendo che l’incertezza
oggettiva sulla dinamica dell’incidente nonché sul comportamento dello stesso
lavoratore e, quindi, sulla causa dell’evento non consentiva di esprimere un
giudizio certo di responsabilità penale in capo al Di Paola.

Con il terzo motivo si duole
della omessa valutazione della eccezione difensiva riproposta nei motivi di
appello sull’asserita inutilizzabilità ai sensi dell’articolo 197, lett.d) Cpp.
delle dichiarazioni rese dai testi Carabba, Lucafò e
Anzalotta.

Con il quarto motivo si duole
della manifesta illogicità della motivazione, sostenendo che i giudici di
merito non avrebbero ritenuto la sussistenza dei
concorso di colpa della vittima, pur non escludendo un errore o imprudenza dei
lavoratore.

Con il quinto motivo lamenta la
manifesta illogicità della sentenza che, pur dando atto dell’assenza di delega
per la predisposizione delle misure di sicurezza, parifica le responsabilità
degli imputati, negando altresì il beneficio della non menzione al Di Paola.

Con il sesto motivo chiede la
sospensione dell’esecuzione della condanna civile ex articolo 612 Cpp,
sussistendone i presupposti.

In via preliminare si osserva che
i motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben
vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell’affermato giudizio di responsabilità.
Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare
accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un
convincente apparato argomentativo sulle questioni di interesse ai fini del
giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto,
con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa, di nesso di
causalità e di eventuale interruzione di questo per la sopravvenienza di causa
sopravvenuta eccezionale ed imprevedibile.

Destituita di fondamento è la
censura con la quale si assume la violazione dei principi in tema di posizione
di garanzia. I giudici di merito, con motivazione affatto illogica e con
accertamenti fattuali qui non rivisitabili, hanno, infatti, ricostruito lo
specifico ruolo rivestito, formalmente e sostanzialmente, dal ricorrente
all’interno del cantiere (direttore dei lavori ed addetto alla sicurezza),
individuando le carenze comportamentali allo stesso ascrivibili e riconducendo
puntualmente anche a dette carenze la responsabilità dell’evento lesivo per cui è processo.

In proposito, per escludere
qualsivoglia, pretesa violazione di legge è sufficiente ricordare come
l’individuazione del destinatari delle norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro va effettuata non in base a criteri
astratti, ma avendo riguardo alle mansioni ed alle attività In concreto
esercitate (ex pluribus, Cassazione, Sezione quarta, 7 ottobre 1999, Serra ed
altri) .

Questo principio risulta attuato
in concreto in modo convincente dai giudici dì merito ( in particolare da
quello di primo grado), che hanno analizzato il ruolo svolto dal
Di Paola all’interno del cantiere, delineando le singole responsabilità
facenti capo allo stesso.

l
giudici di appello hanno confermato il giudizio di responsabilità, facendo
riferimento all’ inadempimento da parte degli imputati, ivi compreso il Di
Paola, ciascuno in relazione alla rispettiva posizione di garanzia, all’obbligo
di rispettare la normativa antinfortunistica, volta proprio a prevenire le
conseguenze di eventuali errori o imprudenze commesse dallo stesso lavoratore.

Sono state, pertanto, recepite le
argomentazioni logico – giuridiche contenute nella sentenza di primo grado sull’ affermazione dell’obbligo gravante sul Di Paola di
richiedere o disporre l’adozione di idonee misure di sicurezza nel compimento
delle opere di disarmo, come l’ancoraggio con cinture di sicurezza e di
vigilare affinchè il casca di protezione venisse allacciato.

D’altra parte, lo stesso imputato
non ha mai contestato il ruolo di responsabile della sicurezza svolto
all’interno dell’ azienda e non può, conseguentemente,
porre in discussione che siffatto compito gli imponeva di attivarsi
positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro,
assicurandosi che si provvedesse all’applicazione delle prescrizioni imposte
dagli articoli 8, comma 6, e16 Dpr 164/56 ed articoli11, comma 7, lettera d) e
27 Dpr 547/55.

Né può sostenersi, con la difesa,
che la responsabilità del Di Paola sarebbe esclusa nel
caso in esame sul rilievo che la stessa, avendo origine dall’inadempimento
all’obbligo di sorveglianza sull’uso delle misure di sicurezza predisposte dal
datore di lavoro, presupporrebbe l’esistenza di siffatte cautele, in realtà
insussistenti. Secondo la difesa, ai fini dell’esclusione della responsabilità,
varrebbe il principio dell’affidamento incolpevole.

Tale censura non tiene conto che
l’articolo 1, comma 4 bis, del D.Lgs 626/94, come modificato dal D.Lgs 242/96,
comporta che i collaboratori del datore di lavoro (dirigenti e preposti), al
pari di quest’ultimo, sono da considerare, per il fatto stesso di essere
inquadrati come dirigenti e preposti e, nell’ambito delle rispettive competenze
ed attribuzioni, destinatari iure proprio dell’osservanza dei precetti
antinfortunistici, indipendentemente dal conferimento di una delega ad hoc (cfr. Cassazione, Sezione quarta, 20 aprile 2005,
Stasi ed altro).

E non tiene soprattutto conto del
fatto che, quando l’obbligo di impedire l’evento ricade su più persone che
debbano intervenire o intervengano in tempi diversi, il nesso di causalità tra
la condotta omissiva o commissiva del titolare di una posizione di garanzia non
viene meno per effetto del successivo mancato intervento da parte di un altro
soggetto, parimenti destinatario dell’obbligo di impedire l’evento,
configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell’articolo
41, comma 1, Cp In questa ipotesi, piuttosto, la mancata eliminazione di una
situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell’agente),
ad opera di terzi, non è una distinta causa
sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, ma una causal
condizione negativa grazie alla quale la prima continua ad essere efficace
(cfr. Cassazione, Sezione quarta, 28 aprile 2005, Poli ed altri).

A ciò dovendosi aggiungere;
proprio in corretta applicazione dei principi vigenti in tema di affidamento,
che questo, per assunto pacifico, non è invocabile allorchè l’altrui condotta
imprudente, ossia il non rispetto da parte di altri delle regole precauzionali
imposte, si innesti sull’inosservanza di una regola precauzionale proprio da
parte di chi invoca il principio: ossia allorchè l’altrui condotta imprudente
abbia la sua causa proprio nel non rispetto delle norme di prudenza, o
specifiche o comuni, da parte di chi vorrebbe che quel principio operasse.

In altri termini, non può
invocarsi legittimamente l’affidamento nel comportamento altrui
quando colui che si affida sia (già) in colpa per avere violato
determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e,
ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella stessa posizione di
garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione (cfr., ex
pluribus, Cassazione, Sezione quarta, 6
novembre 2003, Guida; Sezione quarta, 29 ottobre 2004, Rizzini ed altri; Sezione
quarta, 25 gennaio 2005, Barletta ed altri).

Alla luce di tali principi – che
parificano il peso della responsabilità tra i diversi titolari dell’obbligo di
garanzia- è destituita di fondamento anche la censura relativa all’erronea
applicazione dell’articolo 133 Cp, con riferimento al trattamento sanzionatorio
applicato. E’ decisiva, in tal senso, la considerazione che l’esistenza di un
compartecipe, come correttamente rilevato dalla corte di merito, non
escluderebbe la responsabilità dei ricorrente, dei
quale le sentenze di merito hanno accertato incensurabilmente la qualità di
responsabile della sicurezza.

Destituito di ogni fondamento è
altresì il richiamo all’articolo 597 Cpp. ed
all’asserita violazione del principio devolutivo del gravame.

Ove si consideri che trattasi di
principio che attiene al trattamento sanzionatorio dell’imputato, ma non è
certo impeditivo del potere attribuito al giudice di secondo grado, nei limiti dei devoluto, di ricostruire il fatto nei termini che
ritenga convincenti, traendo le conseguenze di legge.

Con riferimento agli altri
motivi, ci si riporta a quanto enunciato in relazione alle analoghe censure
proposte dai coimputati Pedone e Zaffaro.

Ciò premesso, la sentenza
impugnata va annullata senza rinvio nei confronti dei predetti per essere il
reato estinto per intervenuta prescrizione. Ne consegue la conferma sulle
statuizioni civili.

PQM

rigetta
il ricorso di Pedone Michele, che condanna al pagamento delle spese
processuali. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Di Paola Gerardo e Zaffaro Carmine per essere il reato
loro ascritto estinto per prescrizione. Conferma le statuizioni civili
contenute nella sentenza impugnata e condanna i ricorrenti in solido alla
rifusione delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi
euro 2.484,00, oltre IVA e CPA.