Imprese ed Aziende

Saturday 31 May 2003

La relazione del governatore Fazio all’assemblea annuale della Banca d’Italia.

La relazione del governatore Fazio all’assemblea annuale della Banca d’Italia.

ASSEMBLEA ANNUALE DELLA BANCA D’ITALIA 2002 – CONSIDERAZIONI FINALI del 31 maggio 2003

Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori,

le opportunità e i rischi della globalizzazione, l’attenzione alle realtà locali orientano e caratterizzano l’opera dell’Istituto, al servizio dell’Italia, di un’economia ancora contrassegnata dal dualismo territoriale, ma sempre più aperta ai rapporti internazionali.

Rimane intenso il nostro impegno nel partecipare alla definizione della politica dell’Eurosistema e per la sua attuazione a livello nazionale.

È crescente la collaborazione nell’ambito del Gruppo dei Dieci e della più ampia comunità internazionale.

L’attività di Vigilanza è volta a completare il rafforzamento del sistema bancario e dei singoli intermediari, nella stabilità, nell’efficienza, come risposta alle esigenze delle imprese e per la protezione del risparmio.

La tutela della concorrenza tra banche a livello nazionale viene integrata da una sorveglianza sulla trasparenza e sulla competizione nei cento e più mercati provinciali. Alle Filiali è pure affidata la diretta supervisione, in stretto collegamento con i Servizi centrali, degli intermediari a prevalente rilevanza locale. I dati regionali formano parte della documentazione e delle nostre analisi sull’economia italiana.

Le ricerche e gli approfondimenti del Servizio Studi sull’economia e sul sistema finanziario, gli apporti degli altri Servizi vengono organicamente esposti nella Relazione; sono alla base di queste Considerazioni finali.

Seguiamo con attenzione il processo di decentramento territoriale. Ne potrà discendere, in una necessaria logica di solidarietà, un crescente rilievo dell’attività di spesa pubblica e di imposizione a livello locale.

D’intesa con il Ministero dell’Economia e delle finanze, abbiamo assunto l’impegno di predisporre il Sistema informativo delle operazioni degli Enti pubblici. Il progetto, in fase di avanzata realizzazione, permetterà di rilevare giornalmente tutte le voci di entrata e di spesa, secondo criteri uniformi nel territorio nazionale. Fornirà una puntuale rappresentazione dell’attività finanziaria dello Stato e della pubblica Amministrazione, superando lacune conoscitive che sono causa di incertezze interpretative e decisionali.

Il nuovo sistema di regolamento dei pagamenti interbancari è in fase di avvio: metterà a disposizione delle banche italiane ulteriori opportunità in termini di operatività e di informazioni; potrà essere utilizzato da altri sistemi bancari e finanziari europei.

Sono stati avviati i lavori per l’ampliamento del Centro Donato Menichella. Sono allo studio progetti per una migliore sistemazione di alcune strutture dell’Amministrazione centrale.

Costante è la cura per l’addestramento e la qualificazione del personale, per la selezione ai fini dell’assunzione, per gli avanzamenti. Importanti accordi con le rappresentanze dei lavoratori dell’Istituto hanno riguardato le carriere e i ruoli; valorizzano ancor più le competenze e introducono una migliore flessibilità negli utilizzi. Tutti i dipendenti della Banca, di ogni ordine e grado, operano con dedizione e professionalità al servizio del Paese. A essi va il ringraziamento del Consiglio superiore, del Direttorio, mio personale.

L’economia mondiale

Nelle economie avanzate l’aumento del prodotto lordo, pari al 3,8 per cento nel 2000, è risultato dello 0,9 nel 2001; è risalito all’1,8 per cento nel 2002. Nei paesi in via di sviluppo l’aumento del prodotto, pari al 5,7 per cento nel 2000, è disceso al 3,9 nel 2001 per poi accelerare al 4,6 per cento nel 2002.

Nelle maggiori economie industriali la crescita dei prezzi al consumo si colloca su livelli storicamente bassi: nel 2002 è stata dell’1,3 per cento, rispetto al 2,1 dell’anno precedente. Il calo è stato maggiore negli Stati Uniti e in Germania; in Giappone la variazione dei prezzi è stata ancora negativa. L’attività nel settore industriale era costantemente diminuita nel corso del 2001 negli Stati Uniti e in Europa; era caduta del 10 per cento in Giappone; aveva toccato quasi ovunque un minimo negli ultimi mesi del 2001. Dopo segni diffusi di ripresa fino all’autunno scorso, l’economia ha di nuovo rallentato in tutti i paesi industriali.

Timori di attentati terroristici e annunci di azioni militari dapprima, l’avvio delle ostilità in Iraq nello scorso marzo hanno progressivamente inciso sulle aspettative delle imprese e delle famiglie, sui corsi dei titoli e sugli investimenti.

Negli Stati Uniti, nel 2001, nonostante la caduta della produzione industriale e dell’occupazione, i consumi erano cresciuti del 2,5 per cento, beneficiando degli sgravi apportati all’imposta personale sui redditi e del forte ribasso dei tassi di interesse. I consumi hanno accelerato al 3,1 per cento nel 2002. Un notevole contributo alla domanda interna è venuto dalla spesa del settore pubblico. Il prodotto interno lordo è cresciuto del 2,4 per cento nel 2002, dopo lo 0,3 nell’anno precedente.

In Giappone i consumi delle famiglie sono aumentati nel 2001 dell’1,7 per cento, più rapidamente del prodotto lordo; sono cresciuti ancora dell’1,4 per cento nel 2002, pur con un ristagno nel quarto trimestre.

Nell’area dell’euro la domanda per consumi si era indebolita nel secondo semestre del 2001 ed è rimasta incerta per tutto il primo semestre del 2002; ha segnato una modesta ripresa nella seconda metà dell’anno.

Ha pesato sulla spesa delle famiglie la percezione, da parte di un’ampia quota di consumatori, intorno all’80 per cento, di un impatto rilevante del cambio del segno monetario sul livello dei prezzi.

La crescita del prodotto interno nell’area dell’euro si è ridotta dall’1,4 per cento nel 2001 allo 0,8 nel 2002.

L’incertezza delle prospettive si è riflessa sugli investimenti. Nelle economie avanzate la formazione di capitale fisso, cresciuta nel complesso a ritmi annui compresi tra il 5 e il 6 per cento dal 1996 al 2000, è diminuita di 1,6 punti percentuali nel 2001 e di 1,8 punti nel 2002.

La riduzione degli investimenti è stata più forte in Germania, del 5,3 per cento nel 2001 e del 6,7 nel 2002, e in Giappone, dove l’andamento era risultato incerto già nella seconda parte dello scorso decennio.

Nella seconda metà degli anni novanta l’aumento dei corsi azionari e il basso costo del capitale avevano stimolato l’attività di investimento in tutte le economie avanzate. Erano aumentate notevolmente le operazioni di acquisizione e fusione di imprese.

Il ridimensionamento dei corsi nei settori ad alto contenuto tecnologico è iniziato nel marzo del 2000. Con il rallentamento ciclico avviatosi alla fine del 2000, la riduzione dei corsi si è estesa a tutti gli altri settori. Ha accentuato la caduta l’emergere, soprattutto negli Stati Uniti, di gravi irregolarità nella gestione di grandi imprese.

L’indice della borsa statunitense ha perso finora il 40 per cento del proprio valore rispetto ai massimi raggiunti nel 2000. Nell’area dell’euro i corsi si sono dimezzati. In Giappone l’indice, già sceso di un quarto durante l’anno 2000, si è deprezzato ancora del 35 per cento dalla fine di quell’anno. Dai primi mesi del 2003 le quotazioni dei titoli sono tornate in prossimità dei valori di equilibrio. Il rapporto tra capitalizzazione e utili si è riportato in tutti i principali mercati nettamente al di sotto dei livelli medi rilevati nella seconda metà degli anni novanta.

L’attività economica nei maggiori paesi ha tratto sostegno dalle politiche fiscali e di spesa pubblica. Negli Stati Uniti da un avanzo di bilancio pari nel 2000 al 2,4 per cento del prodotto interno si è passati a un disavanzo dell’1,5 per cento nel 2002. Per il 2003, anche in conseguenza delle misure espansive di recente approvate dal Congresso, si prevede un ulteriore ampliamento, al 3,5 per cento del prodotto, del saldo passivo dei conti.

In Giappone il disavanzo, pari al 6,1 per cento del prodotto nel 2001, è salito al 7,1 nel 2002.

Nell’area dell’euro, dove pure i governi in ossequio al Patto di stabilità e crescita sono impegnati a contenere gli squilibri delle finanze pubbliche, i disavanzi sono passati dall’1,0 per cento del prodotto nel 2000 al 2,2 nel 2002; nel 2003 per il complesso dell’area la Commissione europea prevede un ulteriore ampliamento, al 2,5 per cento.

Fondamentale è stato il sostegno fornito alla congiuntura dalla politica monetaria.

Negli Stati Uniti la flessibilità nell’utilizzo dei fattori produttivi ha consentito ampi margini di azione. La Riserva federale ha ridotto il tasso di riferimento in poco meno di due anni dal 6,50 all’1,25 per cento. Nell’area dell’euro il tasso sulle operazioni di rifinanziamento è diminuito dal 4,75 al 2,50 per cento. Nel Regno Unito i tassi ufficiali sono stati abbassati dal 6 per cento al 3,75; in Giappone sono rimasti costantemente in prossimità dello zero.

Nonostante la debolezza della domanda di credito, la quantità di moneta è cresciuta ovunque rapidamente, rispondendo all’espansione della base monetaria attuata dalle principali banche centrali.

Il rapporto tra moneta e prodotto nei sette maggiori paesi industriali è passato dal 66 per cento nel 1998 al 75 alla fine del 2002. I tassi di interesse a breve termine, deflazionati per l’aumento dei prezzi al consumo, dal 1998 sono diminuiti di 3 punti percentuali, scendendo in prossimità dello zero alla fine del 2002; negli Stati Uniti attualmente risultano negativi. I tassi reali a lungo termine sui titoli pubblici si sono ridotti di oltre un punto percentuale.

Ha continuato ad aumentare la consistenza delle obbligazioni pubbliche. È fortemente cresciuto il valore delle proprietà immobiliari. La riduzione del costo dei finanziamenti ha contrastato l’impulso restrittivo derivante dalla correzione dei corsi azionari; ne ha impedito una eccessiva riduzione. L’abbondante offerta di moneta e i suoi riflessi sulle altre componenti della ricchezza hanno sostenuto la domanda per consumi e investimenti, evitando una flessione della crescita dell’economia mondiale. Sono stati, di fatto, prevenuti fenomeni di instabilità di intermediari creditizi nei maggiori paesi e sul mercato internazionale.

I tassi di cambio

Negli Stati Uniti si è accentuato nell’ultimo quinquennio lo squilibrio dei conti con l’estero. L’espansione monetaria interna è stata in parte riversata, per questa via, sui mercati finanziari internazionali, accrescendone la liquidità. Il disavanzo corrente è stato di 410 miliardi di dollari nel 2000 e di 503 nel 2002, rispettivamente il 4,2 e il 4,8 per cento del prodotto interno lordo. La posizione debitoria netta è salita tra il 2000 e il 2001 dal 16 al 23 per cento del prodotto interno; è aumentata ancora nel 2002 al 27 per cento.

La debolezza della domanda estera e l’apprezzamento del dollaro hanno frenato le esportazioni, fortemente diminuite nel 2001 e ancora nel 2002. Non si è registrato un sufficiente contenimento delle importazioni. In relazione alla caduta dei valori di borsa e, soprattutto, al rallentamento dell’economia gli afflussi netti di capitali negli Stati Uniti si sono fortemente ridotti. Gli investimenti diretti, pari a 130 miliardi di dollari nel 2000, si sono azzerati nel 2001; sono divenuti negativi, per 93 miliardi, nel 2002. Gli investimenti di portafoglio hanno compensato solo in parte il cambiamento di segno di quelli diretti.

Il diffondersi di timori circa le prospettive di crescita dell’economia statunitense e l’ampliamento del disavanzo corrente della bilancia dei pagamenti sono alla base della ricomposizione dei portafogli degli investitori internazionali, dal mercato del dollaro verso l’area dell’euro e i paesi asiatici. L’aumento dell’offerta di attività liquide denominate in dollari ha determinato l’indebolimento del cambio. Dal marzo dello scorso anno la perdita di valore della moneta statunitense è stata del 9 per cento in termini effettivi.

In Giappone nel 2002 è aumentato l’avanzo corrente in rapporto al prodotto. È stato compensato da investimenti, diretti e di portafoglio, sugli altri mercati. Le riserve ufficiali hanno continuato ad accrescersi in connessione con i rilevanti interventi sui cambi volti a frenare l’apprezzamento dello yen; hanno raggiunto 490 miliardi di dollari, a fronte di 400 alla fine del 2001. La posizione creditoria netta del Giappone si è innalzata nel 2002 al 38 per cento del prodotto interno lordo. La solida posizione patrimoniale del grande paese asiatico spiega la forza della moneta, nonostante il livello bassissimo dei tassi di interesse, le difficoltà dell’economia, la quota elevata di crediti bancari inesigibili.

Spinte all’apprezzamento delle monete sono da tempo in atto anche nei paesi emergenti dell’Asia, che dal 1998 registrano avanzi cospicui nel conto corrente della bilancia dei pagamenti; sono state contrastate con acquisti di dollari. Nel 2002 l’accumulo di riserve valutarie da parte di questi paesi è stato di 167 miliardi di dollari; dal 1998 l’incremento è di quasi 450 miliardi. Lo stock di riserve ufficiali della Cina ammonta a circa 300 miliardi; quello di Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e Taiwan è complessivamente prossimo a 500 miliardi di dollari.

Il saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti dell’area dell’euro, da valori negativi per 61 miliardi di dollari nel 2000, si è avvicinato al pareggio nel 2001, in relazione al rallentamento della domanda interna; nel 2002 l’ulteriore decelerazione ha portato a un avanzo di 60 miliardi, lo 0,9 per cento del prodotto interno; per l’anno in corso si prevede ancora un saldo positivo.

Tra il 1993 e la metà del 2001 la competitività di prezzo dei paesi che ora formano l’area dell’euro era migliorata, in seguito al continuo deprezzamento dei cambi, di complessivi 15 punti percentuali; dalla metà del 2001 i movimenti del cambio hanno nettamente ridotto la competitività internazionale dell’area. Il peggioramento fino allo scorso aprile è di circa 17 punti percentuali; sono migliorate nello stesso periodo, di 2 e 12 punti rispettivamente, la competitività degli Stati Uniti e quella del Giappone.

Le imprese e le banche

L’espansione dell’attività finanziaria nel biennio 1999-2000 aveva determinato nei paesi del Gruppo dei Dieci un forte aumento del ricorso diretto delle imprese ai mercati obbligazionario e azionario. Il flusso annuo degli aumenti di capitale delle aziende quotate era salito al 2,6 per cento del prodotto interno lordo, dall’1,7 del periodo 1997-98. Ogni anno avevano fatto ingresso in borsa 1.300 società.

Nel biennio 2001-02 si sono rarefatti gli ingressi in borsa da parte di aziende non finanziarie. La raccolta annua sotto forma di capitale di rischio è scesa del 64 per cento rispetto al biennio precedente. Nel 2002 le emissioni di obbligazioni sono diminuite del 60 per cento rispetto al 2001. Il numero delle società che non sono state in grado di rimborsare prestiti obbligazionari nell’insieme dei maggiori mercati ha raggiunto, nella prima metà del 2002, il 10 per cento del totale delle imprese con basso merito di credito, valore di poco inferiore a quello toccato nella fase recessiva dei primi anni novanta.

Le compagnie di assicurazione del ramo vita hanno risentito, negli Stati Uniti e in Europa, della prolungata flessione degli indici borsistici e del peggioramento del rischio di credito sulle obbligazioni private. In più casi è stato necessario rafforzare la base patrimoniale. Sui conti economici delle compagnie del ramo danni e di quelle di riassicurazione hanno gravato gli ingenti oneri connessi con atti di terrorismo e calamità naturali.

Gli effetti della sfavorevole congiuntura, della caduta dei corsi azionari, della crisi di imprese, delle tensioni nei mercati finanziari dell’Asia e dell’America latina sono stati assorbiti, senza gravi difficoltà, dai sistemi bancari dei maggiori paesi; non ne hanno compromesso la stabilità. Vi ha contribuito il rafforzamento patrimoniale realizzato nella seconda metà degli anni novanta.

Lo sviluppo dei mercati, l’accresciuta liquidità e le innovazioni hanno consentito di meglio diversificare le fonti di finanziamento per i debitori e i rischi per i creditori.

Si è fatta più stretta la cooperazione tra le Autorità preposte, nei diversi sistemi, al controllo dei settori bancario, assicurativo e finanziario. Capitale e riserve delle banche sono pari, con riferimento al 2002, al 9,2 per cento dell’attivo negli Stati Uniti, in netto aumento rispetto agli anni precedenti. In Germania sono pari al 4,6 per cento e in Francia al 7,2; nel Regno Unito nel 2001 erano il 5,1 per cento.

In Italia il rapporto tra capitale e riserve e totale dell’attivo è pari al 7,2 per cento.

I coefficienti di solvibilità delle banche sono, in generale, superiori ai minimi richiesti, sia in Europa sia negli Stati Uniti. Dal 1996 al 2001 il valore medio annuo delle operazioni di fusione e acquisizione di banche è ammontato all’1,4 per cento del prodotto interno

negli Stati Uniti, all’1,2 in Italia e all’1,1 nel Regno Unito. L’ampio processo di riorganizzazione ha consentito di contenere i costi e di espandere le fonti di ricavo anche attraverso prodotti innovativi.

In Giappone e in Germania è stata più contenuta l’attività di ristrutturazione del settore bancario; il valore delle concentrazioni rispetto al prodotto è stato dell’ordine di 0,4 punti percentuali. È cresciuta l’incidenza dei costi sui ricavi. I costi del personale in rapporto al margine di intermediazione sono stati nel 2001 pari al 25 per cento nel sistema bancario statunitense, al 28 nel Regno Unito, intorno al 37 per cento in Germania.

In Italia il rapporto è diminuito dal 36 per cento nel 1999 al 30 nel 2001; è risalito al 33 per cento nel 2002.

Negli Stati Uniti il livello dei profitti delle banche è aumentato nel 2002 al 14,5 per cento del capitale e delle riserve. Le perdite nette sui crediti sono state contenute riducendo il volume dei prestiti alle imprese e accrescendo i mutui ipotecari alle famiglie. Le banche commerciali sono anche esposte per il possesso di titoli emessi o garantiti dalle agenzie federali specializzate. A queste agenzie fa capo la metà dei mutui ipotecari; il rischio di interesse viene gestito attraverso complesse operazioni in strumenti derivati.

In Giappone le difficoltà del settore creditizio hanno causato una contrazione del volume complessivo di prestiti del 2,5 per cento nella media del 2002, dopo quelle dell’1,8 nel 2001 e del 2 nel 2000. Il volume del credito ha continuato a ridursi nei primi mesi di quest’anno. È proseguita a ritmi tra il 2 e il 3 per cento annuo la cancellazione di prestiti inesigibili.

In Europa le turbolenze dei mercati borsistici hanno colpito maggiormente le banche tedesche, in ragione del cospicuo ammontare di azioni societarie detenute in portafoglio. In Germania nel 2002 i crediti erogati dalle banche hanno ristagnato; quelli concessi alle imprese sono scesi in termini assoluti. È stato varato un progetto per mobilizzare mediante cartolarizzazione un importo rilevante di prestiti bancari. Il finanziamento sarà assicurato dal mercato.

Lo sviluppo di strumenti derivati ha ampliato in misura rilevante le opportunità di copertura dei rischi, riducendone il costo, e accresciuto la capacità di mercati e intermediari di assorbire eventi negativi. Ha contribuito alla stabilità dei sistemi finanziari. Il valore nozionale dei derivati scambiati sui mercati over-the-counter era salito nello scorso giugno a 128.000 miliardi di dollari, il 60 per cento in più rispetto al 1999. Negli anni recenti si è formato il mercato dei derivati a copertura dei rischi di credito; la sua dimensione era stimabile, alla fine dello scorso dicembre, in circa 2.000 miliardi di dollari di valore nozionale.

Secondo una recente indagine condotta presso 150 tra i maggiori intermediari finanziari internazionali, quasi due terzi delle transazioni hanno riguardato operatori degli Stati Uniti; la parte restante è per lo più relativa a paesi europei, inclusa l’Italia. Il ricorso a questi strumenti ha consentito di ridistribuire nel mercato il rischio di credito. Si è ridotta l’esposizione delle grandi banche; è aumentata quella di banche di dimensioni più contenute.

Il frazionamento del rischio può indurre gli intermediari a basare le scelte di investimento esclusivamente sulle valutazioni di operatori esterni, senza apprezzare puntualmente il rischio assunto, con la possibilità di determinare una eccessiva espansione del credito in favore di alcuni settori o paesi. Ogni banca deve valutare accuratamente il profilo di rischio e rendimento di ciascuna operazione, anche quando partecipa a prestiti sindacati organizzati da altri intermediari.

L’utilizzo di strumenti finanziari complessi, non standardizzati, può comportare opacità nei bilanci dei grandi gruppi bancari internazionali, caratterizzati da strutture organizzative molto articolate. Vi è largo consenso circa l’esigenza di criteri contabili uniformi tra paesi per la rappresentazione in bilancio delle posizioni in derivati; si rafforza l’azione diretta a estendere gli obblighi informativi. È generalizzata la critica da parte delle Autorità di vigilanza dei paesi europei nei confronti dell’applicazione di sistemi di valutazione degli attivi bancari che fanno riferimento, in modo indiscriminato, a metodi del tipo mark-to-market oppure fair value. L’estensione di tali metodi ai tradizionali prodotti bancari accrescerebbe la variabilità delle rappresentazioni contabili. Verrebbe, in qualche modo, non riconosciuta la funzione propria del banchiere basata sulla capacità di valutare accuratamente il merito di credito.

I nuovi principi contabili internazionali dovranno condurre a tecniche di valutazione degli strumenti finanziari che permettano di superare ogni forma di opacità dei bilanci. È necessario che alla scelta dei paesi europei di rendere gli standard contabili internazionali obbligatori per le imprese quotate corrisponda da parte degli Stati Uniti un concreto impegno per un avvicinamento a un sistema comune di regole.

Lo sviluppo dei paesi arretrati

Le politiche di sviluppo economico devono essere affiancate da programmi specifici volti a favorire l’inclusione sociale delle fasce più povere della popolazione mondiale e la loro partecipazione ai benefici della crescita economica.

Vanno rafforzate nei paesi meno sviluppati le istituzioni preposte al governo dell’economia. Occorre investire fortemente in capitale umano. Nella linea degli impegni assunti nella conferenza di Monterrey, in Messico, del 2002 devono aumentare il volume e l’efficacia degli aiuti allo sviluppo. L’iniziativa volta alla riduzione del debito incontra difficoltà che

vanno al più presto superate. L’Italia è impegnata, al pari di altri paesi industriali, a contribuire per lo 0,33 per cento del prodotto interno lordo. Cruciale per l’innalzamento del benessere globale e di quello dei paesi più poveri è l’ottenimento di risultati concreti sul fronte della liberalizzazione multilaterale del commercio, secondo gli obiettivi definiti a Doha, in Qatar, nel novembre del 2001.

Nei maggiori paesi industriali il sostegno fornito al settore agricolo rimane elevato. Nel 2001, secondo valutazioni dell’OCSE, l’Unione europea aveva fornito sussidi agli agricoltori, sostegni ai prezzi agricoli, aiuti all’esportazione pari a 106 miliardi di dollari, l’1,4 per cento del prodotto dell’area. I contributi all’agricoltura ammontavano a 95 miliardi negli Stati Uniti e a 59 in Giappone, rispettivamente lo 0,9 e l’1,4 per cento del prodotto lordo.

La protezione assicurata al settore agricolo dai paesi più ricchi è particolarmente dannosa per quelli in via di sviluppo, che in questo comparto presentano un vantaggio comparato.

Nei recenti incontri di Washington il Development Committee ha caldamente auspicato che, entro l’estate, venga raggiunto un compromesso accettabile che riguardi prioritariamente l’agricoltura. Sarà così possibile nella riunione ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio, che si terrà in Messico il prossimo settembre, procedere alla chiusura di importanti capitoli dell’agenda di Doha, quali la riduzione dei dazi sui prodotti industriali e la ulteriore liberalizzazione degli scambi e degli investimenti diretti nel settore dei servizi.

Progressi su questo fronte sono necessari per rilanciare la cooperazione internazionale, per superare le fratture e le diffidenze connesse con il conflitto in Iraq, con il proseguire di attentati terroristici e di tensioni in più aree del globo, per realizzare un migliore equilibrio tra economie industriali e paesi in via di sviluppo.

L’economia italiana

Le difficoltà della congiuntura internazionale si sono ripercosse sull’economia europea e su quella italiana, caratterizzate da rigidità strutturali e da tassi di crescita del potenziale produttivo più bassi rispetto al Nord America e alle economie emergenti.

Nell’area dell’euro l’aumento del prodotto interno lordo, pari al 3,5 per cento nel 2000, è disceso all’1,4 nel 2001 e allo 0,8 per cento nel 2002. Nel nostro Paese a un incremento del prodotto del 3,1 per cento nel 2000 ha fatto seguito una crescita dell’1,8 nel 2001 e dello 0,4 nel 2002.

Nella seconda metà del 2001 la congiuntura si era nettamente indebolita, in Italia, per il calo delle esportazioni e il rallentamento della domanda interna. Investimenti, consumi ed esportazioni hanno continuato a diminuire nel primo semestre del 2002; il prodotto interno lordo ha ristagnato. Nel secondo semestre del 2002 alla ripresa degli investimenti, in buona

parte riconducibile all’imminente scadenza delle agevolazioni fiscali, si è accompagnato un aumento delle vendite all’estero. Anche i consumi sono tornati a crescere, a un ritmo modesto.

L’aumento di tutte le componenti della domanda non è stato tuttavia in grado di attivare la produzione; l’espansione dell’offerta è derivata dalla forte crescita delle importazioni. Il prodotto interno lordo ha segnato una lieve accelerazione. Alla netta flessione dell’attività industriale nel corso del 2001 aveva fatto seguito nel 2002 un accenno di ripresa durato fino all’estate.

È intervenuto, nella seconda metà dell’anno, un ulteriore calo. La produzione è diminuita ancora nei primi mesi del 2003; in marzo l’indice è sceso al valore minimo toccato negli ultimi mesi del 2001.

L’occupazione ha continuato ad aumentare nonostante il rallentamento ciclico; è cresciuta in media annua dell’1,4 per cento. L’occupazione permanente ha beneficiato, nel 2001 ma soprattutto nel 2002, degli incentivi fiscali introdotti alla fine del 2000, sospesi dallo scorso luglio a causa dell’eccessivo costo per l’erario. L’incremento dell’occupazione ha superato di un punto percentuale quello del prodotto; l’espansione dei servizi a più alta intensità di lavoro ha contribuito alla flessione della produttività. I prezzi al consumo, secondo i dati armonizzati, sono aumentati del 2,7 per cento nel 2001 e del 2,6 nel 2002; dalla metà dell’anno l’inflazione ha accelerato, portandosi al 3,0 per cento in dicembre. L’incremento sui dodici mesi dell’indice armonizzato è stato del 2,9 per cento in maggio.

Tende a riaprirsi un divario nel tasso di inflazione con Germania e Francia, nostri principali concorrenti sul mercato interno e su quello internazionale.

Nell’industria italiana le retribuzioni per dipendente sono cresciute del 3 per cento nel 2001 e del 2,8 nel 2002. La produttività del lavoro è aumentata dell’1,6 per cento nel 2001; è diminuita dello 0,4 nel 2002. In Germania, nell’ultimo biennio le retribuzioni nel settore manifatturiero sono cresciute a un tasso pari a poco più della metà di quelle italiane; la produttività è aumentata a un ritmo doppio. Il costo del lavoro per unità di prodotto nel biennio è salito nell’industria italiana del 4,3 per cento; in Germania e in Francia l’aumento è stato dell’1,3. Lo scarto rispetto ai due paesi è di 3 punti percentuali. A una crescita del commercio mondiale di beni e servizi del 3 per cento nell’arco degli ultimi due anni, ha corrisposto un incremento delle esportazioni della Germania del 7,8 per cento; di quelle francesi del 3,2. Le esportazioni dell’Italia in quantità sono rimaste, nel 2002, sui livelli registrati nel 2000.

La competitività

Uno sguardo retrospettivo di medio periodo pone ancora una volta in luce il debole sviluppo dell’economia italiana nel quadro dell’economia mondiale e di quella europea.

Nel quinquennio 1998-2002 il prodotto lordo degli Stati Uniti è cresciuto in media del 3,0 per cento all’anno; quello europeo del 2,3. In Italia il prodotto è aumentato al ritmo medio annuo dell’1,8 per cento.

Tra il 1997 e il 2002 lo sviluppo degli scambi internazionali di beni e di servizi è stato del 28 per cento. Le esportazioni italiane sono cresciute del 16 per cento, quelle della Francia e della Germania rispettivamente del 31 e del 38 per cento.

La perdita di competitività si ripercuote sull’andamento del valore aggiunto nel settore industriale e sulla crescita dell’economia. In cinque anni, tra il 1997 e il 2002, la produzione industriale ha segnato in Italia un aumento del 3 per cento. In Francia l’incremento è stato intorno all’11, in Germania del 12; nell’area dell’euro, escludendo l’Italia, si situa al 14 per cento. L’espansione di attività produttive all’estero, nei paesi emergenti e in quelli in via di sviluppo, a opera delle nostre imprese è rilevante, ma non superiore a quella delle altre grandi economie dell’area.

La quota delle esportazioni italiane nel mercato mondiale era progressivamente salita, tra gli anni cinquanta e gli anni ottanta, dal 2 al 4,5 per cento. Fino all’inizio degli anni settanta alla assoluta stabilità del cambio nei confronti del dollaro e delle altre principali monete aveva corrisposto un forte innalzamento della produttività nell’industria. In connessione con i guadagni di quote delle nostre merci sui mercati esteri il prodotto interno lordo era aumentato negli anni cinquanta e sessanta a ritmi annui compresi tra il 5 e il 6 per cento.

Nei decenni successivi, dopo le crisi petrolifere, aumentarono fortemente i redditi da lavoro e i prezzi; la crescita della produttività rallentava; l’incremento annuo del prodotto decelerava fino a dimezzarsi. La nostra quota nel commercio mondiale fu difesa con ripetuti deprezzamenti del cambio. Tra il 1971 e il 1993 la diminuzione del tasso di cambio nominale, nei confronti delle principali monete, è stata prossima al 70 per cento.

Dalla metà degli anni novanta è iniziato un declino della competitività che ha riportato la partecipazione italiana agli scambi mondiali al livello raggiunto alla metà degli anni sessanta. A prezzi costanti, la quota di mercato è diminuita dal 4,5 per cento nel 1995 al 3,6 nel 2002.

La perdita è diffusa in tutti i mercati. La composizione delle esportazioni italiane le rende vulnerabili all’andamento dei prezzi di offerta, necessariamente legati ai costi di produzione. È scarsa la presenza delle nostre merci nei settori tecnologicamente avanzati; è elevata in quelli dove i prodotti si affermano per il gusto e la qualità della lavorazione. Le nostre quote di commercio mondiale rimangono alte nei comparti dei mobili, dei prodotti in cuoio e della lavorazione di minerali non metalliferi. Nel settore delle macchine e degli apparecchi meccanici la quota italiana, in progressiva riduzione, è pari al 9,6 per cento delle esportazioni mondiali. Per gli autoveicoli e le loro componenti la quota delle nostre esportazioni è diminuita in cinque anni dal 3,6 a circa il 3 per cento; per gli apparecchi elettrici e di precisione è scesa dal 2,1 all’1,8 per cento. Molto limitata è la presenza nel commercio dei prodotti dell’elettronica e dell’informatica. Gli Stati Uniti hanno mantenuto negli anni novanta una quota del mercato mondiale intorno all’11 per cento, in quantità. Francia e Germania dalla metà degli anni novanta hanno guadagnato posizioni di mercato, beneficiando dell’intensificarsi della specializzazione produttiva nei settori a più elevato contenuto tecnologico. La quota del Giappone è diminuita dall’8,6 per cento nel 1995 al 6,4 nel 2002; la perdita, a prezzi correnti, è stata più contenuta, rivelando una capacità di vendere a prezzi alti, grazie alla qualità dei prodotti. Le esportazioni della Cina sul commercio mondiale sono passate, a prezzi correnti, dal 2,9 per cento a metà degli anni novanta a circa il 5 per cento. Il successo è dovuto alla capacità di inserirsi anche nella produzione di beni a media tecnologia.

Al pari di quanto avviene nelle altre economie europee cresce la penetrazione nel mercato italiano di prodotti importati. La domanda interna si rivolge in misura crescente a beni prodotti in altri paesi. Tra il 1990 e il 1995 il saldo tra l’impulso espansivo impresso alla produzione dalle vendite all’estero e quello restrittivo indotto dalle importazioni era stato di segno positivo grazie al recupero di competitività dovuto alla svalutazione della lira del 1992. Il saldo è divenuto negativo nel periodo 1996-2002; l’aumento degli acquisti dall’estero per soddisfare una porzione crescente della domanda interna di prodotti finiti e di beni intermedi ha nettamente superato quello delle esportazioni.

Nell’insieme dei sette anni l’impatto negativo degli scambi con l’estero sul prodotto interno è valutabile in 2,9 punti percentuali. Nelle altre economie dell’area dell’euro le maggiori importazioni sono state più che compensate dall’aumento delle vendite all’estero.

La produttività

Pesa sull’insoddisfacente andamento della nostra economia il limitato sviluppo della produttività.

Negli Stati Uniti l’applicazione diffusa dell’informatica, l’aumento degli investimenti, la ricerca, la ricchezza di capitale umano, la flessibilità nell’impiego del lavoro hanno favorito tra il 1995 e il 2000 innovazioni organizzative profonde e uno spostamento della produzione verso beni a più alto contenuto tecnologico. L’incremento annuo della produttività oraria del lavoro nell’industria è stato del 4,5 per cento.

In Francia l’aumento della produttività è risultato del 4,6 per cento all’anno; in Germania del 2,4. In Italia, tra il 1995 e il 2000, l’incremento medio annuo della produttività oraria del lavoro nel settore manifatturiero è stato dello 0,9 per cento. L’arretramento competitivo, divenuto più evidente negli anni recenti, risale indietro nel tempo.

Nel settore manifatturiero, tra il 1980 e il 1985, nonostante l’ampio processo di ristrutturazione, la produttività totale dei fattori, che misura il progresso tecnico e organizzativo, era cresciuta in media annua dell’1,3 per cento; per il complesso dell’economia l’incremento era stato pressoché nullo. Tra la metà degli anni ottanta e la metà degli anni novanta l’aumento della produttività totale dei fattori nell’industria è stato dell’1,5 per cento annuo. Tra il 1995 e il 2001 la dinamica del valore aggiunto dell’industria

manifatturiera è nettamente rallentata; si sono intensificati gli investimenti,

ma l’occupazione non è aumentata. La produttività totale dei fattori ha smesso di crescere; ha subito, nel periodo, un decremento di circa un punto percentuale.

L’aumento dell’occupazione nell’arco di tempo considerato si è concentrato nel settore dei servizi privati, dove la produttività ha segnato nel complesso un lieve incremento.

Il contributo fornito allo sviluppo della produzione dagli investimenti in nuove tecnologie informatiche è stato dello 0,2 per cento all’anno sia nell’industria sia nel terziario.

Tra il 1995 e il 2001 il valore aggiunto del settore privato è aumentato a prezzi costanti del 13,1 per cento. Di tale complessivo aumento, 5,8 punti sono attribuibili al fattore lavoro, 5,2 al capitale, 2,1 alla crescita della produttività totale dei fattori.

L’incremento di produttività dell’intera economia si è formato per un sesto nel settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria. Grazie alle ristrutturazioni organizzative e agli investimenti in nuove tecnologie, la produttività totale dei fattori nel settore è cresciuta, nel periodo, di quasi il 7 per cento.

L’attività nei trasporti e nelle comunicazioni, nell’agricoltura, nel tessile, nel commercio ha pure contribuito significativamente all’incremento della produttività totale dell’economia. In più comparti, sia nel settore terziario sia nel secondario, l’aumento di produttività è stato pressoché nullo; in altri si è registrata una diminuzione.

Le imprese, la ricerca e lo sviluppo

Il modesto sviluppo della produttività è da riconnettere, in misura non secondaria, alla frammentazione del nostro tessuto produttivo. Le imprese italiane sono piccole; le unità locali nell’industria, secondo il Censimento dell’ottobre 2001, impiegano in media 6,3 addetti, un numero molto basso rispetto agli altri paesi europei e alle altre grandi economie industriali. Questa struttura ha creato abbondante occupazione nei decenni trascorsi; è una riserva di imprenditorialità. Se non è integrata da grandi imprese, mostra il suo limite nello sviluppo della produttività e nella capacità di competere in un mercato internazionale dove si affacciano paesi con un grado ridotto di protezione sociale e costi del lavoro molto bassi.

Analisi del Servizio Studi sull’economia dei paesi europei rivelano una stretta dipendenza dello sviluppo della produttività dalla dimensione dell’impresa; nei settori a più alto contenuto tecnologico la grande dimensione risulta determinante.

Le imprese ricorrono sempre più anche in Italia alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; tuttavia non sembrano aver ancora realizzato processi in grado di incidere significativamente sui costi e sulla produttività. La limitata scala dimensionale, l’assetto produttivo per sua natura poco articolato non hanno offerto rilevanti spazi di miglioramento dell’organizzazione delle piccole imprese.

Avanzamenti significativi della produttività potranno derivare da una più efficiente organizzazione del sistema nel suo complesso, attraverso una connessione a rete, che replichi sul piano nazionale alcuni dei vantaggi tipici dei raggruppamenti in distretti.

La scarsa presenza nelle produzioni tecnologicamente avanzate, il ritardo nelle applicazioni dell’informatica ai processi produttivi e alla struttura organizzativa sono da ricondurre anche al limitato ammontare delle risorse destinate all’innovazione e alla ricerca, sia dal settore pubblico sia dalle imprese. La spesa complessiva era l’1,3 per cento del prodotto interno lordo nel 1990; è scesa in prossimità dell’1 per cento dal 1995. Negli Stati Uniti l’incidenza delle spese per la ricerca sul prodotto interno lordo, pari nel 1994 al 2,4 per cento, è salita al 2,8 nel 2001; negli altri grandi paesi industriali varia dal 3 per cento del Giappone all’1,9 del Regno Unito. Laspesa del settore pubblico per ricerca e sviluppo si colloca in Italia intorno allo 0,5 per cento del prodotto, un valore basso rispetto alle altre grandi economie industriali. Nelle imprese, gli investimenti per la stessa finalità si aggirano, secondo i dati più recenti, intorno a mezzo punto percentuale del prodotto lordo; si sono ridotti rispetto ai primi anni novanta.

Negli Stati Uniti e in Giappone le imprese investono in ricerca più del 2 per cento del prodotto interno lordo; il quadruplo della quota italiana. In Germania il rapporto è dell’1,8 per cento; in Francia e nel Regno Unito oscilla tra due e tre volte quello dell’Italia.

L’applicazione delle nuove tecnologie nel coordinamento e nel controllo dei processi produttivi, nell’ambito di un loro ridisegno secondo criteri di efficienza, implica una riqualificazione delle forze di lavoro, l’adozione di nuovi modelli organizzativi, la ridefinizione dei rapporti con i fornitori e con i canali distributivi. Richiede duttilità nelle modalità di prestazione del lavoro, intelligenza, elevata qualificazione professionale.

La quota di adulti di età compresa tra 25 e 64 anni con istruzione terziaria è del 36 per cento negli Stati Uniti, intorno al 30 in Giappone, Regno Unito, Svezia, Finlandia e Belgio; in Italia è pari al 10 per cento, anche per effetto di elevati tassi di abbandono. La proporzione di nuovi laureati in ingegneria e in altre discipline scientifiche si colloca al livello più basso tra i principali paesi industriali.

Investimenti nella scuola secondaria e nell’istruzione universitaria sono indispensabili per rafforzare la preparazione in campo tecnico e scientifico delle nuove generazioni, in vista di una riorganizzazione dei processi produttivi, nell’industria e, in particolare, nel terziario, secondo criteri di maggiore flessibilità e di adattabilità ai mutamenti della domanda.

Una solida formazione umanistica deve presiedere alla comprensione di un ambiente economico e sociale nel quale i rapporti tra culture mutano rapidamente, anche per l’intensificarsi dei processi di globalizzazione. Gli investimenti in istruzione consentono, dopo un limitato intervallo temporale, un tasso di rendimento, a livello individuale, non distante dalle due cifre. Il rendimento sociale può risultare molto più alto rispetto alla sola componente individuale.

La natalità delle imprese è simile nel nostro Paese a quella che si osserva in altri sistemi, ma sia in Italia sia in Europa la successiva espansione dimensionale incontra ostacoli. È necessario rimuovere i fattori istituzionali, normativi, fiscali che limitano lo sviluppo delle piccole imprese. Va attuata una più ampia liberalizzazione dei servizi. Muove nella direzione dell’allentamento dei vincoli all’utilizzo dei fattori produttivi la legislazione in fase di elaborazione in materia di lavoro.

Normative in tema di lavoro subordinato coerenti con un’economia industriale incentrata su produzioni di massa e standardizzate, insieme con i costi, si riflettono nell’elevato numero di lavoratori indipendenti e nell’abnorme estensione dell’occupazione irregolare. Contenuta dimensione delle unità produttive, proliferazione di posizioni lavorative autonome, estensione del sommerso costituiscono anche una reazione, deteriore, alle condizioni di lenta crescita economica e di insufficiente competitività dell’economia regolare. Una nuova fase di sviluppo richiede un riassetto dell’apparato produttivo e un aumento della dimensione delle imprese.

Le aggregazioni e le ristrutturazioni realizzate nel sistema creditizio hanno impresso un impulso considerevole alla produttività del settore. La prolungata fase di investimento nelle tecnologie informatiche, le accresciute dimensioni, il progressivo rinnovo e la formazione del personale, la maggiore flessibilità nei rapporti di lavoro stanno dando i loro frutti in termini di rendimento del capitale e di capacità di servire famiglie e imprese. È necessaria, anche nell’industria, la formazione di gruppi produttivi più robusti in grado di innovare prodotti e processi, di sostenere la concorrenza crescente sul mercato interno, di affacciarsi con maggiore sicurezza sui mercati internazionali.

Le iniziative di fusioni e aggregazioni tra imprese implicano una attenta analisi dei mercati e una valutazione delle sinergie produttive; devono partire dagli imprenditori. Sono necessarie forme di organizzazione societaria e strutture finanziarie più evolute. Nella cooperazione tra gruppi di aziende, ai fini dell’applicazione delle nuove tecnologie, un ruolo importante può essere svolto dall’Università.

Una politica economica innovativa sul fronte della ricerca, dell’istruzione, dell’avanzamento tecnologico, relazioni industriali adeguate al nuovo contesto di maggiore apertura e competizione possono arrestare il declino lento, ma progressivo, della competitività, accrescere la produttività nel settore industriale e nei servizi. Dobbiamo consolidare la capacità produttiva esistente, la sua economicità e vitalità: al fine di evitare arretramenti, per mirare a una nuova fase di sviluppo.

Il Mezzogiorno

Il carattere dualistico del sistema economico italiano, attenuatosi fino agli anni settanta, grazie agli elevati investimenti nelle regioni meridionali in infrastrutture e nei settori di base attuati con l’intervento straordinario, si è di nuovo accentuato negli ultimi decenni.

Al Centro Nord è localizzato l’85 per cento della capacità produttiva industriale. Le condizioni ambientali, la distanza dalle regioni ricche dell’Europa, la carenza di efficienti reti di trasporto rendono la produzione del Mezzogiorno meno competitiva di quella delle regioni centrali e settentrionali.

Le conseguenze si ritrovano in un più basso tasso di occupazione, in una più alta disoccupazione, in una quota elevata di attività sommerse e di lavoro irregolare.

Il rapporto tra investimenti fissi e prodotto ha oscillato al Nord, dalla metà degli anni novanta, tra il 18 e il 20 per cento; nelle regioni del Mezzogiorno è stato in media più elevato di un punto percentuale. I consumi finali interni, delle famiglie e delle Amministrazioni pubbliche, raggiungono nel Mezzogiorno il 97 per cento del prodotto dell’area; sono il 74 per cento al Centro Nord.

Nelle regioni meridionali le importazioni, che provengono in misura preponderante dalle altre regioni italiane, eccedono le esportazioni per un importo di oltre 50 miliardi di euro. Lo sbilancio, pari al 18 per cento del prodotto dell’area, è solo in minima parte compensato dal saldo del turismo. Il riequilibrio avviene per opera della pubblica Amministrazione, la spesa essendo sostanzialmente correlata al numero degli abitanti e le entrate più che proporzionali rispetto al reddito. Il saldo di parte corrente della bilancia dei pagamenti del Mezzogiorno è prossimo all’equilibrio; non c’è accumulo netto di debito delle regioni meridionali.

Attraverso l’attività di impiego e di raccolta il sistema bancario convoglia un afflusso netto di fondi nelle regioni meridionali, anche se di entità limitata; le dipendenze di banche del Centro Nord impiegano nel Mezzogiorno più di quanto raccolgono nell’area. Il fenomeno si è sviluppato negli anni più recenti.

Elevati sono i trasferimenti di capitale attraverso i bilanci di imprese del Nord, che effettuano investimenti produttivi nelle regioni del Sud. Gli investimenti delle imprese industriali con 50 o più addetti nel 2001 sono stati pari a 35,1 miliardi di euro, per 6,3 miliardi localizzati nel Mezzogiorno, ma di questi soltanto 2,4 miliardi sono stati realizzati da imprese con sede nell’area.

Gli occupati del settore privato nel Mezzogiorno, secondo il Censimento del 1996, facevano capo per oltre il 12 per cento a imprese con sede al di fuori dell’area. Il costo del lavoro rende il prodotto delle regioni meridionali poco concorrenziale, a causa della minore produttività dovuta a diseconomie esterne. Gli aiuti pubblici non colmano il divario con il resto del Paese.

Il tasso di disoccupazione, in riduzione rispetto agli anni precedenti, era nelle regioni meridionali all’inizio di quest’anno del 18,6 per cento, a fronte del 4,2 nel Nord Ovest, del 3,7 nel Nord Est e del 6,9 al Centro. Il tasso di occupazione della popolazione in età lavorativa era del 43,2 per cento al Sud, del 58,4 al Centro, del 63,7 al Nord. n Europa il tasso di occupazione supera il 64 per cento. Tra gli occupati elevatissimo è nel Mezzogiorno il numero degli irregolari, fino alla metà del totale in alcuni rami di attività. Si è riattivato negli anni più recenti un consistente flusso netto di emigrazioni verso il Centro Nord.

Le potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno, proprio per il più basso livello di partenza, per la vitalità demografica, per un’abbondanza di forza lavoro giovanile, più aperta all’apprendimento delle nuove tecniche e delle professionalità richieste da una economia moderna, sono, in un’ottica di medio termine, più elevate di quelle del Centro Nord.

È modesto in relazione alle risorse l’apporto del turismo. Nel Mezzogiorno le entrate turistiche sono state pari a 9,5 miliardi di euro nel 2001, a fronte di 50,2 al Centro Nord. È necessario valorizzare le vocazioni industriali e tecnologiche avanzate che già oggi emergono in alcune aree. Da un innalzamento del ritmo di sviluppo delle regioni meridionali può trarre vantaggio anche l’economia del Nord, caratterizzato da un forte invecchiamento demografico e da un divario ampio e crescente tra capacità di risparmio e possibilità di investimento.

Il decentramento e il federalismo fiscale non possono prescindere dagli intensi legami civili, sociali, economici tra le grandi aree del Paese. Devono mirare allo sviluppo dell’economia nazionale nel suo complesso.

Le banche e il mercato finanziario

In una fase di rallentamento ciclico, nella quale si sono inseriti gli impulsi destabilizzanti derivanti dalla caduta dei prezzi azionari, dalle crisi di grandi imprese, dalle difficoltà di paesi emergenti, il sistema bancario italiano è tra quelli che hanno mostrato una maggiore capacità di tenuta. Negli accertamenti ispettivi effettuati nel biennio 2001-02 presso 342 banche, i giudizi pienamente favorevoli sono stati 139; la proporzione 24 è sostanzialmente identica a quella del biennio 1999-2000, allorché su 326 banche ispezionate, 136 avevano riportato un giudizio favorevole. La frequenza dei giudizi sfavorevoli si è ridotta dal 25 al 19 per cento; essi hanno riguardato banche rappresentative nel complesso del 2 per cento dei fondi intermediati dal sistema.

I progressi registrati dalla metà degli anni novanta si sono riflessi nella positiva valutazione dei mercati finanziari. Fatti uguali a 100 i valori all’inizio del 1995, oggi l’indice azionario delle banche italiane è pari a 245, 15 punti in più della media delle banche dell’area dell’euro e 44 in più dell’indice dell’intera borsa italiana. In dieci anni è calata dal 66 al 10 per cento la quota delle attività bancarie facenti capo a istituti il cui capitale è detenuto per oltre la metà da enti pubblici e fondazioni. La maggiore attenzione ai margini reddituali e l’esigenza di raggiungere volumi operativi adeguati alla competizione internazionale hanno sospinto il sistema verso le aggregazioni, una maggiore efficienza operativa, l’offerta di nuovi servizi. Sono stati conseguiti ampi guadagni di produttività. Tra il 1995 e il 2002 lo stock di capitale informatico per addetto è cresciuto di circa quattro volte; il numero di dipendenti si è ridotto del 4,5 per cento. Il processo di consolidamento è stato particolarmente intenso tra il 1995 e il 2000; dopo una stasi nel 2001, dall’inizio del 2002 a oggi sono state realizzate altre 36 operazioni di aggregazione.

Le banche hanno ampliato l’offerta di servizi di gestione del risparmio. L’industria dei fondi comuni italiani è divenuta la seconda in Europa in termini di patrimonio gestito. I principali gruppi creditizi hanno scelto di estendere la presenza nei paesi dell’Europa centrale e orientale; in alcuni di quelli che entreranno nell’Unione europea, le banche italiane detengono posizioni di rilievo. L’attività internazionale del nostro sistema bancario resta tuttavia contenuta rispetto agli altri principali paesi dell’area dell’euro. Avvalendoci della conoscenza dei mercati che discende dall’esercizio della vigilanza, abbiamo operato affinché al processo di concentrazione si associasse un aumento della concorrenza, anche a livello locale. Il superamento dei vincoli operativi e delle barriere geografiche ha accresciuto le opportunità di confronto concorrenziale; vi è oggi uno sportello bancario ogni 1.900 abitanti, contro uno ogni 3.400 all’inizio degli anni novanta. Si è fatto più agevole il raffronto tra condizioni e tra prodotti offerti.

Il divario tra il rendimento dei prestiti e il costo della raccolta è risultato nel 2002 pari a 3,8 punti percentuali, rispetto a 6,1 punti nel 1995. È diminuito il differenziale tra il tasso medio sui prestiti e quello applicato alla clientela migliore; si è ridotta la dispersione per aree geografiche. La redditività delle banche e l’offerta di credito Il rendimento del capitale bancario era, alla metà degli anni novanta, dell’ordine del 2 per cento per il totale del sistema, con una notevole variabilità tra aree geografiche; è risultato dell’11,5 per cento nel 2000. L’aumento, diffuso nel sistema, è stato più sostenuto per i grandi gruppi. Nell’ultimo biennio il rallentamento congiunturale, l’esigenza di fronteggiare i rischi connessi con l’esposizione verso paesi dell’America latina e verso grandi imprese internazionali, la contrazione dei proventi derivanti dai servizi di gestione del risparmio hanno abbassato la redditività.

Gli utili sono scesi all’8,8 per cento del capitale e delle riserve nel 2001 e al 6,2 nel 2002. Le indicazioni sul primo trimestre di quest’anno segnalano un miglioramento rispetto alla fine dello scorso anno. In Germania il rendimento del capitale delle banche è sceso dal 5,0 al 3,7 per cento tra il 2000 e il 2001; lo scorso anno si è registrato un ulteriore calo. In Francia la redditività del sistema bancario nel biennio 2000-01 è stata dell’ordine del 9,5 per cento; per le maggiori banche, rappresentative di due terzi del sistema, nel 2002 si è ridotta di circa 2 punti percentuali. La redditività delle banche è su livelli più alti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove maggiore è stata negli anni scorsi la crescita del prodotto nazionale.

La rischiosità del credito ha registrato in Italia un aumento molto contenuto; nel 2002 il flusso di nuove sofferenze è stato pari all’1,0 per cento dei prestiti; aveva raggiunto il 3,6 all’indomani della recessione del 1993, rimanendo al di sopra del 2 per cento fino al 1996.

La limitata dimensione dei flussi di sofferenze riflette in primo luogo la più equilibrata condizione finanziaria delle imprese affidate, sia nell’industria sia nei servizi; nonostante la debolezza ciclica, la loro redditività è rimasta elevata; il margine operativo lordo è passato dal 37,6 per cento del valore aggiunto nel 1995 al 36 lo scorso anno. Il calo dei tassi di interesse ha determinato una contrazione del peso degli oneri finanziari, dal 22 al 15 per cento del margine operativo lordo. Sono state basse le spese di investimento; è rimasta alta la quota finanziata con risorse interne. I maggiori gruppi industriali, che negli anni 2000-01 avevano effettuato acquisizioni facendo ampio ricorso al credito bancario, hanno successivamente ceduto attività non strategiche e ridotto l’indebitamento. Ne è stato favorito il rispetto, da parte delle banche, della disciplina che limita la concentrazione dei rischi. La Vigilanza segue in via sistematica l’evoluzione dei fidi alle imprese di maggiori dimensioni. Ai gruppi industriali con fatturato pari ad almeno 50 milioni di euro è destinato il 10 per cento delle attività bancarie complessive, una quota bassa nel confronto con altri importanti paesi; in Germania è dell’ordine del 30 per cento.

Analisi statistiche effettuate sulla base dei bilanci e delle relazioni di credito di 126.000 società indicano che nell’ultimo quadriennio le banche hanno saputo destinare una quota crescente delle erogazioni alle imprese con più bassa probabilità di insolvenza. Nell’ambito delle aziende con fatturato inferiore a 5 milioni di euro, si è osservato un incremento medio annuo dell’11 per cento dei prestiti in favore di quelle con probabilità di fallimento inferiore allo 0,5 per cento; la crescita dei finanziamenti alle aziende con probabilità di insolvenza superiore all’1 per cento è stata più bassa, pari al 5 per cento. Un andamento analogo si riscontra anche per le imprese di maggiori dimensioni. Le condizioni di offerta del credito sono rimaste distese. I prestiti hanno rallentato fino allo scorso autunno. Il tasso di crescita annuale è successivamente risalito, al 7,1 per cento in aprile. L’attuale ritmo di espansione è superiore di 3 punti percentuali a quello dell’area dell’euro. In Francia l’incremento dei prestiti nel 2002 è stato del 4 per cento, in Germania pressoché nullo.

L’incremento del credito si è concentrato nella componente a medio e a lungo termine, garantendo maggiore stabilità al finanziamento delle imprese. I margini disponibili sugli affidamenti rimangono ampi; sono aumentati per il settore manifatturiero.

Dopo le riduzioni apportate ai tassi di riferimento dell’euro, il costo medio dei prestiti a breve termine è sceso di 0,1 punti percentuali nello scorso dicembre e di altri 0,5 nel primo quadrimestre di quest’anno. È oggi pari al 5,2 per cento, il valore più basso da mezzo secolo. I tassi di interesse bancari sono in linea con i livelli prevalenti in Europa.

La dotazione patrimoniale delle banche, che rappresenta la principale garanzia della capacità di finanziare l’economia in condizioni di stabilità, supera il minimo richiesto. Il coefficiente di solvibilità, tra la fine del 2001 e quella del 2002, è cresciuto dal 10,4 all’11,2 per cento; per i principali gruppi è salito dal 9,3 al 10,6 per cento.

Le fondazioni hanno svolto un ruolo rilevante nella riorganizzazione e privatizzazione del sistema creditizio. È essenziale garantire continuità al ruolo da esse svolto in quanto enti di natura privata con fini di utilità sociale. Anche nel Mezzogiorno la contrazione del flusso di nuove sofferenze in rapporto agli impieghi è stata significativa.

Alla metà degli anni novanta la quota dei crediti che divenivano inesigibili ogni anno nelle regioni meridionali era dell’ordine del 6 per cento, un valore tre volte superiore a quello riscontrato nelle altre regioni. Erano diffuse le inadeguatezze nella selezione del credito, in particolare nelle banche di proprietà pubblica.

Il riassetto del sistema creditizio del Mezzogiorno è stato realizzato con la privatizzazione delle principali banche e con l’ingresso nell’area di intermediari dotati di più elevate risorse patrimoniali e di migliori capacità gestionali. Il contributo di risorse pubbliche, di ammontare contenuto, è stato condizionato alla riduzione delle spese per il personale su livelli analoghi a quelli del resto del sistema.

Nel triennio 1999-2001 la crescita media annua del credito bancario agli operatori meridionali era stata del 6,5 per cento, inferiore a quella registrata al Centro Nord. Nel 2002 l’aumento dei finanziamenti nel Mezzogiorno è stato del 7,0 per cento, superiore a quello delle altre regioni. Il flusso di nuove sofferenze è sceso fino all’1,6 per cento dei prestiti, rispetto allo 0,9 nel Centro Nord. Il differenziale tra i tassi di interesse applicati sui prestiti a breve termine alle imprese del Mezzogiorno e del Centro Nord si è ridotto da 2,3 punti percentuali nel 1996 a 1,6 punti nel 2002; è meno di un punto qualora si tenga conto delle diverse caratteristiche settoriali e dimensionali delle imprese delle due aree. Il divario è assai contenuto, dell’ordine di mezzo punto percentuale, anche per i prestiti a medio e a lungo termine. Il differenziale rispetto al resto del Paese riflette la più elevata rischiosità del credito ed è riconducibile a diseconomie esterne. La remunerazione dei depositi bancari delle famiglie nel Mezzogiorno si è progressivamente allineata negli anni scorsi a quella nel Centro Nord. Sono state eliminate le disparità nella remunerazione del risparmio bancario tra le diverse regioni italiane.

Il nuovo Accordo sul capitale

L’Accordo sul capitale oggi in vigore risale al 1988; è stato applicato in più di 100 paesi; ha contribuito grandemente al rafforzamento della stabilità e della operatività dei sistemi bancari.

Da allora si è fortemente sviluppata l’attività delle banche anche sui mercati internazionali, sono stati diffusi nuovi prodotti, creati nuovi strumenti finanziari. Sono aumentate le opportunità di espansione dell’attività e dei profitti, ma sono sorti nuovi rischi. Il nuovo Accordo proposto dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria stabilisce una più stretta correlazione tra i requisiti patrimoniali e l’intensità dei rischi, alla luce dell’evoluzione intervenuta nell’attività delle banche negli ultimi quindici anni. La riforma mira a incentivare il ricorso a metodologie più avanzate di valutazione e gestione dei rischi, a rendere più cogente la disciplina del mercato sulle politiche aziendali, a rafforzare l’azione delle autorità di vigilanza.

La consultazione di un’ampia gamma di intermediari e le verifiche empiriche effettuate hanno consentito di allineare la proposta di nuovo Accordo alle migliori prassi gestionali, di conformarla all’operatività delle varie categorie di banche. Agli intermediari vengono offerte più opzioni per il calcolo dei requisiti patrimoniali; essi possono scegliere la metodologia in funzione dell’articolazione delle loro attività e dell’assetto dei sistemi di controllo interno.

I metodi di calcolo più avanzati verranno utilizzati prevalentemente dalle grandi banche, attive sui mercati internazionali, e da altre di medie dimensioni specializzate nei comparti innovativi. Le banche di minori dimensioni, impegnate nella tradizionale attività di raccolta e di impiego del risparmio, potranno utilizzare un metodo semplificato,

paragonabile a quello attuale. Alla fine dello scorso aprile il Comitato di Basilea ha diffuso il terzo documento di consultazione in vista del varo, entro l’anno in corso, del nuovo Accordo. Come per le precedenti versioni, il documento è a disposizione di Autorità, operatori, associazioni di categoria, studiosi per puntuali osservazioni e integrazioni; esse verranno esaminate dal Comitato, per la stesura definitiva. L’entrata in vigore del nuovo Accordo è prevista non prima della fine del 2006.

Rispetto al progetto iniziale, sulla base di approfondimenti condotti dalla Banca d’Italia e dalle autorità di vigilanza di altri paesi, sono state introdotte nello schema specifiche modalità di calcolo dei requisiti patrimoniali relativi ai crediti alle imprese di minori dimensioni; la loro validità ha trovato conferma nelle simulazioni condotte da circa 350 banche di oltre 40 paesi.

Vengono tenute in considerazione la minore esposizione del complesso delle piccole imprese all’andamento ciclico dell’economia e la maggiore prevedibilità delle perdite connesse con portafogli di crediti a una clientela di modeste dimensioni. Le esposizioni verso le società con fatturato fino a 50 milioni di euro vengono assoggettate, a parità di rischio di fallimento, a requisiti patrimoniali inferiori rispetto a quelli relativi alle società più grandi. I finanziamenti di importo non superiore a un milione di euro riceveranno un trattamento ancor più favorevole. Le nuove norme danno la possibilità di avvalersi dell’intervento dei consorzi e delle cooperative di garanzia collettiva dei fidi. Il nuovo schema limita le oscillazioni dei requisiti patrimoniali nelle diverse fasi congiunturali.

Alla luce delle analisi effettuate dalle autorità di vigilanza di più paesi e delle verifiche condotte dalle banche non si configurano effetti di razionamento o di distorsione nell’allocazione del credito dall’applicazione dell’Accordo.

Il nuovo Accordo mira in definitiva, attraverso un migliore uso delle risorse di capitale, a ulteriormente rinsaldare la stabilità delle banche a difesa dei risparmi amministrati. Mira altresì a un’allocazione del credito più efficiente a favore del sistema produttivo.

Assumono maggiore rilevanza nella valutazione del merito di credito gli elementi oggettivi. Si rafforza l’esigenza di bilanci trasparenti, pienamente rappresentativi della situazione reddituale e finanziaria delle imprese. I rapporti tra banche e imprese devono essere improntati a fiducia reciproca, devono divenire più stabili. È una trasformazione necessaria, verso procedure e metodi più avanzati, sia per le banche sia per le imprese. Attraverso una migliore allocazione del credito saranno valorizzate le potenzialità dell’ampio tessuto di piccole imprese che caratterizza l’economia italiana.

Risparmio e mercato finanziario

Dopo aver toccato un minimo nel 2000, il tasso di risparmio delle famiglie ha raggiunto lo scorso anno il 12,5 per cento del reddito disponibile. È stato impiegato in misura crescente in titoli obbligazionari a medio e a lungo termine, in larga parte titoli di Stato; sono aumentati gli acquisti di abitazioni. I risultati degli investimenti finanziari sono stati nell’ultimo biennio inferiori alle aspettative dei risparmiatori; dopo aver beneficiato per anni di tassi elevati, gli investitori mostrano difficoltà a percepire che alti rendimenti implicano necessariamente alti rischi.

Non sono mancati tra gli operatori comportamenti carenti sotto il profilo della valutazione dei rischi, della registrazione contabile degli impegni assunti, della correttezza nei rapporti con la clientela. È stato necessario in alcuni casi assumere provvedimenti straordinari a salvaguardia dell’integrità di gestioni bancarie. Nel quadriennio 1999-2002 abbiamo disposto ispezioni presso 11 delle circa 100 società di gestione del risparmio, facenti capo prevalentemente a gruppi bancari italiani o esteri, e presso 29 delle 170 società di intermediazione mobiliare. Accertamenti ispettivi sono stati effettuati anche dalla Consob.

Per le società di gestione del risparmio le nostre verifiche hanno accertato situazioni aziendali sostanzialmente soddisfacenti; in taluni casi sono emerse carenze organizzative che hanno dato origine a procedimenti sanzionatori. In alcune società di intermediazione mobiliare sono state riscontrate strutture proprietarie fragili e manchevolezze gravi sul piano organizzativo; sono stati avviati procedimenti sanzionatori, disposte procedure di amministrazione straordinaria e di liquidazione. Nell’ambito dell’attività ispettiva e nelle verifiche condotte dalle nostre Filiali presso gli sportelli bancari sono state rilevate lacune nelle informazioni fornite alla clientela; è stato talora accertato il mancato rispetto della disciplina sulla trasparenza; per 25 intermediari sono state avviate, nel 2002, procedure sanzionatorie.

Il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio, su nostra proposta, ha deliberato una revisione organica delle norme attuative della disciplina in materia di trasparenza. Sono state introdotte regole volte a perseguire con maggiore efficacia gli obiettivi di tutela dei risparmiatori; vengono richieste nuove informazioni sulle condizioni contrattuali, sui costi e sui rischi delle operazioni bancarie, di impiego e di raccolta. Gli intermediari, bancari e non bancari, devono correttamente informare e con accortezza consigliare i risparmiatori circa gli investimenti più adatti alle loro esigenze, coerenti con le loro disponibilità. Devono proporre strumenti finanziari dal contenuto agevolmente comprensibile, privi di inutili complessità. Va sempre assicurata la comparabilità dei prodotti. Sono essenziali etica e professionalità. Nella seconda metà degli anni novanta sono stati compiuti errori e alimentate eccessive attese di guadagno in un contesto di generalizzato ottimismo sui mercati finanziari dei maggiori paesi. È necessaria una costante attività di formazione professionale dei dipendenti, ispirata al principio di servizio al risparmiatore.

Va consolidato il rapporto di fiducia con la clientela, un bene primario per la stabilità e l’operatività delle istituzioni finanziarie. Sono oggi quotate in borsa 265 società italiane, in diminuzione rispetto alle 276 della fine del 2001. In Germania le imprese quotate sono 715, in Francia 737, nel Regno Unito 2.405. Le società non finanziarie italiane quotate rappresentano un sesto del valore aggiunto delle imprese. La limitata presenza di società non finanziarie nella borsa italiana riflette la ridotta dimensione delle nostre imprese, ma soprattutto la scarsa propensione delle stesse imprese alla quotazione sul mercato. Le aziende comprese nell’ultimo quartile della distribuzione per capitalizzazione di borsa hanno in Italia dimensione di otto volte superiore alle analoghe imprese tedesche, di cinque volte rispetto a quelle francesi.

Secondo le indagini della Borsa italiana sono quasi 1.200 le società che possiedono le caratteristiche necessarie per la quotazione. A oltre la metà di queste imprese, le banche d’affari, gli istituti bancari o i consulenti aziendali hanno proposto la partecipazione al capitale o l’ingresso in borsa. La risposta è stata finora insoddisfacente; la quotazione aumenta l’esposizione ai controlli esterni. È essenziale proseguire nella riforma delle regole, nella rimozione dei vincoli che frenano l’attività e lo sviluppo delle imprese.

Nel processo di revisione della cornice normativa il nuovo diritto societario segna un passo importante. La riforma valorizza l’imprenditorialità; amplia l’autonomia degli amministratori, ne precisa le responsabilità; migliora la disciplina dei conflitti di interessi nell’impresa e nei conglomerati societari. Si riduce lo scarto normativo tra le società con titoli quotati e le altre società per azioni. Gli interventi devono essere completati con la revisione delle procedure concorsuali.

È necessario che le riforme nel mercato del lavoro e la riduzione del carico fiscale creino condizioni favorevoli per la crescita dimensionale delle imprese e per l’avvio di un nuovo ciclo di investimenti, in particolare nei settori dell’alta tecnologia. La sfida che si pone agli imprenditori italiani è quella di ricercare, anche attraverso aggregazioni, dimensioni produttive che consentano più alta efficienza, maggiore impegno nella ricerca, innovazioni in grado di ampliare la gamma e di innalzare il livello qualitativo dei beni offerti.

Nel nuovo assetto dimensionale e organizzativo le banche, in stretta complementarità con il mercato dei capitali, devono ora volgersi con più decisione a contribuire all’ammodernamento della nostra economia, mettere il loro patrimonio informativo a disposizione delle imprese, assisterle nei progetti di aggregazione e nella ricerca di forme di finanziamento più evolute.

Soprattutto nell’attuale difficile contesto economico l’efficiente allocazione del credito ha un alto valore sociale; è essenziale per la difesa del risparmio, per sostenere gli imprenditori che avvertono la spinta a innovare; per contribuire, attraverso il finanziamento dei migliori progetti di investimento, alla crescita dell’economia.

Signori Partecipanti, Autorità, Signore, Signori,

nel maggio dello scorso anno, alla luce del miglioramento congiunturale, dopo gli eventi dell’11 settembre, avevamo indicato in almeno il 4 per cento la crescita del prodotto negli Stati Uniti tra la fine del 2002 e la fine dell’anno precedente.

Le gravi tensioni internazionali e gli sviluppi successivi hanno frenato la ripresa. L’aumento del prodotto nel corso del 2002 è stato del 2,9 per cento. Nell’area dell’euro la crescita, nello stesso periodo, è stata soltanto dell’l,2 per cento.

Il costo dei drammatici eventi internazionali, in termini di minore sviluppo, è valutabile in circa un punto percentuale del prodotto interno lordo dei paesi avanzati.

La congiuntura nei primi mesi dell’anno in corso è stata ancora dominata dalle conseguenze negative degli eventi bellici e del terrorismo. In Giappone prosegue la tendenza alla riduzione dei prezzi. Negli Stati Uniti la politica economica è decisamente orientata a contrastare il rallentamento produttivo e la disoccupazione. Il contenimento dei prezzi deriva dalla riduzione dei costi, connessa con il forte aumento della produttività, e dall’intensificarsi della concorrenza.

Il prodotto interno lordo è cresciuto dell’1,9 per cento su base annua nel primo trimestre del 2003. Nella seconda metà dell’anno dovrebbe manifestarsi un’accelerazione dell’attività economica, sospinta dal basso livello dei tassi di interesse, da un nuovo piano di sgravi fiscali, dal deprezzamento del dollaro.

Per il quarto trimestre le previsioni di crescita oscillano tra il 2,2 e il 3 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Per la media del 2003 l’aumento del prodotto dovrebbe collocarsi tra il 2 e il 2,5 per cento, valori ancora al di sotto della crescita potenziale.

È diffusa l’aspettativa di una piena ripresa nel 2004. Nell’area dell’euro l’espansione del reddito è stata pressoché nulla nell’ultima parte del 2002 e nel primo trimestre del 2003; nell’anno sarà inferiore all’1 per cento.

Incide sulla congiuntura il forte apprezzamento dell’euro. I margini di intervento per le politiche di bilancio sono stretti; in più paesi il disavanzo pubblico supera nettamente il limite del 3 per cento. La debole crescita nell’Europa continentale è da ricondurre in gran parte alle rigidità stratificatesi nei decenni di grande sviluppo successivi alla seconda guerra mondiale, all’invecchiamento demografico, al connesso elevato peso della spesa per pensioni e per assistenza.

All’avvio dell’Unione monetaria non hanno fatto seguito, nei maggiori paesi dell’area, le riforme strutturali necessarie per un migliore utilizzo delle risorse, in primo luogo di lavoro, e per competere in un contesto economico e finanziario profondamente mutato.

Il raggiungimento degli obiettivi europei per lo sviluppo e l’occupazione stabiliti a Lisbona nel 2000 richiede la concreta definizione, l’attivazione in ogni paese degli strumenti necessari. L’abbassamento della pressione fiscale postula la riduzione del rapporto tra spesa pubblica e prodotto; la previdenza pubblica va adeguata all’aumento della speranza di vita; lo sviluppo della previdenza complementare fornirà nuovi mezzi per il finanziamento degli investimenti.

In una fase di congiuntura debole, avanzo nei conti con l’estero, prezzi stabili, il riavvio di un piano di grandi infrastrutture, secondo progetti e tempi ben definiti, può stimolare la domanda e la crescita. In Italia il prodotto interno lordo è rimasto nel primo trimestre di quest’anno sul livello dell’ultima parte del 2002. Nei primi mesi del 2003, fino a marzo, la produzione industriale ha continuato a ridursi; dalle nostre stime preliminari risulta un lieve aumento nel bimestre aprile-maggio.

Le quantità esportate, trainate dalla ripresa della domanda mondiale, aumenterebbero nell’anno in corso del 2 per cento; prosegue la perdita di quote di mercato, anche per effetto dell’apprezzamento del cambio. Tornerebbero a crescere, lentamente, i consumi. La disponibilità di credito favorisce gli investimenti in costruzioni.

Le importazioni tendono ancora ad aumentare in misura superiore alle esportazioni; ne risulteranno frenate la produzione e la crescita del reddito nazionale. Il prodotto interno lordo nel 2003 difficilmente aumenterà più dell’1 per cento.

Le intenzioni di spesa delle imprese prefigurano una contrazione degli investimenti, in particolare nel comparto manifatturiero. Influiscono le attese di debole crescita della domanda. La spesa per investimenti pubblici è aumentata nel 2002 del 7 per cento rispetto all’anno precedente. Nel comparto delle opere pubbliche, secondo un’indagine condotta dalle nostre Filiali, dopo il rallentamento della prima metà del 2002 è in atto una ripresa; essa dovrebbe rafforzarsi nell’anno in corso.

Gli investimenti per costruzioni nella sanità, nelle reti idriche, nell’istruzione, nell’energia, nei trasporti e nelle comunicazioni ammontavano al 3,3 per cento del prodotto interno lordo all’inizio degli anni novanta; sono scesi fino al 2,0 per cento nel 1995, per poi risalire intorno al 2,5 negli anni più recenti.

La carenza di infrastrutture condiziona lo sviluppo nel Nord; è maggiore nel Mezzogiorno, dove si associa a livelli di produttività, di occupazione, di reddito nettamente più bassi.

Anche a causa dell’avversa congiuntura, gli andamenti dei conti del settore pubblico non sono in linea con gli obiettivi di consolidamento e risanamento più volte enunciati.

L’indebitamento netto di competenza per l’anno 2001 è alla fine risultato pari al 2,6 per cento del prodotto interno lordo. È disceso al 2,3 nel 2002, beneficiando per oltre un punto percentuale di misure correttive di natura transitoria.

Per il 2003 è previsto il mantenimento di un saldo uguale, in rapporto al prodotto, a quello dello scorso anno. L’avanzo primario, cioè il saldo al netto della spesa per interessi, che al momento dell’entrata nell’Unione monetaria ci eravamo impegnati a mantenere al 5,5 per cento del prodotto, nel 2000 era sceso al 4,6; nel 2003 è previsto nel 3,2 per cento.

Nell’attuale difficile fase congiunturale gli interventi di natura transitoria consentono di contenere il disavanzo senza intaccare il reddito permanente; ma si pone il problema della loro sostituzione con provvedimenti di carattere strutturale.

La pressione fiscale si è ridotta tra il 2001 e il 2002 di mezzo punto percentuale, dal 42,1 al 41,6 per cento, sostenendo la domanda interna. L’incidenza delle spese primarie correnti sul prodotto nel 2002 si è innalzata di 0,4 punti percentuali. La differenza tra entrate e spese a carattere permanente tende ad allargarsi; l’annunciata progressiva riduzione del carico fiscale dovrà trovare fondamento nella riduzione della spesa.

Rimane elevato il divario tra disavanzo di cassa e indebitamento netto di competenza.

Sono indispensabili misure strutturali per il riequilibrio definitivo dei conti pubblici, per offrire certezza alla prospettiva di alleggerimento del carico fiscale, per incidere positivamente sulle aspettative delle imprese e delle famiglie.

Occorre contenere il peso del debito pensionistico, innalzare l’età di collocamento a riposo, ridurre gradualmente il rapporto tra la spesa primaria corrente e il prodotto. La fiducia degli operatori è negativamente influenzata dalle tensioni internazionali e dalle conseguenti difficoltà congiunturali. In Italia, come in Europa, stenta a emergere una decisa azione di politica economica incentrata su una evoluzione virtuosa dei conti del settore pubblico, coerente con una nuova, prolungata fase di crescita dell’economia.

È necessario agire perché l’incertezza non si trasformi in pessimismo. Occorre tornare a proporre un progetto di medio termine lungo le linee avanzate dall’Esecutivo nell’estate del 2001 con il Documento di programmazione economica e finanziaria.

La bassa inflazione, l’elevata propensione al risparmio, i tassi di interesse estremamente contenuti sono condizioni ideali per una accelerazione degli investimenti, pubblici e privati.

L’alleggerimento del carico fiscale che grava sulle imprese, il basso costo del capitale e l’apporto di conoscenze da parte delle banche possono contribuire a ridurre la frammentazione del sistema produttivo, a frenare il lento, progressivo declino della produttività. Gli sforzi per migliorare l’istruzione secondaria e quella universitaria devono essere integrati da una maggiore disponibilità di fondi per la ricerca, applicata e di base, e da un loro più efficiente utilizzo. È essenziale un rinnovato impegno da parte delle imprese nell’attività di ricerca e sviluppo finalizzata all’offerta di nuovi prodotti e all’introduzione di nuove tecniche produttive.

Le piccole imprese costituiscono un nucleo vitale del nostro sistema produttivo. Processi di aggregazione e forme di coordinamento che facciano ricorso in misura pervasiva alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione sono la via per accrescere la competitività.

Va proseguita l’azione volta ad aumentare l’efficienza della pubblica Amministrazione, a servizio dei cittadini e a sostegno dell’attività produttiva. La ripresa economica negli Stati Uniti potrà rafforzarsi nell’ultima parte dell’anno. Occorre creare le condizioni affinché il nostro Paese, rimuovendo i fattori di natura strutturale che ostacolano lo sviluppo, ne benefici appieno.

L’Italia si accinge ad assumere la presidenza dell’Unione europea nella fase di allargamento a nuovi paesi. I nuovi ordinamenti trarranno forza da forme adeguate di condivisione della sovranità, dal corretto equilibrio tra interessi nazionali e interessi europei; devono ispirarsi ai valori profondi che nei secoli hanno unificato i popoli dell’Europa. Abbiamo le risorse per crescere. È dovere dell’impresa, del lavoro, della Politica operare per volgerle in favore dell’occupazione, dei giovani, del progresso economico e civile, per ritrovare la via dello sviluppo.