Ultimi articoli
La Regione Campania solleva questione di illegittimità costituzionale del condono edilizio.
La Regione Campania solleva questione di illegittimità costituzionale del condono edilizio.
REGIONE CAMPANIA – Ricorso per legittimità costituzionale 25 ottobre 2003 (n. 76 Atti di promovimento) in G.U. n. 47 del 26 novembre 2003.
RICORSO
della Regione Campania, in persona del Presidente della giunta regionale pro tempore, on. Antonio Bassolino, rappresentato e difeso, giusta mandato a margine ed in virtù delle deliberazioni della Giunta regionale n. 2828 del 30 settembre 2003 e n. 2852 del 16 ottobre 2003, dal prof. avv. Vincenzo Cocozza e dall’avv. Vincenzo Baroni dell’Avvocatura regionale, insieme con i quali elett. te domiciliato in Roma, presso l’Ufficio di rappresentanza della Regione Campania alla via Poli n. 29;
CONTRO
il Presidente del Consiglio dei ministri pro-tempore; per la dichiarazione di illegittimità costituzionale, dell’art. 32, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 229 del 2 ottobre 2003 – suppl. ordinario n. 157/L) che prevede il «condono edilizio», in particolare i commi nn. 1, 2, 3, 5 da 14 a 23 e da 25 a 50 (in parte qua).
FATTO
1. – Il decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 recante «Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici» è un decreto-legge omnibus, emanato in assenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza nonchè privo del requisito di omogeneità, finalizzato a porre in essere misure di finanza pubblica per il riequilibrio dei conti pubblici.
In tale contesto si inseriscono le disposizioni impugnate, di «sanatoria» edilizia, che sono contenute nell’art. 32 e che riaprono, per la seconda volta in pochi anni, i termini concessi per l’ottenimento del condono, con un espresso rinvio, per quanto non previsto dal decreto, alla disciplina della legge n. 47/1985.
L’art. 32 reca «Misure per la qualificazione urbanistica, ambientale e paesaggistica, per l’incentivazione dell’attività di repressione dell’abusivismo edilizio, nonchè per la definizione degli illeciti edilizi e delle occupazioni su aree demaniali».
Si tratta di una disciplina con una pluralità di contenuti che presenta un singolare e contraddittorio intarsio di norme, dove l’aspetto assolutamente caratterizzante è costituito dalla introduzione di un condono edilizio, che si vuole in qualche maniera «giustificare» con regole tese a prefigurare, in assoluta antitesi, interventi di riqualificazione.
L’impugnativa che la Regione Campania propone, riferita all’intero art. 32 in quanto contraddittorio, invasivo ed incoerente nelle sue estremamente ampie articolazioni normative, si appunta in modo specifico nei confronti di tutte quelle disposizioni che contribuiscono nel loro collegamento ad introdurre «di nuovo» il condono e a tracciarne le modalità di svolgimento.
Sono, pertanto, specificamente indicati quali oggetto di impugnativa in quanto costituenti in maniera più immediata le regole afferenti all’intervento di condono, i commi 1, 2, 3, e 5 che danno conto dell’impianto generale; i commi da 14 a 23 che contemplano ipotesi particolari; i commi da 25 a 31 che si occupano di individuare i modi di operatività della disposta sanatoria; e quelli da 32 e ss. che delineano i procedimenti funzionali alla realizzazione e attuazione del condono medesimo.
Si deve precisare che, come dimostra anche lo schema riassuntivo appena proposto che tiene conto dei contenuti essenziali funzionali alla configurazione dell’intervento di sanatoria che la regione contrasta, l’impugnativa è proposta dalla Regione Campania per contestare l’ammissibilità di una regolamentazione legislativa statale in un ambito che afferisce ad una materia di propria competenza, predeterminando condizioni per una vistosa alterazione dei margini di tutela e una vanificazione del corretto esplicarsi della competenza regionale della programmazione del territorio.
In particolare si segnalano, perchè significative, alcune previsioni per cogliere in maniera immediata l’invasione della competenza regionale denunciata ed i vizi complessivi dell’atto.
L’art. 32 intende disciplinare la «sanatoria delle opere esistenti non conformi alla disciplina vigente» assumendo di voler, così, pervenire alla regolarizzazione del settore (comma 1) e, in particolare, l’adeguamento della «disciplina regionale ai principi contenuti nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380» (comma 2). Mentre, come si dirà, un’esigenza di tal tipo non è per nulla ipotizzabile.
Nel consentire la sanatoria di ampliamenti e realizzazioni di nuove costruzioni, si prevede un limite di volumetria «per singola richiesta di titolo abilitativo in sanatoria» (comma 25) e per le più disparate tipologie di abusi, compresi quelli commessi non solo in assenza di titolo ma anche in violazione delle norme e delle prescrizioni degli strumenti urbanistici (comma 26 e all. 1).
Inoltre, è espressamente prevista una ipotesi di silenzio-assenso sulle domande presentate nei termini di legge (comma 37).
Insomma, non è revocabile in dubbio l’ampiezza degli effetti sul territorio di una tale regolamentazione che incide sulla complessiva politica programmatoria dell’ente locale.
Notevole è, ancora, e più in generale, che nel decreto vi sia una disciplina descrittiva assai dettagliata delle procedure per, la presentazione e per l’ottenimento della sanatoria.
Una regolamentazione così puntuale da non lasciare alcun margine di intervento, con la conseguenza che quanto previsto dal comma 2, in ordine all’affermato rispetto delle competenze delle autonomie locali sul governo del territorio, si configura come una mera clausola di stile.
Un siffatto intervento del Governo, sia per lo strumento normativo adottato, sia per la portata e i contenuti della previsione, e quindi le reali finalità che persegue, lede in modo grave l’autonomia regionale concretando una serie di servizi di legittimità costituzionale che inducono alla proposizione del presente ricorso per i seguenti.
MOTIVI
1. – Violazione degli art. 114 e 117 della costituzione.
Lesione della sfera di competenza delle regioni. Violazione del principio di leale cooperazione.
In via preliminare occorre precisare che questa difesa è confortata, nella prospettazione dei vizi avverso l’atto impugnato, dalle sentenze emesse da codesta ecc.ma Corte costituzionale in relazione alle precedenti esperienze normative di condono edilizio (legge n. 47/1985 e art. 39 legge n. 724/194). Difatti, sono proprio le argomentazioni che la Corte ha posto a fondamento di dette pronunce a fornire il più valido dei supporti per sostenere che l’intervento statale impugnato è affetto da insanabili vizi di costituzionalità.
Quell’impianto argomentativo, ovviamente, va considerato tenendo conto della vigenza di un diverso quadro costituzionale che ha ridisegnato i rapporti Stato-regione rafforzando il ruolo di quest’ultima. In tal maniera risultano più chiari i vizi.
Procedendo con ordine.
Va contestato, in primo luogo, l’intervento del Governo perchè si realizza in un settore di competenza regionale attraverso disposizioni di rango legislativo che, per di più, sostanzialmente esauriscono la disciplina escludendo l’intervento della regione.
1.a – Il novellato art. 117 Cost. ancora a materie espressamente previste la potestà esclusiva dello Stato e concorrente Stato-regione.
Scomparsa l’urbanistica dagli elenchi di cui all’art. 117 Cost. e tenuto conto che il decreto impugnato è volto a sanare le condotte antigiuridiche di coloro che hanno realizzato manufatti in assenza di titoli abilitativi, occorre considerare quanto si debba desumere dalla (e quanto incide la) nuova formulazione costituzionale «governo del territorio».
Delle due l’una.
O si esaurisce la disciplina del condono nella materia urbanistica, sub specie edilizia – concernente, cioè, la disciplina della costruzione e manutenzione degli edifici – e si ritiene che la stessa non vada ricompresa in quella governo del territorio» ed allora lo Stato è intervenuto in un settore affidato alla potestà legislativa residuale della regione con la conseguente, irrimediabile illegittimità dell’intervento; ovvero l’urbanistica, come regolamentazione incidente sulla utilizzazione e trasformazione del territorio, rimane all’interno di tale nuova materia del novellato art. 117 Cost.
Vi sono argomenti per sostenere la prima tesi.
Se, infatti, si pone l’accento sulla nuova formulazione costituzionale, si deduce soprattutto che essa involge la regolamentazione incidente sulla utilizzazione e trasformazione del territorio; il mutamento della formula dell’art. 117 non può essere priva di significato e, pertanto, il riferimento a una funzione di «governo» deve comportare di porre in risalto i profili di programmazione e pianificazione.
Da tale definizione potrebbe, pertanto, escludersi l’edilizia vera e propria nell’indicato significato tradizionale di disciplina della costruzione e manutenzione degli edifici, alla quale potrebbe collegarsi il «condono».
Questo conduce a configurare una sfera di competenza residuale delle regioni, attesa l’assenza della stessa fra gli elenchi del nuovo art. 117 Cost., con la conseguente illegittima invasione da parte della disciplina statale.
1.b. – Comunque il risultato in ordine alla dedotta illegittimità non cambia collocandosi nella seconda ipotesi.
Anche in questo caso, dovendosi assegnare al mutamento della formula identificativa dell’ambito materiale d’intervento concorrente Stato-regione il significato che ponga in risalto i profili di programmazione e pianificazione regionale, se ne devono trarre le conseguenze.
In verità, prima della riforma costituzionale sul Titolo V, proprio codesta ecc.ma Corte, dovendo caratterizzare l’intervento in materia di condono, ha adoperato frequentemente l’espressione «governo del territorio». Questo per esprimere la peculiarità di una disciplina che finisce per coinvolgere in maniera ampia tutte le funzioni che attengono alla gestione, controllo, programmazione, tutela di un bene essenziale per l’ente pubblico.
In tale materia, in questa ottica, di potestà concorrente, lo Stato deve limitarsi a fissare i principi fondamentali e, come è assolutamente agevole verificare, le disposizioni del decreto-legge non possono in alcun modo proporsi come tali alla stregua di quanto, invece, imposto dal comma dell’art. 117 Cost.
Gli elementi che inducono a una conclusione nel senso indicato sono, invero, molteplici.
1.b.1. – In primo luogo è la stessa previsione di un’ipotesi di nuova sanatoria che sorbita dalla nozione di principio inteso, questo, come «modo di esercizio della potestà legislativa regionale» (cfr. Corte cost. n. 482/1995).
Vizio confermato dall’intera disciplina per la quale neanche soccorre il criterio di cedevolezza delle disposizioni statali. I tempi stabiliti, le caratteristiche delle previsioni introdotte, l’aver riguardo a condotte già realizzate, escludono del tutto la possibilità di un successivo intervento regionale, e l’intero quadro giuridico dei rapporti risulta definito.
D’altra parte, si è di fronte ad una ipotesi di «contenuto provvedimentale», che regola comportamenti già posti in essere, quindi non ipotetici e futuri, ma situazioni pregresse, storicamente verificatesi, determinate e concrete che escludono ancor di più la configurabilità di un principio fondamentale.
Come l’ecc.ma Corte ha di recente evidenziato può atteggiarsi come principio anche una disciplina più specifica purchè esprima un obiettivo quale, ad esempio, quello di una semplificazione delle procedure affinchè queste «non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a semplificare le procedure e a evitare la duplicazioni di valutazioni sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione» (Corte cost. 1° ottobre 2003, n. 303). Ma l’imposizione di una «rinuncia» alla tutela di una corretta pianificazione, come nell’ipotesi in esame, sfugge a qualunque possibilità di inquadramento come principio.
1.b.2. – La disciplina dei procedimenti nel decreto-legge è puntuale ed esaustiva, prevedendosi tutte le fasi: sono contemplati espressamente i limiti di volumetria (comma 25), le tipologie di illecito (comma 26), le ipotesi di. esclusione (comma 27), la disciplina dei termini (comma 28), l’influenza di fattispecie penali nella sanatoria (commi 29 e 30), i rapporti con i terzi (comma 31), i termini per la proposizione dell’istanza (comma 32), la documentazione da allegare (comma 35), l’ipotesi del silenzio-assenso (comma 37), l’oblazione da corrispondere (comma 38 e all. 1). È perfino allegato il modello di domanda da presentare alle autorità competenti.
I pochi rinvii, effettuati dal decreto, alla normativa della regione e al rispetto delle competenze di quest’ultima, si riducono ad una vuota formula senza conseguenze.
In definitiva, viene attribuita alla Regione unicamente la possibilità di «attuazione della normativa per le ipotesi di minore impatto» (comma 26), ovvero di «prevedere un incremento della oblazione», ma solo nella misura del 10% (comma 33).
1.b.3. – Ancora non può non considerarsi che la fissazione di principi fondamentali, che la Costituzione attribuisce allo Stato, è evidentemente funzionale alla individuazione di orientamenti e direttive per una coordinata programmazione degli interventi delle regioni e perchè si consenta all’ente territoriale un razionale governo del territorio.
Insomma, la norma costituzionale, nel fissare il rapporto fra principi fondamentali e legislazione regionale, propone non solo un limite quantitativo e oggettivo all’esercizio della potestà, ma anche funzionale al rispetto di un obiettivo, e cioè, per l’ipotesi in esame, la razionale pianificazione.
Un intervento di condono, di per sè, si pone in evidente contrasto con un tale obiettivo ed ostacola qualunque esplicazione dell’autonomia regolativa regionale che lo Stato deve, invece, rispettare, potendo soltanto individuare quanto è necessario per garantire l’unità dell’intervento normativo.
Siffatta conclusione è, poi, avvalorata dai contenuti dell’atto avente forza di legge impugnato.
La sanatoria è ampia coinvolgendo una articolata tipologia di abusi. In particolare, si consente il rilascio del titolo non solo per manufatti realizzati in assenza o in difformità dello stesso, ma anche per opere realizzate in violazione delle norme edilizie e delle prescrizioni degli strumenti urbanistici (comma 1, 25, 26 e all. 1), imponendo alle autonomie locali di subire gli illeciti urbanistici compiuti in dispregio della programmazione territoriale già vigente e dei piani di zona, laddove questi impediscano o limitino l’edificabilità ovvero la condizionino a determinate finalità. Coerenza urbanistica e territoriale, dunque, violata, e di cui si impedisce il recupero attraverso la vanificazione di ogni intervento repressivo e, soprattutto, di ripristino.
Quanto sopra è ulteriormente aggravato dalla circostanza che il limite di volumetria viene riferito a «singola richiesta di titolo abilitativo edilizio in sanatoria» (comma 25) e non vi è relazione con l’area.
Per di più, in base a una documentazione (tecnica e fotografica) da presentarsi sino al 31 marzo 2004 (comma 35). Previsione inidonea a certificare l’effettiva realizzazione dell’opera al 31 marzo 2003; ciò determinerà, come d’altronde hanno insegnato le pregresse esperienze, un aumento dei fenomeni di abusivismo fino alla scadenza del termine di presentazione delle domande.
A ciò si aggiunga, ancora, la previsione di ipotesi di silenzio-assenso (comma 37), che permetterà di condonare anche quegli abusi esclusi (pochi, in verita) dalla normativa impugnata. La irragionevolezza di tale ultima disposizione è, d’altronde, confortata dallo stesso legislatore statale che, pur nel processo di semplificazione delle procedure amministrative, ha escluso la ipotesi di un silenzio-assenso nella regolamentazione di materia urbastico-edilizia e, in generale, ambientale.
1.b.4. – Ancora, va dedotta l’illegittimità di un decreto-legge che pretende di fissare principi fondamentali (laddove una tale lettura del contenuto sia possibile il che si nega nei confronti della legislazione regionale.
Se è vero, infatti, che nelle materie di competenza concorrente, i principi assolvono alla funzione di unificare il sistema delle autonomie, inidoneo si mostra, sotto l’aspetto formale, il decreto-legge a contenere gli stessi, atteso che «l’esercizio di tali competenze postula l’affidamento delle regioni nella effettività e quindi stabilità dei principi» (Corte cost. 22 luglio 1996, n. 271).
D’altronde se il fine è solo quello di individuare obiettivi e criteri direttivi da attuare, incoerente si mostra il fine rispetto all’utilizzazione di uno strumento normativo che presuppone la necessità e urgenza di provvedere.
1.b.5. – Nè un tale intervento può essere giustificato da esigenze di carattere unitario.
Anche laddove queste ricorressero nel caso di specie (il che si nega), il Governo avrebbe comunque dovuto procedere secondo i canoni costituzionali di lealtà e cooperazione che, nel caso di specie, trattandosi di un intervento statale privo dei caratteri di normativa di principio in un ambito materiale di potestà legislativa concorrente, può realizzarsi solo attraverso «una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverossia le intese che devono essere condotte in base al principio di lealta» (Corte cost. 1° ottobre 2003, n. 303 cit.).
2. – Violazione dell’art. 77 Cost. anche in relazione alla legge 23 agosto 1988, n. 400, art. 15 e al d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, in particolare art. 2. Ulteriore violazione degli artt. 117, 127 della costituzione. Violazione del principio di ragionevolezza. Violazione del principio di leale cooperazione.
L’intervento attraverso la decretazione d’urgenza è illegittimo in quanto adottato in carenza dei presupposti costituzionali di necessità e urgenza, ed in tale direzione vale anche il raffronto fra i motivi individuati nell’epigrafe a fondamento dell’intervento ex art. 77 Cost. («favorire lo sviluppo economico e la correzione dell’andamento dei conti pubblici») e la indicata finalità della disciplina di condono («consentire l’adeguamento della disciplina regionale ai principi contenuti nel t.u. in materia edilizia»).
2.1 – Si deve premettere che la regione può prospettare tale vizio anche perchè l’interesse a ricorrere regionale «qualificato dalla finalità di ripristinare l’integrità della sfera di competenza violata» ha subito significative aperture.
Difatti, dalla ammissibilità di motivi fondati solo sulla violazione diretta delle norme costituzionali relative alla delimitazione delle sfere di competenza in senso stretto, alla stregua di una applicazione rigorosa dell’art. 2 legge cost. n. 1/48, si è pervenuti alla successiva precisazione che anche le censure «relative a differenti parametri costituzionali, posti al di fuori del Titolo V della Costituzione, sono ammissibili, se da quella violazione deriva, comunque, una lesione delle competenze suddette (cfr. sent. nn. 303/2003; 9-10 marzo 1988, n. 302; 2 marzo 1987, n. 64; 11 ottobre 1983, n. 307; 307/1993).
Di grande interesse ricordare che con riferimento a parametri ulteriori «in astratto simili censure da parte della regione in sede di impugnazione diretta sono ammissibili, sempre che si tratti di principi o criteri volti a salvaguardare le competenze regionali» (sent. 22 maggio 1987, n. 183), in quanto «in via di principio non può escludersi che una lesione delle attribuzioni regionali possa conseguire dalla violazione di precetti costituzionali collocati al di fuori del titolo quinto della Costituzione» (sent. n. 302/1988 cit.), laddove tale censura sia comunque finalizzata alla «tutela di una propria competenza che si assume violata» (sent. n. 302/1988 cit.) o vanifichi l’esercizio di competenze costituzionalmente garantite (sent. n. 302/1988 cit.).
Questa linea interpretativa comporta la sussistenza dell’interesse a ricorrere quando vi siano lesioni alle funzioni di competenza regionale connesse alle modalità di esercizio della potestà legislativa statale (a prescindere dalla qualificazione della materia su cui lo Stato interviene).
In sostanza si segnala un percorso nella giurisprudenza costituzionale che, già nel vigore del precedente regime, aveva ampliato la possibilità dell’impugnativa regionale sia pure nei limiti di un contesto costituzionale strutturato nel controllo preventivo della legge regionale da parte del Governo.
Tale impostazione deve ritenersi rafforzata dal nuovo assetto delineato dalla legge di revisione del Titolo V Cost., e la regione deve poter prospettare tutti quei vizi della legge statale che, pur non configurando una invasione diretta della competenza regionale (che, nel caso di specie, è palese), si risolvano tuttavia in una menomazione delle competenze stesse per illegittimità dell’atto statale.
Alla luce di un tale quadro ricostruttivo dei rapporti fra la legge statale e la legge regionale e delle possibilità di tutela offerte, vi è, ancor di più, lo spazio per la proposizione di vizi ulteriori.
2.2. – La doglianza qui avanzata sulla assenza dei presupposti costituzionali per l’emanazione del decreto-legge, oltre a proporre di per sè una illegittimità, esprime un vizio per una ulteriore compressione delle prerogative delle regioni, laddove, in una materia comunque di competenza regionale (sia essa esclusiva o concorrente), il legislatore nazionale interviene in modo da impedire ogni partecipazione degli enti territoriali sia nella fase decisionale, che in quella attuativa. Questi ultimi devono, così, subire gli effetti immediati di un provvedimento legislativo adottato in assenza di tutte le garanzie, volte a individuare con maggior ponderazione il necessario contemperamento degli opposti interessi in gioco, che non può essere recuperato nel tempo strettamente necessario alla conversione.
Si ricorda che il d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, art. 2, comma 3, ha disposto che, nelle materie di competenza regionale, sia «obbligatoriamente» sentita la Conferenza Stato-regioni e che tale obbligo possa essere derogato solo in caso di urgenza (comma 4), rinviando la consultazione in sede di esame delle leggi di conversione dei decreti-legge (comma 5). Ne consegue che, nel momento in cui il Governo ha ritenuto di agire attraverso lo strumento normativo di cui all’art. 77 Cost. in assenza dei presupposti costituzionali, ha illegittimamente leso la sfera di competenza garantita alle regioni.
In tal senso anche l’eccepita violazione del principio costituzionale di leale cooperazione.
Il decreto, inoltre, è privo dei requisiti di omogeneità, essendo la previsione inserita in un intervento molto ampio volto, non a riordinare la normativa di settore, ma a sanare i conti pubblici attraverso anche la compressione di prerogative regionali. Ed anche questo elemento è in insanabile antitesi con il ruolo da assegnare ai principi.
3. – Violazione degli articoli 3, 9, 119, 117, 118 e 127 della Costituzione. Violazione del principio di ragionevolezza. Violazione del principio di leale cooperazione. Violazione del giudicato costituzionale in pari sentenze nn. 416/1995, 427/1995, 369/1988, 302/1988 e 231/1993.
La normativa è, inoltre, viziata per irragionevolezza sotto molteplici aspetti.
Aiuta a dimostrarlo la giurisprudenza costituzionale cui all’inizio si è fatto riferimento.
3.a – Il comma 2, dell’art. 32, come detto, reca una sorta di motivazione a sostegno dell’intervento giacchè prevede che «la normativa è disposta nelle more dell’adeguamento della disciplina regionale ai principi contenuti nel testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 …».
In realtà, però, non vi è stata alcuna innovazione normativa nel settore (il testo unico n. 380/2001, tra l’altro, non ha modificato l’impianto normativo complessivo in materia) e, in ogni caso, pur laddove vi fosse stata, sì applicherebbero comunque i nuovi principi in attesa della loro attuazione. Ma soprattutto, non sì riesce in alcun modo a comprendere in qual maniera si possa collegare questa terza sanatoria edilizia con una eventuale, già intervenuta, modifica legislativa di settore. E quale sia il rapporto fra questa disciplina e la successiva di livello regionale.
Sotto questo punto di vista si evidenzia una palese irragionevolezza della normativa che è del tutto incoerente rispetto alle finalità dichiarate.
In verità, come dimostrato anche dai contenuti e dal titolo dell’intero decreto in cui la disposizione è inserita, il previsto condono ha lo scopo, esclusivo di recuperare gettito all’erario. Persegue, cioè, una reale finalità diversa da quella dichiarata. E per ottenere tale risultato invade gli ambiti dello competenza regionale.
Sotto tale profilo, il decreto è, però, ulteriormente viziato perchè irragionevole anche rispetto agli scopi di carattere economico (che comunque non possono giustificare nè l’invasione di competenza, nè i danni arrecati al territorio), in quanto non tiene conto degli effetti ulteriori e deleteri che tali previsioni comportano anche solo in termini economici per gli enti territoriali. Questi ultimi, infatti, dovranno far fronte a spese per l’urbanizzazione e il recupero ambientale che gli oneri di urbanizzazione, a carico di coloro che si avvantaggeranno della sanatoria, non copriranno se non in maniera del tutto limitata.
Insomma, pur se non si volesse considerare come vizio la dedotta difformità tra il fine reale e quello dichiarato e volendo limitare la valutazione al solo aspetto economico, la normativa si mostra comunque viziata nel fine in quanto non in grado di raggiungerlo.
Anzi, proprio sul piano finanziario, si rinvengono ulteriori elementi di vizio per l’illegittima compressione dell’autonomia finanziaria regionale garantita dal novellato art. 119 Cost.: attraverso il meccanismo contemplato dalla normativa impugnata si toglie in termini economici alle autonomie locali (attesa la necessità da parte delle stesse di sopportare i costi prima indicati) più di quanto non intenda recuperare l’erario. In tal modo, si impone, fra l’altro, agli enti territoriali l’impegno di somme per determinate finalità piuttosto che per altre ovvero la necessità di recuperare entrate ulteriori per far fronte alle nuove spese.
3.b – Ancora, va eccepita, in uno con il costo in termini di legalità, l’ulteriore illegittimità perchè si determina la vanificazione degli interventi di programmazione e controllo locale.
Il condono edilizio, infatti, si caratterizza in quanto, come osservato da codesta ecc.ma Corte, la possibilità di tali sanatorie comporta «effetti permanenti, di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l’ordine giuridico violato» (Corte costituzionale 21-28 luglio 1995, n. 416). incidendo su beni – il territorio e l’ambiente – che costituiscono risorse limitate, rendendo irreversibili le conseguenze del danno e compromettendo la corretta gestione e programmazione del territorio affidate alla regione.
In tal senso, come e noto, il giudice costituzionale aveva giustificato, pur nell’ambito di un diverso quadro costituzionale dei rapporti Stato-regione, meccanismi di sanatoria, solo se ancorati a rigorosi presupposti. Questi ultimi sono assenti nel caso in esame.
Come la Corte costituzionale ha chiarito, si è trattato, infatti, di «norme del tutto eccezionali» connesse a ragioni «contingenti e straordinarie» (sent. 28 luglio 1995, n. 416), che hanno attribuito al regime di sanatoria il carattere episodico e delimitato temporaneamente.
Con la sentenza del 28 luglio 1995, n. 416 la Corte ha chiaramente affermato che, laddove vi fosse stato un «ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio…., differenti sarebbero i risultati della valutazione sul piano della ragione volezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma (“con le peculiari caratteristiche della singolarità ed ulteriore irripetibilita) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo delle esigenze di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilità in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l’uomo» e ha rilevato ancora che «la gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono sanatoria con conseguente convinzione di impunità …» (cfr anche sentenze nn. 427/1995; 369/1988; 302/1988; 231/1993);
La legalizzazione ex post di vere e proprie azioni antigiuridiche determina (come già in passato) l’aspettativa di ulteriori provvedimenti premiali.
Sotto tale profilo, fra l’altro, le pregresse esperienze offrono elementi di giudizio anche sul piano degli effetti pratici dell’intervento.
La Corte costituzionale ha affermato in passato, per consentire sulla non illegittimità della «eccezionale» sanatoria statale, che la diffusione del fenomeno dell’abusivismo edilizio va addebitata almeno in parte alla scarsa incisività e tempestività dell’azione di controllo e repressione da parte delle amministrazioni locali e regionali preposte (Corte cost., 23 luglio 1996, n. 302; 18 luglio 1996, n. 256). Di qui una sorta di «azzeramento» delle posizioni sulla base del condono.
Ebbene, proprio sul punto, sulla scorta delle precedenti esperienze, si può rilevare che i passati interventi di condono hanno inciso sulla relazione centro-periferia, delegittimando il ruolo delle autorità locali che, con sempre maggiore determinazione, hanno dovuto impegnarsi per arginare il fenomeno e recuperare il rapporto corretto con i cittadini, rafforzando i controlli e programmando la gestione del territorio.
In tale direzione si segnala, soprattutto alla stregua della riforma costituzionale introdotta dalla legge costituzionale n. 3/2001, un notevole impegno normativo e amministrativo delle autonomie locali; in particolare, per quanto qui da vicino ci riguarda, della Regione Campania che si sta adoperando per un’efficace politica territoriale che sarebbe del tutto compromessa dalla normativa impugnata.
Questa sanatoria (basata soltanto su esigenze di incasso che, in quanto tali, sono sempre verificabili in futuro) vanificherebbe lo sforzo delle amministrazioni in tal senso, frustrando, nel contempo, i comportamenti legali dei soggetti privati.
In definitiva, la Corte costituzionale, nel respingere i ricorsi promossi avverso il condono edilizio del 1994, ha prospettato una linea interpretativa attraverso sentenze «monito», che ha creato uno sbarramento insuperabile perchè il legislatore è stato avvertito che proprio per la eccezionalità della circostanza, tale strada non sarebbe stata più percorribile e, conseguentemente, considerata legittima dalla Consulta, atteso anche il costo che ne sarebbe derivato sul piano della legalità e dell’efficace controllo del territorio.
3c. – La disciplina impugnata non sfugge ad una ulteriore censura di illegittimità costituzionale. È evidente il contrasto di un condono generale con l’art. 9 della Costituzione che pone quale compito della Repubblica, quello di tutela del paesaggio e del patrimonio artistico della Nazione e ancora dell’art. 117, terzo comma che attribuisce alla regione la competenza legislativa relativa alla valorizzazione dei beni ambientali.
Ed invero lo stesso termine adoperato dal Costituente nell’art. 9 (Repubblica) costituisce riprova di un impegno, nella direzione indicata dalla norma costituzionale, imposto all’intera organizzazione quale oggi risulta dall’art. 114 Cost. novellato, ricomprendendovi l’articolazione territoriale.
Proprio questa notazione si mostra idonea ad evidenziare ulteriormente la ricaduta del vizio di legittimità dedotto sulle competenze regionali, in quanto tale violazione si connette, fra l’altro, a precise lesioni «dell’ordine delle competenze costituzionalmente stabilito in vista dell’attuazione della predetta tutela» (sent. n. 302/1988 cit.).
Tale «illegittimo uso» del potere legislativo da parte dello Stato, comunque si voglia qualificare la materia oggetto della disciplina censurata, incide in ogni caso sul governo del territorio in quanto certamente inibisce scelte diverse di pianificazione e di uso del territorio medesimo.
Ed ancora, consolidando situazioni illegali in aree così estese, comprime la competenza della regione nella «valorizzazione dei beni ambientali», impedendo strategie complessive tese a scelte di recupero ambientale e vanificando la regolazione regionale: risulta violato così «il principio costituzionale di concorrenza e cooperazione delle competenze statali e di quelle regionali nella tutela del paesaggio» (sent. n. 302/1988 cit.).
Istanza ai sensi degli articoli 35 e 40 della legge n. 87/1953;
Si produce istanza a codesta ecc.ma Corte affinchè valuti il ricorrere dei presupposti per la sospensione dell’atto impugnato alla luce delle recenti modifiche apportate dalla legge 5 giugno 2003, n. 131 alla legge n. 87/1953, in part. artt. 35 e 40.
L’esperienza di passati condoni ha insegnato che simili provvedimenti legislativi, producendo nella società una notevole aspettativa di sanatoria, inevitabilmente determinano un aumento vertiginoso, nel periodo successivo alla previsione e fino al termine per la proposizione della domanda di condono, dei fenomeni di abusivismo. In tal senso vi è, dunque, quel rischio di ulteriore irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico connesso alla salvaguardia dell’ambiente e alla ordinata programmazione e pianificazione urbanistica affidata alla regione.
L’eventuale sospensione degli effetti del decreto-legge, nel mentre non si comporterebbe alcuna conseguenza di danno, anche per l’assenza dei presupposti di necessità ed urgenza, costituirebbe un efficace baluardo per impedire ulteriori compromissioni del territorio fino alla decisione nel merito dell’ecc.ma Corte.
P. Q. M.
Si conclude affinchè l’ecc.ma Corte costituzionale voglia, in accoglimento del presente ricorso, dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, nei termini indicati, per violazione degli articoli 3, 9, 77, 114, 117, 118, 119 e 127 Cost. dei principi di ragionevolezza e di leale cooperazione fra Stato e regione e per lesione della sfera di competenza della regione.
Napoli-Roma, addì 7 ottobre 2003
Prof.Avv. Cocozza – Avv. Baroni