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La qualifica dirigenziale non implica un diritto soggettivo alla conservazione di un determinato incarico
In tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico.
Lo afferma la Corte di Cassazione, sezione lavoro, con ordinanza n. 11891, pubblicata il 18 giugno 2020.
Il caso
Una dirigente di Ente Locale (Comune) agiva in giudizio, lamentando verso il proprio ente datore di lavoro atteggiamento vessatorio, costituito da demansionamento e note personali negative, con conseguente decremento della retribuzione e insorgenza di stato depressivo. Il Tribunale adito respingeva la domanda; e così pure la Corte d’Appello, decidendo il gravame proposto dalla dirigente. Che ricorreva così in Cassazione.
Diritto soggettivo e interesse legittimo
Le doglianze della ricorrente prendono spunto dal conferimento, alla cessazione di un incarico dirigenziale di struttura, di incarico “in staff” presso la Direzione Generale dell’ente. Questo conferimento avrebbe dato luogo, a detta della ricorrente, ad un demansionamento illegittimo. Ma la Suprema Corte non condivide la prospettazione.
Affermano prima di tutto gli Ermellini, che in materia di conferimento di incarichi dirigenziali pubblici si configurano due distinti situazioni: l’una derivante dalla anticipata cessazione dell’incarico conferito, che dà luogo ad un vero e proprio diritto soggettivo all’ottenimento della reintegrazione ed al risarcimento conseguente. L’altra situazione si verifica ove, alla scadenza naturale dell’incarico, non venga conferito immotivatamente un altro incarico; in questa situazione sorge un interesse legittimo di diritto privato che non legittima il dirigente a pretendere l’attribuzione dell’incarico, ma unicamente il ristoro dei danni subiti dall’eventuale ingiusto comportamento della pubblica amministrazione.
L’incarico dirigenziale in staff
Fatta questa premessa, il Supremo Collegio ribadisce un principio già più volte affermato circa la portata della qualifica dirigenziale pubblica. Il sistema normativo del lavoro pubblico dirigenziale negli enti locali (trasfuso da ultimo nell’art. 109 d.lg. n. 267 del 2000), nell’escludere la configurabilità di un diritto soggettivo a conservare in ogni caso determinate tipologie di incarico dirigenziale (ancorché corrispondenti all’incarico assunto a seguito di concorso specificatamente indetto per determinati posti di lavoro e anteriormente alla cosiddetta “privatizzazione”), conferma peraltro il principio generale che, nel lavoro pubblico, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo, e non consente perciò, anche in difetto dell’espressa previsione di cui all’art. 19 d.lg. n. 165 del 2001 stabilita per le amministrazioni statali, di ritenere applicabile l’art. 2103 c.c., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico locale, con la sola eccezione del dirigente tecnico. E’ pur vero, afferma la Corte di legittimità, che si è affermata l’applicabilità dell’art. 2103 c.c. alla dirigenza tecnica, ma, l’eccezione va interpretata in senso stretto, ossia nel senso che il dirigente tecnico, il cui incarico è soggetto ai principi della temporaneità e della rotazione, deve comunque svolgere mansioni tecniche. Posto, infatti, che il legislatore ha inteso dare uniformità al settore del rapporto “privatizzato” con riferimento a tutte le Pubbliche Amministrazioni, ragionando diversamente non sarebbe ipotizzabile quella temporaneità degli incarichi dirigenziali di cui si è fatto cenno.
Corretta dunque appare la motivazione portata dalla corte territoriale alla propria decisione, ove, applicando correttamente i principi di diritto richiamati dalla Cassazione, è stato escluso il lamentato demansionamento. Il conferimento dell’incarico dirigenziale di studio, una volta venuto a cessare il precedente incarico dirigenziale di struttura, è stato adottato in conformità del dettato dell’articolo 19, comma 10, del D. lgs. n. 165 del 2001, che così recita: “I dirigenti ai quali non sia affidata la titolarità di uffici dirigenziali svolgono, su richiesta degli organi di vertice delle amministrazioni che ne abbiano interesse, funzioni ispettive, di consulenza, studio e ricerca o altri incarichi specifici previsti dall’ordinamento, ivi compresi quelli presso i collegi di revisione degli enti pubblici in rappresentanza di amministrazioni ministeriali”.
La perdita della retribuzione di posizione non costituisce danno
Dai principi sopra esaminati, deriva inoltre che non potrà essere considerata danno risarcibile la perdita della voce retributiva di posizione, poiché non configurandosi demansionamento nel conferimento di incarico di studio anziché di direzione di struttura, nemmeno potrà parlarsi di diritto alla corresponsione dell’indennità predetta.
Né infine coglie nel segno la doglianza circa le lamentate note negative del datore di lavoro. E’ emerso in giudizio che le valutazioni sfavorevoli fossero legate non tanto alle capacità nello svolgimento dell’incarico conferito, bensì alla totale insoddisfazione della dirigente per il ruolo assegnatole, con conseguente ridotta disponibilità verso l’ente, rigidità di applicazione dell’orario di lavoro, assenze ripetute.
Il ricorso proposto è stato dunque considerato nel suo complesso infondato e conseguentemente rigettato.
Avv. Roberto Dulio