Civile

Monday 26 September 2005

La penale eccessiva può essere ridotta d’ ufficio dal giudice. Cassazione – Sezioni unite civile – 23 giugno-13 settembre 2005, n. 18128

La penale eccessiva può essere ridotta d’ufficio dal giudice.

Cassazione – Sezioni unite civile –
23 giugno-13 settembre 2005, n. 18128

Presidente Carbone – relatore Lo Piero

Svolgimento del processo

Il condominio di Via Ischia di
Castro, in Roma, convenne in giudizio, davanti al Giudice di pace, il condomino
Gaetano Sidoti e ne chiese la condanna al pagamento
della somma di lire 3.562.355,
a titolo di sanzione pecuniaria, dovuta, in base agli artt 18 e 23 del regolamento condominiale, per il mancato
pagamento di lire 1.045.281, dovute per spese di condominio.

Il Sidoti
chiese il rigetto della domanda, sostenendo che le. clausole
del regolamento comportavano l’obbligo di corrispondere un interesse usurario
per il ritardato pagamento dei ratei relativi alle spese condominiali e, in via
riconvenzionale, chiese che dette clausole fossero
dichiarate nulle.

Il Giudice di pace accolse la
domanda, osservando che le nonne del regolamento erano legittime ed erano state
liberamente accettate dal Sidoti.

Questi propose appello insistendo
perché fossero dichiarate nulle le norme del regolamento ai sensi dell’articolo
1815, secondo comma, cod. civ.,
applicabile in tutte «le convenzioni di interessi» e «quindi anche in quelle
contenute in un regolamento condominiale di natura contrattuale». Chiese anche
che le suddette clausole fosse­ro dichiarate nulle,
perché prevedevano che la sanzione fosse applicata per il mancato pagamento dei
ratei entro venti giorni dall’approvazione del bilancio preventivo senza una formale
messa in mora.

Il condominio non si costituì in
giudizio.

Il Tribunale di Roma respinse
l’appello, osservando:

‑ che alla fattispecie in esame non era applicabile il
disposto del secondo comma dell’articolo 1815 cod. civ. perché le
somme dovute dal condomino, per il caso di ritardo nell’adempimento
dell’obbligo dì corrispondere i ratei condominiali, non erano interessi
pattuiti per la ritardata restituzione di un prestito di denaro, ma erano
oggetto di una penale, contenuta nel regolamento di natura contrattuale
debi­tamente trascritto, con la quale era pattiziamente
determinato, il risarcimento dovuto in caso di inadempimento o ritardo
nell’adempi­mento;

‑ che
la penale sarebbe potuta essere diminuita dal giudice ove il condomino ne avesse fatto richiesta, non potendo il giudice provvedere
d’ufficio;

‑ che
non era necessaria, al fine della decorrenza dell’obbligo del pagamento della somme dovute a titolo di penale, la messa in mora dei
condomino, poiché era lo stesso regolamento di condominio a prevedere la mora
ex re e che tale previsione era conforme al disposto dell’articolo 1219,
secondo comma, cod, civ.

Gaetano Sidoti
ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta sentenza.

Il condominio intimato non ha svolto
attività difensiva.

La causa è stata assegnata alla
seconda sezione civile di questa Corte, che, con ordinanza dei 30 marzo 2004,
ha trasmesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alla sezioni u­nite, avendo ravvisato l’esistenza di un
contrasto, all’interno delle sezioni semplici, in ordine al potere del giudice
di ridurre d’ufficio la penale ai sensi dell’articolo 1384 cod. civ. (questione dedotta con il primo motivo del ricorso).

Il Primo Presidente ha assegnato la
causa alle sezioni unite per la risoluzione del contrasto.

Motivi della decisione

1 All’esame dei motivi occorre
premettere che il Tribunale ha qualificato come clausola penale la sanzione
prevista, negli articoli 18 e 23 nel regolamento di natura contrattuale, a
carico dei condomini inadempienti nel pagamento dei contributi dovuti.

Tale qualificazione non è posta in
discussione dalle parti ed anzi il ricorrente su detta qualificazione poggia il
motivo di ricorso, con il quale denuncia come erronea la decisione del giudice
di meri­to nella parte in cui ha negato che il giudice possa ridurre d’ufficio
la penale.

Pertanto, il ricorso deve essere
esaminato da questa Corte sul­la base di tale avvenuta
qualificazione.

2. E’ preliminare l’esame del secondo
motivo, perché con esso si deduce la nullità della
clausola penale, cosicché se la censura fos­se fondata cadrebbe la necessità di
esaminare il primo motivo, con il quale la sentenza impugnata è censurata, invece,
per avere negato il potere del giudice di ridurre la penale in assenza di una
richiesta di parte.

3. Con il secondo motivo si denuncìa: Violazione ed erronea
applicazione dell’articolo 1815, secondo comma, cod. civ. e difetto di motivazione in relazione all’articolo 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.

Si deduce che ‑ non
contestata l’usurarietà dei tasso
di interesse previsto nella penale ‑ «la c.d. funzione calmieratrice prevista dall’articolo 1815 cod. civ., come modificato dalla legge 7 marzo 1996 n. 108,
trova applicazione sempre, allorquando ricorra nel contratto un vantaggio
usurario, quale che sia il rapporto obbligatorio sotto­stante, creandosi in
caso contrario una indebita sperequazione nel trattamento delle clausole penali
e delle clausole fissanti tassi di in­teressi moratori, che altro non sono che
una sanzione per il mancato pagamento nei tempi stabiliti della obbligazione
pecuniaria».

4. La censura è infondata.

Il ricorrente, sostanzialmente,
invoca l’applicazione dei criteri fissati dalla legge 7 marzo 1996 n. 108 per
attribuire carattere usu­rario alla somma dovuta in forza della penale
pattuita.

Senonché ‑ a prescindere da ogni altro rilievo
in ordine alla esattezza o meno della tesi prospettata ‑ il
ricorrente non considera che i criteri fissati dalla legge n. 108 dei 1996, per
la determinazio­ne del carattere usurario degli interessi, non trovano
applicazione con riguardo alle pattuizíoni anteriori
all’entrata in vigore della stes­sa legge, come emerge dalla norma di
interpretazione autentica con­tenuta nell’articolo 1, primo comma, d.l. 29
dicembre 2000 n. 394 (con­vertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio
2001 n. 24), nonna riconosciuta non in contrasto con la Costituzione con
sentenza n. 29 del 2002 Corte cost. (principio ripetutamente affermato da
questa Corte: v., tra le più recenti, Cass. 25 marzo 2003 n. 4380; Cass. 13
dicembre 2002 n. 17813; Cass. 24 settembre 2002 n. 13 868).

Ora poiché, come è
pacifico, la convenzione alla quale il ri­corrente attribuisce natura usuraria,
è anteriore alla entrata in vigore della legge 7 marzo 1996 n. 108, già per
questa sola ragione la sua disciplina non le si può applicare e pertanto appare
superfluo l’esa­me del problema relativo alla trasponibilità
della disciplina dell’articolo 1815 cod. civ. ad una
clausola, come quella oggetto della presente controversia, che trae origine da
un rapporto in cui non è identifica­bile una causa di finanziamento.

5. Con il primo motivo dei ricorso si denuncia. violazione
ed erronea applicazione degli articoli 1382 e 1384, cod. civ. ‑
Difetto dì motivazione. Il tutto in relazione all’articolo
360 nn. 3 e 5 cod. proc.

civ. Si deduce l’erroneità dell’assunto
del Tribunale in ordine alla ritenuta non ríducibilità
d’ufficio della penale e si richiama a soste­gno della censura la sentenza n.
10511199 di questa Corte.

6. La censura pone il problema se il
potere di ridurre la pena­le, conferito al giudice
dall’articolo 1384 cod. civ., possa essere esercitato
d’ufficio ovvero se sia necessaria la domanda o la eccezione della parte tenuta
al pagamento.

6.1. Il dato normativo, come detto, è
costituito dall’articolo 1384 cod. civ. secondo cui
«La penale può essere diminuita equamente dal giudice, se l’obbligazione
principale è stata eseguita in parte ov­vero se
l’ammontare della penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo
all’interesse che il creditore aveva all’adempimento».

6.2. Fin dall’entrata in vigore del codìce civile del 1942, la giurisprudenza della Corte di
Cassazione è stata concorde nell’af­fermare che il potere dei
giudice di ridurre la penale non può essere esercitato d’ufficio, pur manìfestando nell’ambito dì questo orienta­mento, notevoli
oscillazioni in ordine al modo ed ai tempi in cui le parti avrebbero dovuto
esercitare il loro riconosciuto dovere di sol­lecitare la pronuncia del
giudice, giungendo, in taluni casi, ma con affermazíone
poi superata dalla successiva prevalente giurispruden­za, a ritenere che la
richiesta di riduzìone della penale dovesse
rite­nersi implicita nell’affermazione di nulla dovere a tale titolo.

Tale orientamento è stato, tuttavia,
posto in discussione dalla sentenza n. 105 11/99 di questa Corte, la quale ha,
invece, ritenuto che la penale possa essere ridotta dal giudice anche
d’ufficio.

Questo nuovo orientamento non ha però
trovato seguito nella successiva giurisprudenza della Corte, che (fatta
eccezione per la sentenza n. 8188103 che ad esso si è
adeguata) ha ribadito l’orien­tamento tradizionale, con le sentenze n. 5324/03,
n. 8813103, n. 5691102, n. 14172100.

6.3. Queste sezioni unite, chiamate a
risolvere il richiamato contrasto, ritengono di dover confermare il principio
affermato dal­la sentenza n. 10511199, cui sì è
adeguata la sentenza n. 8188/03.

6.4 Non vi è dubbio che la svolta
operata dalla sentenza n. 105 11199 è stata
influenzata da due concorrenti elementi.

Il primo relativo al riscontro nella
giurisprudenza, che fino ad allora aveva negato il
potere del giudice di ridurre d’ufficio la pena­le, di taluni cedimenti,
individuati nel fatto che, in alcune delle pro­nunzie, l’ossequio al principio
tradizionale appariva solo formale, poiché si giungeva talvolta a ritenere la
domanda di riduzione im­plicita nell’assunto della parte di nulla dovere a
titolo di penale ov­vero l’eccezione relativa proponibile in appello.

Il secondo fondato sull’osservazione
che l’esegesi tradizionale non appariva più adeguata alla luce di una rilettura
degli istituti co­distici in senso conformativo ai precetti superiori della Costituzione, indivìduati nel dovere di solidarietà nei rapporti
intersoggettivi (articolo 2 Cost.), nell’esistenza di un principio di inesìgibilità come limite alle
pretese creditorie (C. cost. n.
19/94), da valutare insieme ai canoni generali di buona fede oggettiva e di
correttezza (articoli 1175, 1337, 1359, 1366, 1375 cod. civ.).

6.5. Quanto al primo elemento sopra
ricordato, non v’è dub­bio che le variegate posizioni assunte dalla
giurisprudenza, in ordi­ne ai tempi ed ai modi in cui
la richiesta di riduzione della penale debba avvenire ed alle ragioni per le
quali la stessa possa essere ri­chiesta, denotano quanto meno una debolezza dei
fondamenti giuri­dici sui quali si basa la tesi della non riducìbilità
d’ufficio della pe­nale, nonché una implicita contraddittorietà, individuabile
specie in quelle pronunce le quali affermano che la nonna dell’art 1384 cod.
civ. ‑ che attribuisce al giudice il potere di diminuire equamente
la penale ‑ non ha la funzione dì proteggere il contraente economica­mente più debole dallo strapotere
del più forte, bensi mira alla tutela e
ricostituzione dell’equilibrio contrattuale, evitando che da un ina­dempimento
parziale o, comunque, di importanza non enorme, pos­sano derivare conseguenze
troppo gravi per l’inadempiente (v. Cass. 6 aprile 1978 n. 1574), ovvero
ritengono che la riduzione della pe­nale, per effetto di parziale adempimento
dell’obbligazíone, a nonna dell’articolo 1384 cod. cív., non integra un diritto del
debitore, ma è ri­messa all’equa valutazione dei giudice, in relazione
all’interesse dei creditore al tempestivo ed integrale adempimento (v. Cass. 7
luglio 1981 n. 4425).

6.6. Quanto al
secondo elemento non può che condividersi la necessità di una lettura della
norma di cui all’articolo 1384 cod. civ. che
meglio rispecchi l’esigenza di tutela di un interesse oggettivo
dell’ordinamento alla luce dei principi costituzionali richiamati.

6.7. Naturalmente
una lettura di questo tipo, consentita dal fatto che l’articolo 1384 cod. civ.
non contiene alcun riferimento ad un’iniziativa della
parte rivolta a sollecitare l’esercizio del potere di riduzione da parte del
giudice, non può prescindere dalla necessità di sottoporre a vaglio le
argomentazioni addotte dalla giurispruden­za che ritiene necessaria quella
iniziativa e di verificare nel contem­po se sussistano altre ragioni, che
consentano quella lettura della nonna adeguata ai principi costituzionali posti
bene in luce dalla sentenza n. 105 11/99.

6.8. Gli argomenti addotti dalla
giurisprudenza che nega il potere del giudice di ridurre d’ufficio
la penale sono principalmente tre.

6.8.1. Il primo argomento si fonda
sul principio generale, al quale l’articolo 1384 cod. civ. non
derogherebbe, secondo cui il giudice non può pronunciare se non nei limiti
delle domanda e delle eccezioni proposte dalle parti.

Senonché questo argomento non appare decisivo
e sembra fondarsi sull’assunto della esistenza di un fatto che è, invece, da
di­mostrare.

Occorre partire dal testo
dell’articolo 112 cod. proc. civ., secondo cui “Il giudice deve pronunciare su
tutta la domanda e non oltre i limiti di essa; e non può pronunciare d’ufficio
su eccezioni, che possono essere proposte soltanto dalle parti».

Ora, il giudice che riduca
l’ammontare della penale, al cuì pagamento il
creditore ha chiesto che il debitore sia condannato,
non viola in alcun modo la prima proposizione del richiamato articolo 112 cod. proc. civ.,
atteso che il limite postogli dalla norma è, in linea generale, che egli non
può condannare il debitore ad una somma superiore a quella richiesta, mentre
può condannarlo al pagamento di una somma inferiore.

Ma l’articolo 112 cod. proc. civ. dispone anche che il
giudice non puo pronunciare d’ufficio su eccezioni
che possono essere proposte soltanto dalle parti.

La norma lascia intendere che vi
sono, oltre alle eccezioni proponibili soltanto dalle parti, anche eccezioni che non lo sono e, in quanto tali, rilevabili
d’ufficio.

Se così è, allora, il problema della
riducibilità della penale non è risolto dall’articolo 112 cod. proc. civ.,
ma dalla risposta al quesito se la riduzione della penale sia oggetto di una
eccezione che può es­sere proposta soltanto dalla parte.

Nel codice civile sono espressamente
individuate varie ipote­si di eccezioni proponibili
soltanto dalla parte; in via esemplificativa: art. 1242, primo comma. cod. civ. ‑ eccezione di compensazione; articolo
1442, comma quarto, cod. civ. ‑ eccezione di annullabilità
del contratto, quando è prescritta l’azione; art 1449, secondo com­ma, cod.
civ. ‑ eccezione di rescindibilità
del contratto, quando l’azione è prescritta; articolo 1460, primo comma, cod. cív. ‑ eccezione di inadempimento;
articolo 1495, terzo comma, cod. civ. ‑
eccezione di ga­ranzia, nella vendita, anche se è prescritta l’azione; articolo
1667, terzo comma, cod. civ. ‑ eccezione di garanzia, nell’appalto ‑
anche se l’azione è prescritta; arL
1944, secondo comma, cod. cív. ‑
eccezio­ne di escussione da parte del fideiussore;
articolo 1947, primo comma, cod. cív. ‑
beneficio della divisione nella fideiussione; articolo 2938 cod. civ. ‑ eccezione di prescrizione; art 2969 cod. civ. ‑ eccezione di decadenza, «salvo che, ‑trattandosi
di materia sottratta alla dispo­nibilítà delle parti,
il giudice debba rilevare le cause d’improponibilità dell’azione».

L’articolo 1384 cod. civ., al contrario delle ipotesi
sopra indicate, non fa alcuna menzione della necessità della eccezione della
parte o, quantomeno, della necessità che il giudice debba essere sollecitato ad
esercitare il potere di riduzione della penale conferitogli dalla legge.

Il silenzio della nonna sul punto non
depone certamente a fa­vore della tesi secondo cui la riduzione della penale debba essere chiesta dalla parte, ma fa propendere, se mai,
a favore della tesi contraria, specie se si guardi ad altre previsioni del codìce civile nelle quali l’intervento del giudice è visto
in funzione correttiva del­la volontà manifestata dalle parti. (v. Cass. sez. un. 17 maggio 1996
n. 4570, che espressamente parla di «funzione correttiva» del giudi­ce, non
solo nell’ipotesi della riduzione della penale manifestamente eccessiva
(articolo 1384 cod. civ.), ma anche nei casi di riduzione dell’indennità dovuta
per la risoluzione della vendita con riserva di proprietà (articolo 1526 cod.
civ.) e di riduzione della posta di giuoco eccessiva
(articolo 1934 cod. civ.).

6.8.2. Il secondo argomento addotto è
che la riduzione della penale fissata dalle parti è prevista dalla legge come
istituto a tutela degli specifici interessi del debitore, al quale quindi deve
essere ri­messa, nell’esercizio della difesa dei propri dirìtti,
ogni ìniziativa al riguardo ed ogni consequenziale
valutazione della eccessività della penale ovvero
della sua sopravvenuta onerosità, in relazione alla parte dì esecuzione che il
contratto ha avuto.

Anche questo argomento
si fonda su un dato non dimostrato e cioè che l’istituto della riduzione della
penale sia predisposto nell’in­teresse della parte debitrice.

Intanto una affermazione
di questo tipo appare contraddetta dall’osservazione che la penale «può» ma non
«deve» essere ridotta dal giudice, avuto riguardo all’ínteresse
che il creditore aveva all’adempimento; dal che si desume che non esiste un
diritto del debito­re alla riduzione della penale e che il criterio che il
giudice deve uti­lizzare per valutare se una penale sia eccessiva ha natura
oggettiva, atteso che non è previsto che il giudice debba tenere conto della
po­sizione soggettiva del debitore e del riflesso che sul suo patrimonio la
penale può avere, ma solo dello squilìbriò tra le
posizioni delle parti, mentre il riferimento all’interesse del credìtore ha la sola fun­zione di indicare lo strumento per
mezzo del quale valutare se la penale sia manifestamente eccessiva o meno.

Ne discende che, pur sostanziandosi
la riduzione della penale in un provvedimento che rende in
concreto meno onerosa la posi­zione del debitore e che deve essere
adottato tenuto conto dell’inte­resse che il creditore aveva all’adempimento,
il potere di riduzione appare attribuito al giudice non per la tutela
dell’interesse della par­te tenuta al pagamento della penale, ma, piuttosto, a
tutela di un in­teresse che lo t‑ascende.

Del resto il nostro ordinamento
conosce altri casi in cui l’in­tervento equitativo
del giudice pur risolvendosi in favore di una del­le
parti in contesa non è tuttavia predisposto specificamente per la tutela di un
suo interesse.

Si pensi all’ipotesi in cui una delle
parti abbia chiesto il risar­cimento del danno in
forma specìfica; il giudice, in questo caso, an­che
se l’esecuzione specifica sia possibile, ha tuttavia il potere di di­sporre che
il risarcimento avvenga per equivalente «se la reintegra­zione in forma
specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore» (articolo 2058 cod.
civ.).

t un potere che il giudice può
esercitare pacificamente d’uffi­cio avuta presente l’obiettiva difficoltà che
il debitore può incontra­re nell’eseguire la prestazione risarcitoria;
la difficoltà, appunto per­che obiettiva, non
riguarda però la situazione economica dei debito­re, ma piuttosto l’esecuzione
stessa della prestazione, ad esempio quando venga a mancare una proporzione tra
danno, costo ed utilità. L’onerosità per il debitore viene cioè
in rilievo come metro di giudi­zio perché il giudice possa effettuare la sua
valutazione e non come interesse tutelato dalla norma.

Si pensi ancora al potere attribuito
al giudice di liquidare il danno con valutazione equitativa
se lo stesso non può essere prova­to nel suo preciso ammontare (articolo 1.226
cod. civ.), pacificamente esercitatile
indipendentemente dalla richiesta delle parti.

Già, quindi, dall’esame
critico della giurisprudenza maggiori‑. taria, emergono elementi per affermare che il potere
di riduzione della penale è concesso dalla legge al giudice per fini che
prescin­dono dalla tutela dell’interesse della parte, che al pagamento della
penale sia tenuta per effetto del suo ínadempimento o
ritardato a­dempimento.

6.8.3. Il terzo argomento addotto
dalla giurisprudenza preva­lente è che il giudice, nell’esercizio dei poteri equítatíví diretti alla determinazione dell’oggetto
dell’obbligazione della clausola, non di­spone di altri
parwnetrí di giudizio che di quelli dati dai contrappo­stí interessi delle parti al fine esclusivo di
verificare se l’equilibrio raggiunto dalle parti stesse, nelle preventiva
determinazione delle conseguenze dell’inadempimento, sia equo o sia rimasto
tale.

Ma anche questo argomento
non appare decisivo ove si con­sideri che la mancata allegazione (o la
impossibilità di riscontri ne­gli atti acquisiti) della eccessività della
penale incide sul piano fat­tuale dell’accertamento
della sussistenza delle condizioni per la ri­duzione della penale medesima, ma
non sull’esercizio officioso del potere del giudice.

In proposito è sufficiente ricordare
ciò che accade in tema di nullità del contratto, che il giudice può dichiarare
d’ufficio purché risultino dagli atti i presupposti
della nullità medesima (Cass. n. 4062/87), senza che per l’accertamento della
nullità occorrano inda­gini di fatto per le quali
manchino gli elementi necessari (Cass. n. 1768/86, 4955/85, 985/81), e più di
recente Cass. n. 1552/04, se­condo cui «La rilevabilità d’ufficio della nullità di un contratto
pre­vista dall’articolo 1421 cod. civ. non
comporta che il giudice sia obbli­gato ad un accertamento d’ufficio in tal
senso, dovendo invece detta nullità risultare “ex actis”
ossia dal materiale probatorio legittima­mente acquisito al processo, essendo i
poteri officiosi dei giudice limitati al rilievo della nullità e non intesi
perciò ad esonerare la parte dall’onere probatorio gravante su di essa», nonché
da ultimo Cass. sez. un. 4 novembre 2004 n. 21095.

6.8.4. Sembra, quindi, che nessuno
dei tre argomenti prospet­tati dalla giurisprudenza
maggioritaria sia decisivo per la soluzione dei quesito oggetto del
contrasto, mentre, come in parte anticipato,

vi sono argomenti che appaiono sufficie ntemente probanti a
soste­gno della tesi fin qui minoritaria, ì quali assumono una valenza
de­cisiva alla luce dei principi costituzionali posti in luce dalla senten­za
n. 105 11/99.

6.9. Poiché nella discussione
sull’esistenza del potere del giu­dice di ridurre d’ufficio
la penale è stato spesso introdotto il tema dell’autonomia contrattuale è bene
prendere le mosse proprio da tale punto.

L’articolo 1322 cod. civ. ‑ la
cui rubrica è appunto intitolata al­l’autonomia
contrattuale ‑ attribuisce alle parti:

a) il potere di determinare il contenuto
dei contratto;

b) il potere di concludere
contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare.

Nel primo caso l’autonomia delle
parti deve svolgersi «nei limiti imposti dalla legge», nel secondo caso la
libertà è limitata per il fatto che il contratto deve essere diretto «a
realizzare interessi me­ritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico».

La legge, quindi, nel riconoscere
l’autonomia contrattuale delle parti, afferma che essa ha comunque
dei limiti.

L’osservanza del rispetto
di tali limiti è demandato al giudice, che non può riconoscere il
diritto fatto valere, se esso si fonda su un contratto il cui contenuto non sia
conforme alla legge ovvero sia di­retto a realizzare interessi che non appaiono
meritevoli secondo l’ordinamento giuridico.

L’intervento del giudice in tale casi è indubbiamente esercizio di un potere
officioso attribuito dalla legge.

Se nel nostro ordinamento non fosse
stato previsto e discipli­nato l’istituto della clausola penale e, tuttavia, le
parti avessero in­trodotto in un contratto una clausola con tale funzione, il
giudice, chiamato a pronunciarsi in ordine ad una domanda di condanna del
debitore al pagamento della penale pattuita per effetto dell’ínadempimento, avrebbe dovuto formulare, &ufficio, un
giudizio sulla va­lidità della clausola; giudizio che
avrebbe potuto avere esito negati­vo, ove fosse stato ravvisato un contrasto
dell’accordo con principi fondamentali dell’ordinamento, ad esempio per il
fatto che la penale doveva essere pagata anche se il danno non sussisteva.

In questo caso vi sarebbe stato un
controllo d’ufficio sulla tu­telabilità dell’accordo
delle parti e, ove, il controllo si fosse conclu­so
negativamente la tutela non sarebbe stata accordata.

Nel nostro diritto positivo
questo controllo non è necessario perché l’istituto è riconosciuto e
disciplinato dalla legge (articoli 1382 e segg. cod. civ.)

Nel disciplinare l’istituto la legge
ha ampliato il campo nor­malmente riservato all’autonomia delle parti,
prevedendo per esse la possibilità di predeterminare,
in tutto o in parte, l’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore
inadempiente (se si vuole privilegiare l’aspetto risarcitorio
della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova dei danno
subito, di costituire un vin­colo sollecitatorio a carico del debitore. di porre a carico di quest’ul~
timo una sanzione per l’inadempimento (se se ne vuole privilegiare l’aspetto sanzionatorio), e ciò in deroga alla disciplina positiva in
materia, ad esempio, di onere della prova, di determinazione del ri­sarcimento
del danno, della possibilità di istituire sanzioni private.

Tuttavia, la legge, nel momento in
cui ha ampliato l’autono­mia delle parti, in un campo normalmente riservato
alla disciplina positiva, ha riservato al giudice un
potere di controllo sul modo in cui le parti hanno fatto uso di questa
autonomia.

Così operando, la legge ha in sostanza spostato l’intervento giudiziale, diretto al
controllo della conformità del manifestarsi dell’autonomia contrattuale nei
limiti in cui essa è consentita, dalla fase formativa dell’accordo ‑ che
ha ritenuto comunque valido, quale che fosse l’ammontare della penale ‑
alla sua fase attuativa, median­te l’attribuzione al
giudice del potere di controllare che la penale non fosse originariamente
manifestamente eccessiva e Uon lo fosse
successivamente divenuta per effetto del parziale adempimento.

Un potere di tal fatta appare
concesso in funzione correttiva della volontà delle parti per ricondurre
l’accordo ad equità.

Vi sono casi in cui la correzione
della volontà delle parti av­viene automaticamente, per effetto di una
disposizione di legge che ne limita l’autonomia e che sostituisce alla volontà
delle parti quella della legge (in tali casi l’accordo delle parti, che non
rispecchia il contenuto tipico previsto dalla legge, non viene
dichiarato nullo ma viene modificato mediante la sostituzione della parte non
confor­me); ve ne sono altrì, in cui una inserzìone automatica della discí­plina
legislativa, in sostituzione di quella pattizia, non
è possibile perché non può essere determinata in anticipo la prestazione dovuta
da una delle parti, che quindi non può essere automaticamente inserita nel
contratto; in talì casi la misura della prestazione è
rimessa al giudice, per evitare che le parti utilizzino uno strumento legale
per ottenere uno scopo che l’ordinamento non consente ovvero non ri­tiene
meritevole di tutela, come è reso evidente, proprio in tema di clausola penale,
dal fatto che il potere di riduzione è concesso al giudice solo con riferimento
ad una penale che non solo sia eccessi­va, ma che lo sia «manifestamente»,
ovvero ad una penale non più giustificabile nella sua originaria
determinazione, per effetto del parziale adempimento dell’obbligazione.

In tale senso inteso, il potere di
controllo appare attribuito al giudice non nell’interesse della parte ma nell’interesse dell’ordina­mento, per evitare che
l’autonomia contrattuale travalichi i limiti en­tro i quali la tutela delle
posizioni soggettive delle parti appare me­ritevole di tutela, anche se ciò non
toglie che l’interesse della parte venga alla fine tutelato, ma solo come
aspetto riflesso della funzío­ne primaria cui assolve
la norma.

Può essere affermato allora che il
potere concesso al gìudice di ridurre la penale sì
pone come un limite all’autonomia delle parti, posto dalla legge a tutela di un
interesse generale, limite non prefis­sato ma individuato dal giudice di volta
in volta, e ricorrendo le condizioni previste dalla norma, con riferimento al
principio di e­quità.

Se così non fosse, apparirebbe quanto
meno singolare ritenere, sicuramente con riferimento all’ipotesi di penale
manifestamente eccessiva, in presenza di una clausola
valida (si ricordi che è valida la clausola ancorché manifestamente eccessiva),
che l’esercizio dei potere del giudice di riduzione della penale debba essere
condizio­nato alla richiesta della parte, quasi che, a questa, fosse
riconosciuto uno jus poenitendi,
e, quindi la facoltà di sottrarsi all’adempimento di un’obbligazione liberamente
assunta (quella appunto del paga­mento di una penale che fin dall’origine si
manifestava come eccessiva). Se si considera che il potere di riduzione della
penale può es­sere esercitato solo in presenza di una
clausola che sia valida (e quindi esente da vizi che ne determino la nullità o
l’annullabilità) più coerente appare allora qualificare detto potere come
officioso nel senso sopra specificato, di riconduzione dell’accordo, frutto
del­la volontà liberamente manifestata dalle parti, nei limiti in cui esso appare
meritevole di ricevere tutela dall’ordinamento.

Non è privo di significato il fatto
che la giurisprudenza, pur affermando la tesi della necessità della domanda o
eccezione della parte al fine di sollecitare il potere di riduzione affidato al
giudice, non ha potuto tuttavia non riconoscere (come dei
resto la quasi una­nime dottrina) la natura inderogabile della
disposizione di cui al­l’articolo 1384 cod. civ., attributiva al giudice del potere di ridurre la
penale, riconoscendo che essa è posta principalmente a salvaguardia
dell’interesse generale, per impedire sconfinamenti oltre determina­ti limiti
di equilibrio contrattuale. (v. in tal senso Cass. 4
febbraio

1960 n. 163 e successivamente,
in modo, conforme circa la natura inderogabile della norma, Cass. sez. un. 5
dicembre 1977 n. 5261; Cass. 7 agosto 1992 n. 9366; Cass. 29 marzo 1996 n.
2909; Cass. 5 novembre 2002 n. 15497 ‑ queste ultime tre in motivazione),
in tale modo riconoscendo l’esìstenza dei presupposti
per un intervento of­ficioso dei giudice, non tanto
per la tutela di interessi individuali, ma piuttosto per una funzione
correttiva di riequilibrio contrattuale (se si vuole privilegiare la tesi della
natura risarcitoria della penale) ovvero di
adeguatezza della sanzione (se si vuole privilegiare la tesi della funzione sanzionatoria).

Aspetto quest’ultimo
particolarmente sottolineato da Cass. 24 aprile 1980
n. 2749, secondo cui il potere conferito al giudice dall’articolo 1384 cod.
civ. di ridurre la penale manifestamente eccessiva è
fondato sulla necessità di correggere il potere di autonomia prìvata riducendolo nei limiti in cui opera il
riconoscimento di essa, me­diante l’esercizio di un potere equitativo
che ristabilisca un congruo contemperamento degli interessi contrapposti,
valutando l’interesse del creditore all’adempimento, cui ha diritto, tenendosi
conto dell’effettiva incidenza di esso sull’equilibrio delle prestazioni e
sulla concreta situazione contrattuale.

Pare, quindi, a queste sezioni unite,
che la lettura della norma interessata, svolta nel quadro dei
principi generali dell’ordinamento e dei principi costituzionali posti in luce
dalla sentenza n. 105 11199, consenta di giungere alla conclusione che il
potere del giudice di ri­durre la penale possa essere esercitato d’ufficio, e
ciò sia con riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con
riferimento al­l’ipotesi in cui la riduzione avvenga
perché l’obbligazíone principale e stata in parte
eseguita, gìacché in quest’ultimo
caso, la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della
penale in caso di adempimento dì parte dell’obbligazione, si traduce comun­que
in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte ri­masta
inadempiuta.

7. E questa lettura
della norma che porta ad affermare il prin­cipio che «il potere di diminuire
equamente la penale, attrìbuito dall’articolo 1384
cod. civ. al giudìce,
può essere esercitato anche d’ufficio».

S. In questi termini deve essere
accolto il secondo motivo del ricorso con rinvio della causa ad altra sezione
del Tribunale di Roma che si atterrà al principio
sopra enunciato.

9. E di conseguenza
assorbito il terzo motivo, con il quale, denunciandosi: Violazione ed
erronea applicazione degli articoli 91 e 92 cod. proc.
civ. e dífetto di motivazìone in relazione all’articolo 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ., si deduce che in conseguenza
della fondatezza delle tesi esposte dal ricorrente le spese del giudizio di
merito (primo e secondo grado) sarebbero dovute essere poste a carico del
condominio.

PQM

La
Corte
di Cassazione, a sezioni unite, rigetta il secondo motivo del ricorso, accoglie
il primo motivo e dichiara assorbito il terzo. Cassa
la sentenza impugnata in relazione alla censura
accolta e rinvia la causa, anche per la regolamentazìone
delle spese di questo giudizio di cassazione, ad altra sezione del Tribunale di
Roma.