Penale

Tuesday 15 April 2008

La madre è responsabile se il figlio annega in piscina.

La madre è responsabile se il
figlio annega in piscina.

Cassazione – Sezione quarta –
sentenza 30 gennaio – 3 aprile 2008, n. 13939

Presidente Morgigni – Relatore
Brusco

Pm Geraci – difforme – Ricorrente
Bauwens

Osserva

I) Con sentenza 1^ dicembre 2004
del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Salerno Bauwens
Veronique veniva condannata alla pena di anni uno di
reclusione perché ritenuta responsabile del delitto di cui all’art. 591 commi
1, 3 e 4 cod. pen. per aver abbandonato il figlio
minore Colameo Andrea di anni tre che, il 10 agosto 2000, annegava in una
piscina sita all’interno dello stabilimento balneare annesso all’hotel Baia di
Vietri sul Mare. Il giudice di primo grado riteneva l’imputata responsabile del
reato ascrittole perché non aveva custodito adeguatamente il figlio.

La Corte d’assise di appello di
Salerno, con sentenza 5 giugno 2007,
ha parzialmente riformato quella di primo grado
riqualificando l’imputazione originaria e ritenendo l’esistenza del reato di
omicidio colposo di cui all’art. 589 cod. pen.; ha
rideterminato anche la pena inflitta dal primo giudice riducendola a mesi
cinque e giorni dieci di reclusione, ha concesso il beneficio della non
menzione e ha ridotto l’entità della provvisionale concessa alla parte civile.

Il giudice di secondo grado,
nell’esaminare l’imputazione elevata alla madre del bambino, ha escluso che
nella condotta della medesima fosse ravvisabile l’elemento soggettivo
richiesto, cioè il dolo generico costituito dalla consapevolezza
dell’abbandono. Ha invece ritenuto che la madre fosse in colpa perché, in una
situazione caratterizzata dalla presenza nello stabilimento balneare di
numerosi familiari (il padre era assente), aveva acconsentito genericamente che
il bambino si accompagnasse al gruppo invece di affidarlo ad una persona
specificamente individuata e incaricata della custodia.

La conseguenza era stata che
nessuno dei parenti aveva seguito i movimenti del bambino e, anche per
l’incuria del personale dello stabilimento e la disorganizzazione che lo
caratterizzava per quanto riguarda la tutela della sicurezza delle persone
(contro i responsabili si è proceduto separatamente) nessuno si era accorto che
il bambino era caduto nella piscina e si era attivato per salvarlo.

II) Contro la sentenza d’appello
ha proposto ricorso Bauwens Veronique che ha dedotto, come primo motivo di
censura, la violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen.;
secondo la ricorrente la Corte
di merito non si sarebbe limitata ad una mera riqualificazione del fatto
originariamente addebitatole ma avrebbe operato uno "stravolgimento"
dell’originaria imputazione; dalla verifica della mancanza del dolo richiesto
per ritenere esistente l’ipotesi di reato prevista dall’art. 591 cod. pen. non poteva che derivare l’assoluzione dal reato contestato
né poteva il fatto essere diversamente qualificato trattandosi di fatto
diverso.

Secondo la ricorrente la sentenza
impugnata avrebbe confuso l’evento con il fatto tipico senza tener conto che
diversa era la condotta contestata, diverso l’elemento
soggettivo e diversa la tipologia di reato (l’abbandono reato di
pericolo; l’omicidio colposo reato di evento). Ciò avrebbe comportato una
lesione del diritto di difesa ben diverse essendo le strategie processuali per
difendersi da un’ipotesi di reato di natura dolosa rispetto ad un’ipotesi di
natura colposa.

Con il secondo motivo di ricorso
si deduce la violazione dell’art. 41 comma 2^ cod. pen. con
riferimento all’esclusione dell’ipotesi che l’evento fosse riconducibile ad una
causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinarlo con particolare
riferimento – anche a voler ritenere esistente la colpa dell’imputata – alle
inadempienze che caratterizzavano la gestione della struttura da ritenere del
tutto eccezionali ed imprevedibili.

III) Il primo motivo, che si
riferisce alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza
di condanna, è infondato.

Com’è noto la giurisprudenza di
legittimità si ispira, nel verificare la mancata corrispondenza tra accusa
contestata e fatto ritenuto in sentenza, al principio secondo cui il parametro
che consente di verificare, nel caso in cui sia accertato lo scostamento
indicato, l’esistenza della violazione del principio in questione è costituito
dal rispetto del diritto di difesa nel senso che l’imputato deve avere avuto,
in concreto, la possibilità di difendersi dall’addebito contestatogli.

Si ha dunque il rispetto del
principio nei casi in cui della violazione poi ritenuta in sentenza si sia
trattato nelle varie fasi del processo ovvero in quelli nei quali sia stato lo
stesso imputato ad evidenziare il fatto diverso quale elemento a sua discolpa
(si vedano in questo senso, da ultimo, Cass., sez. IV,
15 gennaio 2007 n. 10103, Granata, rv. 236099; sez. II, 23 novembre 2005 n.
46242, Mignatta, rv. 232774; sez. IV, 17 novembre 2005 n. 2393, Tucci, rv.
232973; 10 novembre 2005 n. 47365, Codini, rv. 233182; 25 ottobre 2005 n.
41663, Canonizzo, rv. 232423; 4 maggio 2005 n. 38818, De Bona, rv. 232427; sez.
I, 10 dicembre 2004 n. 4655, Addis, rv. 230771).

Naturalmente non deve trattarsi di fatto completamente diverso ed eterogeno in cui
l’imputazione venga immutata nei suoi elementi essenziali (v. Cass., sez. I, 14
aprile 1999 n. 6302, Iacovone; sez. VI, 14 gennaio 1999 n. 2642, Catone).

È inoltre indiscusso che, se
effettivamente verificatasi, la nullità è di ordine generale a regime
intermedio e deve essere dedotta nei limiti previsti dagli artt. 180 e 182
c.p.p. (in questo senso v. Cass., sez. II, 17 maggio
2006 n. 19585, Antonuccio, rv. 234199; sez. IV, 29 novembre 2005 n. 14180,
Pelle, rv. 233952; sez. V, 28 settembre 2005 n. 44008, Di Benedetto, rv.
232805).

Ma il caso in esame è
caratterizzato da una circostanza particolarmente significativa: l’ipotesi di
accusa cristallizzata nel capo d’imputazione era in realtà, pur essendo
indicata la sola ipotesi di reato prevista dall’art. 591 cod. pen., riferita a due ipotesi di reato, quella anzidetta e
quella prevista dal reato di cui all’art. 589 cod. pen. poi
ritenuta dal giudice di secondo grado. Anzi può tranquillamente affermarsi che,
al di là della mera affermazione di una condotta riferibile all’ipotesi di
reato contestata ("lo abbandonava") tutte le condotte indicate nel
capo d’imputazione sono riferibili ad un’ipotesi colposa e non certo dolosa.

A conferma della correttezza di
questa valutazione espressa dalla sentenza d’appello (che parla di
"ossimoro logico") è sufficiente leggere il capo d’imputazione che,
dopo aver enunciato l’ipotesi di reato, esordisce con l’espressione "per
negligenza e distrazione omettendo di esercitare la necessaria vigilanza sul
figlio Andrea" e quando fa riferimento all’abbandono prosegue affermando
che il bambino si trovava "in sua compagnia sotto l’ombrellone e in
assenza di altre persone idonee alla necessaria sorveglianza, lo abbandonava,
trattenendosi a parlare sotto l’ombrellone con le
amiche e non preoccupandosi di avvisare alcun congiunto per l’espletamento, in
sua vece, di adeguata vigilanza, nonostante l’avesse visto dirigersi da solo verso
l’area delle piscine e nonostante la nonna………l’avesse preavvertita che si
recava a cambiarsi, e non preoccupandosi di cercarlo………".

Alcuna lesione del diritto di
difesa si è dunque verificata perché, a fronte della mera enunciazione dell’abbandono,
la condotta contestata all’imputata era esclusivamente colposa (omissione di
vigilanza, disattenzione, mancato avviso ai congiunti,
negligente considerazione della circostanza che il bambino si
allontanava da solo e che la nonna si era recata altrove).

È dunque corretta la valutazione
del secondo giudice che si è limitato a modificare il titolo di reato ma in alcun modo ha immutato l’imputazione o i fatti
contestati limitandosi ad attribuire ai medesimi la corretta qualificazione
giuridica e ravvisando il solo titolo di reato ipotizzabile per le condotte
contestate.

IV) L’esistenza delle condotte
descritte e la loro natura colposa non formano oggetto delle censure contenute
nel ricorso.

Erronea sarebbe invece, secondo
la tesi della ricorrente che ne fa oggetto del secondo motivo di ricorso, la
motivazione contenuta nella sentenza impugnata per quanto si riferisce
all’esclusione che le condotte colpose dei terzi separatamente giudicati (in
buona sostanza i gestori della struttura) potessero essere qualificate come
cause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento.

Questa censura ripropone uno dei
temi di maggior complessità del diritto penale che riguarda l’interpretazione
dell’art. 41 comma 2^ del cod. pen. secondo cui
"le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono
state da sole sufficienti a determinare l’evento".

Si tratta di una norma di
fondamentale importanza all’interno dell’assetto normativo che il codice ha
inteso attribuire al tema della causalità e lo scopo della norma, secondo
l’opinione maggiormente seguita, è quello di temperare il rigore derivante
dalla meccanica applicazione del principio generale contenuto nel primo comma
dell’art. 41 in
esame che si ritiene abbia accolto il principio condizionalistico o
dell’equivalenza delle cause ("condicio sine qua non"). Anzi, secondo
taluni autori questa norma escluderebbe che il codice abbia
voluto accogliere integralmente la teoria condizionalistica essendo, il
concetto di causa sopravvenuta, estraneo a questa teoria così come è da
ritenere estraneo alla teoria della causalità adeguata.

È stato affermato in dottrina che
se il secondo comma in esame venisse interpretato nel
senso che il rapporto di causalità dovesse ritenersi escluso solo nel caso di
un processo causale del tutto autonomo verosimilmente si tratterebbe di una
disposizione inutile perché, in questi casi, all’esclusione si perverrebbe con
la mera applicazione del principio condizionalistico previsto dal 1^ comma
dell’art. 41.

Deve pertanto trattarsi, secondo
questo condivisibile orientamento, di un processo non completamente avulso
dall’antecedente, di una concausa che deve essere, appunto,
"sufficiente" a determinare l’evento. Ma questa sufficienza non può
essere intesa come avulsa dal precedente percorso causale perché, altrimenti,
torneremmo al caso del processo causale del tutto autonomo per il quale il
problema è risolto dal 1^ comma dell’art. 41.

Su questa affermazione di
principio deve ritenersi raggiunto un sufficiente consenso in quanto gli orientamenti
(peraltro, a quanto risulta, quasi esclusivamente dottrinali) che sostenevano
la tesi della completa autonomia dei processi causali non sembrano essere state
più riproposte negli ultimi decenni.

In base alla ricostruzione che va
sotto il nome della teoria della causalità "umana" si parte dalla
premessa che, oltre alle forze che l’uomo è in grado di dominare ve ne sono
altre – che parimenti influiscono sul verificarsi dell’evento – che invece si
sottraggono alla sua signoria. Può dunque essere oggettivamente attribuito
all’agente quanto è da lui dominabile ma non ciò che
fuoriesce da questa possibilità di controllo.

Quali sono gli elementi esterni
controllabili? Innanzitutto quelli dotati da carattere di normalità, cioè
quelli che si verificano con regolarità qualora venga
posta in essere l’azione. Ma non solo queste conseguenze si sottraggono al
dominio dell’uomo ma altresì quelle che si
caratterizzano per essere non probabili o non frequenti perché comunque possono
essere prevedute dall’uomo.

Che cosa sfugge invece al dominio
dell’uomo? Ciò che sfugge a questo dominio – secondo l’illustre Autore che ha
formulato la teoria – "è il fatto che ha una probabilità minima,
insignificante di verificarsi: il fatto che si verifica soltanto in casi rarissimi…………nei
giudizi sulla causalità umana si considerano propri del
soggetto tutti i fattori, esterni che concorrono con la sua azione,
esclusi quelli che hanno una probabilità minima, trascurabile di verificarsi;
in altri termini esclusi i fattori che presentano un carattere di
eccezionalità".

Per concludere che per
l’imputazione oggettiva dell’evento sono necessari due elementi, uno positivo e
uno negativo: quello positivo "è che l’uomo con la sua condotta abbia
posto in essere un fattore causale del risultato, vale a dire un fattore senza
il quale il risultato medesimo nel caso concreto non si sarebbe avverato; il
negativo è che il risultato non sia dovuto al concorso
di fattori eccezionali (rarissimi). Soltanto quando concorrono queste due
condizioni l’uomo può considerarsi autore dell’evento".

Perché possa parlarsi di causa
sopravvenuta idonea ad escludere il rapporto di causalità (o la sua
interruzione come altrimenti si dice) si deve dunque trattare, secondo questa
ricostruzione, di un percorso causale ricollegato all’azione (od omissione) dell’agente
ma completamente atipico, di carattere assolutamente anomalo ed eccezionale; di
un evento che non si verifica se non in casi del tutto imprevedibili a seguito
della causa presupposta.

È noto l’esempio riportato nella
relazione ministeriale al codice penale: l’agente ha posto in essere un
antecedente dell’evento (ha ferito la persona offesa) ma
la morte è stata determinata dall’incendio dell’ospedale nel quale il ferito
era stato ricoverato. Il che, appunto, non solo non costituisce il percorso causale
tipico (come, per es., il decesso nel caso di gravi
ferite riportate a seguito del ferimento) ma realizza una linea di sviluppo
della condotta del tutto anomala, oggettivamente imprevedibile in astratto e
imprevedibile per l’agente che non può anticipatamente rappresentarla come
conseguente alla sua azione od omissione (quest’ultimo versante riguarda
l’elemento soggettivo ma il problema, dal punto di vista dell’elemento
oggettivo del reato, si pone in termini analoghi).

Va infine rilevato che sia l’Autore che l’ha proposta che tutti coloro che l’hanno
condivisa, compresa la giurisprudenza di legittimità e di merito, hanno
affermato che la teoria della causalità "umana" – richiamata anche
dalla sentenza delle sezioni unite 10 luglio 2002 n. 30328, Franzese, rv. 222138 in tema di
causalità – è applicabile anche ai reati omissivi impropri.

V) Alla luce della ricostruzione
che precede la tesi della ricorrente appare non condivisibile e i motivi
proposti del tutto infondati avendo logicamente e motivatamente escluso, la
sentenza impugnata, che possa ritenersi realizzata, nel caso di specie,
l’ipotesi prevista dal 2^ comma dell’art. 41 cod. pen..

Non è infatti
possibile qualificare come inopinata, abnorme, assolutamente imprevedibile la
condotta di coloro che gestivano lo stabilimento e che erano tenuti a garantire
la sicurezza dei frequentatori ed in particolare la sicurezza dei bagnanti che
utilizzavano la piscina. Eventi dannosi del tipo di quello verificatosi in
concreto sono prevedibili anche in strutture adeguatamente protette e l’assenza
di un bagnino addetto alla tutela dei bagnanti, o una sua incuria o
disattenzione, non fuoriescono certo dalla sfera degli accadimenti
ragionevolmente ipotizzabili da parte di una persona dotata di senso comune.

È sgradevole affermarlo in una
vicenda che ha già così duramente colpito i familiari del bambino ma la madre,
titolare di una posizione di garanzia per la protezione del figlio, avendo
violato per negligenza i suoi obblighi di vigilanza sui movimenti del minore –
in particolare omettendo di affidarlo ad una persona espressamente incaricata
della protezione o controllandolo personalmente e continuativamente – era in
grado di prevedere che da questa condotta negligente potesse derivare un evento
dannoso ed in particolare che, lasciato solo, il bambino potesse cadere nella
piscina o entrarvi per il bagno senza essere adeguatamente protetto.

Insomma è la stessa natura
insidiosa dei luoghi che rende non eccezionale l’evento verificatosi e,
purtroppo, disattenzione del personale e disorganizzazione della struttura
costituiscono fatti altrettanto prevedibili non idonei quindi ad interrompere
la sequenza causale che ha portato al tragico evento.

Anche questo motivo deve pertanto
essere ritenuto infondato.

VI) Alle considerazioni svolte
consegue il rigetto del ricorso con la condanna della ricorrente al pagamento
delle spese processuali.

Ritiene la Corte che sussistano
giusti motivi (in particolare l’esistenza dei rapporti familiari tra l’imputata
e le parti civili costituite) per l’integrale compensazione delle spese tra le
parti private del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte
Suprema di Cassazione, Sezione IV penale, rigetta il ricorso
e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali; dichiara
interamente compensate tra le parti le spese di lite.