Civile
La domanda di equo indennizzo a sensi della legge Pinto deve essere indirizzata non allo Stato ma al singolo ministero Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 20 giugno-22 settembre 2005, n. 18650
La domanda di equo indennizzo a sensi della legge Pinto deve essere indirizzata non allo Stato ma al singolo ministero
Cassazione Sezione prima civile sentenza 20 giugno-22 settembre 2005, n. 18650
Presidente Morelli relatore Rordorf – Pm Gambardella conforme ricorrente Catalano
Svolgimento del processo
Il sig. Valerio Catalano si è rivolto alla Corte dappello di Brescia, ai sensi dellarticolo 2 della legge 89/2001, chiedendo di essere indennizzato per leccessiva durata di due giudizi riuniti che egli aveva promosso dinnanzi al Tribunale di Milano per far valere la responsabilità professionale di due avvocati che lo avevano difeso in una precedente causa.
La corte dappello, con decreto depositato il 21 marzo 2002, ha rigettato il ricorso rilevando che impropriamente la condanna al pagamento dellequo indennizzo era stata richiesta nei confronti dello Stato, anziché del Ministero della giustizia; che il protrarsi per circa otto anni del giudizio di primo grado (essendo ancora pendente lappello) era in qualche misura dipeso dalla necessità di assecondare le richieste delle parti e di assicurare loro il pieno esercizio dei diritto di difesa, ed in altra misura era dipeso da interventi legislativi (in specie quelli inerenti alla costituzione delle c.d. sezioni stralcio) non sindacabili ad opera dei giudice; che, in ogni caso, il ricorrente non aveva fornito alcuna prova del pregiudizio di cui pretendeva il ristoro.
Avverso tale decreto ricorre per cassazione il sig. Catalano, prospettando tre motivi di doglianza, illustrati anche da successiva memoria, cui lamministrazione intimata resiste con controricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorrente, col primo motivo, lamenta vizi di motivazione del provvedimento impugnato nella parte in cui vi si afferma non esser stata raggiunta la prova del superamento del termine di ragionevole durata del processo in esame. Cosi opinando, e focalizzando la propria attenzione unicamente sulle richieste di rinvio di udienza formulate dai procuratori delle parti, la corte territoriale avrebbe trascurato il dovere che incombe al giudice di assicurare comunque il sollecito svolgimento della causa. Erroneamente, poi, la corte bresciana avrebbe ritenuto di non poter sindacare, sotto il profilo della loro incidenza sulliter dei processo, i provvedimenti adottati dal legislatore, ed in specie lintroduzione delle c.d. sezioni stralcio, da cui in effetti era dipeso il differimento di circa tre anni della definizione del giudizio di primo grado dopo che esso era ormai giunto alla fase della decisione. Essendo lo Stato tenuto ad adottare ogni provvedimento legislativo o amministrativo occorrente per assicurare il rispetto del diritto alla ragionevole durata dei procedimenti giudiziari, secondo i parametri indicati dalla Corte europea di Strasburgo, il ricorrente ha sottolineato che ogni carenza organizzativa da cui dipenda la violazione dì quel diritto comporta lobbligo di equa riparazione.
2. Nel secondo motivo di ricorso, volto a lamentare la vioIazione dellarticolo 2 della legge 89/2001, si censura laffermazione dellimpugnato decreto concernente il difetto di prova del danno non patrimoniale lamentato dal ricorrente. Prova che, viceversa, avrebbe dovuto esser desunta dal fatto stesso delleccessiva durata del procedimento giudiziario in questione, ìn armonia con lorientamento da tempo assunto al riguardo dalla citata Corte europea di Strasburgo.
3. Da ultimo, il ricorrente contesta laffermazione della corte dappello secondo cui la domanda di equo indennizzo sarebbe stata mal rivolta contro lo Stato italiano, ed osserva che, viceversa, è proprio lo Stato, in quanto tale, ad essere destinatario dei precetti dettati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti delluomo, costituendo i singoli ministeri nullaltro che delle articolazioni dello Stato medesimo.
4. E opportuno esaminare anzitutto il motivo di ricorso da ultimo riferito, atteso il suo evidente carattere pregiudiziale.
La doglianza del ricorrente, nei limiti di cui si dirà, appare fondata.
Non vè dubbio che sia lo Stato italiano ad essere soggetto agli obblighi di carattere internazionale stabiliti dalla citata convenzione europea ed in particolare, per quel che qui interessa, allobbligo derivante dallarticolo 6, paragrafo 1, di tale convenzione in tema di ragionevole durata dei procedimenti giudiziari. E però altrettanto indubbio che la ricaduta nel diritto interno delleventuale violazione di detto obbligo, così come configurata dalla legge 89/2001, comporta che il giudizio per equa riparazione debba essere instaurato (non già nei confronti dello Stato, unitariamente inteso, bensì) nei confronti dei vertici delle singole amministrazioni pubbliche individuati espressamente dallarticolo 3, comma 3, di detta legge. Sono pertanto i singoli ministeri in detta norma indicati ad essere passivamente legittimati nel giudizio per lequa riparazione ed è nei loro confronti che, di volta in volta, devessere indirizzata la domanda del ricorrente e, se del caso, devesser pronunciata la condanna del giudice.
Ciò posto, deve però osservarsi come, nel presente giudizio, il contraddittorio sia stato correttamente instaurato nei confronti del Ministero della giustizia, passivamente legittimato a nonna della citata disposizione dellarticolo 3 della legge 89/2001, di talché il solo fatto che la richiesta di condanna erroneamente sia stata formulata dal ricorrente con riferimento allo Stato, anziché al ministero chiamato in causa, non impedisce dindividuare in tale ministero la controparte nei cui riguardi lattore ha invocato la pronuncia del giudice, trattandosi pur sempre di una pubblica amministrazione che nella più ampia accezione di Stato è compresa.
5. Appare per molti aspetti fondato anche il primo motivo di ricorso.
E bene anzitutto ricordare che, come hanno chiarito le sezioni unite di questa stessa Corte di cassazione nella sentenza 1339/04, il principio di sussidiarietà dal quale è retto il sistema della Convenzione europea sulla salvaguardia dei diritti delluomo, per un verso, e lattribuzione alla Corte europea di Strasburgo del compito primario dinterpretazione e corretta applicazione dellanzidetta convenzione, per altro verso, fanno sì che il giudice italiano chiamato ad applicare la normativa interna con cui si è inteso garantire in sede nazionale il rispetto dei diritti previsti nella convenzione debba attenersi (almeno in difetto di esplicita indicazione di segno contrario presente nella normativa italiana) ai criteri interpretativi già elaborati in argomento dalla giurisprudenza della corte europea.
Tale premessa consente di evidenziare subito il vizio di fondo da cui è affetto limpugnato decreto della corte bresciana, che muove invece da un principio del tutto opposto ed a più riprese ribadisce laffermazione secondo cui gli orientamenti espressi Ma qualche organo sovrastatuale quale la corte europea sarebbero irrilevanti per il giudice italiano. Affermazione che, per le ragioni cui già sopra sè accennato, è da ritenere assolutamente errata.
Da tale errore dimpostazione generale discende poi lerronea valutazione dei parametri cui misurare la ragionevole durata del processo ai fini che qui interessano. Sè già detto che non può prescindersi, a tal riguardo, dalle indicazioni di ordine generale offerte dalla citata giurisprudenza delle corte europea e, se è vero che dette indicazioni non configurano un metro di misurazione rigido ed automaticamente applicabile a qualsiasi situazione processuale, dovendosi pur sempre aver riguardo alla specificità del singolo processo, è nondimeno vero che il giudice dellequa riparazione ha lobbligo di tenerne conto al fine di individuare le ragioni per le quali la durata di quel singolo processo si è discostata in modo significativo da dette indicazioni di massima senza che ciò implichi linsorgere del diritto della parte ad unequa riparazione, come gli impone di fare larticolo 2, comma 2, della citata legge n. 89.
Ora va riconosciuto che, nel caso in esame, il giudice bresciano, pur omettendo ogni riferimento ai parametri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza della corte europea, ha sostanzialmente assolto detto onere di motivazione argomentando diffusamente in ordine allo svolgimento della causa, al comportamento tenuto dalle parti ed alla complessità delle situazioni processuali venutesi in concreto a determinare.
Fin qui le valutazioni espresse nellimpugnato decreto si presentano, dunque, come espressione di un giudizio di merito, motivato in termini adeguati (tenuto anche conto del carattere sommario della motivazione, insito nella forma stessa del decreto), e come tali non sono suscettibili di riesame ad opera della cassazione. Né giova obiettare che la corte bresciana avrebbe errato nel non tenere in adeguata considerazione il dovere del giudice di salvaguardare il sollecito svolgimento del processo, anche a dispetto delle richieste di rinvio provenienti dalle parti, giacché tale affermazione ‑ ove pure la si volesse in astratto condividere ‑ non vale comunque ad inficiare la valutazione in concreto compiuta dal giudice dellequa riparazione circa la necessità dei disposti rinvii dudienza in rapporto alle esigenze di difesa di volta in volta venutesi a determinare. Così come non è decisivo il rilievo che detti rinvii avrebbero dovuto comunque esser contenuti entro il termine al riguardo previsto dallarticolo 81 disp. att. Cpc, poiché quel termine è meramente ordinatorio, la stessa disposizione da ultimo citata consente di derogarvi per motivate ragioni ed il fatto che nei provvedimenti di rinvio tali ragioni non siano evidenziate costituisce una mera irregolarità processuale, di per sé irrilevante ai fini del rispetto dei diritto della parte alla ragionevole durata del giudizio: il quale non sidentifica con il diritto ad ottenere rinvii non superiori a quindici giorni, ma va comunque considerato in rapporto allo svolgimento complessivo della causa (cfr. Cassazione, 11712/03; e 4512/04).
Dove però il ragionamento seguito dalla corte dappello risente dellerrore dimpostazione dianzi segnalato è nellulteriore affermazione secondo la quale non assumerebbe rilievo il ritardo subito dalla causa nel periodo compreso tra la conclusione della fase istruttoria (giugno 1997) ed il momento in cui fu resa la decisione (aprile 2000). Un una pausa di poco meno di tre anni che lintroduzione ad opera del legislatore delle c.d. sezioni stralcio ‑come tra un momento meglio si dirà ‑ non basta in alcun modo a giustificare e che, non risultando imputabile né al comportamento della parte, né alla complessità del giudizio, né da altra causa estranea allamministrazione della giustizia, avrebbe necessariamente dovuto esser valutata in relazione al diritto alla ragionevole durata del processo.
Il rifiuto della corte dappello di operare tale valutazione non è idoneamente motivato dallimpossibilità per il giudice di sindacare le scelte del legislatore, ed in particolare la bontà della riassetto, organizzativo consistito nellintroduzione delle c.d. sezioni stralcio operata dalla legge 276/97. Non si tratta, invero, di sindacare in ambito giudiziario il merito di una specifica legge, bensì di verificare se il modo in cui lamministrazione della giustizia ha funzionato (o è stata posta in condizione di funzionare) è tale da garantire il rispetto dei diritti sanciti dalla convenzione europea e che lo Stato italiano si è obbligato salvaguardare nel complessivo esercizio delle sue funzioni legislative, amministrative e giudiziarie. Se cosi non è, compete al titolare del diritto leso un equo indennizzo, che non può essergli negato argomentando dalla pretesa insindacabilità delle scelte operate dallo Stato nellesercizio delluna o dellaltra funzione, se non a patto di svuotare quel diritto di ogni reale contenuto, giacché lequa riparazione di cui alla citata legge 89/2001 integra un credito che ha appunto il suo fondamento nelloggettivo verificarsi dinosservanza dellarticolo 6, paragrafo 1, della menzionata convenzione europea dei diritti delluomo e delle libertà fondamentali e dunque sorge ogni qual volta si manifesti una lesione del diritto della persona alla definizione della causa in un termine ragionevole a causa dellinefficienza dellorganizzazione giudiziaria. Sussiste, cioè, anche in presenza di violazioni di sistema, ivi incluse quelle riconducibili a scelte legislative che determinino o concorrano a determinare leccessivo protrarsi della lite (cfr. Cassazione 2148/03, ed altre conformi tra cui, con specifico riguardo al tema delle c.d. sezioni stralcio, la più recente Cassazione 1334/05).
6. Fondato è anche, infine, per quanto di ragione, il secondo motivo di ricorso.
Giova pure a questo proposito richiamare i principi enunciati dalla citata sentenza delle Su 1339/04, a tenore della quale il danno non patrimoniale è da considerare conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo: sicché, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ípsa ‑ ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nellaccertamento della violazione ‑ il giudice, una volta accertata e determinata lentità della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (Cassazione, Su, 1339/04).
Neppure a tale principio si è attenuta la corte bresciana, la cui pronuncia deve perciò essere senzaltro cassata.
7. Alla cassazione del decreto impugnato deve far seguito il rinvio della causa alla medesima Corte dappello di Brescia, che in diversa composizione la deciderà nel rispetto dei principi di diritto sopra enunciati e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.
PQM
La corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa alla Corte dappello di Brescia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.