Enti pubblici
La condanna per il peculato d’ uso deve essere inserita tra le cause ostative alla candidatura a Sindaco? Lo deciderà la Corte Costituzionale Corte di Cassazione ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 Aprile 2005 – 6 Aprile 2005, n. 321
La condanna per il peculato d’uso deve essere inserita tra le cause
ostative alla candidatura a Sindaco? Lo deciderà la Corte Costituzionale
Corte di Cassazione ORDINANZA (Atto
di promovimento) 6 Aprile
2005 – 6 Aprile 2005, n. 321
LA CORTE DI CASSAZIONE
Ha pronunciato la seguene
ordinanza sul ricorso iscritto al
n. 30654/2003 proposto
da: Buzzanca Giuseppe,
elettivamente
domiciliato in Roma, viale Parioli
n. 180 presso l’avv. Mario Sanino,
che
lo rappresenta e
difende giusta delega
in calce al ricorso
unitamente
agli avv. Andrea
Lo Castro, Nino Gazzarra, Laura Autru
Ryolo del Foro di Messina, ricorrente;
Contro Ansaldo Patti
Rosario, Ugdulena Francesca,
de Vero
Giancarlo, Risicato Lucia,
Modica Letteria, Turiaco Paolo,
Interdonato Pietro, elettivamente
domiciliati in Roma, via di Villa
Pepoli n. 4, presso l’avv.
Alessandro Coluzzi,
con l’avv. Fulvio
Cintioli del Foro di
Messina che li rappresenta e
difende giusta
delega
in atti; e Notarianni
Aurora, Impallomeni Antonella, Romano
Patrizia, Minasi
Maria, Caruso Francesco, Gazzano Nicola, La Torre
Giuseppa, Mazziotta Rosa,
Intersimone
Santina Rosaria, Greco
Mariapia, Di
Bella Saverio, Carcione Antonia, Pigneri Camillo,
Moscheo Rosalba, La Maestra Giovanna, Poguish
Gaetana, Sorbello Anna
Lisa, Amico
Salvatore, elettivamente domiciliati
in Roma via Q.
Maiorana n. 9 presso l’avv. Fazzari con
gli avv. Carmelo Matafu’ e
Marcello Scurria
del Foro di Messina che li rappresentano e difendono
per
procure in calce
al controricorso nonche’ Rodi
Giuseppe,
elettivamente
domiciliato in Roma, via
Vespasiano n. 12, presso gli
avv.
Valentina Urso
e Carmelo Marra e rappresentato e difeso da se’
medesimo
e Bertuccelli
Antonino, elettivamente domiciliato in Roma,
via
dei Due Macelli
n. 60, presso gli avv. Graziella Colaiacomo e
Silvio Crapolicchio che
lo rappresentano e difendono per procura
speciale
in atti nonche’
Ministero dell’interno ed Assessorato enti
locali
della Regione Siciliana,
rappresentati e difesi
dall’Avvocatura generale dello Stato e
domiciliati nei suoi uffici in
Roma via
dei Portoghesi n. 12,
e Trischitta avv.
Giuseppe,
domiciliato
in Roma presso la Corte di
cassazione e rappresentato e
difeso
da se’
medesimo controricorrenti; e contro Cardile Francesco
M. Salvatore –
Mangiapane Giuseppe –
Raffa Elisabetta – Crupi
Mariagabriella – Buongiorno Rosalva
– Testagrossa Oriana – Siracusano
Giuseppe – Visigoti Alejandro – David Pietro – Messina Clery
– Russo
Michele Maria – Giacobbe Pietro – Barbaro
Salvatore – Cafeo Biagio –
Di Cesare
Simone – Botto
Pierino – Casciano Epifanio – Lo Presti
Antonina –
Urso
Antonino – Procuratore
generale presso la Corte
d’appello di
Messina, Procuratore della
Repubblica presso il
Tribunale di
Messina, comune di Messina – Prefettura di Messina –
Ufficio elettorale centrale di Messina – Commissione elettorale
del
comune
di Messina –
Comitato regionale di controllo della regione
siciliana
– Bonanno Umberto
n. q. di presidente
del consiglio
comunale di Messina – presidenti delle
circoscrizioni I, II, III, IV,
V, VI,
VII, VIII, IX, X, XI, XII, XIII, XIV intimati; nonche’ sul
ricorso
iscritto al n. 2036/2004
proposto da: Trischitta avv.
Giuseppe, domiciliato, rappresentato e difeso
come sopra, ricorrente
incidentale
adesivo ed autonomo nei confronti di Buzzanca
Giuseppe
intimato;
e con l’intervento di
Rodi Giuseppe, domiciliato
rappresentato
e difeso come sopra controricorrente
e di Notarianni
Aurora –
La Torre Giuseppa – Mazziotta Rosa, domiciliate,
rappresentate
e difese come
sopra controricorrenti; avverso
la
sentenza della Corte d’appello di Messina n. 478
del 3 dicembre 2003.
Udita la
relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
31 marzo 2005 dal relatore cons.
Luigi Macioce.
Uditi gli avv. Falzea (per
delega di Sanino), Lo Castro e Autru
Ryolo per il ricorrente
Buzzanca,
che hanno
concluso per
l’accoglimento del
ricorso. Colaiacono per il controricorrente
Bertuccelli – Cintioli per i controricorrenti Ansaldo Patti ed altri
– Scurria per
i controricorrenti Notarianni ed altri, che hanno
concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Pietro Abbritti
che ha concluso, in via principale, per la rimessione
alla
Corte costituzionale e, in
subordine, per l’accoglimento del
secondo motivo del ricorso con
l’assorbimento dei residui motivi.
R i l e v a
Con sentenza 13
dicembre 2002 la Corte di appello di Messina
condannava
Buzzanca
Giuseppe – ritenuto
responsabile dei delitti
ascrittigli
e di cui
agli artt. 81, 314 comma 2 e 323 c.p. – alla
pena
di mesi sei di reclusione ed alla temporanea
interdizione dai
p.u., concessi i benefici di legge.
Proposto ricorso per
cassazione, il Buzzanca si candidava alle
elezioni
del 25/26 maggio
2003 ed il successivo 29 maggio
veniva
proclamato Sindaco del Comune di Messina.
Avendo la adita
Corte di cassazione con sentenza 5 giugno 2003
rigettato
il ricorso proposto
dal Buzzanca avverso la sentenza di
condanna
della Corte territoriale, venivano pertanto proposte azioni
popolari,
ai sensi dell’art. 70 d.lgs. n. 267/2000, per ottenere la
declaratoria
di decadenza dell’eletto dalla carica di sindaco: due
azioni
erano proposte in data 24 giugno 2003 da Rodi Giuseppe; una
terza
azione era proposta il 26 giugno
2003 da Notarianni Aurora ed
altri
trentaquattro elettori; un quarto ricorso del 28 giugno 2003
era
presentato da Bertuccelli Antonino;
una quinta azione
era
proposta
il 1° luglio
2003 da Patti Rosario Ansaldo ed altri otto
elettori. Si costituiva in
tutti i procedimenti
il Buzzanca,
resistendo
alle pretese ivi
articolate ed in
quattro di essi
interveniva
ad adiuvandum l’avv. Giuseppe Trischitta. Si costituiva,
nel
procedimento instaurato sul ricorso di Patti Rosario ed altri,
l’assessorato enti
locali della regione, deducendo la carenza della
propria legittimazione.
Riuniti i procedimenti, il tribunale di Messina con
sentenza 21
luglio 2003, dichiarati inammissibili i
ricorsi del Rodi e la carenza
di
legittimazione dell’Assessorato, rigettava i ricorsi sull’assunto
che
le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 d.lgs. n. 267/2000,
rettamente
interpretate in via
restrittiva, non consentissero di
affermare
che la condanna definitiva – con irrevocabilita’
acquisita
dopo
la nomina a sindaco del candidato
– per il delitto di peculato
d’uso, costituisse causa di decadenza
dell’eletto e che, di converso,
detta
decadenza non potesse
conseguire alla interdizione dai p.u.
comminata
con sospensione della
pena. La sentenza era impugnata
separatamente
da Patti Rosario e suoi consorti, da Rodi Giuseppe, da
Bertuccelli Antonino, da Notarianni Aurora e
consorti in lite, dal
p.m. presso il Tribunale di Messina.
Appello incidentale veniva proposto dall’avv. Trischitta.
La Corte di appello di Messina con sentenza 3 dicembre
2003, in
riforma
della sentenza impugnata, dichiarato inammissibile l’appello
incidentale,
in riforma della
prima decisione dichiarava Buzzanca
Giuseppe decaduto dalla
carica di Sindaco del Comune di
Messina e
condannava
il medesimo, e
con lo stesso
in solido l’appellante
incidentale,
alla refusione alle parti private
di ø delle spese del
giudizio.
Affermava la Corte territoriale (per quanto in questa sede ancora
rileva) che:
con riguardo
alla eccezione di
preclusione delle azioni
popolari
per non essere
stato tempestivamente impugnato
il
provvedimento
6 giugno 2003
con il quale
l’ufficio elettorale
centrale
aveva respinto l’istanza di
revoca della proclamazione del
Buzzanca a sindaco, nessuna
preclusione si era maturata essendo
l’azione di cui all’art. 70 d.lgs.
n. 267/2000 del tutto autonoma da
qualsivoglia determinazione amministrativa;
con riferimento all’appello incidentale dell’avv.
Trischitta
– interventore
adesivo in primo grado – e diretto alla dichiarazione
di
inammissibilita’ dei
ricorsi per tardivita’ ed assenza della
necessaria
produzione documentale della
sentenza della cassazione
penale
– esso era inammissibile ed infondato: inammissibile, perche’
impedito
dall’essere mero interventore adesivo
dipendente del
Buzzanca e perche’, essendo parte vittoriosa
in primo grado, avrebbe
dovuto
non impugnare ma
solo riproporre le eccezioni ex
art. 346
c.p.c.;
infondato, perche’ l’azione popolare non soffriva di alcun
termine
nel suo dispiegamento e perche’
la produzione era avvenuta
solo
al fine di documentare la definitivita’ della
condanna e si era
risolta
nella mera attestazione
di acquisita irrevocabilita’ (per
rigetto del ricorso per cassazione) della
sentenza di condanna;
venendo al
merito, doveva esprimersi
dissenso dalla
argomentazione spesa dal tribunale per affermare,
in base ad errata e
limitativa
lettura delle norme,
che la prevista
causa di
incandidabilita’
non poteva costituire
di per se’ sola ragione di
decadenza dalla carica, ove sopravvenuta alla
elezione;
in primo
luogo, nella previsione dell’art. 58, comma 1, lett.
b) del
testo unico si
evidenziava come il rinvio alla figura del
peculato
di cui all’art. 314
c.p. comprendesse anche la men grave
ipotesi
– autonoma ma pur sempre afferente peculato – del
peculato
d’uso
di cui al
comma 2 con la conseguenza per la
quale anche il
condannato
per tal delitto,
a seguito di sentenza definitiva, non
poteva
ne’ essere candidato ne’ ricoprire la carica di sindaco (come
fatto
palese dal significativo
termine comunque collegante le due
espressioni), intendendosi pertanto erigere la
condanna anche per tal
reato,
in qualunque momento intervenuta, a sbarramento all’esercizio
delle
funzioni di sindaco, sia in termini di preclusione all’accesso
alla carica sia in termini di nullita’ di una elezione effettuata pur
in
presenza di condanna
sia e comunque
in termini di decadenza
dell’eletto da
essa ove la
causa ostativa fosse
alla elezione
irrevocabilmente sopravvenuta;
quanto alla
questione originata dal fatto che nel primo comma
dell’art. 59 del
t.u. era prevista come causa di
sospensione dalla
carica
la condanna non definitiva per il solo delitto di peculato di
cui
al comma 1, dell’art. 314, c.p. nel mentre al sesto comma, dello
stesso
art. 59, si statuiva la decadenza di diritto dalla carica per
il
passaggio in giudicato
della sentenza di condanna, e,
quindi,
quanto
al quesito relativo
al riferirsi di siffatta
decadenza da
sopravvenuto
giudicato a tutte le ipotesi di cause ostative (art. 58
comma
1) od a quelle soltanto cagionanti sospensione interinale, tra
le
quali non era
la condanna per il peculato d’uso, essa doveva
risolversi
nel primo senso, in particolare ove fosse ben inteso il
senso
e la portata
rivestiti del t.u. delle nel
succedersi delle
norme elettorali;
sulla base
dell’art. 15 della legge
n. 55/1990 come
modificato
dall’art. 1 della legge n. 16/1992, infatti, era evidente
la
volonta’
legislativa di istituire
un totale parallelismo
(attestato
dalla inerenza delle
previsioni ad un solo articolo di
legge)
tra causa ostativa alla
candidatura, causa di nullita’ della
elezione
(entrambe per condanne
preesistenti), causa di sospensione
(per
condanna non definitiva sopravvenuta) e causa di decadenza (per
condanna definitiva sopravvenuta): la
successiva sentenza n. 141/1996
della
Corte costituzionaie afferente la illegittimita’
delle norme
sulla
incandidabilita’ per
sentenza non definitiva,
impose poi
l’intervento del
legislatore che, con la legge n. 475/1999, da un
canto
subordino’
l’incandidabilita’ al
requisito della sentenza
definitiva ed escluse dal novero della
sospensione interinale ipotesi
men
gravi (quale quella
del peculato d’uso) e dall’altro canto,
pero’,
non tocco’ l’ipotesi di decadenza di cui al
comma 4-quinquies
dell’art. 15, della legge n. 55/1990 (introdotto nel 1992),
di guisa
che’,
per la condanna per il peculato d’uso, anche nel
1999 doveva
ritenersi
operante la piena
equiparazione tra causa
ostativa
preesistente
e causa di
decadenza sopravvenuta; e tale situazione
normativa venne interamente recepita dal t.u.
del 2000 che, soltanto,
ebbe
a ripartire in
due articoli (artt. 58 e 59) la congerie di
ipotesi
che, dal 1990
al 1999, si erano affastellate nella stessa
disposizione;
il valore
del d.lgs. n. 267/2000
era pertanto palese nel
senso
di veder riproposte – sotto diversa collocazione
(l’art. 59,
comma
6) – quelle
soluzioni di parallelismo tra
ostativita-nullita-decadenza
gia’
delineate con i
vari commi
dell’art. 15 della legge n. 55/1990, in
tal guisa trovandosi conferma
del
fatto (gia’ segnalato nel parere dato dall’A.D. del
C.d.S. l’8
giugno
2000) che il
testo unico aveva solo – come dalla precisa
delega
legislativa – riunito e coordinato le norme vigenti, senza in
alcun
modo innovare in punti decisivi
quale quello esaminato (ed in
caso negativo incorrendo in ipotesi di incostituzionalita);
del resto,
la interpretazione condivisa era perfettamente
conforme
al costante insegnamento della Corte costituzionale sulla
identita’
di ratio giustificativa delle
fattispecie di
incandidabilita’
e di decadenza, non valendo, a diversamente opinare
in
termini di interessi
costituzionalmente rilevanti, l’esigenza di
assicurare
la stabilita’
del risultato elettorale (tal esigenza non
potendo far premio su quella, primaria, di
reagire alla carenza di un
fondamentale requisito per l’eleggibilita);
con riguardo
alla questione della applicazione delle norme in
discorso alla regione siciliana, tale
applicazione poteva ipotizzarsi
solo
affermandone – come dovevasi – il carattere ricognitivo della
normativa
preesistente rivestito dagli
artt. 58 e 59 del t.u.:
ed
infatti,
alla stregua dello Statuto
regionale le norme nazionali in
materia
elettorale potevano trovare
applicazione solo se
espressamente
richiamate dalla legge
regionale, avente in materia
potesta’
esclusiva, con la conseguenza per la quale il rinvio che le
leggi
regionali n. 7/1992 e n.
26/1993 operavano in materia alla
legge
n. 16/1992 (e quindi
all’art. 15, della legge n. 55/1990)
doveva
ritenersi rinvio materiale
o ricettizio. E di
qui la
conseguenza
ulteriore per la quale, non avendo il t.u.,
con riguardo
alla
questione dibattuta, alcuna
funzione innovativa ma soltanto
capacita’
ricognitiva,
solo in tal
ruolo di conferma delle norme
preesistenti
ed abrogate, le relative
disposizioni potevano trovare
ingresso in Sicilia, si’
che anche alla loro stregua doveva ritenersi
avverata la decadenza del Buzzanca
dalla carica di sindaco.
Per la cassazione
di tale sentenza
il Buzzanca
ha proposto
ricorso,
affidato a sei motivi, notificando l’atto in diverse
date
correnti
tra il 20 ed
il 29 dicembre 2003 ai soggetti indicati in
intestazione. Degli intimati si
sono costituiti con controricorsi
distinti:
Ansaldo Patti Rosario ed altri
sei – Notarianni Aurora ed
altri
diciassette – Rodi
Giuseppe – Bertuccelli Antonino
– il
Ministero dell’interno e
l’Assessorato siciliano agli enti locali.
L’avv. Trischitta, dal canto
suo, nel controricorso
ha anche
proposto
ricorso incidentale adesivo
(con due motivi) ed autonomo
(con
cinque motivi) al
quale hanno resistito, con controricorso
separato, il Rodi da un canto e Notarianni Aurora – La Torre Giuseppa
– Mazziotta
Rosa dall’altro canto.
Su istanza di sollecita trattazione dei difensori di Notarianni
Aurora +
17 era fissata
udienza di discussione dei ricorsi al 10
maggio
2004. Su nuova istanza dei medesimi difensori e
di quella dei
difensori
di Ansaldo Patti
Rosario ed altri
– rappresentanti
l’urgenza derivante dalla necessita’ di pervenire ad una decisione in
tempo
utile per l’eventuale
convocazione delle elezioni
per il
rinnovo
della carica in coincidenza con l’imminente turno elettorale
del
12/13 giugno 2004 – il presidente
della sezione in data 9 marzo
2004 fissava nuova, anticipata, udienza
al 14 aprile 2004.
In data 30
marzo 2004 era pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale
della
Repubblica il d.l. 29 marzo 2004,
n. 80 (disposizioni urgenti
in
materia di enti locali) nel
quale, all’art. 7 (modfiche al testo
unico
delle leggi sull’ordinamento degli
enti locali), erano
apportate
modifiche all’art. 58, comma
1, lett. b)
del d.lgs.
n. 267/2000 (nel
senso che dopo il numero «314» erano inserite le
parole «primo comma») ed all’art. 59 comma
6 dello stesso d.lgs. (nel
senso
che dopo le
parole «sentenza di condanna» erano inserite le
parole «per uno dei reati previsti dal
medesimo comma»). Hanno quindi
depositato
memorie i difensori del
ricorrente Buzzanca e di Ansaldo
Patti Rosario ed altri nonche’
Rodi Giuseppe, memorie nelle quali si
e’
dato atto e
trattato della sopravvenienza dell’art. 7, d.l. 29
marzo
2004, n. 80 recante
le teste’ rammentate modifiche al testo
degli
artt. 58 e
59, d.lgs.
n. 267/2000. Nella discussione orale
hanno
illustrato le loro
opinioni i difensori
indicati in
intestazione
ed il Rodi nel mentre l’avv. Trischitta
ha depositato
atto
di rinunzia (non recante accettazioni od adesioni) alle proprie
impugnazioni incidentali adesive ed autonome.
Riservata la
decisione, la
Corte, riuniti i
ricorsi, con
ordinanza
n. 7327/2004 depositata il 17
aprile 2004 ha dichiarato
rilevante e non manifestamente infondata la
questione di legittimita’
costituzionale
dell’art. 7, d.l.
n. 80/2004, recante modifiche
all’art. 58, comma
1, lett. B) e all’art. 59, comma 6, del d.lgs.
n. 267/2000 per evidente carenza del
requisito del caso straordinario
di
necessita’
ed urgenza, quindi
disponendo la sospensione del
procedimento,
la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e
le comunicazioni di rito.
La Corte costituzionale, con
ordinanza n. 2/2005 in data 11
maggio
2005, sul rilievo che dopo
l’ordinanza di rimessione il d.l.
del
quale era stata
denunziata l’incostituzionalita’ era
stato
convertito
con la legge 28 maggio 2004, n. 140, con la quale
erano
state
apportate modifiche al decreto ed enunziate
le ragioni della
emanazione
della norma censurata, ha
disposto la restituzione degli
atti a questa Corte per nuovo esame della
rilevanza.
E’ stata quindi
fissata nuova udienza per la discussione del
ricorso. I difensori del Buzzanca, da un
canto, e dei
controricorrenti
Bertucceili,
Ansaldo Patti ed
altri, Notarianni
Aurora ed altri hanno depositato
memorie. Rodi Giuseppe ha depositato
motivate
istanze 21 marzo 2005 dirette al differimento della udienza
per
asserita nullita’ dell’avviso. Alla udienza del 31 marzo 2005 il
Collegio ha con ordinanza rigettato l’istanza
Rodi di differimento e
quindi, uditi i difensori ed il p.g., ha riservato la decisione.
O s s e r v a
Ritiene il Collegio
di dover – nuovamente – sollevare
innanzi
alla
Corte delle leggi questione di legittimita’
costituzionale, con
riguardo
all’art. 7, del 29 marzo 2004, n. 80 nel testo risultante
dalla
conversione, con modificazioni, ad opera della legge 28 maggio
2004, n. 140 (nella
Gazzetta Ufficiale n. 125/2004),
recante
modificazioni
all’art. 58, comma 1, lettera b)
del t.u. delle leggi
sull’ordinamento degli
enti locali di cui al d.lgs. n. 267/2000, in
relazione
all’art. 77 comma
2 della Costituzione per evidente e
manifesta carenza – nella decretazione di
urgenza – del requisito del
caso
straordinario di necessita’ ed
urgenza e per la conseguente
comunicazione
di tale vizio procedimentale alla legge che, pur in
manifesto difetto di tal requisito, ha
provveduto alla conversione.
Il teste’ indicato sospetto
di illegittimita’
costituzionale
viene
da questa Corte
formulato dopo la
reiterazione della
valutazione
di rilevanza della questione con specifico riguardo alla
legge
di conversione del d.l. n. 80/2004, come richiesto dalla Corte
costituzionale con l’ordinanza n. 2/2005.
Con tale pronunzia
processuale di restituzione degli
atti, la
Corte ha
declinato di decidere
sulla questione sottopostale sul
rilievo
che la legge
di conversione imponesse
a questa Corte
remittente
un nuovo esame della rilevanza della questione stessa. Ed
a tanto si provvede.
L a r i l e v a n z a
Le norme, introdotte dalla decretazione d’urgenza nel
corso del
presente
giudizio di legittimita’, e
riprodotte nella legge di
conversione,
devono trovare diretta applicazione
all’atto in cui si
pervenga
alla decisione dei motivi II, III e IV che, ad avviso del
Collegio, hanno carattere assorbente
nella disamina dell’impugnazione
principale.
Al proposito devesi
richiamare interamente quanto
e’ stato
esposto nell’ordinanza n. 7327/2004 di
questa Corte con riguardo agli
effetti sulla cognizione del ricorso
determinati dalla sopravvenienza
dell’art. 7, del d.l. n. 80/2004. In tale
ordinanza se’ e’ affermato:
«Ed infatti, la non decisivita’
delle questioni poste dal primo
motivo
(denunziante violazione degli
artt. 58 e 70
del d.lgs.
n. 267/2000 e
vizio di motivazione, per avere la impugnata sentenza
mancato
di dichiarare inammissibili le
azioni popolari, non essendo
stata impugnata – come si sarebbe dovuto –
la decisione 6 giugno 2003
dell’ufficio elettorale) scaturisce dalla persuasivita’ evidente – ed
in
questa sede delibativa non
superabile – delle
contrarie
argomentazioni
gia’
esposte da questa
Corte nella sentenza
n. 18128/2002. Quanto alle
questioni poste nel quinto motivo (il
sesto
non venendo in
rilievo, in quanto attinente al regime delle
spese)
– denunziante violazione del d.lgs. n.
267/2000 e delle leggi
regionali
siciliane nn. 7/1992 e n. 26/1993, per avere la Corte di
merito
scorrettamente affermato che esse avrebbero operato un rinvio
recettizio
o materiale alla
legge statale n. 16/1992
e che le
disposizioni
del suo art. 1
sarebbero state sostanzialmente
riprodotte, con diversa articolazione, dal d.lgs. n. 267/2000, in tal
guisa,
e solo per
tal natura meramente
ripetitiva, trovando
applicazione
in Sicilia i relativi artt. 58 e
59 – esse appaiono in
questa
sede non decisive,
non gia’ perche’ prive
di fumus
di
fondatezza
ma per la contraria ragione per
la quale esse non paiono
condurre
ad alcun risultato demolitorio della pronunzia
impugnata ma
soltanto alla correzione della sua
motivazione in diritto.
Ed infatti, e
con la sintesi dovuta in coerenza con il ruolo
delibativo
della presente cognizione, pare al Collegio che i ridetti
artt. 58, comma
1, lett. b)e 59 comma 6 del t.u. approvato nel 2000
costituiscano
la fonte delle norme
«inabilitanti» o «disabilitanti»
del
candidato o dell’eletto alla carica di sindaco in Sicilia stante
il
carattere aperto, o «ricettizio»
della normativa statale in
materia,
proprio del rinvio contenuto
nell’art. 36, legge regionale
Si.
n. 26/1993
(carattere sul quale il ricorso
ha speso motivate e
persuasive considerazioni
in termini di lettura
costituzionalmente
corretta
del rinvio e del quale non ha avuto dubbi di sorta
questa
Corte nella recente sentenza n. 2896/2004,
che dell’art. 58, comma 1
lett.
c) del t.u. ha fatto indiscussa applicazione in controversia
afferente
la decadenza di
sindaco di altro comune siciliano). Se,
dunque,
non pare dubitabile che la vicenda di decadenza
sottoposta
debba
essere governata proprio
dagli artt. 58 e
59 del t.u.
n. 267/2000, sui
quali si e’ appuntata la novellazione
d’urgenza ex
art. 7
d.l. n. 80/2004, emerge come
indiscutibile la inerenza della
questione
di costituzionalita’ di
tal novella alla disamina dei
motivi (II, III e IV) del ricorso Buzzanca che, sulla interpretazione
delle
norme novellate, muovono
articolate censure alla impugnata
decisione. Con il
secondo motivo, infatti, si attinge il cuore del
problema
(urgentemente risolto dal d.l.
sopravvenuto), quello della
latitudine della previsione inabilitante
dell’art. 314 c.p. contenuta
nell’art. 58, comma
1), lett. b), sostenendosi, in
antitesi con la
decisione
della Corte territoriale, che il
peculato d’uso – delitto
autonomo e diverso, sotto piu’
profili, dal peculato – non sarebbe da
comprendere,
a pena di confliggere
contro primarie esigenze di
ragionevolezza,
nella previsione inabilitante del peculato. Con il
terzo
e quarto motivo,
di converso, dato
per ammesso che la
previsione
inabilitante includa l’ipotesi
del peculato d’uso, si
censura
l’opzione interpretativa adottata dalla Corte di Messina per
la
quale, dalla lettura storico-sistematica delle leggi
statali in
materia,
risulterebbe perfetta corrispondenza tra
previsioni
inabilitanti
(in termini di ostativita’ alla carica e di nullita’
della
elezione avvenuta) e previsioni disabilitanti (in termini di
decadenza
dell’eletto per la sopravvenienza del giudicato ostativo):
ad
avviso del ricorrente, come fatto palese dalla collocazione degli
artt. 58 e
59 comma 6, si sarebbe
realizzata una rottura della
originaria
corrispondenza, si’ da riservare
l’operativita’ della
causa
di decadenza al solo ambito dell’operativita’
della causa di
sospensione interinale, con la consegnenza che non potrebbe decadere,
per
giudicato sopravvenuto su causa ostativa, il sindaco che per tal
causa
non fosse stato
soggetto alla sospensione per
condanna non
definitiva (si’ che’ non costituirebbe causa di decadenza ex art. 59,
comma
6 il giudicato afferente la commissione di peculato d’uso, tal
delitto
non essendo previsto, all’art. 59, comma 1, lett. A),
come
causa
di sospensione interinale ma soltanto contemplato come causa
ostativa
alla candidatura nella piu’ ampia previsione dell’art. 58,
comma
1, lett. b). Ebbene, in tali termini chiarita
la res litigiosa
sottoposta
dal ricorso ed individuata la inerenza della novella alle
sole
questioni decisive in causa, vi e’ da sottoporre a lettura la
novella
stessa per poi
sottolineare i piu’ evidenti profili di
rilevanza
della questione di sua illegittimita’
costituzionale, in
termini
di necessaria ed
ineludibile sua applicazione
come jus
superveniens.
L’art. 7, del d.l.
n. 80/2004 al punto a) modifica la norma di
cui
all’art. 58, comma
1, lett. b)
aggiungendo alla previsione
inabilitante
(causa ostativa alla candidatura costituita da condanna
definitiva
per delitto) afferente il
peculato sub. art. 314 c.p. le
parole
«primo comma», con
la conseguenza di escludere dal
novero
delle
cause ostative il delitto di
peculato d’uso (sull’assunto che
la
minor offensivita’ giuridica
del delitto in
questione ne
giustifichi
la sottrazione dall’ambito
delle cause ostative per
delitti
rubricati) e di
includerlo tra le stesse cause ostative
soltanto
se la pena
irrogata superi i sei mesi (art. 58, comma 1,
lett. c). Lo stesso art. 7, al punto b),
modifica poi la disposizione
di
cui all’art. 59, comma
6 del t.u.
nel senso di
prevedere
esplicitamente
che la decadenza dalle cariche elencate al comma 1,
dell’art. 58, per
effetto di sentenza di condanna definitiva, operi
ove
la condanna sia
intervenuta per uno
dei reati previsti dal
medesimo
comma, con la
conseguenza per la quale, in
un’ottica di
ripristinata
(o ribadita) perfetta
corrispondenza tra cause
inabilitanti
e cause disabilitanti, si
esclude che la condanna
definitiva
a pena fino a sei mesi per il delitto di peculato
d’uso
possa
operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come
causa di decadenza dalla stessa. In tal
guisa identificata la portata
di
modifica normativa della novella, e rammentato che la decadenza
del Buzzanca
dalla carica di Sindaco di Messina era stata pronunziata
per la sua irrevocabile condanna alla
pena di mesi sei per il delitto
di
peculato d’uso di cui al comma 2,
dell’art. 314, c.p. (oltre che
per
quello di cui all’art. 323 c.p.), resta da chiarire le
ragioni
per
le quali nel
processo pendente in questa sede di legittimita’
debbano essere applicate non solo le norme
modificate (gli artt. 58 e
59 t.u., per le
ragioni dinanzi rammentate) ma anche – ed ovviamente
in
via esclusiva – le norme
modificanti contenute nell’art. 7, d.l.
n. 80/2004.
Che le norme
sopravvenute non abbiano
alcuna portata
interpretativa
e’ dato, al
contempo, evidente ed inconferente sul
piano
della rilevanza e
sintomatico sul piano della non manifesta
infondatezza
della questione che
si solleva. Riservata alla sede
propria
la trattazione di tal ultimo profilo, deve quindi escludersi
– come
dato di tutta evidenza – che le nuove norme abbiano
alcuna
portata
di interpretazione autentica
delle norme che sostituiscono:
se,
infatti, come da questa Corte piu’ volte
affermato, il carattere
in
discorso dipende dal
solo contenuto del
precetto posto – in
termini
di apprezzamento ermeneutico di un
precetto antecedente al
quale la nuova norma si ricolleghi nella
lettera e nella ratio, a tal
valutazione
sovrapponendo l’imperativa nuova
interpretazione (da
ultimo
Cass. 9895/2003) –
e se certo
non fa ostacolo
alla
legittimita’
di siffatta opzione
ermeneutica l’inesistenza di una
diffusa
situazione di incertezza
o di contrasti giurisprudenziali
(come
rammentato in svariati arresti
della Corte costituzionale: ex
multis
sentt. nn. 374/2002 – 29/2002 – 525/2000 – 229/1999), non e’
chi
non veda come nelle disposizioni
di cui all’art. 7, in disamina
non
e’ dato rinvenire
ne’ riferimenti a
pregresse alternative
ermeneutiche
ne’ la imperativa opzione per una di esse ma, soltanto,
la
volonta’,
esplicitata in rubrica e nel testo, di modificare le
norme
previgenti,
il che e’
quanto dire di compiere l’operazione
opposta
a quella di
recare interpretazione autentica
delle norme
(imporre come corretta una delle sue
possibili letture) e consistente
nella sostituzione di testo a testo
(sull’assunto che nel primo testo
non vi fosse spazio alcuno per la
soluzione auspicata).
Ma il
carattere non interpretativo di quello che, pertanto, deve
definirsi
jus superveniens, e’ del tutto indifferente ai fini della
sua
applicazione alla controversia
in disamina, dovendo
tale
immediata applicazione ravvisarsi non gia’ per effetto dell’incidenza
della
novella sugli effetti
penali della sentenza (come pur,
con
dovizia
di argomentazioni, sostenuto
dal ricorrente nella memoria
7 aprile 2004)
bensi’
per l’assorbente rilievo
dell’avere detta
novella
incidenza sul regime
dei requisiti legali di mantenimento
della carica pubblica elettiva e quindi
sulla sua idoneita’ a mutarlo
con
immediata efficacia tanto in malam quanto,
come nella specie, in
bonam
partem.
Questa Corte ha
infatti piu’
volte affermato, con
riguardo
alla sopravvenienza di condizioni «disabilitanti» (sentenze
irrevocabili
di condanna) alla
elezione o nomina
alla carica
elettiva,
e con specifico
riguardo alle disposizioni
dell’art. 1
commi
quattro-bis
e quinquies
della legge n. 16/1992, che le nuove
disposizioni
debbono essere applicate
anche ove le
situazioni
sanzionate
si siano verificate
ben prima della entrata in vigore
della
legge sopravvenuta non
venendo in gioco
alcun profilo di
retroattivita’
della disposizione (posto
che essa produce i suoi
effetti solo per il periodo successivo alla
sua entrata in vigore) ma
trattandosi
di un nuovo
parametro cui il
legislatore ancora il
giudizio
di indegnita’ rispetto
alla conservazione della carica
(Cass. 9087/1993 – 10700/1993 – 10741/1993
– 10744/1993 – 9953/1994).
E posto che
il principio formulato
da tali pronunzie appare
assolutamente
condivisibile, la’ dove evidenzia la ragionevolezza
della
immediata applicazione della nuova norma perche’
attingente le
condizioni
di mantenimento della
carica, ne discende che di tal
principio
debba farsi applicazione
anche le volte in cui la norma
sopravvenuta
rimuova un pregresso giudizio di indegnita’,
confinando
nell’ambito dell’irrilevanza giuridica
una condanna penale che in
base alle norme preesistenti aveva valore
di condizione inabilitante.
Di qui
la conseguenza che la
sopravvenienza normativa in esame non
potrebbe
non trovare immediata applicazione a beneficio del Buzzanca
e
nel processo in corso, a tal
applicazione non ostando preclusioni
di
sorta (ed anzi
essendo la questione
della comprensione del
peculato
d’uso nella norma
disabilitante dedotta ad oggetto del
richiamato secondo motivo del ricorso)».
Quanto sin qui
affermato, con riguardo alla
norma portata dal
d.l.,
non viene in
alcun modo revocato
in dubbio dalla norma
risultante
dalla legge di
conversione: se e’ infatti compito di
questa
Corte remittente sottoporre a scrutinio di
rilevanza il testo
della
norma, gia’ sospettata, quale portato dalla
sopravvenuta legge
di
conversione, non occorre diffusione di argomenti per sostenere il
rilievo della assoluta estensibilita’
anche al testo definitivo della
sopra
riportata valutazione di
rilevanza. In quel testo, e per la
parte
che rileva in
causa, l’inciso «primo comma»
(che l’art. 7,
comma 1,
lett. A) intese
inserire dopo il
numero 314 di cui
all’art. 58, comma
1, lett. B)del d.lgs. n.
267/2000) e’ stato
semplicemente
riprodotto al seguito di una virgola («, primo comma»)
e la soppressione della modifica
all’art. 59, comma 6 di cui al comma
1, lett. B) dell’art. 7, del d.l. e’
scelta di evidente indifferenza
rispetto alla questione dedotta in causa.
Giova, da ultimo,
prendere in esame – per disattenderle con la
sintesi propria della odierna cognizione –
le obiezioni che la difesa
dei
controricorrenti ha
inteso muovere al
rilievo di immediata
applicazione
dello jus superveniens formulato
nell’ordinanza
n. 7327/2004, obiezioni
che, facendo leva
sul canone del «fatto
compiuto» o della «cristallizzazione»
(elaborato dalla giurisprudenza
di
legittimita’
in materia elettorale), indicano
come eversiva dei
principi
la scelta di applicare la norma sopravvenuta che rimuova ex
nunc
(ed appunto in bonam partem) un pregresso
giudizio di
indegnita’.
Dette obiezioni in
primo luogo ignorano che nel caso
sottoposto
nessuna decadenza si era avverata posto che proprio sulla
applicabilita’
alla specie della norma che la
comminava (l’art. 58,
comma 1,
lett. B) ante novella) erano insorte controversie decise in
modo
difforme dai giudici
del merito sulla
base di divergenti
interpretazioni del diritto vigente e, in secondo
luogo, non mostrano
consapevolezza
della assoluta doverosita’ (in
termini di
interpretazione
secundum
constitutionem) della
applicazione della
norma
sopravvenuta che rimuova un
pregresso giudizio di indegnita’,
confinando nell’ambito dell’irrilevanza
giuridica una condanna penale
che
venga privata del
valore di condizione inabilitante. Ma dette
obiezioni,
in terzo luogo,
richiamano in modo
non pertinente
precedenti
statuizioni di questa
Corte che, facendo
leva sulla
«cristallizzazione» determinata dalla domanda ex art. 9-bis, d.P.R.
n. 570/1960, hanno
escluso alcuna applicabilita’ dello
jus
superveniens, posto che tali pronunziati (per
tutti si rammenta Cass.
n. 12862/2001) afferivano la
materia delle incompatibilita’ per le
quali e’ prevista la sua rimozione nel
termine di legge ed e’ esclusa
alcuna
rimozione tardiva e
non riguardavano certo
i casi di
incandidabilita’ o decadenza per indegnita’
da condanna penale di cui
alle norme via via
introdotte (leggi nn. 55/1990 – 16/1992 – 475/1999
– d.lgs. n. 267/2000),
per i quali
non si scorge alcun ruolo da
assegnare alla scelta di rimozione.
Vanno dunque pienamente confermate, anche con riguardo al
testo
dell’art. 58, comma 1, lett. B) risultante
dalla legge di conversione
n. 140/2004, le
considerazioni di rilevanza
gia’ formulate nella
precedente ordinanza di rimessione n. 7327/2004
di questa Corte.
La non manifesta
infondatezza
Ad avviso del
Collegio la norma
in disamina difetta
del
necessario
requisito per la
sua adozione con decreto legge – la
sussistenza di caso straordinario di necessita’ ed urgenza – di guisa
che
il vizio di violazione del disposto dell’art. 77, comma 2 Cost.,
attingente
il provvedimento 29 marzo
2004, n. 80, ben dovra’
coinvolgere
– come vizio
in procedendo –
la stessa legge
di
conversione
che abbia provveduto in difetto del necessario requisito
(come statuito da Corte cost. nella
decisione n. 29/1995).
A criterio del Collegio il difetto del requisito
costituzionale
raggiunge,
nella specie, la soglia della evidenza che la Corte delle
leggi
ha sempre ribadito essere condizione per la sua sindacabilita’
quale
vizio comunicato alla
legge di conversione (come affermato
negli
arresti nn.
29/1995 – 161/1995 – 330/1996 – 432/1996 ord. –
90/1997 ord. – 398/1998 –
16/2002 – 341/2003), evidenza che deve
essere apprezzata – nella dimensione delibativa e prognostica che gli
compete – anche dal giudice che solleva la
questione.
Giova riportare in
questa sede i dati che
l’ordinanza di
rimessione
n. 7327/2004 ha inteso evidenziare come sintomatici della
carenza
del requisito costituzionale per provvedere con decretazione
d’urgenza sulla
materia de qua: tale ordinanza, con argomentare che
il Collegio interamente condivide, ebbe
ad affermare:
1. – La
decretazione d’urgenza e’ stata
adottata non gia’ per
regolare
– con lo
strumento imposto dall’approssimarsi delle
consultazioni
elettorali del 12-13 giugno
2004 – la materia delle
condizioni ostative alle candidature, in
un’ottica (insindacabile) di
adeguamento
delle previsioni normative al mutamento delle condizioni
politiche,
ma soltanto per escludere dal novero delle cause ostative
sub.
art. 58,
comma 1, lett. a) l’ipotesi di
condanna per peculato
d’uso, senza che dal testo del
provvedimento (o dal generale contesto
della giurisprudenza in materia, nel quale
questa Corte riveste ruolo
essenziale)
sia desumibile la
ragione per la quale l’urgenza
del
provvedere
si sia appuntata solo sulla prescelta ipotesi ed in
tal
guisa
facendo sorgere il dubbio
(trovante riscontro nella scansione
degli
eventi sintetizzati nelle premesse in fatto) di una indebita
intenzione
di incidere sulla concreta fattispecie sub judice
(di cui
e’
cenno nella sent. n. 525/2000 della
Corte costituzionale),
intenzione
che, ove sussistente, attesterebbe, ben
oltre
l’insussistenza del
requisito in disamina,
la sua impropria
invocazione.
2. – La
evidente carenza dei requisiti in esame e’ resa palese
dalla
assenza della loro
stessa dichiarazione nel preambolo del
decreto
n. 80/2004: se, infatti, si e’ ritenuto di ivi esplicitare
che
l’adozione delle disposizioni
urgenti in materia di enti locali
trovava
ragione nel fine
di assicurarne la funzionalita’ con
particolare riferimento alle procedure di
approvazione dei bilanci di
previsione,
alle difficolta’ finanziarie
dei comuni di
ridotta
dimensione demografica ed al risanamento di
particolari situazioni di
dissesto
finanziario, nulla si e’ ritenuto – sintomaticamente
– di
dichiarare
con riguardo alla straordinaria necessita’ ed urgenza di
modificare
i soli artt. 58, comma 1, lett. b) e 59, comma 6 d.lgs.
n. 267/2000 nel
senso di escludere l’ipotesi sub. art. 314,
comma 2
c.p. dal novero dei delitti ex se
ostativi alla candidatura.
3. – Altrettanto sintomatico e’ poi il silenzio del provvedimento
con riguardo alla deroga che l’art. 7,
del d.l. in esame ha apportato
all’art. 15, comma 2,
lett. b) della legge n. 400/1988 la’ dove fa
divieto
al Governo di
adottare decreto-legge per provvedere nelle
materie indicate nell’art. 72, comma 4 Cost.
(tra le quali la materia
elettorale, nella quale sussiste la riserva di
delibera assembleare):
se
nella legge fondamentale
che regola, al capo III, la potesta’
normativa
del Governo, e’ fatto generale divieto di ricorrere alla
decretazione
d’urgenza in materia
elettorale, la deroga che a tal
divieto
un decreto-legge apporta non puo’
non trovare ostensione –
nel
preambolo (art. 15, comma 1
legge cit.) –
in termini di
eccezionale
necessita’
ed urgenza. E
se il Governo ha nella specie
ritenuto
di far doveroso
omaggio all’obbligo di
indicare nel
preambolo
del decreto le circostanze
straordinarie di necessita’ ed
urgenza che ne giustificavano l’adozione
(art. 15, comma 1) ma poi ha
taciuto
del tutto sulle circostanze che
ne imponevano l’adozione in
materia
nella quale quella stessa legge
fa divieto di adottarlo, si
avvalora
in modo evidente il dubbio che le ridette circostanze
non
potevano
essere portate ad emersione essendo esse del tutto estranee
dall’ambito di
legittimo esercizio della potesta’ normativa
del
Governo.».
Ebbene, dal sommario
esame del testo e dei lavori
preparatori
della
legge di conversione emerge con nettezza la consapevolezza, da
parte
del Parlamento, della
originaria carenza del
requisito
costituzionale
a sostegno della adottata
decretazione d’urgenza. Ed
infatti:
per quel che
riguarda la «latitudine» dell’intervento operato
sulla
«materia» delle condizioni
ostative alle candidature con la
legge
di conversione non si scorge
alcuna coerenza della disciplina
definitiva
con quella, singolarmente ed urgentemente, adottata con
l’art. 7, del d.l. n. 80/2004: nessuna
delle modifiche apportate agli
artt. 59, comma 3, 61,
64, 254, 256
del t.u. di cui al d.lgs.
n. 267/2000 attiene
infatti alle regole sulle cause ostative alla
candidatura
determinate da condanna penale si’
da far ritenere che
l’originario intervento
urgente sull’ipotesi di
condanna per il
delitto
di cui all’art. 314
c.p. si iscrivesse
comunque in un
disegno, provvisoriamente perseguito ma poi
coerentemente sviluppato,
di
regolamentazione della materia
in una ottica
coerente di
rimodulazione
del rapporto tra
diritto di elettorato e sanzione
penale;
per quanto
riguarda la carenza
di alcuna originaria
«ostensione» delle ragioni di urgenza, l’inconsueto inserimento nella
legge
di conversione di ragioni giustificatrici afferenti la ratio
dell’intervento (operato
…per chiarire e definire i presupposti e
le
condizioni rilevanti per il
mantenimento delle cariche pubbliche
ai
fini dell’ordine e della sicurezza pubblica), attesta non gia’ la
consapevolezza
di gravi ed indifferibili ragioni di urgenza, rimaste
inespresse
in sede di
decretazione e da
esplicitare in sede di
conversione,
bensi’
la scelta di sottrarre quella
decretazione dal
divieto
di cui agli
artt. 15, comma 2,
lett. b) della
legge
n. 400/1988 e 72, comma 4 Cost.,
con la conseguenza per la quale, se
e’
chiaro l’intento del legislatore di riposizionare la decretazione
su
materia costituzionalmente autorizzata resta ancora una volta, ed
ancor piu’,
inespressa la ragione di urgenza per tutelare con il d.l.
n. 80/2004 ragioni
di ordine e sicurezza pubblica.
In tal senso e’
significativo
che nell’esame in sede referente da parte del Senato
dell’atto
n. 2869 si sia affermato (22 aprile 2004 – seduta n. 396 –
senatore
Falcier)
apparire evidente che
«… l’art. 7 del
decreto-legge
n. 80 attiene alla materia ordine pubblico e sicurezza
pubblica
e non a
quella strettamente elettorale e
che era quindi
possibile
e anzi opportuno
intervenire in tale
senso con un
provvedimento di urgenza.»;
se poi
ci si interroghi,
come appare doveroso a questo
giudice
rimettente, sulla esistenza
di un elemento decisivo per
affermare o negare la permanenza del vizio in
disamina a carico della
legge
di conversione, non potra’ che farsi capo alla piu’
esplicita
delle recenti pronunzie della Corte
costituzionale sulla questione in
esame,
la sentenza n. 341/2003:
in tale pronunzia si e’ infatti
affermato
che la evidente
mancanza dei presupposti coinvolge il
momento della conversione nel solo caso in
cui palesemente difetti un
consenso
parlamentare sulla sussistenza
del requisito di contro
dovendosi
ritenere sanato l’originario
vizio ove emerga la opinione
della
necessita’
dell’intervento urgente (pur nella diversita’
di
valutazioni
sulla opportunita’ politica
della norma). Il che e’
quanto
dire,ad opinione del
Collegio, che la
sola opinione di
maggioranza
sulla originaria necessita’ della decretazione
d’urgenza
non
parrebbe essere idonea a sanare
il vizio in discorso. E se poi,
come
emerge dalla doverosa
verifica dei lavori preparatori,
alla
opinione
di maggioranza (sostanzialmente limitata
alla
identificazione
dell’urgenza con la
appartenenza del decreto alla
«materia» dell’ordine e
sicurezza pubblica) si
contrapponga una
continua
ed insistita denunzia
– da parte
della minoranza –
dell’assenza di
alcuna ragione d’urgenza a sostegno della norma, la
mancanza
di effetto sanante ad opera della legge di conversione
si
imporra’ – come si impone – in modo del tutto
evidente;
al proposito
gia’ dal resoconto sommario della prima seduta
d’esame
al Senato dell’atto n. 2869 (31
marzo 2004 – seduta n. 391)
alla
opinione espressa dal
sottosegretario D’Ali’, per la quale
l’art. 7, presentava
i requisiti della necessita’ ed
urgenza in
quanto
volto «…a eliminare
una discrasia determinatasi
nella
regolazione delle cause ostative alla
candidatura rispetto ai casi di
sospensione
e decadenza di
diritto dei candidati
alle elezioni
amministrative…» si contrappose
l’opinione del sen. Villone per la
quale
la norma, definita
«…norma fotografia…»,
delineava una
discrasia in atto sin dal 2001 e che non aveva
consigliato, in quegli
anni, alcun intervento correttivo.
Analoga contrapposizione si registra nelle dichiarazioni di cui
alle
sedute n. 395 del 21 aprile 2004
e n. 396 del 22 aprile 2004 e
di
cui alle sedute pubbliche
dell’Assemblea del Senato del 6 aprile
2004 e
del 22 aprile 2004.
Ampio risalto alla
questione di
costituzionalita’
dell’art. 7, del d.l. in via di
conversione viene
poi data in sede di discussione della
pregiudiziale «Montecchi», alla
Camera dei deputati (seduta n. 466 del 12
maggio 2004 – a.c. 4962) e
riproposta
anche in sede
di dichiarazione di
voto finale sugli
emendamenti
soppressivi (seduta n. 473
del 25 maggio 2004 – a.c.
4962). E, da
ultimo, anche in sede di
discussione ed approvazione
finale
del d.d.l. (n. 2869-B,
in Senato, seconda lettura – seduta
n. 613,
pubblica) venne dichiarato
da senatori della minoranza
(sen. Battisti) che
l’art. 7, doveva ritenersi
«…chiaramente
incostituzionale
per la mancanza assoluta dei necessari presupposti;
rimaniamo
nella convinzione che,
in realta’, si
tratta di
decretazione d’urgenza elettorale».
Nella sui qui esposta sussistenza dei requisiti
per la rimessione
alla
Corte costituzionale della
formulata questione, si provvede
quindi alla sospensione del processo, alla
trasmissione degli atti ed
agli adempimenti di legge.
P. Q. M.
Visto l’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita’ costituzionale dell’art. 7, comma 1,
lettera A) del d.l.
29 marzo 2004, n. 80 come convertito, con
modificazioni, dalla legge
28 maggio 2004 n. 140, recante modifiche
all’art. 58, comma 1, lett.
B) del
d.lgs. n. 267/2000, in
relazione all’art. 77, comma 2, della
Costituzione per
evidente carenza del
requisito del caso
straordinario di necessita’
ed urgenza;
Dispone, la sospensione del procedimento n. 30654/2003;
Ordina la immediata
trasmissione degli atti
alla Corte
costituzionale;
Ordina alla
cancelleria che la presente ordinanza sia notificata
alle
parti del giudizio
di legittimita’ ed
al Presidente del
Consiglio dei
ministri e che essa sia
comunicata al Presidente del
Senato della Repubblica ed al
Presidente della Camera dei deputati.
Cosi’ deciso nella Camera di consiglio della
prima sezione civile
il 31 marzo 2005.
Il Presidente: Losavio