Lavoro e Previdenza

Wednesday 24 December 2003

La Cassazione torna ad occuparsi di rinunce e transazioni da parte del lavoratore

La Cassazione torna ad occuparsi di rinunce e transazioni da parte del lavoratore

Cassazione – Sezione lavoro – sentenza 15 gennaio-3 settembre 2003, n. 12858

Presidente Senese – relatore Vigolo

Pm Palmieri – conforme – ricorrente Tagliamonte – controricorrente Ansaldo Trasporti Spa

Svolgimento del processo

Con atto depositato il 29 settembre 1997, l’avv. Alfonso Tagliamonte ricorreva al Pretore di Napoli chiedendo la condanna della Ansalda Trasporti spa ‑ alle cui dipendenze aveva lavorato come dirigente sino al 29 febbraio 1996, allorché il rapporto era stato consensualmente risolto ‑ a risarcirgli il danno, pari all’ammontare di lire 400 milioni, per inadempimento connesso all’obbligazione di controparte, ex articolo 12 Ccnl, di stipulare un contratto di assicurazione nel di lui interesse, per il caso, in concreto verificatosi, di insorgenza di invalidità permanente tale da non consentire la prosecuzione del rapporto. L’inadempimento sarebbe consistito nel non essere stato posto dalla datrice di lavoro in condizione di riscuotere tale somma.

Il ricorrente dava atto che il 29 marzo 1996 aveva sottoscritto un verbale di accordo con la controparte, peraltro tempestivamente impugnato ai sensi dell’articolo 2113 Cc, comunque non attinente alla pretesa risarcitoria avanzata.

La società eccepiva l’inammissibilità della domanda in ragione del predetto accordo sindacale e la sua infondatezza in mancanza degli elementi costitutivi dell’evento in previsione del quale l’assicurazione era stata stipulata.

Con sentenza in data 5 maggio 1998, il Pretore rigettava la domanda, pur ritenuta ammissibile, per insussistenza dei presupposti per l’attribuzione della somma richiesta.

Proponeva appello, in via principale, il Tagliamonte il quale sosteneva che si era verificato l’evento, previsto dalla polizza da stipulare ai sensi del contratto collettivo, e che l’eventuale sua inesistenza avrebbe dovuto essere, caso mai, eccepita dall’assicuratore.

La società proponeva appello incidentale sostenendo l’inammissibilità della domanda per la conciliazione raggiunta in sede sindacale.

Con sentenza in data 17 settembre 1999, il Tribunale di Napoli accoglieva il solo appello incidentale e dichiarava inammissibile la domanda del Tagliamonte per essere intervenuta valida conciliazione ai sensi dell’articolo 411, terzo comma, Cpc.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre il Tagliamonte con 3 motivi illustrati con memoria.

Resiste la Ansaldo Trasporti spa con controricorso e memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso, il Tagliamonte deduce «violazione e falsa applicazione degli articoli 2113 Cc e 411 Cpc, nonché motivazione illogica e insufficiente e omesso esame di punto decisivo, il tutto in relazione all’articolo 360 nn.3 e 5 Cpc e sostiene che l’accordo non poteva ritenersi inoppugnabile ‑ per la ritenuta assistenza del lavoratore, in sede di stipulazione, da parte di suo rappresentante sindacale ‑ in quanto l’accordo era stato stipulato in luogo diverso da quello di espletamento dell’attività lavorativa; ‑ il rappresentante sindacale operava in provincia diversa da quella di quest’ultima località e non poteva quindi considerarsi rappresentante sindacale “proprio” del lavoratore; ‑ la “assistenza” non fu effettivamente e concretamente attuata da detto rappresentante.

Erroneamente il Tribunale avrebbe rilevato la mancata allegazione e dimostrazione dell’effettività dell’opera di assistenza, posto che, nel ricorso introduttivo, il rappresentante sindacale era stato definito come “Convitato di pietra” e sarebbe stato comunque compito del giudice verificare i requisiti di validità dell’accordo; vi era invece la prova che l’accordo, raggiunto in precedenza tra un esponente (tale dott. Arvonio) della società e il lavoratore, era stato poi semplicemente trasfuso nel verbale di accordo sindacale; le affermazioni poi rese dallo stesso Arvonio in sede di interrogatorio, circa la messa in guardia da parte dei sindacalisti presenti sul contenuto (dell’atto) dismissivo della specifica pretesa di cui è causa, non solo non costituivano prova, ma avrebbero comunque confermato la sostanziale inerzia del sindacalista genovese, già assente alle trattative, il quale si sarebbe limitato ad ammonire sulla portata “dismissiva” dell’atto pur non risultando alcuna contropartita alle rinunce sottoscritte dal lavoratore.

Il motivo è infondato.

La decisione del Tribunale prende le mosse dai rilievi in fatto e dalle considerazioni che seguono: ‑ la risoluzione consensuale del rapporto avvenne a far data dal 29 febbraio 1996, a brevissimo tempo dalla comunicazione dell’Inpdai, in data 30 gennaio 1996,dell’accertamento medico di una invalidità superiore al 50% che dava accesso alla pensione di invalidità purché seguita dalla risoluzione del rapporto entro l’anno;‑ era stato convenuta tra le parti la corresponsione di un trattamento economico di notevole entità, comprensivo, tra l’altro di un importo di oltre 140 milioni di lire, unitamente ad una integrazione della contribuzione volontaria di lire 102.000.000 e la corresponsione dell’ulteriore importo di lire 66.500.000; alla risoluzione consensuale seguì il 29 marzo 1996 accordo transattivo in sede sindacale del 29 marzo 1996 presso l’Intersind di Genova e alla presenza dei rappresentanti sindacali Intersind e del sindacato Dirigenti;l’accordo era valido anche se stipulato in territorio diverso dalla sede di lavoro e con l’assistenza di sindacalisti della provincia di Genova, ma della stessa organizzazione di appartenenza del lavoratore; nel relativo verbale era richiamato il disposto dell’articolo 411, terzo comma, Cpc, si era dato atto anche della concreta attività di conciliazione dei rappresentanti sindacali e le parti descrivevano i termini della transazione raggiunta e convenivano di depositare il verbale ai sensi dell’articolo 2113 Cc, come poi concretamente avvenne; ‑ non era dedotto, né dimostrato che fosse mancata in concreto e sul piano sostanziale l’opera di assistenza dei rappresentanti sindacali.

Tanto promesso, rileva la Corte come la decisione si fondi su accertamenti in fatto, la cui valutazione è istituzionalmente demandata al giudice di merito e non è sindacabile in sede di legittimità quando, come nel caso in esame, sia adeguatamente motivata con argomenti immuni da vizi logici o giuridici.

Certamente irrilevante è il fatto che la conciliazione si sia conclusa in luogo (provincia) diverso da quello nel quale il lavoratore aveva espletato la propria attività lavorativa giacché non può sul piano logico ritenersi che tale circostanza abbia in qualche modo influito sulle concrete possibilità del lavoratore di determinarsi e di valutare gli estremi e la convenienza della conciliazione, tanto più che non è dedotto che i termini della controversia fossero legati a fattori locali i quali, pertanto, dovessero essere oggetto di particolare e diretta conoscenza per coloro che prestavano assistenza all’accordo.

Del pari irrilevante è il fatto che il rappresentante sindacale del Tagliamonte, pur appartenente al sindacato cui aderiva il lavoratore, non appartenesse alla organizzazione del luogo di lavoro.

Osserva, infatti, la Corte che certamente essenziale è che il conciliatore che cura gli interessi del lavoratore sia espressione del suo sindacato.

A tale proposito questa Corte suprema (cfr. Cassazione 11167/91) ha sottolineato come non possa prescindersi dalla effettiva assistenza del lavoratore da parte di “propri” rappresentanti sindacali perché la conciliazione raggiunta sia valida ai sensi dell’articolo 2113 Cc ed ha posto in risalto come solo i “propri” rappresentanti sindacali (e non quelli appartenenti ad altra organizzazione sindacale dei lavoratori) «sono quelli qualificati ad assistere il lavoratore e a tutelare i di lui interessi, impedendo pertanto quel vizio d’invalidità che altrimenti inquinerebbe l’atto di rinunzia o transazione».

Peraltro, questa Corte (cfr. sentenza 4730/02), ha anche affermato che la determinazione delle modalità di composizione dell’organo conciliativo previsto dall’articolo 411, terzo comma, Cpc deve intendersi devoluta alla contrattazione collettiva, non potendo trovare applicazione, in particolare, la disciplina prevista dall’articolo 410 Cpc per le conciliazioni espletate dinanzi alle commissioni provinciali costituite presso l’Ufficio provinciale del lavoro.

Pertanto, solo nel caso in cui la disciplina collettiva avesse previsto come indispensabile l’appartenenza del rappresentante sindacale non solo all’organizzazione cui aderisce il lavoratore (requisito comunque indispensabile per quanto sopra detto), ma anche l’inserimento del primo nella organizzazione locale dello stesso sindacato, avrebbe potuto affermarsi l’annullabilità dell’accordo raggiunto con l’assistenza di un sindacalista di una diversa organizzazione locale.

Essendo, infatti, essenziale l’assistenza effettiva dell’esponente sindacale, idonea a sottrarre il lavoratore a quella condizione di inferiorità che, secondo la mens legis, potrebbe indurlo altrimenti ad accordi svantaggiosi, sembrano alla Corte sufficienti, alla realizzazione di tale scopo, a far ritenere cioè la idoneità dello stesso rappresentante sindacale a prestare in sede conciliativa l’assistenza prevista dalla legge, l’appartenenza del rappresentante sindacale al medesimo sindacato e il conferimento da parte del lavoratore dell’incarico necessariamente sottostante all’attività svolta dal primo (cfr. sulla sussistenza di un mandato Cassazione 13910/99 in motivazione).

La compresenza del rappresentante sindacale legittimato e dello stesso lavoratore al momento della conciliazione lascia di per sé presumere l’assistenza del primo, tale essendo lo scopo per cui è stato chiamato a prestare opera di conciliatore, sicché sarebbe stato onere del dipendente tempestivamente dedurre e quindi provare che il rappresentante sindacale, pur presente, non abbia prestato assistenza di sorta.

Sotto il primo profilo, del tutto generica è l’attuale affermazione del Tagliamonte di avere definito nell’atto introduttivo il rappresentante sindacale quale “Convitato di pietra”, perché l’attuale ricorrente possa sostenere ora di avere allora dedotto l’assenza all’atto della conciliazione di assistenza sindacale effettiva (la quale avrebbe dovuto pur sempre essere correlata anche alla qualificazione e competenza professionale in materia legale e aziendale dell’avv. Tagliamonte).

Comunque sia, sotto il secondo profilo, il Tribunale non solo ha desunto l’effettività dell’assistenza sindacale dalle dichiarazioni del legale rappresentante della società presente all’accordo, ma anche dal fatto che lo stesso Tagliamonte, nell’interrogatorio libero, aveva dichiarato di avere fatto riferimento durante le trattative ad argomento strettamente connesso all’oggetto della presente controversia (riconoscimento da parte dell’Inpdai di una percentuale di invalidità indispensabile per la maturazione del diritto a pensione di invalidità, riconoscimento che fu determinante, secondo lo stesso lavoratore, per il consenso alla risoluzione del rapporto).

Si tratta ancora di giudizio di merito, motivato in modo congruo, pertanto, non censurabile in sede di legittimità.

Col secondo motivo, il ricorrente denuncia la «violazione degli articoli 1362, 1363, 1364, 1366, 1965, 2113 Cc, nonché motivazione insufficiente e contraddittoria, in relazione all’articolo 360, n. 3 e 5 Cpc» e sostiene che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto compresa nella rinuncia contenuta nell’accordo del 29 marzo 1996 anche la pretesa relativa al “massimale” di cui all’articolo 12, comma quarto, del Ccnl.

L’esclusione espressa di un’altra questione dall’accordo ‑ sicché, secondo il giudice di merito, in questo sarebbero state, invece, comprese tutte le altre pendenti tra le parti ‑ avrebbe riguardato prestazioni di un terzo (Cassa interaziendale di solidarietà e assistenza), talché l’esclusione era priva di rilevanza ai fini della decisione sui rapporti inter partes.

Inoltre, secondo il ricorrente, le espressioni generali del contratto, a norma dell’articolo 1364 Cc, non potevano che essere correlate all’oggetto del contratto medesimo, talché, in assenza di prova di una diversa volontà, non avrebbero potuto essere estese anche a rapporti non espressamente menzionati: di siffatta maggior estensione il Tribunale non avrebbe dato motivazione adeguata.

Viziata sarebbe anche l’interpretazione dell’accordo aziendale del 15 aprile 1993 nel quale non era riscontrabile la volontà delle parti sociali di sostituire ‑ all’impegno, ex articolo 12, comma quarto Ccnl, di stipulare una polizza assicurativa, per il caso di invalidità ostativa alla prosecuzione del rapporto di lavoro ‑ un obbligo diretto della società a pagare l’importo previsto: se, infatti, l’obbligo di indennizzo era in precedenza a carico dell’assicuratore e veniva quindi “erogato” dall’azienda non direttamente, ma per mezzo del primo, identico significato doveva attribuirsi all’accordo 15 aprile 1993 laddove prevedeva che «l’attuale importo di lire 200.000.000 netti che in base agli accordi vigenti l’azienda eroga in caso di morte e invalidità permanente in sostituzione di quanto previsto dall’articolo 12, quarto capoverso, del Ccnl … è elevato a lire 400.000.000 netti».

Illogico era, dunque, il giudizio del Tribunale secondo cui l’obbligo indennitario, in realtà a carico di un terzo, sarebbe stato da ricomprendere nel contenuto della transazione.

Inoltre, la prospettazione risultante dagli atti del giudizio di primo grado, secondo cui l’Ansaldo era tenuta a stipulare l’assicurazione, era stata modificata con l’appello incidentale ivi deducendosi che tale obbligo era stato sostituito da un impegno diretto della società a pagare l’indennizzo, con violazione, quindi, dell’articolo 437, secondo comma, Cpc che vieta di proporre in appello nuove eccezioni.

Sotto altro profilo, la conciliazione del 29 marzo 1996 era nulla per difetto di causa, non essendo ravvisabili reciproche concessioni tra le parti in un accordo che regolava il complessivo trattamento di fine rapporto, mentre il Tagliamonte rinunciava ad ogni altra pretesa senza contropartita, questa non essendo riscontrabile nelle somme riscosse nell’occasione, tutte dovute per titoli specifici: erroneamente e in contrasto con le risultanze dell’“olografo”del dott. Arvonio e del verbale di conciliazione, il Tribunale aveva considerato partite diverse quanto dovuto per complessivo trattamento di fine rapporto, comprensivo di preavviso e integrazione contributiva, il tutto determinato al lordo in lire 102.000.000, e quanto corrisposto al netto in lire 65.000.000.

Il motivo è infondato.

Appare, infatti, corretta la conclusione del Tribunale secondo cui le parti ebbero sicuramente ad affrontare e a transigere tutte le problematiche connesse alla cessazione del rapporto, e, tra esse, quella, strettamente collegata alla questione del pensionamento per invalidità, oggetto del presente giudizio, giacché il pensionamento presupponeva l’infortunio per cause di servizio (o per altra causa, in presenza però di ulteriori condizioni di iscrizioni di anzianità contributiva), il conseguente abbandono del lavoro dirigenziale e la riduzione delle capacità lavorative generiche in misura non inferiore al 50%. Il nesso causale con l’infortunio era accertamento necessario comune alla pensione e all’indennizzo di cui è causa e che quest’ultima questione fosse stata oggetto di transazione risulterebbe, secondo il giudice di appello, dall’ampiezza della dichiarazione contrattuale secondo cui «le parti, al fine di prevenire ogni e qualsiasi contestazione inerente le integrazioni aziendali conseguenti alla risoluzione del rapporto di lavoro hanno inteso dare definizione completa ai rapporti intercorsi e conclusi con la presente conciliazione» e dall’ulteriore dichiarazioni che dall’accordo restavano escluse soltanto le «erogazioni previste dalla normativa della Cassa interaziendale di solidarietà e assistenza».

Secondo il Tribunale non era condivisibile il giudizio del Pretore secondo cui dalla natura risarcitoria della pretesa deriverebbe l’implicita esclusione di essa dall’ambito dell’accordo con la società. Era, infatti, risultato che l’originaria obbligazione a stipulare la polizza assicurativa, di cui all’accordo del 15 aprile 1993, si era mutata per successivi accordi in una obbligazione di indennizzo direttamente a carico dell’azienda.

Comunque, secondo ulteriore e logica considerazione del Tribunale, anche nel caso in cui si fosse trattato di un risarcimento di tipo assicurativo, esso avrebbe dovuto ritenersi ricompreso nell’accordo transattivo contenente «espressa rinuncia a quanto potesse in ipotesi ancora spettare, anche ai sensi di quanto previsto dall’articolo 2116 Cc in relazione al rapporto di lavoro intercorso».

Vero è, osserva la Corte, che altro è l’obbligo contributivo relativo alle assicurazioni sociali e la responsabilità che ne deriva per il datore di lavoro anche nei confronti del lavoratore e altro è l’obbligo di stipulare una assicurazione privata in forza di accordo sindacale e la connesso responsabilità datoriale fatta valere in questa sede, ma il ragionamento sottostante all’osservazione del Tribunale è che, se venne considerata la responsabilità ex articolo 21 16 Cc, è logico ritenere che anche l’assicurazione per l’invalidità determinante la risoluzione del rapporto ‑ e proprio delle conseguenze economiche e giuridiche della risoluzione si discuteva in sede di conciliazione ‑ fosse stata trattata in quel medesimo contesto.

Di ciò il Tribunale ha trovato conferma nell’espressa dichiarazione di voler definire tutte le contestazioni relative alle integrazioni aziendali e non è irrazionale il convincimento del giudice di merito che tra esse dovesse ricomprendersi anche l’assicurazione di cui si discute.

Tale rilievo, di carattere sostanziale, supera anche la distinzioni tra obbligazione originaria della parte imprenditoriale di stipulare l’assicurazione in favore del dipendente e l’eventuale, diversa obbligazione datoriale, sostitutiva della precedente, e frutto di successiva pattuizione collettiva, di provvedere direttamente ad indennizzare l’eventuale invalidità del dirigente, in quanto appare logico ritenere che in ogni caso si trattava di una integrazione aziendale del trattamento di fine rapporto in ordine alla quale erano stati comunque dedotti dal dipendente un inadempimento e una conseguente responsabilità di controparte.

Questa considerazione supera anche il rilievo del ricorrente secondo cui la regola dell’articolo 1364 Cc avrebbe imposto di interpretare le espressioni generali della transazione entro i limiti degli oggetti sui quali le parti si erano proposte di conciliare.

Infondata appare anche l’eccezione di nullità dell’accordo intervenuto tra le parti per difetto di causa. Nullità che il giudice di appello avrebbe dovuto rilevare d’ufficio, in considerazione della mancanza di correlazione tra le “partite” in ordine alle quali le parti si sarebbero fatte “reciproche concessioni” ai sensi dell’articolo 1966 Cc.

Osserva la Corte che, se è vero che la nullità del contratto deve essere rilevata dal giudice anche di ufficio, gli elementi di fatto che avrebbero dovuto darvi luogo avrebbero dovuto essere prospettati dalla parte interessata, particolarmente in punto di imputazione della somma di lire 65.000.000 (che il ricorrente sostiene fosse da attribuire a pagamento di trattamento di fine rapporto, preavviso e integrazione contributiva, anziché a diversa “partita”, come avrebbe erroneamente ritenuto il Tribunale) e, nel ricorso per cassazione, la parte medesima avrebbe dovuto dar conto del modo e del termini nei quali siffatta deduzione dell’errore sarebbe avvenuta, il che non ha fatto.

Inoltre, nel censurare sotto il profilo ora in esame la sentenza impugnata, la parte ricorrente ha omesso di trascrivere il testo della transazione come avrebbe dovuto per la necessità di valutare nel suo complesso la composizione degli interessi, e in ossequio, altresì, al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di talché la Corte non è in grado di valutare il fondamento delle critiche ora in esame, tanto più che il giudice di merito ha ritenuto Il carattere “novativo” della transazione ed ha valutato, in fatto, che proprio in ragione di ciò si spiegava anche la relativa modestia della somma di lire 66.500.000 a fronte di quella prevista dall’accordo (aziendale) del 1993 (e dunque ha imputato tal somma alla tacitazione delle pretese inerenti all’obbligo datoriale di stipulare l’assicurazione privata o di sopperire in proprio al verificarsi del rischio).

Col terzo motivo, il ricorrente si duole della «Violazione e falsa applicazione degli articoli 1427, 1428, 1429, 1431 Cc 99, 100, 115, 116 Cpc, nonché vizio di omessa ed insufficiente motivazione, il tutto in relazione all’articolo 360, n.3 e 5 Cpc» e sostiene che erroneamente il giudice di appello aveva disatteso la prospettazione, sia pure subordinata, dell’errore, per mancanza di prova. In realtà, una volta prospettata da controparte una diversa interpretazione dell’accordo del 29 marzo 1996, secondo cui esso conterrebbe la rinuncia in contestazione, era ovvia la replica del lavoratore che, se così fosse, questi sarebbe incorso in errore nel prestare il consenso: errore certamente essenziale, data l’entità della pretesa rinuncia e riconoscibile dalla controparte, come sarebbe dimostrato dalla contestazione del diritto da parte dell’Ansaldo.

Il motivo è infondato.

Esso riposa, sostanzialmente, sull’assunto secondo cui, in caso di contrasto nell’interpretazione di un accordo (particolarmente in ordine all’oggetto dell’accordo stesso), l’accoglimento della tesi di una parte comporterebbe l’accertamento dell’errore dell’altra parte in sede di stipulazione. Siffatta argomentazione poggia sull’evidente vizio logico di ricondurre l’erroneità in fatto o in diritto della prospettazione (in sede giudiziale) della parte, accertata dal giudice di merito a seguito della valutazione del contenuto dell’accordo, con l’errore in cui la parte medesima sarebbe incorsa in sede di stipulazione del negozio, mentre l’erroneità della prospettazione di una determinata tesi di fatto o giuridica non implica affatto li secondo tipo di errore.

Il ricorrente illustra poi la pretesa essenzialità e riconoscibilità dell’errore, ma, anzitutto, avrebbe dovuto indicare quali fossero le prove, eventualmente trascurate dal Tribunale, che lo avrebbero posto in luce. La prova non avrebbe potuto essere costituita, di per sé,dall’entità della rinuncia al beneficio che sarebbe derivato dall’adempimento dell’obbligo assicurativo, in quanto nell’ambito di una transazione complessa non può venire in rilievo solo uno degli elementi oggetto della composizione del contrasto: essa avrebbe dovuto essere valutata nel suo insieme, il che, per le ragioni dette trattando del motivo che precede, il contenuto del ricorso (non autosufficiente) non consente di fare sotto il profilo (l’unico deducibile in sede di legittimità) dell’eventuale vizio di motivazione della decisone impugnata.

D’altra parte, sebbene le considerazioni appena svolte siano risolutive e assorbenti, è opportuno sottolineare come il Tribunale si sia fatto carico, con motivazione diffusa ed assolutamente rispondente ai canoni della logica giuridica e, pertanto, non censurabile dal giudice di legittimità, di escludere, in concreto, che fosse stata fornita la prova dell’errore, avendo rilevato che il ricorrente si era limitato a sostenere di avere creduto, in buona fede, che la convenzione non contemplasse il massimale assicurativo in contestazione (comunque, privo di rilievo sarebbe stato l’errore sulle conseguenze giuridiche del negozio).

L’onere di dimostrare l’essenzialità e la riconoscibilità del preteso errore sarebbe stato, secondo il giudice di appello. tanto più rilevante essendo la transazione intervenuta subito dopo la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, risoluzione determinata, come prospettato dal ricorrente, dalla di lui intenzione di fruire delle varie incentivazioni e soprattutto dei benefici pensionistici derivanti dal riconoscimento dell’invalidità.

Soprattutto, la particolare competenza e qualificazione professionale del dirigente in materia giuridica (ancor dopo la risoluzione del rapporto, gli vennero conferiti dalla società incarichi di consulenza legale in regime di autonomia), assistito, oltretutto, da sindacalista, lo avevano sicuramente posto, secondo il giudice di appello, in condizione di ben valutare la portata dell’accordo, da lui letto prima della sottoscrizione, e dopo che aveva fatto anche presente le problematiche connesse all’invalidità e dopo che gli era stato espressamente domandato, a seguito di dubbi sollevati, se era disposto o meno a sottoscrivere.

Inoltre, secondo gli accertamenti di merito di cui già si è detto, trattando del primo motivo, i rappresentanti sindacali presenti – come poi riferito dal legale rappresentante della società presente all’accordo – dopo lunga discussione ammonirono il ricorrente sul significato dismissivo dell’atto anche con riferimento specifico alla pretesa oggetto del presente giudizio. E, ancora, ha sottolineato la sentenza di appello, dalle “note” di primo grado del Tagliamonte, traspariva che in realtà lo stesso avrebbe avuto un “ripensamento”.

Conclusivamente, assorbito ogni altro profilo di censura, il ricorso deve essere rigettato.

L’onere delle spese del giudizio di legittimità segue la soccombenza (articolo 395 Cpc).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare a controparte le spese in euro 29,00 oltre euro 3.000,00 per onorari.