Famiglia
L’ impossibilità per i genitori di attribuire ai figli il cognome materno lede i diritti inviolabili dell’ uomo? La Cassazione ritiene di sì e rimette la questione alla Corte Costituzionale. N. 752 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 luglio 2004.
L’impossibilità per i genitori di attribuire ai figli il cognome materno
lede i diritti inviolabili dell’uomo? La Cassazione ritiene di sì e rimette la questione
alla Corte Costituzionale
N. 752
ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 luglio
2004.
Ordinanza emessa il 17 luglio 2004
dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da C. A. ed altro contro
Procuratore generale presso la
Corte d’appello di Milano Stato civile
– Cognome dei figli legittimi – Acquisto automatico del cognome del padre pur
in presenza di diversa volonta’ dei coniugi
legittimamente manifestata – Conseguente impossibilita’
che i coniugi attribuiscano concordemente al figlio il cognome materno –
Lesione dei diritti inviolabili dell’uomo (in particolare del diritto all’identita’ personale, di cui il nome e’ elemento essenziale)
– Violazione del principio di eguaglianza e di pari dignita’
– Discriminazione in base al sesso – Lesione dell’uguaglianza giuridica e
morale dei coniugi – Discriminazione nei rapporti con i figli. – Codice civile,
artt. 143-bis, 236, 237, comma secondo, 262 e 299, comma
terzo; d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, artt.
33 e 34. – Costituzione, artt. 2, 3 e 29, comma secondo;
Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei
confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979 e ratificata con
legge 14 marzo 1985, n. 132, art. 16; raccomandazioni del Consiglio d’Europa n.
1271 del 1995 e n. 1362 del 1998. (GU n. 40 del
13-10-2004)
LA
CORTE DI CASSAZIONE
Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria sul
ricorso
proposto
da: C. A. e F. L. elettivamente domiciliati
in Roma, via
Panama, 74, presso l’avvocato Gianni Emilio Iacobelli, rappresentati
e
difesi dagli avvocati Luigi Palmieri e Luigi Fazzo, giusta
delega
in calce al ricorso, ricorrenti;
Contro procuratore
generale presso la Corte d’appello di Milano,
intimato;
avverso la sentenza
n. 1464/02 della Corte d’appello di
Milano, depositata il 4 giugno 2002;
Udita la
relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
26 febbraio 2004 dal consigliere dott.ssa Maria Gabriella Luccioli;
Udito per il ricorrente l’avvocato Corrado De
Simone, con delega,
che ha chiesto l’accoglimento del
ricorso;
Udito il p.m.
in persona del
sostituto procuratore generale
dott.ssa
Antonietta Carestia che
ha concluso per il rigetto del
ricorso.
Rileva in fatto
Con sentenza del 24 maggio – 4 giugno 2002 la Corte di
appello di
Milano ha
confermato la sentenza
in data 6 – 8 giugno 2001 del
Tribunale di Milano che aveva rigettato la
domanda dei coniugi L. F.
ed
A. C., diretta ad ottenere la rettificazione dell’atto di nascita
della
propria figlia minore M. F. nel senso che le fosse imposto il
cognome
materno in luogo di quello del padre, risultante dall’atto
formato dal competente ufficiale dello stato
civile, in contrasto con
la
volonta’
espressa dal padre
al momento della dichiarazione di
nascita.
La Corte territoriale ha
osservato che il
silenzio del
legislatore
della riforma del
diritto di famiglia
in ordine al
cognome
dei figli legittimi,
pur a fronte
della modifica dell’
art. 144
c.c. relativo al
cognome della moglie,
consentiva di
desumere
la persistente validita’ di
una norma consuetudinaria
saldamente
radicata nella coscienza
e nella percezione
della
collettivita’;
che neppure in sede di riforma dell’ordinamento dello
stato
civile il legislatore aveva ritenuto necessario
inserire una
previsione
esplicita sul punto, nonostante avesse fatto oggetto di
innovativa
regolamentazione talune problematiche afferenti
il
cognome;
che anche la Corte costituzionale aveva in piu’ occasioni
affermato
che la mancata previsione della facolta’
per la madre di
trasmettere
il proprio cognome
ai figli legittimi non si pone in
contrasto
ne’ con l’art. 3 ne’ con l’art. 29 Cost. ed aveva al tempo
stesso
rilevato che l’opportunita’ di introdurre un diverso sistema
di
determinazione del cognome, ugualmente
idoneo a salvaguardare il
principio
dell’unita’ familiare senza
comprimere quello
dell’uguaglianza dei coniugi, va
ricondotta alla competenza esclusiva
del
legislatore; che in
adesione a tale orientamento
erano stati
presentati in Parlamento numerosi progetti di
legge, alcuni dei quali
tuttora
all’esame del Senato o della Camera; che infine nell’attuale
assetto
normativo il consentire,
a mera richiesta
dei coniugi
genitori,
la disapplicazione della norma consuetudinaria in discorso
comporterebbe
riflessi negativi in ordine all’ interesse della prole
minorenne,
potendo questa essere
individuata, proprio in
forza
dell’attribuzione del
solo cognome materno, come prole
naturale, e
non legittima.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso
per cassazione A. C.
e
L. F. formulando articolate censure. Essi in particolare
deducono
che la Corte di appello, nel ritenere
l’esistenza di una consuetudine
circa
l’attribuzione al figlio del cognome paterno, non ha esaminato
la ricorrenza delle condizioni perche’ un uso siffatto possa assumere
quel
valore normativo, come
fonte del diritto, che ne giustifichi
l’applicazione con
forza di legge.
Osservano che il
principio
fondamentale
di parita’ dettato dall’art. 3 Cost., l’altro principio
fondamentale
di eguaglianza morale
e giuridica dei coniugi, con i
limiti
stabiliti dalla legge
a garanzia dell’ unita’
familiare,
sancito
dall’art. 29 Cost., il disposto dell’ art.
143, comma primo,
c.c.,
secondo il quale
con il matrimonio
il marito e la moglie
acquistano
gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, nonche’,
sul piano delle norme sopranazionali, le
chiare indicazioni contenute
nel preambolo e negli artt. 2 e 16 della
Dichiarazione universale dei
diritti
dell’uomo del 10
dicembre 1948, nonche’ l’art. 14
della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
liberta’
fondamentali, l’art. 3, n. 2, del Trattato istitutivo della
Comunita’ europea, ed ancora la Convenzione
sull’eliminazione di ogni
forma
di discriminazione nei
confronti della donna
adottata
dall’Assemblea Generale
delle Nazioni Unite
il 18 dicembre 1979,
ratificata
in Italia con
legge 14 marzo
1985 n. 132, ed in
particolare il suo art. 16 lettera g), che
impone agli Stati parte di
assicurare
gli stessi diritti
personali al marito e alla
moglie,
compresa
la scelta del
cognome, non consentono di attribuire alla
prassi
in discorso carattere
normativo. Rilevano ancora che la
sentenza impugnata, nel disattendere la tesi
degli appellanti secondo
la
quale la disparita’ di trattamento dei coniugi in relazione al
cognome
del figlio incorre
nel divieto di
discriminazione e
costituisce una deroga al principio di parita’ non giustificata nelle
leggi,
ha errato nel ritenere operante nella fattispecie in esame la
riserva
di deroga al
principio di parita’ contenuta nel capoverso
dell’art. 29 Cost., non
configurandosi alcun attentato
all’unita’
familiare per effetto dell’attribuzione del
cognome materno, anziche’
di quello paterno, sulla base di una
concorde volonta’ dei coniugi.
Considera in diritto
Come ha posto in evidenza la sentenza impugnata, non
esiste nel
nostro
ordinamento una specifica
disposizione diretta ad attribuire
ai
figli legittimi il cognome paterno. La norma di cui all’ art. 6
c.c.,
che sancisce il diritto di ognuno ad un nome sin dalla nascita
ed
anche oltre la morte, esprime un
preciso favore alla certezza ed
alla
stabilita’ del nome, nel binomio comprensivo
del cognome (comma
2), anche
in relazione al
concorrente interesse pubblico
alla
certezza
degli status ed alla corretta individuazione delle persone,
ma non detta alcuna regola in ordine alla
sua acquisizione.
Che il
diritto al nome, indicato anche nell’art. 22 Cost.
come
bene oggetto di
autonomo diritto, si qualifichi come diritto
insopprimibile
della persona, nella
sua specifica attitudine
a
delinearne
l’identita’,
sia nella sua
dimensione individuale che
nella
sua proiezione esterna, costituisce un dato da tempo acquisito
nella
giurisprudenza e nella dottrina civilistica:
tale impostazione
e’
chiaramente espressa nelle
sentenze della Corte costituzionale
n. 13
del 1994, n. 297
del 1996 e n.
120 del
2001, che hanno
affermato
il diritto di ogni persona a conservare il cognome che sia
divenuto
autonomo segno distintivo
della sua identita’, cosi’
mantenendo
attraverso il cognome
l’identita’
fino ad allora
posseduta,
anche quando siano sopravvenuti eventi tali da comportare
il cambiamento di quel cognome.
La normativa
codicistica vigente prima della riforma del diritto
di
famiglia, nel regolare
soltanto, nell’ambito della famiglia
legittima,
il cognome della moglie,
disponeva all’art. 144 c.c., in
piena
coerenza con il riconoscimento al
marito – nella stessa norma
sancito
– della qualita’ di capo della famiglia, che la moglie ne
assumesse
il cognome, cosi’ chiaramente ponendo il
cognome dell’uomo
quale elemento identificativo del nucleo
familiare.
La legge di
riforma n. 151 del
1975 ha sostituito
tale
disposizione
con l’art. 143-bis c.c., ai sensi del
quale la moglie
aggiunge al proprio cognome quello del
marito. Nonostante l’apparente
incisivita’
della nuova formulazione,
essa deve considerarsi di
modesto spessore, e
comunque non decisiva ai fini del problema qui in
esame,
tenuto conto da un lato che anche nel vigore della precedente
normativa
la giurisprudenza di questa
suprema Corte aveva ravvisato
il
diritto della moglie a conservare il proprio cognome, aggiungendo
ad
esso quello del
marito (v. Cass.
1961 n. 1692), considerato
d’altro
lato che anche la disposizione novellata evidenzia, sia pure
in
termini attenuati rispetto al
passato, l’opzione del legislatore
verso
il cognome del marito come identificativo della nuova famiglia
costituita,
in quanto unico
cognome comune, cosi’ rimarcando una
posizione di evidente disparita’
tra i coniugi.
Del tutto
coerente con tale disciplina e’ l’art. 5 comma 2 della
legge
sul divorzio, nel testo riformato
dalla legge n. 74 del 1987,
il
quale dispone che con lo scioglimento del vincolo la moglie perde
il
cognome che aveva aggiunto al proprio a seguito del
matrimonio,
salva
la facolta’, prevista dal comma successivo, di conservare
il
cognome
del marito, quando
sussista un interesse suo o dei
figli
meritevole di tutela.
Quanto al
cognome dei figli legittimi, se l’assunzione di quello
paterno
si configurava nella vigenza delle disposizioni codicistiche
tanto
aderente al modello
tradizionale di famiglia
incentrato
sull’autorita’
del marito/padre, da
far apparire superflua
una
specifica
previsione normativa, nel sistema delineato dalla legge di
riforma del 1975, ampiamente ispirata a
principi di parita’ e di pari
dignita’
tra i coniugi,
la mancanza di una norma espressa
appare
assai
meno giustificata, e puo’ trovare ragione
soltanto nella forza
di
radicati condizionamenti culturali in ordine alla differenza di
ruoli
e di poteri
all’interno del nucleo
familiare, che hanno
consentito
di privilegiare da
tempo immemorabile anche
in sede
ereditaria
la linea maschile attraverso il perpetuarsi del
cognome
paterno.
Ed anche
il recente d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, che detta
il
regolamento
per la revisione e la semplificazione
dell’ordinamento
dello
stato civile, non contiene alcuna specifica disposizione circa
l’assunzione del
cognome da parte del figlio
legittimo, prevedendo
all’art. 29, n. 2, in relazione alla
formazione dell’atto di nascita,
che
l’ufficiale dello stato
civile indichi nell’atto stesso
(tra
l’altro) le generalita’
del padre e della madre.
E tuttavia ritiene il Collegio che una norma nel senso
indicato
sia
chiaramente desumibile dal sistema, in quanto presupposta da una
serie di disposizioni regolatrici di
fattispecie diverse.
Ed invero l’art. 237 c.c. pone tra gli elementi
costitutivi del
possesso
di stato il
fatto che la persona abbia sempre portato il
cognome del padre che pretende di avere.
L’art. 262 c.c., in materia
di riconoscimento del
figlio
naturale, dispone al primo comma che il
riconoscimento contestuale da
parte di entrambi i genitori comporta che
il figlio assuma il cognome
del
padre, in ragione
di una evidente equiparazione della prole
naturale riconosciuta alla prole legittima. Ed anche il secondo comma
dell’art. 262 c.
c., ai sensi
del quale in caso
di successivo
riconoscimento
del padre o successivo
accertamento della paternita’
il
figlio puo’ assumere
il cognome del
padre, aggiungendolo o
sostituendolo
a quello materno,
sottende chiaramente, pur
dopo
l’intervento additivo
della Corte costituzionale con la sentenza
n. 297 del 1996, una piu’ forte rilevanza del cognome paterno.
Inoltre l’art. 299
c.c. in tema
di adozione di maggiorenni
prevede
al terzo comma
che se l’adozione e’ compiuta da coniugi
l’adottato assume
il cognome del
marito, ancora una volta nello
spirito della piena equiparazione della
posizione del figlio adottivo
a quella del figlio legittimo.
Analogamente, una norma
attributiva al figlio
legittimo del
cognome
paterno appariva presupposta
dalla disposizione di cui all’
art. 72
comma 1 del
r.d. 9 luglio
1939 n. 1238, che vietava di
imporre al bambino lo stesso prenome del
padre vivente, all’ evidente
scopo
di evitare omonimie per avere essi gia’
il medesimo cognome,
cosi’
come e’ chiaramente
sottintesa dal corrispondente
art. 34,
n. 1,
del d.P.R. n. 396
del 2000, nonche’ dall’art. 33, n. 1, del
citato d.P.R.,
che attribuisce al figlio legittimato (salva l’opzione
esercitabile dal soggetto maggiorenne) il cognome
del padre.
Da tali pur
eterogenee previsioni si desume l’immanenza di una
norma
che non ha trovato corpo in una
disposizione espressa, ma che
e’
pur presente nel sistema e lo completa, della cui vigenza e forza
imperativa
non vi e’ ragione di dubitare. Sulla base di tale norma,
che
certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di
un’usanza consolidata nel tempo, il cognome del figlio
legittimo non
si trasmette dal padre al figlio, ma si
estende ipso iure da quello a
questo.
L’individuazione
di una norma
siffatta, nella necessaria
correlazione
con il disposto dell’art. 6 c.c., il quale
riconosce il
diritto
di ogni persona
al nome che le e’ per legge attribuito,
induce
a dissentire dall’opinione espressa nella sentenza impugnata,
sostenuta
anche da parte della dottrina, che ravvisa il
fondamento
della
attribuzione al figlio
legittimo del cognome paterno in una
consuetudine. E’ peraltro appena
il caso di
ricordare che la
consuetudine,
quale strumento di formazione spontanea del diritto,
postula
una reiterazione e continuita’ di comportamenti conformi ad
una
medesima regola da parte della generalita’ dei consociati nella
convinzione della loro doverosita’:
tali elementi non sono certamente
riscontrabili
nella vicenda dell’attribuzione del cognome paterno,
segnata
da un’attivita’ vincolata dell’ufficiale dello
stato civile,
a
fronte della quale
la volonta’
ed il convincimento dei singoli
dichiaranti non trovano alcuno spazio.
Va altresi’ rilevato che una consuetudine nel
senso indicato, ove
ravvisabile,
dovrebbe considerarsi contra legem, per il suo evidente
contrasto con le norme del 1975 che delineano
su basi paritarie nuovo
modello di famiglia e con i principi
costituzionali di riferimento, e
sarebbe
quindi suscettibile di
disapplicazione diretta da parte del
giudice,
atteso che, come e’ noto,
l’indagine sulla legittimita’ di
norme consuetudinarie, alla stregua dei
precetti costituzionali e dei
principi generali dell’ordinamento, spetta
all’ autorita’ giudiziaria
che sia chiamata a farne applicazione,
non rientrando dette norme tra
le
leggi o gli atti aventi forza di legge per i quali e’ devoluto il
giudizio di legittimita’
alla Corte costituzionale.
Tanto ritenuto in diritto, ritiene il Collegio di dover sollevare
di
ufficio la questione di legittimita’
costituzionale della norma
cosi’
individuata, in quanto
non consente che i coniugi possano
scegliere
concordemente il cognome
da attribuire ai
figli, per
contrasto con gli artt. 2, 3
e 29, comma 2, Cost.
La questione e’
certamente rilevante nel
presente giudizio,
atteso
che l’applicazione della
norma di cui
si sospetta la
incostituzionalita’
comporterebbe inevitabilmente la negazione della
pretesa
fatta valere dagli
attori, diretta ad
ottenere il
riconoscimento
del proprio diritto
ad attribuire alla figlia, per
loro
concorde volonta’,
il cognome materno. Non ignora questa Corte
che
il giudice della legittimita’ delle leggi si
e’ gia’ espresso al
riguardo, dichiarando in due occasioni, con
le ordinanze n. 176 e 586
del
1988, manifestamente
inammissibile la questione di legittimita’
costituzionale
(nella prima pronuncia) degli artt. 71, 72 e 73 del
r.d.
n. 1238 del 1939, nonche’ (nella seconda
pronuncia) degli artt.
73 del
r.d. n. 1238 del 1939, 6, 143-bis, 236, 237, comma 2, e 262,
comma
2, c.c., nella
parte in cui non prevedono la facolta’
dei
genitori
di determinare il
cognome del proprio figlio legittimo
mediante
l’imposizione di entrambi i loro cognomi, ne’ il diritto di
quest’ultimo di
assumere anche il cognome materno: in tali pronunce
la
Corte costituzionale ha
rilevato che l’interesse
alla
conservazione
dell’unita’ familiare tutelato
dall’art. 29, comma 2,
Cost. sarebbe gravemente
pregiudicato se il cognome dei figli nati
dal
matrimonio non fosse
prestabilito fin dal momento dell’atto
costitutivo
della famiglia, cosi’ da
essere non gia’ imposto dai
genitori
ai figli, ma
esteso ope legis, ed al
tempo stesso ha
riconosciuto come del tutto compatibile con il
quadro costituzionale,
ed anzi maggiormente aderente
all’evoluzione della coscienza sociale,
una
sostituzione della regola vigente
con un criterio diverso, piu’
rispettoso
dell’autonomia dei coniugi ed idoneo a conciliare i due
principi
sanciti dall’art. 29 Cost., ma ha
ritenuto che tale
innovazione
normativa, anche per
la pluralita’ delle
soluzioni
adottabili, appartenga alla esclusiva
competenza del conditor iuris.
E’ altresi’ noto alla
Corte che varie iniziative parlamentari
dirette
a modificare il
sistema attuale cosi’ da
renderlo
corrispondente
al canone fondamentale
di uguaglianza morale
e
giuridica
dei coniugi e
da rafforzare il
principio di liberta’
all’interno del nucleo familiare sono
state in passato e sono tuttora
all’esame del Parlamento.
E tuttavia ritiene
il Collegio che il lungo periodo
trascorso
dalle richiamate pronunce della Corte
costituzionale, il maturarsi di
una
diversa sensibilita’
nella collettivita’ e di diversi valori di
riferimento,
connessi alle profonde trasformazioni sociali frattanto
intervenute,
nonche’
gli impegni imposti
da convenzioni
internazionali
e le sollecitazioni provenienti
dalle istituzioni
comunitarie
richiedano una rinnovata valutazione della conformita’
della norma denunciata agli artt. 2, 3 e 29, comma 2. Cost.
Piu’ specificamente va
ricordato, in relazione ai profili da
ultimo
richiamati, che la Convenzione
sull’eliminazione di tutte le
forme
di discriminazione nei
confronti della donna adottata a New
York il
18 dicembre 1979, ratificata in Italia con legge 14 marzo
1985 n. 132, all’art. 16 ha impegnato gli Stati aderenti a
prendere
tutte
le misure adeguate
per eliminare la
discriminazione nei
confronti
della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio
e
nei rapporti familiari,
ed in particolare
ad assicurare, in
condizioni
di parita’ con gli uomini, (lettera g) gli
stessi diritti
personali
al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome, e
che
con le raccomandazioni n. 1271
del 1995 e a 1362 del 1998 il
Consiglio d’Europa, affermato
che il mantenimento
di previsioni
discriminatorie
tra donne e uomini riguardo alla
scelta del nome da
famiglia non e’ compatibile con il principio
di eguaglianza sostenuto
dal
Consiglio stesso, ha
raccomandato agli Stati
inadempienti di
realizzare
la piena eguaglianza tra madre e
padre nell’attribuzione
del
cognome dei loro
figli, di assicurare la piena eguaglianza in
occasione
del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune
ai due partners,
di eliminare ogni discriminazione nel sistema legale
per
il conferimento del
cognome tra figli
nati nel e fuori del
matrimonio
Non manifestamente infondata
appare la questione
di
illegittimita’ della norma in esame per contrasto
con l’art. 2 Cost.,
ai
sensi del quale
la Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove
si svolge la sua personalita’. Si tratta, come e’ noto, di norma
immediatamente
precettiva,
che non costituisce
mera sintesi dei
diritti
espressamente tutelati dalla
Carta costituzionale e dalle
disposizioni
del codice civile, ma si pone come clausola aperta ad
altre
liberta’
e ad altri valori emergenti nel
tessuto sociale. La
sua
configurazione come norma
a fattispecie aperta,
diretta a
recepire
e garantire le nuove esigenze di
tutela della persona ed a
conferire
agli interessi sottesi
la dignita’ di
nuovi diritti
costituzionali,
e’ chiaramente enunciata nella
giurisprudenza della
Corte costituzionale (v. Corte cost.
1987 n. 215 e 561).
Come si e’
innanzi osservato, tra i diritti che formano il
patrimonio
irretrattabile
della persona, riconducibili al
catalogo
cui
l’art. 2 Cost. offre
tutela costituzionale, va
inserito il
diritto
all’identita’
personale, del quale il nome –
indicato come
bene
oggetto di autonomo
diritto dal successivo art. 22 Cost. –
costituisce
il primo e piu’ immediato
elemento caratterizzante, in
quanto
espressione emblematica della identita’
della persona e suo
segno
distintivo nella vita
di relazione (v.
Corte cost. 2001
n. 120).
In particolare, nella
richiamata sentenza n. 13
del 1994 il
giudice
della legittimita’ delle
leggi ha rilevato che il cognome
gode
di una distinta
tutela anche nella sua funzione di strumento
identificativo
della persona, e
che, in quanto tale, costituisce
parte
essenziale ed irrinunciabile della personalita’, e nella
successiva
decisione n. 297 del
1996 ha affermato che il diritto
all’identita’
personale costituisce tipico
diritto fondamentale,
rientrando
esso tra «i
diritti che formano
il patrimonio
irretrattabile
della persona umana», sicche’ la sua lesione integra
violazione dell’art. 2.
La tutela costituzionale offerta
dall’art. 2 Cost. ai diritti
inviolabili dell’ uomo «nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua
personalita»,
nella loro funzione essenziale di luoghi di promozione
della
personalita’
dei singoli componenti, esige che
il diritto in
discorso
sia garantito, nell’ambito
di quella formazione sociale
primaria
che e’ la
famiglia (cosi’
Corte cost. 2002 n. 484; 1988
n. 183), nella
duplice direzione del
diritto della madre
di
trasmettere
il proprio cognome al figlio e di quello del figlio di
acquisire
segni di identificazione rispetto ad entrambi i genitori e
di
testimoniare la continuita’ della sua storia familiare anche con
riferimento alla linea materna.
Il dubbio di contrasto della norma in esame con l’art. 3 Cost. si
fonda
sull’evidente rilievo che
l’attribuzione, automatica ed
indefettibile
ai figli del
cognome del marito si risolve in una
discriminazione
ed in una violazione del principio fondamentale di
eguaglianza
e di pari dignita’, che nella
legge di riforma del
diritto
di famiglia trova espressione e sostanza sia con riferimento
ai
rapporti tra i
coniugi, che ai
sensi dell’ art. 143
c.c.
acquistano
gli stessi diritti e assumono i
medesimi doveri, sia con
riguardo
alla relazione con
i figli, nei
confronti dei quali
l’art. 147 c.c. impone ai coniugi
obblighi di identico contenuto.
E’ d’altro
canto evidente che un sistema normativo nel quale sia
consentita
l’attribuzione al figlio (anche)
del cognome della madre
vale
a realizzare il principio di eguaglianza non solo dei
coniugi
tra
loro, ma anche rispetto alla
prole, esprimendosi l’unita’ della
famiglia,
quale comunita’ di eguali, non solo nella sua dimensione
orizzontale, ma anche nel rapporto che lega
genitori e figli.
Altrettanto forte e’
il sospetto di contrasto con 1’art. 29,
comma
2, Cost.,
atteso che il principio di eguaglianza sul quale il
matrimonio
e’ ordinato costituisce
esplicazione del principio
fondamentale
posto dall’art. 3 della
Costituzione. Peraltro il
necessario
bilanciamento tra l’esigenza
di tutela dell’ unita’
familiare,
cui e’ riconosciuta copertura
costituzionale, e la piena
realizzazione
del principio di eguaglianza non
appare correttamente
perseguibile
attraverso una disposizione cosi’ marcatamente
discriminatoria,
tenuto anche conto
che – come
la Corte
costituzionale
ha avuto occasione
di affermare gia’
nella remota
sentenza
n. 133 del 1970, con riferimento ai rapporti patrimoniali
tra
i coniugi – e’ proprio la diseguaglianza
a mettere in pericolo
l’unita’ familiare, che al contrario si rafforza nella
misura in cui
i
rapporti tra i coniugi siano
governati dalla solidarieta’ e dalla
parita’.
Appare pertanto
da rifiutare una lettura dell’ art. 29, comma 2,
Cost. tesa a contrapporre l’esigenza di
tutela dell’unita’ familiare
alla
piena espansione del principio di eguaglianza tra i coniugi: in
quanto funzionale alla realizzazione
dell’unita’ della famiglia, tale
principio non puo’
connotarsi esclusivamente in chiave negativa, come
divieto
di ogni discriminazione fondata
sul sesso, ma implica anche
il
riconoscimento di un’eguale
responsabilita’ dei coniugi nello
svolgimento
in concreto dei
rapporti familiari, nel quadro di una
reciproca solidarieta’.
Sembra al Collegio
che il limite all’eguaglianza dei coniugi a
tutela
dell’unita’ della famiglia
possa trovare giustificazione
costituzionale solo in presenza di particolari
situazioni che rendano
indispensabile
una specifica previsione normativa, e che comunque in
ipotesi
siffatte la soluzione
legislativa che privilegi uno dei
coniugi
rispetto all’altro non possa essere mai ancorata al criterio
del
sesso di appartenenza del coniuge designato, non
tollerando il
principio
di cui all’
art. 3 Cost., ne’
le varie convenzioni
internazionali
sui diritti umani
cui l’Italia ha
aderito,
discriminazioni basate sul genere.
E’ peraltro da
dubitare che la soluzione adottata nel nostro
ordinamento
sia effettivamente indispensabile
al fine di assicurare
l’unita’ familiare,
non intendendosi come
le altre soluzioni
praticabili, ispirate al criterio della scelta
preventiva dei coniugi
– invocato nella
fattispecie in esame – ovvero a quello del doppio
cognome
possano costituire attentato all’unita’ ed alla stabilita’
della famiglia, ed inducendo anzi a
ritenere il contrario le numerose
esperienze
di altri Paesi
che gia’ vantano una regolamentazione
rispettosa
del principio di
eguaglianza, a fronte delle quali
la
posizione
dell’Italia e’ ormai decisamente
minoritaria, quanto meno
in ambito europeo.
Ne’ puo’ valere a
giustificare il mancato rispetto dei principi
costituzionali
innanzi richiamati il rilievo che l’abbandono del
principio
di immediata ed
automatica attribuzione di un unico e
predeterminato
cognome determinerebbe problemi
ed incertezze nel
sistema,
sembrando che l’esplicazione del
fondamentale principio
costituzionale
di eguaglianza non
possa arrestarsi in presenza di
inconvenienti
pur seri, peraltro suscettibili
di essere agevolmente
risolti
in via legislativa (v. sul punto Corte cost. 1983 n. 30, che
ha
dichiarato l’illegittimita’,
per contrasto con gli artt. 3 e 29,
secondo
comma Cost., dell’art. 1
n. 1 della legge 13 giugno 1912
n. 555,
nella parte in
cui non prevedeva che fosse
cittadino per
nascita anche il figlio di madre cittadina).
Deve pertanto procedersi
alla sospensione del giudizio ed alla
rimessione degli atti alla Corte
costituzionale.
P. Q. M.
Visti gli artt. 134, Cost. e 23 e ss. legge 11
marzo 1953, n. 87;
Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita’
costituzionale degli artt.
143-bis, 236, 237, comma 2,
262, 299, comma 3 c. c., 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396,
nella
parte in cui
prevedono che il
figlio legittimo acquisti
automaticamente il cognome del padre anche quando vi
sia in proposito
una
diversa volonta’ dei
coniugi, legittimamente manifestata, per
contrasto con gli artt. 2, 3 e 29, secondo
comma, della Costituzione.
Sospende il giudizio
e dispone l’immediata
trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale.
Ordina che la
presente ordinanza sia notificata a cura della
cancelleria
alle parti, al pubblico ministero ed al Presidente del
Consiglio dei
ministri e sia
comunicata ai Presidenti delle
due
Camere del Parlamento.
Cosi’ deciso
in Roma nella camera del consiglio della I sezione
civile il 26 febbraio 2004.
Il Presidente: Delli Priscoli