Enti pubblici

Friday 15 April 2005

Indennità di carica al Sindaco. Secondo la Corte dei Conti, Sez. Giur. Lombardia è illegittima la doppia corresponsione di indennità di carica al Sindaco. Sentenza n. 185/2005 del 11 marzo 2005

Indennità di carica al Sindaco. Secondo la Corte dei Conti, Sez. Giur. Lombardia è
illegittima la doppia corresponsione di indennità di
carica al Sindaco

Sentenza n. 185/2005 del 11 marzo
2005 – Sezione giurisdizionale Lombardia – Comune – Doppia corresponsione di indennità di carica al Sindaco – Illegittimità.

SEZIONE GIURISDIZIONALE REGIONE
LOMBARDIA

Presidente: G. Nicoletti
– Relatore: F. Lombardo

FATTO

Con esposto firmato dal Consigliere B. L. del Comune di Segrate (MI) veniva denunciata l’illegittima corresponsione del raddoppio
dell’indennità di carica pari a £.(2.635.380 x 2)5.270.760, in favore del
Sindaco B. C., relativamente agli anni 1997, 1998, 1999 e parte dell’anno 2000,
approvato con delibere del Consiglio Comunale n.82
del 9.12.1997 e n.18 del 14.3.1998, sulla base delle
dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà allegate dall’interessato, che
aveva affermato di essere nelle condizioni per tal beneficio previste dall’art.3 della legge n.816/1985, che
così recita: “Ai sindaci è corrisposta una indennità mensile di carica
deliberata dal consiglio comunale entro i limiti previsti per ciascuna classe
di comuni nella tabella A allegata alla presente.

I limiti di cui al precedente comma
sono raddoppiati per i sindaci dei comuni con popolazione superiore a diecimila
abitanti che svolgano attività lavorativa non dipendente o che, quali
lavoratori dipendenti, siano collocati in aspettativa
non retribuita”. Per tale motivo, la Procura Regionale notificava nel novembre
del 2003 gli inviti a dedurre nei confronti degli autori delle delibere sopra
citate (tranne il Consigliere M. G. cui l’invito è stato notificato in data
8.1.2004) che venivano anche ascoltati personalmente su
loro richiesta. A seguito di tali deduzioni, emergeva la necessità di estendere
l’azione di responsabilità al Segretario Comunale R. F.
che veniva, pertanto, invitato a fornire le proprie
deduzioni nel marzo del 2004. Con ordinanza n.5/04/PRO
del 24.3.2004, il Collegio adito accoglieva l’istanza
di proroga avanzata dalla Procura per l’emissione dell’atto di citazione, che
veniva notificato in date diverse ai sunnominati, ma comunque per tutti intorno
alla metà del mese di giugno del 2004. Frattanto, in data 5.4.2004 pervenivano
le deduzioni scritte del predetto F. e in data
20.4.2004 aveva luogo anche l’audizione personale di
costui.

Il danno erariale postulato, pari alla indebita erogazione del duplum
della suddetta indennità nel periodo considerato, è quantificato in
£.106.645.046, così determinato, giusta comunicazione del Comune di Segrate del 5.11.01: anni 1997-1998-1999 £.(5.270.760 x 12
mensilità x 3) = £.189.747.360 + 23.542.728 per i primi mesi dell’anno 2000 =
£.213.290.088 che, dimidiato, è pari per l’appunto a
£.106.645.046, pari ad euro 55.077,57.

Dalla Procura il danno suddetto viene imputato nella misura dell’80% al Sindaco C. e per il
rimanente 20% agli altri convenuti (compreso il Segretario Comunale) che erano
presenti e votarono favorevolmente, solo all’una o all’altra (alternativamente)
delle delibere causative dell’indebito esborso ut supra effettuato a carico del
Comune; risultando, nell’una o nell’altra, assenti, ma sempre presenti e
votanti in almeno una di esse, tranne il Consigliere Giuseppe Ferrante (non
citato in giudizio), presente alla sola seduta del 9 dicembre 1997, che non
votò la delibera, ma si astenne.

La difesa del C. eccepisce
preliminarmente la prescrizione quinquennale dell’azione, in considerazione
della risalenza temporale delle delibere suddette e
della data dell’invito a dedurre notificato soltanto in data 13.11.2003 ed in
via subordinata, quanto meno, la prescrizione per le
retribuzioni corrisposte fino al novembre del 1998, risalendo a ritroso
dall’invito a dedurre del novembre del 2003; nel merito protesta l’inesistenza
del danno per cui è causa, in virtù della
asserita ricorrenza dei presupposti di legge per la concessione del
beneficio di che trattasi, in quanto che effettivamente l’attività di lavoro
autonomo dichiarata in conformità della documentazione all’uopo prodotta si
sarebbe ridotta fortemente nel periodo considerato, per poi praticamente
cessare nel corso dell’anno 2000,
in conseguenza del gravoso concomitante lavoro di
Sindaco di un Comune di grande dimensione, come quello di Segrate.
A tal fine, allega le dichiarazioni dei redditi relative agli
anni presi in considerazione ed eccepisce in via gradata
la carenza dell’elemento soggettivo qualificato della colpa grave.

La difesa del F., con comparsa di
costituzione tardivamente depositata in data 25.11.2004 – che, tuttavia, il
Collegio non mancherà di considerare, atteso che la Procura ha in dibattimento
accettato il contraddittorio anche si di essa – argomenta l’infondatezza della
tesi accusatoria dal presupposto che, con l’entrata in vigore del comma 85
dell’art.17 della legge n.127/97
(c.d. “Bassanini bis”), è stato soppresso il parere
di legittimità del Segretario Comunale sulle deliberazioni dell’Ente locale; adduce anch’essa, inoltre, la carenza dell’elemento
soggettivo qualificato della colpa grave e prospetta l’assenza stessa di ogni
incidenza causale tra il comportamento tenuto dal Segretario e la decisione
presa dai Consiglieri di accogliere comunque la domanda di raddoppio
dell’indennità avanzata dal Sindaco.

La difesa dei Consiglieri (tranne il F. costituitosi personalmente) fa leva, anzitutto,
sull’istruttoria della domanda compiuta dal settore AA.GG.
competente per materia, cui sarebbe da attribuire la
responsabilità esclusiva (ove ritenuta sussistente) di avere indotto in “errore
interpretativo sul presupposto” i Consiglieri, che non avevano alcun obbligo di
vigilare sulla legittimità del provvedimento loro richiesto, attese le
rassicurazioni fornite sul punto, in sede di discussione, dal Segretario
Comunale e dal dirigente del Settore competente: ciò che eliminerebbe in radice
la culpa in vigilando supposta dalla Procura, privando in tal modo l’azione
contabile di ogni residuo sindacato sulle scelte discrezionali di merito;
richiama, inoltre, il principio di netta separazione tra la sfera politica e quella
gestionale ex art.1, comma 1-ter, della legge n.20/1994 e contesta il merito stesso dell’azione contabile,
affermando che la corresponsione dell’indennità raddoppiata fosse sostenuta,
nel caso di specie, dai presupposti di legge e che, pertanto, nessun danno
fosse ravvisabile nella fattispecie concreta; svolge, in via gradata, alcune considerazioni anche sul quantum della
pretesa erariale, sostenendo che ai consiglieri citati possa al più essere
addebitato un supposto danno erariale limitatamente alle indennità per gli anni
1997 e 1998, i soli riconducibili alle delibere sopra citate n.82/97 e n.18/98, mancando del
tutto per gli anni seguenti il necessario nesso di causalità; conclude,
eccependo la prescrizione dell’azione di responsabilità, per avvenuto decorso
del termine quinquennale al momento della notifica dell’atto di citazione
(giugno 2004), escludendo che il termine iniziale della prescrizione possa
farsi coincidere con i pagamenti mensili dell’indennità in parola, nonché
l’efficacia interruttiva della prescrizione dell’invito a dedurre.

Anche il F.
eccepisce la prescrizione dell’azione, l’insussistenza del nesso di causalità
fra le delibere citate e il danno per cui è causa e
l’assoluta carenza dell’elemento psicologico qualificato della colpa grave nel
comportamento tenuto nell’occasione – adducendo a quest’ultimo
riguardo il contenuto della discussione sulla proposta che diede luogo alla
deliberazione del raddoppio dell’indennità di carica del Sindaco – ed invoca,
in ultima analisi, l’esercizio del potere riduttivo.

Considerato in

DIRITTO

1. Al Collegio
tocca, in primo luogo, affrontare il tema centrale del danno postulato
dalla Procura, poiché, solo allorquando ne sia accertata la effettiva
sussistenza nella fattispecie all’esame, si potrà trattare dell’eccezione di
prescrizione del “diritto al risarcimento” ad esso relativo – secondo quanto
espressamente dispone l’art.1, comma 2, della legge n.20 del 1994 – unanimemente sollevata dai convenuti, con la
sola eccezione del Segretario Comunale Roberto F., tardivamente costituitosi,
come già detto, con la comparsa depositata in data 25.11.2004.

Sul punto, prive di pregio risultano le argomentazioni svolte dai convenuti, alla luce
della ratio delle disposizioni della legge n.816 del
1985 – regolanti il raddoppio dell’indennità di carica per cui è causa – quale
risulta dalla stessa esegesi al riguardo compiuta nell’evocato parere n.1965 reso dalla Sezione Prima del Consiglio di Stato
nell’adunanza del 9.1.1987. In vero, il quesito da cui muove il citato parere
riguardava la spettanza del beneficio suddetto “a soggetti che rivestano le
cariche di amministratori locali indicate nelle citate disposizioni, ma non
svolgano alcuna attività lavorativa né dipendente né autonoma (disoccupati,
casalinghe, studenti, etc.)”. Esclusa la spettanza in favore di detti soggetti,
il parere conclude in senso parimenti negativo anche
per la categoria dei pensionati (come il C., che ebbe a beneficiare del
contestato raddoppio dell’indennità di carica dal 1° gennaio 1997, quando era
già in pensione dal maggio del 1996), chiarendo tuttavia che “se il pensionato
svolge attività lavorativa, autonoma o dipendente (e in questo caso viene
collocato in aspettativa senza assegni) ricorrendo le altre condizioni previste
dalla legge (quali le dimensioni dell’Ente) opererà il raddoppio
dell’indennità”.

Ora, come dimostrato
inconfutabilmente dagli atti, il Sindaco non svolgeva professionalmente alcuna attività di lavoro autonomo, non essendo plausibile
assimilare, ai fini considerati, le funzioni di consigliere di amministrazione
dell’I.R.E.R. (Istituto Regionale di Ricerca della
Lombardia) e dell’Istituto Italiano di Credito Fondiario dal medesimo svolte, a
detta attività caratterizzata dall’impiego a proprio rischio dei mezzi necessari
per far fronte alla domanda della clientela. L’intento della legge citata
appare a questo proposito chiaro a chiunque, nel senso che il raddoppio della indennità debba essere riconosciuto soltanto a colui
il quale, per effetto dello svolgimento delle funzioni pubbliche corrispondenti
alla carica elettiva di Sindaco, subisca un pregiudizio nello svolgimento di
attività proprie definibili come “libero professionali”, per le quali soltanto
possa configurarsi il pregiudizio economico sotteso al beneficio di cui
trattasi, costituito dalla minor cura e dal minor tempo dedicabili alla
professione ed alla clientela, con conseguente vulnus all’avviamento
commerciale: circostanze queste non ravvisabili nella funzione di consigliere
di amministrazione di enti pubblici o privati, atteso il particolare rapporto
organico che ne è a fondamento. Del resto, le stesse contraddittorie
dichiarazioni sostitutive rese sul punto
dall’interessato ai sensi dell’art.4 della legge n.15/1968 (la prima del 9.6.1997 nella quale dichiara di
svolgere in favore degli enti citati attività libero professionale in materia
di consulenza aziendale e bancaria; la seconda del 27.11.1997 nella quale
specifica la decorrenza di tale attività a partire dall’1.1.1997 ed infine la
terza dell’11.3.1998 nella quale dichiara di svolgere tuttora l’attività libero
professionale suddetta in qualità di consigliere di amministrazione dei citati
enti) costituiscono ex se la prova evidente della difficoltà di far apparire
dovuto il beneficio richiesto, in carenza delle condizioni rese palesi dal
dettato normativo di cui sopra. D’altronde, i medesimi enti
interpellati in proposito (tanto dalla Procura, quanto dalla Giunta regionale
su interrogazione dei consiglieri M. e C.) hanno categoricamente escluso
che il dott. C. abbia mai prestato attività di stampo
libero professionale in loro favore, in relazione agli evidenziati profili di
incompatibilità con la carica di amministratore.

2. Una volta accertata la sussistenza
ontologica del danno per cui è causa, è conseguente
trattare funditus dell’eccezione di prescrizione del
diritto al risarcimento di esso.

Al riguardo, vale
rilevare che, qualora si aderisse alla tesi propugnata dai convenuti – con
esclusione dell’Avv. F. che non ha
mosso alcuna eccezione in proposito, limitandosi a declinare ogni
responsabilità in relazione al postulato danno erariale – verrebbe meno il
fondamento della stessa potestà di autotutela decisoria (sub specie di facoltà di ritiro) sottesa al
“ripensamento” degli atti aventi efficacia prolungata nel tempo e cioè di
quegli atti (come le delibere n.82/1997 e n.18/1998 da cui muove l’azione contabile) che sorreggono
l’erogazione temporalmente scanzionata
di pagamenti, quali l’indennità di che trattasi corrisposta mensilmente. In
questo senso, i precedenti giurisprudenziali di questa Corte ex adverso citati dai convenuti non sono, a ben vedere, in
contrasto con una lettura dell’art.1, comma 2, della
legge n.20 del 1994, secondo cui, in fattispecie di
danno continuato, come quella in esame, il provvedimento da cui muove il danno
medesimo si pone come assorbente, ai fini dell’individuazione del “dies a quo” della prescrizione, solo allorchè
sia di per sé idoneo a consumare l’eventus;altrimenti, non viene meno la potestà di ritiro dell’atto
ed il conseguente venir meno dei suoi effetti, qualora melius
re perpensa esso si riveli successivamente non più
conforme alla norma che pretendeva di applicare al caso concreto. Ed è proprio
l’immanenza di tale potestà, con riferimento alla fattispecie continuativa di
danno che ne occupa, a far sì che non si debba avere
riguardo all’atto deliberativo in sé, quanto piuttosto alle distinte date di
pagamento dei singoli ratei dell’indennità per cui è causa.

Altrettanto inconferente, sul piano
interruttivo della prescrizione, si mostra il richiamo agli atti di citazione,
in quanto – in disparte ogni diatriba sull’effetto anticipato di costituzione
in mora degli inviti a dedurre – gli è che, dal momento della notitia damni, l’azione contabile
intestata al P.M. è nella esclusiva disponibilità del
medesimo nelle sole forme che il rito gli consente, tra le quali si annovera,
nella fase preprocessuale, l’invito a dedurre di cui
all’art.5 della legge n.19
del 1994. Pertanto, del tutto oziosa e assolutamente
priva di senso si rivela ogni disquisizione in ordine al contenuto delle
clausole di stile da richiamare nella stesura dell’invito a dedurre, affinché
tale atto possa esplicare una contestuale efficacia interruttiva della
prescrizione, alla luce del principio di idoneità di qualsiasi atto a produrre,
indipendentemente dalla forma usata, gli effetti di varia natura (e per contro
soltanto quelli) riconducibili alla causa tipica della volontà posta in essere
nel caso concreto (nel caso in esame, l’effetto interruttivo di che trattasi);
principio desumibile, peraltro, dagli stessi artt.1219
e 2943, ult. comma, c.c., in combinato disposto con gli artt.121
e 156 c.p.c.

Ciò posto, a tutti (tranne uno) i
consiglieri comunali convenuti nell’odierno giudizio l’invito
a dedurre è stato notificato nel novembre 2003; al solo consigliere Mario G. il
suddetto invito è stato notificato in data 8.1.2004. Pertanto, qualora gli
stessi vengano ritenuti responsabili dell’addebito loro mosso, la prescrizione
quinquennale potrà essere applicata con riferimento ai ratei mensili
dell’indennità de qua agitur, movendo a ritroso dagli
inviti a dedurre; e, cioè, per tutti i consiglieri il diritto al risarcimento
del danno dovrà ritenersi prescritto fino al novembre 1998, tranne che per il
consigliere G. per il quale lo stesso diritto dovrà ritenersi prescritto fino
al gennaio 1999. Parimenti, per quanto riguarda il Sindaco C.,
cui l’invito a dedurre risulta notificato il
13.11.2003, il medesimo diritto dovrà ritenersi prescritto fino al
novembre 1998, mentre la prescrizione non varrà per il segretario comunale F. che non l’ha eccepita.

3. Venendo al merito intrinseco della
vertenza, non sarebbe azzardato scorgere nel comportamento del Sindaco C. una
vera e propria macchinazione ai danni dell’Erario. Si consideri, infatti, che
la “responsabilità da contatto qualificato”, dalla moderna pubblicistica posta
a fondamento del rapporto con la P.A., non può
essere intesa in senso esclusivamente unidirezionale (Amministrazione-amministrato),
ma comporta un reciproco dovere di cooperazione (dell’amministrato) che renda
possibile (all’Amministrazione) il corretto adempimento dell’obbligazione, ad
instar del combinato disposto degli artt.1175-1206
c.c. Ora, se ciò vale per il cittadino amministrato nei confronti della P.A., tanto più deve valere, nel
contesto del rapporto di servizio che lo lega all’Amministrazione, per lo
stesso amministratore. Si comprende, quindi, la ragione per cui la Procura qualifichi il
comportamento tenuto dal Sindaco, nella fattispecie, al
limite del dolo, pur mantenendo l’impianto accusatorio nei limiti della
colpa grave, sub specie di “colpa cosciente”.

E’, peraltro, noto che,
nell’ordinamento civile, l’espressione “dolo” viene ad indicare due differenti
aree di significati: il “dolo” è innanzitutto quell’atteggiamento soggettivo che si connota per
l’intenzionalità dell’evento lesivo, in contrapposizione alla “colpa” (ovvero
all’atteggiamento di chi non vuole un determinato evento dannoso, ma lo
determina con una condotta negligente, imprudente, imperita; in tal senso gli artt.789, 1225, 1228, 1229, 2043 c.c.); il “dolo” è inoltre
inteso dal legislatore nel significato di raggiro, di comportamento malizioso,
di condotta fraudolenta. Così, in materia contrattuale, il codice individua fra
i vizi della volontà la circostanza che il consenso sia stato
“dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo” (art.1427 c.c.) e, con riguardo a tale ultima ipotesi, prevede
o la possibilità di domandare l’annullamento del contratto, quando “i raggiri
usati da uno dei contraenti siano stati tali che, senza di essi, l’altra parte
non avrebbe contrattato” (art.1439, comma 1 c.c.),
ovvero la possibilità di ottenere il risarcimento di eventuali danni “quando i
raggiri non sono stati tali da determinare il consenso” (art.1440
c.c.). In altri termini, in un caso il dolo indica l’atteggiamento soggettivo
che accompagna la condotta dell’agente nella determinazione di un evento
dannoso: l’agente vuole l’evento; nell’altro caso l’espressione ha un
significato oggettivo, indicando un preciso comportamento: il “raggiro”,
l’inganno, ovvero, secondo una nota definizione, “omnis calliditas, fallacia, machinatio ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita”.

In tale ultima
prospettiva, che il Collegio ritiene appropriata al comportamento tenuto dal C., assume, quindi, rilievo il
concreto modo in cui è stato realizzato l’evento dannoso, riconnettendosi
effetti giuridici alla circostanza che l’evento (l’errore in cui è incorsa la
controparte pubblica rappresentata dagli amministratori che espressero voto
favorevole nell’una o nell’altra delle delibere succitate) sia conseguenza di
un “raggiro”(sub specie iuris di scientia
fraudis di conseguire un vantaggio non spettante che
sia fatto discendere dalle dichiarazioni stereotipizzate
e contraddittorie di cui s’è detto, sostitutive della documentazione
comprovante il diritto al beneficio per cui è causa).

Priva di pregio è, inoltre, la documentazione prodotta
dal C., in quanto che le dichiarazioni dei redditi non valgono certo a provare,
per quel che ne occupa, l’effettiva natura dell’attività lavorativa prestata
dal contribuente, mentre non è stata per contro fornita prova alcuna che il
decrescere della consistenza reddituale dichiarata
fosse dovuto alla compromissione dell’attività stessa per effetto della carica
di Sindaco, piuttosto che per effetto di circostanze dipendenti dalla natura
onoraria del servizio reso in veste di consigliere di amministrazione dei sopra
citati Istituti.

3.1. Non vanno nemmeno esenti da
responsabilità i consiglieri comunali convenuti assieme al Sindaco, in quanto
il comportamento ingannatore di quest’ultimo va
valutato non già in astratto, ma in rapporto alle qualità e condizioni
soggettive di coloro che erano presenti e votarono
favorevolmente all’una o all’altra delle delibere causative del danno erariale
ut supra accertato – coloro, cioè, che pur risultando, nell’una o nell’altra,
assenti, non di meno furono presenti e votanti in almeno una di esse – e dunque
in relazione all’onere di diligenza e di controllo che sempre grava su chi
amministra la cosa pubblica, con riferimento al “buon andamento” ex art.97 Cost., posto che
l’affidamento di costoro non può ricevere tutela giuridica qualora, come nel
caso di specie, risulti a sua volta fondato su di una grave negligenza (Cass. Civ. Sez.II, 28 ottobre 1993, n.10718; Cass. Civ. Sez.III, 12 gennaio 2001, n.257).
Il che vale in particolare ove, come nel caso di specie, i consiglieri, nella
loro qualità di soggetti tenuti ad esprimere un voto informato, hanno di fatto rinunciato ad esercitare, pur essendone dotati, i
poteri di controllo in ordine all’assolvimento, da parte del Sindaco,
dell’obbligo di rendere determinate informazioni, od a disporre affinché
venisse prodotta idonea documentazione e perfino acquisita opportuna
consultazione a comprova dell’effettivo titolo al beneficio richiesto. Significativa, al riguardo della efficace spendita di tali
poteri all’interno di un organo deliberante, è l’iniziativa chiarificatrice
assunta, in forma di interpellanza al Presidente della Regione Lombardia, dai
consiglieri regionali M. e C. in data 3.2.1998, la cui evasione è valsa a
chiarire ogni dubbio sul tipo di attività lavorativa svolta dal C.: essa sta a
dimostrare la effettiva disponibilità del potere di controllo, se adeguatamente
sorretta dall’effettiva volontà di realizzare la primazia
dell’interesse pubblico nell’azione amministrativa.

In vero, è indubbio che l’esistenza
di poteri-doveri di verifica e di controllo in mano pubblica non può non
ridimensionare fortemente la logica delle argomentazioni difensive dei
consiglieri convenuti, in quanto le dichiarazioni stereotipe e contraddittorie
rese dall’interessato non potevano recare in sé alcuna valenza lato sensu dominicale, non potendo certo aspirare ad equivalere
ad atti di disposizione di interessi superindividuali
che potessero giustificare un comportamento acquiescente da parte dei
consiglieri comunali.

Una tale opzione
ermeneutica secondo cui, pur in presenza delle dichiarazioni dell’interessato,
restano fermi i poteri-doveri dell’Amministrazione di verificare il possesso
dei requisiti dichiarati, dà atto del carattere indisponibile dell’interesse
pubblico in oggetto, che non si colloca sul crinale di facoltà dominicali del
soggetto beneficiario, riconducibili ad un dominio dispotico, ma piuttosto su
quello di un controllo sociale, al quale lo stesso deve soggiacere, sul
contenuto dei requisiti che lo riguardano. Detto altrimenti, sugli
amministratori grava un onere di diligente e responsabile informazione sui
fondamenti della delibera che sono chiamati a
pronunciare, il mancato e scrupoloso assolvimento del quale va imputato a loro
grave negligenza.

Le disfunzioni organizzative in
proposito lamentate da alcuni consiglieri nella seduta
del 9.12.1997 – tra cui Tangari Chiara che non
partecipò alla votazione – lungi dal costituire una sorta di esimente per i
votanti, non fanno che rafforzare, semmai, l’esigenza primaria di un corretto
perseguimento dell’interesse pubblico.

La particolarità della fattispecie
all’esame attiene, infatti, al sopravvenire convulso di attestazioni
di diverso contenuto. Sul punto, la giurisprudenza (T.A.R. Milano II, 9.09.88,
n. 373) ha avuto modo di affermare che il fatto della sovrapposizione di
diverse attestazioni della stessa parte ma di
contenuto diverso, impone alla pubblica amministrazione di procedere ad un
autonomo accertamento dei fatti, senza potere dare prevalenza ad una o ad
un’altra delle dichiarazioni per consentire o negare i vantaggi che nascono
dalla norma. Ritiene il Collegio che la circostanza delle plurime e diverse
dichiarazioni possa essere inquadrata nell’ambito
della tematica del valore della stessa dichiarazione sostitutiva di atto di
notorietà. Se è ben vero, e pacificamente ritenuto in
giurisprudenza, che "le dichiarazioni sostitutive di notorietà hanno
valore certificativo e probatorio e, pertanto, non
possono essere ritenute dall’amministrazione a priori irrilevanti o
inattendibili, avendo quest’ultima l’onere di
svolgere specifica attività istruttoria per verificarne l’attendibilità"
(ex multis Con. Stato IV, 23.09.99, n. 1484,
id. V, 1.12.99, n. 2034), è anche vero che il detto valore "certificativo e probatorio" appare comunque
di carattere estremamente limitato. Sotto un primo profilo, l’efficacia
soggettiva della dichiarazione si estende unicamente nei confronti della
pubblica amministrazione (pacifica è infatti la
considerazione che nel processo la dichiarazione sostitutiva di notorietà è
inammissibile: ex multis per il processo civile Cass.
Civ. III, 16.05.01, n. 6742; per quello
amministrativo, Cons. Stato IV, 24.02.00, n.
1010) o nei confronti dei soli privati che intendano riconoscerne la validità.
Sotto un secondo profilo, la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà,
ex art. 4 della L. 4 gennaio 1968 n. 15, ha un ambito oggettivo
limitato, in quanto "concerne unicamente fatti, stati o qualità personali
che siano a diretta conoscenza dell’interessato e che, di regola, non trovano
riscontro in albi, registri o elenchi tenuti dalla p.a. o perché nessuna norma
ne prevede la registrazione o perché questi ultimi sono andati dispersi" (Cons. Stato V, 17.05.97, n. 519). È quindi da escludersi
che l’atto abbia la stessa ampiezza applicativa dei procedimenti dichiarativi.
In terzo luogo, anche l’effetto preclusivo, elemento tipico dei procedimenti
dichiarativi che impedisce ai terzi di ritenere diverso il fatto indicato
nell’atto, appare di molto sminuito, atteso che "legittimamente la p.a., nel contrasto tra una
dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà ed altra documentazione in suo
possesso, attribuisce credito poziore a quest’ultima, in relazione al carattere oggettivo di tale
risultanza, di cui è invece sprovvista la dichiarazione della parte" (Cons. Stato V, 15.06.98, n. 839). Così inquadrato il tema,
il profilo certificativo e probatorio, in senso
stretto, appare di fatto limitatissimo, atteso che l’unico soggetto nei cui
confronti si può produrre la dichiarazione sostitutiva, ovvero
la pubblica amministrazione, ha il solo onere di non disattendere ad nutum le affermazioni ivi contenute, ma non subisce alcuna
limitazione nelle modalità con cui infirmare i fatti allegati. Non si verifica, cioè, alcun effetto preclusivo, né in senso
sostanziale, né in senso procedurale, ma unicamente si impone alla pubblica
amministrazione di valutare la dichiarazione sostitutiva come uno dei fatti
acquisiti nel corso dell’istruttoria, secondo il meccanismo caratteristico del
procedimento amministrativo. Ciò implica che ogni altra acquisizione fattuale
può essere impiegata per valutare la corrispondenza al vero della dichiarazione
sostitutiva, ivi compresa anche una diversa ed ulteriore
dichiarazione dello stesso tipo.

Venendo, quindi, alla soluzione del
problema proposto in questa sede, va subito evidenziato come non possano andare esenti da responsabilità, seppure ridotta in
conseguenza delle circostanze che saranno in seguito esaminate, i consiglieri
convenuti. Per essi, infatti, non vale, in quanto ultronea alla luce delle considerazioni suesposte, la
strenua difesa delle insindacabili prerogative di merito dell’azione
amministrativa ex art.1 della legge n.20/1994: il merito, infatti, era già stato consumato con
le precedenti delibere che avevano parametrato
l’indennità alla misura massima consentita e residuava unicamente uno spatium deliberandi di sola
legittimità in merito al raddoppio, che non poteva certo dirsi coperto dalla
grossolana e superficiale affermazione resa dal dirigente del settore affari
generali. Quest’ultimo, infatti, interpellato in
proposito, così si esprimeva: “Il Sindaco ha avanzato una richiesta che dal
punto di vista della legittimità io non posso assolutamente credere illegittima
o non nei limiti fissati dalla norma…”. Di fronte ad una tale anòdina affermazione, che avrebbe suscitato più di un
dubbio in una persona di media diligenza, l’unico aspetto da approfondire
sarebbe stato, in vero, proprio quello della legittimità. L’opzione
dei Consiglieri è stata, viceversa, quella di adagiarsi sulle dichiarazioni stereotipe
del Sindaco e sulle assiomatiche, quanto ambigue, affermazioni del Segretario
Comunale e del Dirigente responsabile del settore. Né miglior pregio hanno le argomentazioni difensive che puntano sulla
separazione tra la sfera politica e quella gestionale, al fine di preservare la
prima dall’incidenza negativa degli atti di “competenza propria” della seconda,
ad instar dell’art.1, comma1-ter, della legge n.20/1994, in quanto, anche a prescindere dalla distinzione
di competenze, la norma evoca un principio di “buona fede” non separabile da
quello di “buona amministrazione”, non ravvisabile nel caso concreto in capo
all’organo politico, per le anzidette ragioni.

Inoltre, gli stessi
dubbi sulla competenza a deliberare nutriti dalla parte più avveduta del
Consiglio ( tra cui il convenuto Cons. F.) sono stati agilmente rimossi dalla volontà espressa nei
deliberati di accordare comunque il raddoppio dell’indennità di che trattasi,
determinando in siffatto modo una assunzione di responsabilità in merito a quanto
deciso, paragonabile ad una funzione esercitata “di fatto”: in vero,
quand’anche si ritenesse fondato un ipotizzabile vizio di incompetenza, lo
stesso risulterebbe ininfluente ai fini in esame, in quanto quello che rileva
in questa sede non è la competenza ad emanare l’atto, ma la responsabilità che
ne discende una volta che esso sia stato posto comunque in essere.

Vengono prospettate, infine, alcune
considerazioni sul quantum della pretesa risarcitoria nei confronti dei
consiglieri autori delle delibere sopra citate, dalle quali questo Collegio
dissente, poiché non ritiene, come ex adverso
preteso, che il danno possa essere limitato alle indennità corrisposte per gli
anni 1997 e 1998. Indiscutibile è, infatti, il nesso di causalità tra le
delibere di cui sopra ed il raddoppio dell’indennità anche per l’anno 1999 e
parte del 2000, nel duplice, concorrente senso di “prevedibilità del danno” e
di “scopo della norma violata”.

Nel primo senso, va richiamato il
principio di “causalità adeguata”, secondo cui il danno in questione è da
ritenere compreso nell’id quod
plerumque accidit, in base
ad un giudizio ex ante formulato alla stregua di prognosi postuma sugli esiti
delle delibere sopra citate, dal momento che solo esse
si sono poste, fino a prova in contrario, come condicio
sine qua non dell’istituito raddoppio dell’indennità
di che trattasi.

Nel secondo senso, il principio di
“causalità adeguata” si integra con una valutazione
della norma violata e/o falsamente applicata nel caso di specie (art. 3 della
legge n.816/1985), il cui scopo è solo quello di
indennizzare la compromissione della attività di lavoro autonomo (intendendosi
per tale soltanto quella da cui viene tratta la fonte principale del reddito di
una persona) causata dall’assorbente impegno sindacale in Comuni di grandi
dimensioni.

3.2. Altrettanto è a dirsi del
Segretario comunale, anch’egli convenuto nell’odierno giudizio, nei cui
confronti il Collegio ritiene necessario inquadrare la vicenda all’interno del
rapporto di servizio che legava il suddetto convenuto all’Ente locale, presso cui svolgeva la predetta funzione all’epoca delle citate
delibere n.82/1997 e n.18/1998.
Il Segretario Comunale – che, prima della riforma introdotta dall’art.17 della legge 15.5.1997, n.127,
era dipendente statale e oggi della speciale agenzia autonoma di cui all’art.103 del T.U. n.267/2000 – è,
com’è noto, legato da un rapporto organico istituzionale con l’ente locale
presso cui presta servizio e, come tale, sottoposto alla speciale giurisdizione
di responsabilità di questa Corte in caso di “fatto dannoso” dal medesimo
arrecato, senza che possa parlarsi al riguardo di “danno ad ente diverso da
quello di appartenenza” ai sensi dell’art.1, comma 4,
della legge n.20/94. Il suddetto svolge la sua
specifica funzione ausiliaria di garante della legalità e correttezza
amministrativa dell’azione dell’ente locale. L’incarico di segretario generale
del comune – il quale, secondo la disciplina dettata dall’art. 17, commi da 67
a 86, della legge n. 127 del 1997 (applicabile nella fattispecie "ratione temporis"), svolge
compiti di collaborazione e funzioni di assistenza
giuridico – amministrativa nei confronti degli organi dell’ente locale (in
ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed
ai regolamenti) riferibili alla intera attività svolta dall’ente – è connotato
dall’esistenza di un rapporto fiduciario con il Sindaco, comprovato dalle
modalità della nomina, dall’essere la sua durata corrispondente a quella del
mandato del Sindaco, nonché dalla sua revocabilità, ex art. 15, comma 5, d.P.R. n. 465 del 1997, qualora il segretariocomunale
si renda responsabile di "gravi" violazioni ai doveri di ufficio. Non di meno, un tale rapporto fiduciario non può
andare a scapito della legalità dell’azione amministrativa, specie quando il
Segretario, come nel caso di specie avvenuto (si vedano in proposito le
deduzioni depositate dal F. in data 8.4.2004), abbia divisato evidenti profili ostativi al riconoscimento
del diritto al raddoppio dell’indennità di che trattasi. Dichiara testualmente
il sunnominato convenuto: “Non nascondo che la cosa non fu certamente bene
accolta dal Sindaco e ciò non produsse certo buoni
rapporti. Si decise che per la presentazione della delibera in consiglio
comunale si sarebbero acquisiti, come si acquisirono, diversi pareri e cioè quello del Direttore AA.GG.,
del Responsabile Sezione Personale, del Direttore Ragioneria per l’aspetto
contabile, ma non c’è quello di legittimità apposto dal Segretario Generale”.
Trattasi, in tutta evidenza, di un commodus recessus dalle proprie responsabilità, effettuato
facendosi scudo dell’intervenuta soppressione, ai sensi dell’art. 17 comma 85
l. n. 127 del 1997, del parere di legittimità del segretariocomunale su ogni proposta di deliberazione sottoposta
alla giunta o al consiglio, già previsto dall’art. 53 l. n. 142 del
1990. Non di meno – in disparte quanto opportunamente rilevato dalla Procura e cioè che a detto parere il F.
sarebbe stato ugualmente tenuto ai sensi delle disposizioni contenute negli
Statuti che, dal 1997 al 2001, regolamentavano la vita del Comune e le funzioni
degli organi – la suddetta modifica normativa non esclude che il segretariocomunale, cui l’art. 17 comma 68 l n. 127 del
1997 intesta specifici compiti di consulenza giuridico-amministrativa,
possa – ed ove richiestone debba – comunque rendere il proprio parere in ordine
alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, agli statuti ed ai
regolamenti e che del parere reso debba rispondere ai sensi dell’art. 53, comma
3, l. n. 142 del 1990, che costituisce espressione di un principio generale,
operante a prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa del parere
espresso (in senso conformeC.Conti reg. Puglia, sez. giurisd., 8 luglio 2003, n. 594).
In proposito, rileva opportunamente la Procura che il F., ancorché
esplicitamente interpellato da alcuni Consiglieri, si è ben guardato
dall’affermare che il raddoppio dell’indennità fosse, nella specie,
illegittimo. Comportamento, questo, che non può non
ascriversi a grave noncuranza dell’interesse pubblico ad un corretto impiego
delle risorse finanziarie della collettività amministrata. Valga, in
vero, considerare quanto testualmente affermato dal suddetto nella seduta
consiliare del 9.12.1997 (“A tale proposito, c’è una sentenza del Consiglio di
Stato, I Sezione del 9.1.1987 n.1965
che…ha affermato che il raddoppio non spetta ai lavoratori pensionati che non
svolgono altra attività autonoma. Al contrario, a coloro che
svolgono, seppur pensionati, attività autonoma, compete il raddoppio
dell’indennità. E’ tutto quanto potevo dire.”) per rendersi conto della
consapevole equivocità concettuale del termine “autonomo”, adoperato atecnicamente nella fattispecie per non tradire le aspettative del Sindaco.

Nel caso di specie, rileva nei
confronti del F. la grave noncuranza dei normali
“doveri di protezione” degli interessi del Comune, correlati all’obbligo di
usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione professionale
esercitata ex art.1176, 2° comma c.c., che avrebbero dovuto imporre al sunnominato un approccio
alla questione più meditato e consapevole e, soprattutto, scevro da
condizionamenti. Pertanto – sebbene ciò non valga correlativamente
ad affermare, per le ragioni anzidette, una deminutio
di responsabilità dei Consiglieri – il danno a costui imputabile si ricollega
alla mancata protezione dei superiori interessi dell’ente locale, integrante il
contenuto del rapporto di servizio inglobante, come tale, l’obbligo, disatteso
nella fattispecie all’esame, di informare correttamente l’organo deliberante
sui limiti giuridici
imposti alla materia trattata.

Sicchè, si configura, in capo al
sunnominato, una colpa professionale di pregnante gravità, a smentire la quale
non valgono certo le circostanze addotte a difesa, le
quali, semmai, sono meritevoli (unitamente a quelle addotte in favore degli
stessi Consiglieri) di separata considerazione, ai fini della quantificazione
del danno ai suddetti imputabile.

4. Venendo, quindi, a trattare quest’ultimo profilo (addebito del danno da imputare a ciascuno
dei convenuti), non può non tenersi conto del tradizionale principio di
parziarietà dell’obbligazione amministrativo-contabile – conforme al profilo
concorsuale da cui prendono le mosse gli artt.82 e 83
del R.D. n.2440/1923, 52 del R.D. n.1214/1934, 19 del D.P.R. n.3/1957,
nonché da ultimo lo stesso art.1, comma 1-quater
della legge n.20/1994 – non contraddetto dal
postulato attoreo dell’assorbente responsabilità (quasi dolo) del Sindaco C.,
in quanto privo, quest’ultimo, di conseguenze sul
piano del petitum sostanziale dedotto in
giudizio, recante l’affermazione di una responsabilità ripartita tra i
convenuti, secondo l’apporto causale di ciascuno di essi. Talchè,
ferma restando la preminente responsabilità del Sindaco, la prospettiva del
giusto processo, quale delineato dal novellato art.
111 Cost. – che non consente al Giudice di assumere iniziative riguardo
l’evocazione in giudizio di altri soggetti oltre quelli ritenuti dalla Procura
responsabili – non impedisce, tuttavia, al Collegio di tener conto, nella
determinazione della quota di danno imputabile al Segretario Comunale ed ai
Consiglieri, della insufficienza istruttoria imputabile al dirigente del
Settore AA.GG. (in senso
analogo C.Conti reg. Lazio, sez. giurisd.,
28 gennaio 2003, n. 202). Le omissioni istruttorie di quest’ultimo
– non evocato in giudizio dal P.M. per ritenuto difetto del presupposto della
colpa grave, come chiarito in udienza – hanno, infatti, certamente contribuito
alla causazione del danno di che trattasi.Ritiene,
per questo, il Collegio di dover operare, seppure a diverso titolo, la
riduzione di un terzo sull’ammontare del danno, come di seguito determinato,
posto a carico del Segretario Comunale e dei Consiglieri: per il primo, in
considerazione del concorso (in pari misura stimato) del terzo non evocato in
giudizio nella produzione del danno di cui trattasi e per questi ultimi, in
ragione della inadeguatezza istruttoria sopra
evidenziata. Ritiene, viceversa, il Collegio di non concedere attenuante alcuna
al Sindaco, in considerazione dell’influenza dominante da questi esercitata
nella vicenda per cui è causa. In vero, venendo a
graduare l’apporto causale di ciascuno dei convenuti nella vicenda de qua agitur, è agevole divisare, per ovvi motivi, la posizione differenziata del Sindaco C., da quella dei Consiglieri
convenuti unitamente al Segretario comunale, che emerge in tutta evidenza dal
fatto che il primo rivestì la qualità di procurator
in rem propriam,
adoperandosi a dichiarare in modo equivoco la natura dell’attività esercitata,
mentre il Segretario ne fiancheggiò l’operato ed i Consiglieri ne condivisero
acriticamente l’iniziativa.

Pertanto, il Collegio ritiene di
commisurare al 70% del danno stimato la responsabilità del primo, al 10% la responsabilità
del secondo ed al restante 20% la responsabilità nel complesso addebitabile a
questi ultimi, ciascuno per la sua quota, pari ad 1/20, considerato il numero
di essi, qui convenuti, pari a 20. Al contempo, tenuto
conto delle superiori considerazioni in merito al contributo causale del
dirigente del Settore AA.GG.,
il Collegio ritiene equo, come già detto, diminuire di 1/3 l’addebito al
Segretario ed ai Consiglieri.

In conclusione, il Collegio ritiene
di ripartire il danno costituito dalla indebita
erogazione del raddoppio dell’indennità di che trattasi, accollando al Sindaco
il 70% del relativo ammontare di £.(5.270.760 + 63.249.120 + 23.542.728 : 2)
46.031.304 (tenuto conto della prescrizione dei ratei mensili di detta
indennità fino al novembre del 1998), pari ad euro 16.641,23, oltre
rivalutazione monetaria dei singoli ratei a partire dal dicembre del 1998 e
fino alla data di deposito della presente decisione ed interessi da quest’ultima data fino al soddisfo.

Parimenti accolla 1/20
del 20% (ridotto di un terzo) del danno ut supra stimato di £.46.031.304, pari
ad euro 158,49, a ciascuno dei Consiglieri (meno il Consigliere G.), oltre
rivalutazione monetaria dei singoli ratei a partire dal dicembre del 1998 e
fino alla data di deposito della presente decisione ed interessi da quest’ultima data fino al soddisfo.

Al Consigliere G. addebita 1/20 del
20% (ridotto di un terzo) del danno per esso stimato
dal febbraio 1999 di £.(5.270.760 x 11 + 23.542.728 : 2) 40.760.544(tenuto
conto della prescrizione dei ratei mensili dell’indennità fino al gennaio
1999), pari ad euro 140,34, oltre rivalutazione monetaria dei singoli ratei a
partire dal febbraio del 1999 e fino alla data di deposito della presente
decisione ed interessi da quest’ultima data fino al
soddisfo.

Infine, addebita al Segretario F. il 10% (ridotto di un terzo) dell’intero danno stimato
dal 1° gennaio 1997 di £.(63.249.120 + 63.249.120 + 63.249.120 + 23.542.728 : 2) 106.645.046 (per non aver questi eccepito alcuna
prescrizione in proposito), pari ad euro 3.671,84, oltre rivalutazione
monetaria dei singoli ratei a partire dal gennaio del 1997 e fino alla data di
deposito della presente decisione ed interessi da quest’ultima
data fino al soddisfo.

Le spese seguono la soccombenza, come
in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dei Conti, Sezione
Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando sulla
domanda proposta dalla Procura Regionale con l’atto di citazione in epigrafe,
condanna B. C. al pagamento della somma di euro
16.641,23; R. F. al pagamento della somma di euro 3.671,84; A. A. al pagamento della somma di euro158,49; A. B. al pagamento della somma di euro
158,49; C. B. al pagamento della somma di euro 158,49; A. B. al pagamento della
somma di euro 158,49; D. B. al pagamento della somma di euro
158,49; G. D. al pagamento della somma di euro 158,49;
Angelo F. al pagamento della somma di euro 158,49; A.
F. al pagamento della somma di euro 158,49; D. F. al pagamento della somma di euro
158,49; A. F. al pagamento della somma di euro
158,49; G. F. al pagamento della somma di euro 158,49; M. G. al pagamento della somma di euro
158,49; M. G. al pagamento della somma di euro 140,34; Guido P. al pagamento
della somma di euro 158,49; R. P. al pagamento della somma di euro 158,49; A.
P. al pagamento della somma di euro 158,49; C. R. al pagamento della somma di
euro 158,49; L. R. al pagamento della somma di euro
158,49; L. T. al pagamento
della somma di euro 158,49; C. Mario F. Z. al
pagamento della somma di euro 158,49 in favore del Comune di Segrate (MI).

Ciascuno dei suddetti importi va,
inoltre, incrementato come in parte motiva della rivalutazione monetaria e
degli interessi.

Le spese del giudizio, che si liquidano in
euro seguono la
soccombenza proporzionalmente alla ripartizione dell’addebito ut supra
effettuata: 70% a carico del Sindaco B. C.; 10% a carico del Segretario
Comunale R. F. ed il restante 20% a carico dei
Consiglieri, ciascuno per la sua quota pari ad 1/20.

Così deciso in
Milano, nella Camera di Consiglio del 25 novembre 2004.