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Il socio escluso dalla cooperativa non può compensare il debito che abbia nei confronti della stessa con un suo credito. Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 13 luglio-12 ottobre 2004, n. 20169
Il socio escluso dalla cooperativa non può compensare il debito che abbia nei confronti della stessa con un suo credito
Cassazione Sezione prima civile sentenza 13 luglio-12 ottobre 2004, n. 20169
Presidente Criscuolo Relatore Rordorf
Pm Gambardella conforme ricorrente Fallimento Terziroli di Terziroli Carlo & C. Sas ed altri
Svolgimento del processo
La Terziroli Sas di Terziroli Carlo & C ed i signori Carlo, Giuseppe e Giovanni Terziroli, Carla Laghi e Alessandra Botta, tutti soci della Banca Popolare di Luino e Varese soc. coop. Arl (poi divenuta Spa, e che dora innanzi sarà indicata come la banca), essendo stati dichiarati falliti dal Tribunale di Varese, furono esclusi dalla compagine sociale della banca in applicazione degli articoli 2527 (nel testo allora vigente) e 2288, comma 1, Cc.
La banca non procedette, tuttavia, al pagamento del controvalore delle quote di spettanza dei soci esclusi, ma, vantando a propria volta maggiori crediti verso di essi, propose domande di insinuazione al passivo dei relativi fallimenti, previa compensazione, per i corrispondenti importi, con i propri debiti di liquidazione delle quote sociali.
Il giudice delegato rigettò le richieste di compensazione formulate dalla banca, la quale propose opposizione al tribunale, insistendo nella propria pretesa. Il curatore degli anzidetti fallimenti (dora innanzi sinteticamente indicato come la curatela) resistette allopposizione e chiese, in via riconvenzionale, la condanna della banca a corrispondere a ciascun fallimento limporto corrispondente al valore della quota sociale liquidata.
Con sentenza emessa il 23 febbraio 1998, il tribunale, ritenute non sussistenti le condizioni alle quali larticolo 56 legge fallimentare consente di operare la compensazione tra crediti e debiti facenti capo ad un soggetto dichiarato fallito, rigettò lopposizione ed, in accoglimento delle proposte domande riconvenzionali, condannò la banca a versare le somme di lire 34.611.300 in favore del fallimento della Terziroli Sas, di lire 5.046.000 in favore del fallimento del signor Giuseppe Terziroli, e di lire 3.111.700 in favore di ciascuno degli altri fallimenti, oltre agli interessi ed alle spese di lite.
La banca interpose gravame e la Corte dappello di Milano, con sentenza depositata in cancelleria il 28 novembre 2000, riformò la pronuncia di primo grado e condannò la curatela a restituire alla banca gli importi ricevuti per effetto della provvisoria esecuzione di quella pronuncia.
A fondamento di tale decisione la Corte milanese osservò, anzitutto, che il presupposto perché possa operare la compensazione prevista dal citato articolo 56 risiede essenzialmente nellanteriorità, rispetto al fallimento, del fatto genetico dal quale derivano i contrapposti crediti. Considerò, quindi, che non osta alla possibilità di compensazione il fatto che il credito del fallito, se anteriore al fallimento. non sia ancora a quella data scaduto ed esigibile; e ne dedusse che, trovando i crediti per liquidazione delle quote il proprio fondamento causale nel vincolo societario preesistente al fallimento, essi ben potevano essere compensati con i contrapposti debiti dei falliti nei riguardi della banca.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre la curatela, prospettando due motivi di censura, illustrati con successiva memoria.
Non ha svolto difese in questa sede la banca.
Motivi della decisione
1. I due motivi di ricorso, con i quali si lamenta, rispettivamente, la violazione dellarticolo 56 legge fallimentare e dellarticolo 2917 Cc, si ricollegano al medesimo tema e possono senzaltro essere esaminati insieme.
1.1. La curatela ricorrente considera errata la decisione del giudice dappello nella parte in cui ha ritenuto non applicabile, nel caso di specie, la compensazione prevista dal citato articolo 56. In particolare, contesta lesistenza di un consolidato principio giurisprudenziale, invocato dal giudice milanese, secondo cui la compensazione ipotizzata dallanzidetta norma postulerebbe unicamente lanteriorità al fallimento di entrambi i contrapposti crediti, indipendentemente dalla loro pregressa esigibilità. La ricorrente nega che sia possibile desumere un tal principio dallasserito fondamento equitativo di quella norma, ed aggiunge che, se il mero riferimento allanteriorità dì una qualsiasi matrice causale del credito rispetto al fallimento fosse sufficiente a rendere applicabile il particolare regime derogatorio alla par condicio voluto dal citato articolo 56, non si giustificherebbe la contraria conclusione cui la medesima giurisprudenza viceversa perviene in tema di non compensabilità dei crediti derivanti dalla risoluzione di contratti di compravendita stipulati dal fallito prima. del fallimento con i contrapposti crediti restitutori del contraente in bonis, ed in tema di non compensabilità del debito restitutorio conseguente allesercizio vittorioso dellazione revocatoria fallimentare con il credito vantato dal convenuto nei confronti del fallito. Daltro canto, il principio espresso dallarticolo 2917 Cc, che rende inopponibili al creditore pignorante i fatti estintivi del credito pignorato verificatisi in epoca successiva al pignoramento, non potrebbe non trovare applicazione anche con riferimento ad una procedura fallimentare, equivalente ad un pignoramento collettivo, e condurrebbe perciò anchesso alla conclusione della non compensabilità , in danno della curatela, dei crediti del fallito non ancora esigibili al tempo della dichiarazione di fallimento.
1.2. Osserva poi ancora la curatela ricorrente che, in ogni caso, il fatto genetico del diritto del socio
alla liquidazione della propria quota, e quindi del debito di liquidazione di detta quota gravante sulla società in caso di esclusione del socio per fallimento, non può essere individuato nel preesistente rapporto sociale, dal quale tuttal più scaturisce unaspettativa di liquidazione, bensì proprio nellesclusione dalla società, la quale però fa seguito e dunque non è anteriore ‑ al fallimento medesimo.
2. I rilievi appena riferiti per alcuni versi appaiono privi di fondamento, ma per altri colgono nel segno.
2.1. Contrariamente a quel che la curatela ricorrente assume, appare ormai acquisito nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui larticolo 56 legge fallimentare pone come unico limite, imprescindibile per la compensabilità dei debiti verso il fallito creditore, lanteriorità al fallimento del fatto genetico del credito del fallito, cui corrisponde il debito facente capo al soggetto in bonis, restando invece irrilevante che quel credito sia divenuto liquido ed esigibile dopo il fallimento. I contrasti che si erano manifestati su tale punto in epoca precedente sono stati infatti composti dalle Su, con la sentenza 775/99, ed è stato affermato il principio sopra ricordato al quale si sono poi adeguate le successive sentenze 10861/03, 8042/03, 11288/01, e 9678/00.
Da tale orientamento, che questo collegio pienamente condivide, non si ha motivo per discostarsi nel presente caso. Le osservazioni formulate dalla curatela ricorrente non introducono, infatti, decisivi elementi nuovi di riflessione, rispetto a quelli già presi in esame dalla citata sentenza delle Sezioni unite, la quale ha ben chiarito, per un verso, come nessun riferimento alla già intervenuta scadenza o alla pregressa esigibilità dei crediti in questione sia dato rinvenire nel testo dellarticolo 56 legge fallimentare, e come un siffatto limite non sia neppure logicamente deducibile dalle regole del concorso, trattandosi di una disposizione che intende appunto sottrarre leffetto compensativo a quelle regole in forza di unesigenza di equità altrimenti destinata a rimanere parzialmente insoddisfatta; per altro verso, come la riconosciuta applicabilità del citato articolo 56 anche allipotesi di compensazione giudiziale (ovviamente sempre a condizione che la genesi del credito da liquidare in giudizio sia anteriore al fallimento) impone di affermare, anche in termini generali, lammissibilità di detta compensazione in presenza di crediti non ancora liquidi ed esigibili alla data del fallimento. Né si è mancato, nella richiamata sentenza 775/99, di confrontare tali conclusioni con il disposto dellarticolo 2917 Cc, tenuto conto dellidentità funzionale del pignoramento del credito in detta norma contemplato con il vincolo dindisponibilità patrimoniale derivante dalla dichiarazione di fallimento; ma il confronto, lungi dal dimostrare la necessità che il credito da compensare ex articolo 56 legge fallimentare sia scaduto o esigibile sin da epoca anteriore al fallimento, ha condotto ad evidenziare come anche nellesecuzione individuale il requisito dellanteriorità della causa di estinzione del credito rispetto al pignoramento ‑ postulato dallarticolo 2917 Cc perché la compensazione abbia effetto in pregiudizio del creditore pignorante e degli altri creditori intervenuti nella procedura ‑ implica solo che detto credito sia sorto prima del pignoramento medesimo, ma non pure che sia già scaduto ed esigibile.
Occorre ancora aggiungere che neppure coglie nel segno lobiezione della ricorrente secondo cui il suindicato orientamento interpretativo dellarticolo 56 legge fallimentare si porrebbe in contrasto logico con le conclusioni predicate dalla medesima giurisprudenza tanto a proposito dellimpossibilità di compensare i crediti derivanti dalla risoluzione di contratti di compravendita stipulati dal fallito prima del fallimento con i contrapposti crediti restitutori del contraente in bonis, quanto a proposito della non compensabilità del debito restitutorio conseguente allesercizio vittorioso dellazione revocatoria fallimentare con il credito vantato dal convenuto nei confronti del fallito.
Si potrebbe anzitutto osservare, sul piano logico, che le eventuali incoerenze sistematiche ravvisabili nel raffronto tra il principio sopra enunciato ed il modo in cui sono state risolte altre questioni in tema di operatività della compensazione nel fallimento non basterebbero comunque, di per sé sole, a dimostrare
lerroneità di detto principio (essendo, semmai, da rivedere le basi su cui si fondano le pronunce eventualmente non coerenti con esso).
Ma, in realtà, il richiamo al consolidato insegnamento per cui non può darsi compensazione tra il credito del terzo in bonis verso il fallito ed il debito restitutorio di questultimo nei riguardi della massa in conseguenza del vittorioso esercizio di unazione revocatoria fallimentare non si pone affatto in antitesi con i principi affermati dalla citata sentenza 775/99 delle Su, giacché la predetta azione revocatoria produce effetti unicamente nei riguardi della massa e nessun credito restitutorio ne può derivare (né ex tunc né ex nunc) in capo al fallito, onde non è neppure in via di principio postulabile una compensazione con debiti di questultimo.
Quanto, poi, alla compensazione dei contrapposti crediti derivanti dalla risoluzione di un contratto di compravendita stipulato dal fallito e poi venuto meno sentenza 755/99, abbiano pienamente riconosciuto la possibilità di una compensazione siffatta, anche e proprio in applicazione dei medesimi principi enunciati nella quasi coeva sentenza 775/99.
2.2. Ribadito, allora, che lunico limite da cui non si può prescindere per la compensabilità dei debiti verso il fallito-creditore consiste nellanteriorità al fallimento del fatto genetico della situazione giuridica estintiva delle obbligazioni contrapposte, la domanda alla quale occorre ora rispondere è se possa davvero dirsi anteriore al fallimento il credito relativo alla liquidazione della quota del socio di cooperativa escluso dalla società, proprio per effetto della dichiarazione di fallimento, a norma dellarticolo 2288, comma 1, richiamato dal successivo articolo 2527, comma 1, Cc (ora 2533, comma 1, n. 5).
Il giudice dappello ‑ come sè già accennato ‑ ha formulato al riguardo una risposta positiva, motivata dalla considerazione che il credito per liquidazione della quota di cui si discute, pur divenendo liquido ed esigibile solo al momento della delibera di esclusione, rinviene il suo fondamento causale nella costituzione del vincolo sociale, ossia in un fatto che è precedente al fallimento. Senonché tale argomentazione, benché conforme a ripetuti precedenti di questa stessa Sc (si vedano le sentenze 11288/01, 9678/00, 12318/99 e 3241/77), non appare del tutto persuasiva e non regge alle critiche che la curatela ricorrente le ha rivolto.
Non è ovviamente contestabile che il diritto alla liquidazione della quota sociale abbia tra i suoi presupposti il rapporto di società e loriginario conferimento da cui discende la stessa qualità di socio. ma ciò non equivale in alcun modo a dire che con il contratto di società nasca in capo a ciascun socio una posizione giuridica soggettiva qualificabile in termini di diritto di credito ed avente ad oggetto la restituzione del conferimento o, comunque, la percezione dellequivalente in denaro di una quota proporzionale del patrimonio sociale. Viceversa, fin quando la società perdura; il socio non ha diritto né ad una quota di liquidazione né alla liquidazione della sua quota. Non ha diritto ad una quota di liquidazione del patrimonio sociale, giacché un tal diritto presupporrebbe il verificarsi di una causa di scioglimento da cui derivi, appunto, la liquidazione della società nel suo complesso; ma neppure ha un qualche diritto alla liquidazione della sua quota, se non al verificarsi di specifiche e ben determinate situazioni che per legge o previsione stautaria comportano lo scioglimento del vincolo sociale a lui singolarmente facente capo (tra le quali, ove si tratti di società cooperativa, è compresa la dichiarazione di fallimento del socio).
Prima ed indipendentemente da uno di tali eventi sono ipotizzabili situazioni giuridiche rilevanti del socio allinterno della società, nei confronti degli altri soci o di chi impersona gli organi sociali, ma non è dato configurare un credito del socio verso la medesima società ‑ credito sia pure ancora illiquido e non esigibile, ma almeno certo ‑ che abbia ad oggetto il pagamento di una somma di denaro corrispondente al valore della quota. Di nullaltro il socio può dirsi titolare al riguardo che di una mera aspettativa, legata alleventualità che, al momento dello scioglimento del rapporto sociale, il patrimonio della società abbia consistenza attiva sufficiente a giustificare lattribuzione pro quota al socio stesso di valori proporzionali alla sua partecipazione.
Né potrebbe addursi in contrario lespressione usata dallarticolo 2350 Cc (peraltro neppure espressamente richiamato in tema di cooperative) circa il diritto alla quota di liquidazione spettante al socio: espressione che pur sempre fa riferimento ad un diritto meramente potenziale, al pari del diritto allutile enunciato nel medesimo articolo. E perciò, come con riferimento al diritto allutile comunemente si afferma che, pur essendo genericamente insito nello status di socio, esso non acquista in realtà natura e sostanza di vero e proprio diritto di credito se non in quanto il bilancio desercizio faccia effettivamente registrare lesistenza di utili e lassemblea sociale ne deliberi la distribuzione ai soci, ondè che solo da quel momento un simile diritto può dirsi acquisito al patrimonio del socio (cfr. Cassazione 10271/04; 2959/93), così, allo stesso modo, non sembra possibile ravvisare in capo al socio un diritto alla quota di liquidazione, se non in quanto ‑ ed a partire da quando ‑ la società sia stata posta in liquidazione e sia stato depositato il bilancio finale da cui risulti lesistenza di un eventuale residuo attivo da ripartire tra i soci. Tanto meno, quindi, la citata espressione dellarticolo 2350 potrebbe essere posta a fondamento di un diritto (non già alla quota di liquidazione, bensì) alla liquidazione della quota di cui il socio sarebbe titolare già solo in forza della sua adesione al contratto sociale.
Stando così le cose, deve quanto meno escludersi che il credito per liquidazione della quota abbia, sin da epoca anteriore al verificarsi del fallimento del socio di società cooperativa, quel requisito di certezza che, pur prescindendosi dagli ulteriori requisiti della esigibilità e liquidità, è pur sempre indispensabile perché possa operare la compensazione con contrapposti debiti del fallito. Quel credito, viceversa, nasce (o quanto meno acquista certezza) solo per effetto della medesima dichiarazione di fallimento e dello scioglimento del rapporto sociale che, per il fallito, ne deriva: esso dunque non trova causa in un fatto anteriore al fallimento o, comunque, non acquisisce certezza se non a causa del fallimento stesso. Donde, appunto, alla stregua dei principi generali già prima enunciati, la non operatività in un simile caso della dedotta compensazione.
È infine appena necessario aggiungere che neppure si potrebbe in contrario invocare la tesi, sostenuta da una parte della dottrina ed in qualche misura avallata dalle Su nella citata sentenza 755/99, che reputa ammissibile la compensazione dei crediti reciproci derivanti dallo scioglimento dei contratti a prestazioni corrispettive in corso alla data del fallimento di uno dei contraenti. Quella tesi soprattutto fa leva sulla corrispettività delle contrapposte prestazioni, pattuite in epoca anteriore al fallimento, e sul fatto che, sciolto il contratto, ne restano retroattivamente travolti tutti gli effetti e, con essi, anche la causa giustificativa delle prestazioni in precedenza eseguite dal fallito, il cui credito restitutorio risulta quindi indissolubilmente legato alla vicende del contratto pregresso. Ma è chiaro che uno schema argomentativo siffatto non è applicabile al contratto di società (che ovviamente non ha natura corrispettiva), né dunque allo scioglimento del vincolo sociale facente capo al fallito ed al conseguente credito per liquidazione della quota, perché questo non ha ad oggetto la restituzione di importi precedentemente versati dì cui sia venuta poi a mancare loriginaria ragione giustificativa.
3. La conclusione alla quale si è pervenuti è dunque nel senso della non compensabilità del credito avente ad oggetto la liquidazione della quota del socio fallito, escluso a causa del fallimento da una società cooperativa, con contrapposti crediti della società nei confronti del medesimo fallito.
Limpugnata sentenza della Corte dappello, che ha invece affermato il principio opposto, deve perciò essere cassata.
Per la risoluzione della controversia, che si è sviluppata intorno alla suindicata questione di diritto, non appaiono necessari ulteriori accertamenti di fatto. Pertanto, questa Corte è in grado di pronunciare nel merito, come contemplato dallarticolo 384, comma 1, Cpc, in termini del tutto corrispondenti (fatta salva la conversione in euro degli importi in lire) a quelli della sentenza di primo grado poi riformata in appello dalla pronuncia ora cassata, ossia rigettando le opposizioni allo stato passivo dei fallimenti proposte dalla Banca Popolare di Luino e Varese ed accogliendo le domande riconvenzionali proposte dalla curatela dei fallimenti convenuti nel giudizio di opposizione. È appena il caso di aggiungere che la condanna pronunciata nei confronti della banca in accoglimento di tali domande muove dal presupposto che i relativi importi, già a suo tempo versati nel corso del giudizio di primo grado, siano stati poi restituiti dal fallimento a seguito della sentenza dappello ora annullata, non dovendosi altrimenti far luogo al pagamento di somme già incassate dal creditore e rimaste nella sua disponibilità.
4. Le precedenti, difformi indicazioni giurisprudenziali sul tema di diritto in questa sede discusso suggeriscono di compensare tra le parti le spese dellintero giudizio.
PQM
La Corte
1) accoglie il ricorso per quanto di ragione;
2) cassa limpugnata sentenza in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito:
a) rigetta le domande proposte con atti di opposizione allo stato passivo dalla Banca Popolare di Luino e Varese;
b) accoglie le domande riconvenzionali proposte dalla curatela dei fallimenti convenuti in opposizione e, per leffetto, condanna la Banca Popolare di Luino e Varese a versare la somma di euro 17.875,24 in favore del fallimento della Terziroli Sas, di euro 2.606,00 in favore del fallimento del signor Giuseppe Terziroli, e di euro 1.610,15 ciascuno in favore dei fallimenti del signor Carlo Terziroli, del signor Giovanni Terziroli, della signorra Carla Laghi e del signor Alessandra Botta, con interessi in tutti i casi decorrenti dal 10 agosto 1995;
3) compensa per intero tra le parti le spese dei due gradi del giudizio di merito, nonché quelle del giudizio di legittimità.