Assicurazione ed Infortunistica
Il risarcimento da lucro cessante nelle micropermanenti.
Il risarcimento da lucro cessante
nelle “micropermanenti”.
Cassazione – Sezione terza civile
– sentenza 27 aprile – 18 settembre 2007, n. 19357
Presidente Fiduccia – Relatore
Scarano
Pm Scardaccione – conforme –
Ricorrente Nocilla – Controricorrente Meieaurora Spa
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del
9/1/1996 il sig. Giuseppe Nocilla conveniva avanti al Giudice di pace di
Salerno il sig. Domenico Autuori e la società Siad Assicurazioni s.p.a. per ivi
sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di sinistro
stradale avvenuto per fatto e colpa dell’Autuori alla guida dell’autovettura
tg. SA 727156, all’esito del quale aveva riporto danni materiali e fisici.
Con sentenza
del 23/5/1996 l’adito giudice condannava i convenuti al risarcimento dei danni
liquidati in complessive £ 28.553.000, di cui £ 1.375.000 per danni
all’autovettura, £ 265.000 per spese mediche e £ 2.000.000 per danno biologico
da invalidità permanente nella misura dell’1%; £ 11.590.000 per lucro cessante
da invalidità temporanea totale di gg. 30; £ 11.325.000 per lucro cessante da
inabilità temporanea parziale al 50% per gg. 50.
In accoglimento del gravame
interposto in via principale dalla società Siad Assicurazioni s.p.a., nonché (parzialmente) di quello spiegato in via
incidentale dal Nocilla, con sentenza del 21/5/2002 il Tribunale di Salerno
rideterminava l’ammontare del risarcimento in complessive £ 4.640.000 (pari ad
euro 2.396,36) comprese £ 1.000.000 (pari ad euro 516,45) a titolo di danno
morale, condannando il Nocilla alla restituzione del maggiore importo riscosso,
disponendo anche in ordine alla regolazione delle spese del doppio grado di
giudizio.
Avverso la suddetta sentenza del
giudice dell’appello propone ora ricorso per cassazione il Nocilla, sulla base
di 3 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la
società Meieaurora s.p.a., incorporante la società
Aurora Assicurazioni s.p.a. che a sua volta aveva in precedenza incorporato la Siad s.p.a., la quale ha
anch’essa presentato memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denunzia falsa applicazione dell’art. 2056
c.c. nonché insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia.
Si duole che il giudice del
gravame di merito, «anziché analizzare e valutare le situazioni dedotte e dimostrate»,
si sia «limitato a negare assiomaticamente il valore di elementi significativi,
ritenendo l’inconferenza delle prodotte dichiarazioni dei redditi dei tre anni
precedenti a quelli dell’evento lesivo», ed abbia ritenuto non provata
l’allegata riduzione del reddito ritratto dalla sua professione di avvocato in
ragione dell’incontestata inabilità totale e parziale subita in conseguenza del
sinistro de quo.
Lamenta che tale giudice ha completamente omesso di «valutare siffatte precise e
certe circostanze del caso, in contrasto con detti principi e col precetto di
cui all’art. 2056 c.c., omettendo ogni motivazione al riguardo e cioè su fatti
decisivi prospettati e dimostrati dalla parte».
Con il secondo motivo denunzia
falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonché
insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia.
Lamenta che nell’impugnata
sentenza risulta affermato esservi stata «semplice allegazione delle denunzie
dei redditi, ma non dimostrazione di effettiva riduzione di reddito riconducibile
all’invalidità temporanea», negandosi valore di «prova della riduzione di
reddito» alle dichiarazioni dei redditi invero prodotte ex art. 4 L. n. 3 9 del 1977 al diverso
scopo di fornire parametri da tener presente ai fini della liquidazione quale indice
della sua capacità di guadagno.
Deduce che la «prova della
riduzione del reddito» invero «andava ricercata altrove, lamentando non essersi
tenuto conto che era semmai «onere della controparte, ex art. 2697 cpv., c.c., fornire smentita e/o dimostrazione che, malgrado
l’accertata e non contestata inabilità temporanea, l’attività del
professionista fosse continuata senza interruzioni e riduzioni». Laddove è
altresì «del tutto fuori tema … il richiamo a principi in tema di danni
futuri ed all’affermazione del CTU circa l’assenza di postumi permanenti
incidenti sulla capacità lavorativa specifica e generica», non assumendo nel
caso ai fini della decisione rilevanza alcuna l’invalidità permanente, «non
discutendosi di danno patrimoniale futuro, bensì di danno patrimoniale già
prodotto dell’inabilità temporanea».
Con il terzo motivo denunzia
violazione dell’art. 4 D.L. n. 857 del 1976 (conv.,
con modif., nella L. n. 39 del 1977) nonché violazione dell’art. 112 c.p.c.
Lamenta che in conseguenza della
ritenuta insussistenza di prova del danno, il Tribunale ha
omesso di pronunziare sull’appello incidentale «nella parte in cui
lamentava violazione dell’art. 4
L. 39/77, nonché omesso del tutto di applicare tale
norma», che «si basa sul guadagno fiscale del soggetto leso "quando agli
effetti del risarcimento si debba considerare l’incidenza dell’inabilità
temporanea e dell’invalidità permanente su un reddito di lavoro comunque
qualificato"», sicché «a questo presupposto viene collegata la presuntiva
valutazione dell’incidenza su un reddito di lavoro, rapportando la valutazione
stessa al reddito risultante dalle dichiarazioni del danneggiato ai fini
dell’Irpef».
Si duole al riguardo che la
«impostazione della sentenza di secondo grado, che nega la sufficienza
probatoria della dimostrata inabilità temporanea e delle esibite dichiarazioni
dei redditi, è, quindi, erronea ed ingiustificatamente in contrasto con i
presupposti e la presunzione posti dalla disposizione di legge in parola». Ciò
in quanto tale disposizione «è stata determinata dalla oggettiva difficoltà di
dimostrazione del mancato guadagno, specie per i liberi professionisti, la cui
mancata attività per l’infortunio subito ha ripercussioni non immediate, ma in
un tempo successivo, comunque non dimostrabili in modo assoluto. Il criterio
presuntivo di legge, diretto a superare tale difficoltà di dimostrazione, non
può dunque disattendersi in nome di una pretesa mancata prova della concretezza
del danno».
I motivi, che possono
congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono infondati.
Risponde a consolidato principio
in giurisprudenza di legittimità che il grado di invalidità di una persona,
determinato dai postumi permanenti di una lesione all’integrità psico-fisica
dalla medesima subita, non si riflette automaticamente nella stessa misura
sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica e quindi di
guadagno della stessa, spettando al giudice del merito valutarne in concreto
l’incidenza (v. in particolare Cass., 14/10/2005, n.
19981).
Detto danno patrimoniale da
invalidità deve essere pertanto accertato in concreto, attraverso la
dimostrazione che il soggetto leso svolgeva (o, trattandosi di persona non
ancora dedita ad attività lavorativa, presumibilmente avrebbe svolto)
un’attività produttiva di reddito (v. Cass.,
20/1/2006, n. 1120; Cass., 14/10/2005, n. 19981; Cass., 5/7/2004, n. 12293).
Allorché la persona che ha subito
una lesione dell’integrità fisica come nella specie già eserciti un’attività
lavorativa, in presenza di postumi permanenti di
modesta entità (cd. micropermanente) un danno da lucro
cessante conseguente alla riduzione della capacità lavorativa è configurabile
solamente in guanto sussistano elementi per ritenere che, a causa dei postumi,
il soggetto effettivamente ricaverà minori guadagni dal proprio lavoro, essendo
ogni ulteriore o diverso pregiudizio risarcibile a titolo di danno non
patrimoniale (cfr. Cass., 9/1/2001, n. 239), e cioè
biologico, morale ed esistenziale (cfr.
Cass., 6/2/2007, n. 2546; Cass., 2/2/2007, n. 2311;
Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un.,
24/3/2006, n. 6572. V. anche Cass., 19/2/2007, n.
3758. Diversamente v., da ultimo, Cass., 20/4/2007, n. 9510; Cass., 9/11/2006,
n. 23918).
A tal fine occorre che il
giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso
sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica- e questa a
sua volta sulla capacità di guadagno-, accerti se e in quale misura in tale
soggetto persista o residui, dopo e nonostante
l’infortunio subito, una capacità ad attendere al proprio o ad altri lavori
confacenti alle sue attitudini e condizioni personali e ambientali idonei alla
produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte. E
solo se dall’esame di detti elementi risulta una riduzione della capacità di
guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo è risarcibile sotto il
profilo del lucro cessante.
Detto danno patrimoniale da
invalidità deve perciò essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione
che il soggetto leso svolgesse o, trattandosi di
persona non ancora dedita ad attività lavorativa, presumibilmente avrebbe
svolto, un’attività produttiva di reddito (v. Cass., 20/172006, n. 1120; Cass.,
20/10/2003, n. 15652; Cass., 25/5/2004, n. 10026).
Incombe quindi al danneggiato
anzitutto dimostrare che il danno, sia pur lieve, ha avuto concreta incidenza
sulle sue possibilità di guadagno futuro (v. Cass.,
26/9/2000, n. 12757; Cass., 28/4/1999, n. 4235), nonché l’entità del pregiudizio
economico conseguentemente sofferto. E laddove risulti certa la riduzione della
capacità lavorativa specifica di lavoro, quest’ultimo può essere in effetti provato anche a mezzo di presunzioni (v. Cass.,
14/10/2005, n. 19981; Cass., 3/5/1999, n. 4385).
La liquidazione del danno non può
essere pertanto fatta in modo automatico in base ai criteri dettati dall’art. 4
legge 26 febbraio 1977, n. 39, che non comporta alcun automatismo di calcolo,
ma si limita ad indicare alcuni criteri di quantificazione del danno sul
presupposto della prova relativa che incombe al danneggiato e può essere anche
data in via presuntiva, purché sia certa la riduzione di capacità lavorativa
specifica (v. Cass., 6/4/2005, n. 7097; Cass.,
29/10/2001, n. 13409).
Né tale prova può essere
sostituita da altri elementi o dal richiamo a norme che si ritengono attinenti
alla quantificazione del pregiudizio (v. Cass.,
6/4/2005, n. 7097; Cass., 29/10/2001, n. 13409; Cass., 28/4/1999, n. 4235. V.
anche, per l’affermazione dell’impossibilità di fare riferimento alla
legislazione previdenziale, stante i ben diversi presupposti e finalità di essa propri, Cass., 14/10/2005, n. 19981).
Orbene, nel caso che ne occupa i
giudici di merito, nel valutare -in esplicazione dei poteri loro spettanti l’incidenza
in concreto sulla riduzione percentuale della capacità lavorativa specifica, e
quindi di guadagno (v. Cass., 5/7/2004, n. 12293),
sono pervenuti ad escludere l’idoneità delle lesioni subite dal danneggiato
-determinanti un’incapacità lavorativa specifica dell’1%- a negativamente
ripercuotersi nell’esplicazione dell’attività di avvocato dal medesimo svolta,
e a determinare la lamentata diminuzione dei suoi redditi.
In esito ad una valutazione delle
risultanze processuali -ed in particolare delle risultanze della C.T.U. («o
stesso CTU afferma che "non si rilevano postumi permanenti incidenti sulla
capacità lavorativa specifica e generica", quantificando altresì nell’1%
del totale l’entità del danno di natura biologica»)-, risulta pertanto
nell’impugnata sentenza nel caso negata, con motivazione sul punto idonea a
superare il sindacato di legittimità, la configurabilità del presupposto stesso
dei danni lamentati dall’odierno ricorrente, prima ancora del nesso di
causalità tra la dedotta incapacità lavorativa specifica e la
asserita contrazione dei guadagni conseguentemente subita.
A tale stregua, in assenza di
elementi deponenti per la sussistenza nella fattispecie che ne occupa del fatto
base costituito da una patologia di entità tale da farne causalmente presumere
l’incidenza causale sull’attività lavorativa svolta dall’odierno ricorrente
(professione di avvocato), non può pertanto darsi ingresso -come viceversa
preteso dall’odierno ricorrente a soluzioni sostanziantesi in automatismi sul
piano delle conseguenze dannose, ed in particolare di quelle economiche da
lucro cessante, che mediante inversioni dell’onere della prova scaturenti da
pretese presunzioni non previste dalla legge e pertanto di
creazione giurisprudenziale- verrebbero invero a ridondare in
un’inammissibile alterazione della regola generale posta dall’art. 2697 c.c.
All’infondatezza dei motivi
consegue il rigetto del ricorso.
Le spese, liquidate come da
dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che
liquida in complessivi euro 1.700,00, di cui euro 1.600,00 per onorari, oltre a
spese generali ed accessori come per legge.