Locazioni
Il rapporto tributario si instaura tra il fisco ed i singoli condomini, mai con il condominio. Suprema Corte di cassazione, Sezione Seconda Civile, sentenza n.9463/04
Il rapporto tributario si instaura tra il fisco ed i singoli condomini, mai con il condominio
Suprema Corte di cassazione, Sezione Seconda Civile, sentenza n.9463/04
Cotre Suprema di Cassazione, seconda sezione civile
Svolgimento del processo
Con citazione 19 ottobre 1996, A. C., nella sua qualità di condomina, convenne davanti al Tribunale di Avellino il Condominio dell’edificio sito nella via (omissis) della suddetta città, in persona dell’amministratore in carica, esponendo quanto segue.
Con atto 10 aprile 1989, assieme agli altri condomini (omissis…), aveva permutato un appartamento di proprietà comune sito nell’edificio con un tratto di giardino limitrofo, appartenente a certi (omissis…).
A ciascun condomino l’ufficio del Registro aveva notificato un avviso di liquidazione, che negava i benefici fiscali richiesti e accertava il maggior valore, contro cui ella aveva fatto ricorso alla Commissione tributaria.
Il 29 agosto 1995, l’assemblea condominiale aveva deliberato di fare propria l’istanza di condono presentata dal condomino C. e, il 7 ottobre 1995, aveva deliberato di ripartire tra i condomini secondo i millesimi di proprietà di ciascuno la somma occorrente, pari a lire 6.660.000.
Avendo il 10 febbraio ed il 16 marzo 1996 la Commissione tributaria accolto i suoi ricorsi, ella aveva fatto presente all’assemblea di non dover pagare più nulla per il condono. Nondimeno l’assemblea, nella riunione del 28 settembre 1996, aveva deliberato di autorizzare l’amministratore ad agire nei suoi confronti per recuperare la somma di lire 979.000, quale quota della somma dovuta per il condono delle tasse di registro, e aveva approvato un piano di riparto delle ulteriori somme dovute.
Tutto ciò premesso, domandò al Tribunale di dichiarare nulle o di annullare le suddette delibere (29 agosto e 7 ottobre 1995 e 28 febbraio 1996, con vittoria di spese.
Il Condominio, in persona dell’amministratore in carica, si costituì, chiese il rigetto delle istanze avverse e, in via riconvenzionale, domandò la declaratoria dell’obbligo della attrice C. di corrispondere l’importo di lire 1.052.520, eventualmente in via sussidiaria per arricchimento senza causa.
Il Tribunale di Avellino, in composizione monocratica, con sentenza 30 settembre-1° ottobre 1998, dichiarò la nullità delle delibere, l’inammissibilità della domanda riconvenzionale e condannò il condominio alla rifusione delle spese.
Pronunziando sul gravame proposto dal Condominio, la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza 15 marzo-15 aprile 2000, respinse l’appello e condannò l’appellante alla rifusione delle spese.
Per quanto ancora interessa, si legge nella sentenza che questo procedimento e quello relativo alla delibera 1° marzo 1996 avevano oggetti formalmente diversi, ragion per cui la riunione non era necessaria. Il fatto che il giardino acquistato fosse diventato un bene condominiale non implicava che rientrasse nei poteri dell’assemblea deliberare il pagamento dell’imposta dovuta per il trasferimento, in quanto la pretesa tributaria aveva come destinatari esclusivi ciascuno dei contraenti la permuta, per cui il rapporto tributario riguardava esclusivamente l’Amministrazione finanziaria e i singoli, con esclusione del Condominio. Le delibere impugnate (29 agosto e 7 ottobre 1995), alle quali aveva partecipato un delegato della C., non configuravano un atto negoziale vincolante per la suddetta, perché non risultava la sottoscrizione e la approvazione con la presenza e con il voto favorevole di tutti gli aventi diritto. D’altra parte, il delegato della C. non poteva manifestare una volontà negoziale. Quanto alla domanda riconvenzionale, il Condominio era incorso nella decadenza sancita dall’art. 167 comma 2 cod. proc. civ. e, comunque, l’amministratore non era legittimato a proporre l’azione di arricchimento.
Ricorre per cassazione il Condominio di via (omissis), sempre in persona dell’amministratore in carica; resiste con controricorso A. C..
Motivi della decisione
1. A fondamento del ricorso, con il primo motivo il Condominio deduce violazione degli artt. 273 e 112 cod. proc. civ. Il giudice d’appello nulla decide in ordine alla contestata violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per la mancata riunione dei giudizi richiesta dalle parti. La sentenza impugnata viola l’art. 112 cit., perché non ha esteso la decisione a domande appartenenti anche ad altro giudizio non riunito, e viola l’art. 273 cod. proc. civ. perché con diverse sentenze ha deciso domande oggetto di diversi giudizi pendenti presso il medesimo giudice.
1.2 Il motivo è inammissibile.
È risaputo che i provvedimenti del giudice del merito in materia di riunione di procedimenti, ai sensi degli artt. 273 e 274 cod. proc. civ, in quanto implicanti accertamenti di fatto e valutazioni ispirate a criteri di opportunità e discrezionalità ordinatorie del procedimento, non sono sindacabili in sede di legittimità (giurisprudenza consolidata: cfr. Cass., Sez. III, 27 febbraio 2002, n. 7183. Per i precedenti: Cass., Sez. II, 12 dicembre 1977, n. 5386).
2. Con il secondo mezzo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 1123 e 1108 (competenza dell’assemblea condominiale) [1] e dell’art. 1298 cod. civ. (rapporti interni tra debitori e creditori solidali).
Escludere che il condominio abbia partecipato all’atto di permuta non significa escludere che il bene permutato dai singoli condomini sia un bene comune, come non significa escludere che le decisioni inerenti alle spese della permuta siano di competenza condominiale.
Poiché il giardino è di proprietà comune le spese di registro inerenti alla permuta raffigurano una obbligazione solidale di tutti i condomini, in quanto inerente alla conservazione ed al godimento del bene comune. Allo stesso tempo, la pretesa tributaria conseguente all’atto riguarda tutti i condomini con il vincolo della solidarietà. Per conseguenza il condominio non è estraneo alla spesa e la materia non è estranea alle attribuzioni assembleari.
2.2 Il motivo non è fondato.
Per la verità, è irrilevante il fatto che il bene sia comune, per essere stato acquistato da tutti i comproprietari dei diversi appartamenti siti nell’edificio e destinato a vantaggio di tutte le unità immobiliari site nell’edificio. In effetti, l’assemblea dei condomini non è competente a deliberare in materia di spese concernenti le imposte relative all’acquisto di un bene destinato all’uso comune.
È noto che all’assemblea dei condomini i poteri sono conferiti specificamente dalla legge. Poiché l’assemblea decide con il metodo collegiale e con il principio di maggioranza, vincolando anche i condomini assenti e dissenzienti, l’assemblea raffigura una sorta di autorità privata, cui è riconosciuto un potere insolito nel sistema del diritto privato, dominato dal modello dell’autonomia, in cui i singoli sono vincolati soltanto dagli atti posti in essere con la loro volontà. Orbene, per conseguire interessi generali e, precisamente, per superare l’inerzia, che inevitabilmente deriverebbe dal recepimento del principio romanistico dello ius prohibendi, per cui un solo condomino dissenziente potrebbe paralizzare l’attività del collegio, la legge consente all’assemblea di deliberare a maggioranza, previo espletamento del procedimento in che consiste il metodo collegiale (convocazione di tutti i partecipanti con ordine del giorno, costituzione, discussione, votazione, verbalizzazione etc.).
Peraltro, in considerazione dell’efficacia vincolante anche nei confronti dei condomini assenti e dissenzienti, il potere dell’assemblea di decidere a maggioranza è circoscritto a materie ben definite. In particolare, per quanto concerne le spese per le cose comuni, l’assemblea delibera e ripartisce le spese per la “gestione” ordinaria e straordinaria (artt. 1135 nn. 2 e 4, 1120, 1123, 1128 cod. civ.).
Trattandosi di obbligazioni propter rem, ascritte ai condomini come conseguenza del diritto di comproprietà, l’assemblea può decidere se intraprendere o no le spese suddette e suddividerle tra i partecipanti in proporzione alle quote, ma non può approvare le spese per le parti comuni in materie non contemplate dal codice, né suddividerle in misura difforme dalle quote.
Avuto riguardo ai principi esposti, poiché i poteri dell’assemblea sono circoscritti alle materie definite, che sinteticamente si compendiano nel concetto di gestione, non è conforme al sistema della legge l’opinione, che all’assemblea assegna una competenza generalizzata in tema di spese per le parti comuni. Non tutte le spese afferenti alle parti comuni, infatti, appartengono alla competenza dell’assemblea. Non si comprendono certamente nella competenza dell’assemblea le spese concernenti la attribuzione, vale a dire la titolarità delle parti comuni, posto che la disposizione del diritto riguarda individualmente i singoli condomini, i quali operano con lo strumento proprio dell’autonomia privata, vale a dire con il negozio.
Perciò, non entrano nella competenza dell’assemblea le spese fiscali riguardanti parti comuni dell’edificio, quando si tratta di spese afferenti all’acquisto del diritto sui beni comuni e non alla gestione di essi. Come gli atti di trasferimento intercorrono tra i terzi ed i singoli condomini, del pari i rapporti tributari si instaurano tra l’Amministrazione finanziaria ed i singoli partecipanti al condominio.
L’assemblea, quindi, non può deliberare e ripartire tra i condomini i tributi dovuti dai singoli per l’acquisto di beni destinati al servizio comune anche se detti beni appartengono in comune a tutti i condomini.
Del tutto fuorviante appare il discorso sulla solidarietà. Ammesso che tra i condomini sussista solidarietà per le spese comuni (il che è contestato: di diverso avviso Cass., Sez. II, 27 settembre 1996, n. 8530: le obbligazioni assunte per le cose, gli impianti ed i servizi comuni non vincolano in solido i condomini, che rispondono unicamente per la propria parte nei limiti fissati dall’art. 1123 cod. civ.), questa eventualmente si esplicherebbe nei rapporti esterni tra i condomini ed i terzi (l’Amministrazione finanziaria), non certo nei rapporti interni tra i singoli condomini ed il condominio.
3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 1421.
L’asserto del condominio, secondo cui le delibere racchiudevano un negozio vincolante per la C.o, non raffigura una domanda riconvenzionale, ma una mera eccezione, non soggetta ai termini di decadenza di cui agli artt. 166 e 167 cod. proc. civ.
Per la verità, ambedue le deliberazioni sono sottoscritte da tutti i condomini intervenuti (nella seconda si dice che i condomini intervenuti sottoscrivono anche per recezione dell’avviso di convocazione della prossima assemblea). Il fatto che fossero presenti o meno tutti gli aventi diritto non rileva, in quanto nella specie si discute della volontà negoziale espressa all’unanimità dai condomini intervenuti, tra i quali la C., la quale aveva conferito una valida delega per iscritto.
3.1 Anche questo motivo è destituito di fondamento.
Non giova insistere sulla esistenza e sulla validità della volontà negoziale della ricorrente, manifestata in occasione delle riunioni assembleari, in quanto appare decisivo che, nella specie, non sussiste un negozio stipulato in assemblea da tutti i condomini.
È pur vero che, in occasione di una riunione assembleare, i condomini possono stipulare un negozio giuridico: sempre che manifestino consapevolmente la concorde volontà di porre in essere un atto di autonomia, e non di votare una delibera. Ma per il perfezionamento del negozio appare indispensabile la presenza e la volontà di tutti i partecipanti al condominio.
Trattandosi di un negozio plurilaterale – in quanto le prestazioni di ciascun condomino sono dirette ad uno scopo Comune (il pagamento dell’intera somma) – la presenza e la volontà concorde di tutti è essenziale. Per l’esistenza di un negozio stipulato dai condomini, che vincoli l’intero gruppo dei partecipanti al gruppo – e consegua lo scopo comune (nella specie, configurato dall’intendimento a prestare lo strumento per adempiere, vale a dire di raccogliere l’intera somma richiesta dall’Amministrazione finanziaria) – è necessaria la presenza ed il consenso d i tutti gli aventi diritto.
Il che nella specie non sussiste, essendo incontroverso, in fatto, che alle riunioni non abbiano partecipato tutti i condomini.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce omessa ed incompleta motivazione e violazione dell’art. 2041 cod. civ., in quanto l’amministratore è legittimato a sostenere la validità del deliberato assembleare anche in via sussidiaria e sotto il profilo dell’arricchimento senza causa (il punto non era stato sollevato dalle parti e la sentenza lo decide in modo abnorme).
4.1 Neppure questo motivo è fondato.
Per la verità l’amministratore non ha una generalizzata legittimazione attiva per tutto ciò che concerne le cose comuni.
A norma dell’art. 1131 C.C. l’amministratore, senza la necessità di una specifica deliberazione assembleare, è legittimato ad agire in giudizio nei confronti dei singoli condomini e dei terzi nelle materie specificamente contemplate e precisamente: a) l’esecuzione delle deliberazioni dell’assemblea dei condomini; b) la disciplina dell’uso delle cose comuni, così da assicurare il godimento a tutti i partecipanti al condominio; c) la riscossione dai condomini dei contributi in base allo stato di ripartizione approvato dall’assemblea; d) il compimento degli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell’edificio. Tra queste materie evidentemente non si comprende la proposizione dell’azione di indebito arricchimento. Essendo la sua legittimazione attiva ristretta alle materie che formano oggetto delle attribuzioni sostanziali (art. 1131 comma 1 cod. civ.), l’amministratore di un condominio convenuto in giudizio avente ad oggetto parti comuni dell’edificio può proporre una domanda riconvenzionale soltanto se munito di specifico mandato, non essendo sufficiente il potere, conferitogli dall’art. 1131 comma 2 cod. civ., di resistere alla domanda della controparte. Infatti, chi agisce in riconvenzione utilizza il processo iniziato contro di lui per far valere pretese proponibili anche in autonomo giudizio, così assumendo a tutti gli effetti la veste di attore (Cass., Sez. II, 24 ottobre 1978, n. 4807).
D’altra parte, il riconoscimento all’amministratore della generale legittimazione passiva per tutto ciò che concerne le parti comuni si spiega con la tutela dei terzi, i quali in tal modo non incontrano difficoltà nella individuazione del soggetto passivo per le questioni riguardanti le parti comuni.
5. Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente denuncia violazione ed erronea applicazione degli artt. 166, 167 comma 2 e 168-bis cod. proc. civ., posto che i venti giorni per la costituzione del convenuto vanno computati rispetto alla prima udienza effettiva e non rispetto a quella indicata dalla parte nell’atto di citazione.
5.1 L’esclusione della legittimazione attiva dell’amministratore in ordine alla pretesa avanzata comporta l’assorbimento di questo motivo.
6. Il ricorso, quindi, deve essere rigettato.
Sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese processuali.
Per questi motivi
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Depositata in Cancelleria il 19 maggio 2004.