Penale

Friday 12 November 2004

Il principio di diritto stabilito dalla Cassazione non può essere derogato dal giudice di rinvio. Cassazione , sez. I penale, sentenza 24.10.2004 n° 40386

Il principio di diritto stabilito dalla Cassazione non può essere
derogato dal giudice di rinvio.

Cassazione , sez. I penale, sentenza 24.10.2004 n° 40386

RITENUTO IN FATTO

Il 26 marzo 2002 la quinta Sezione di
questa Corte annullava con rinvio la sentenza della Corte d’appello di Venezia
in data 21 novembre 2000 – che, in riforma della pronunzia del Tribunale di Padova del 16 marzo 1994, aveva dichiarato Giampaolo F. e Francesco Raimondo D. colpevoli del delitto di falso
ideologico – ritenendo illegittima e carente la motivazione del provvedimento
nella parte concernente l’attribuibilità soggettiva
del reato.

Il 19 novembre 2003 la Corte d’appello di Venezia,
in sede di annullamento con rinvio, dichiarava non
doversi procedere nei confronti dei due imputati per essere il reato estinto
per prescrizione.

La
Corte
territoriale osservava che:

– unico oggetto di esame
era l’episodio di falso di cui al capo b1), posto che la pronuncia di
assoluzione del Tribunale di Padova per l’ipotesi di falso contestata al capo
b2) non era stata oggetto di appello;

– il reato di falso sub capo b1) era
estinto per prescrizione sin dal luglio 2003, essendo trascorso il termine di
quindici anni previsto dagli artt. 157, comma 1, n.
3, e 160, comma 2, e che tale conclusione non mutava per effetto della
contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p., in quanto, da un lato, in caso di abuso di ufficio
commesso mediante falso ideologico, si è presenza non di un’ipotesi di concorso
di reati, bensì del solo reato di falso, e, dall’altro, la citata circostanza
aggravante era da ritenere elisa per effetto della concessione delle
circostanze generiche equivalenti da parte dei giudici di prima istanza, la cui
decisione sul punto non era stata impugnata;

– non sussistevano i presupposti per
una pronunzia di assoluzione nel merito in presenza di
un quadro probatorio insufficiente e incerto.

A tale ultimo proposito i giudici
testualmente argomentavano: "pur in assenza di
prove dirette di concrete attività commissive ed
omissive di concorso nel reato da parte dei due imputati e anche prescindendo
da affermazioni, pur contenute nella sentenza appellata, di complessiva
gestione "politica" della pratica in argomento… D. è stato
sicuramente individuato in colui che, presente alla riunione del 6 luglio 1998, ha riferito sul
contenuto della stessa fungendo da relatore e F. è
colui che, pur assente dalla discussione, era collocato all’apice
amministrativo del settore economato-provveditorato da cui la proposta di delibera
era uscita confezionata".

Ad avviso della Corte territoriale,
quindi, i due imputati avevano posto in essere atti di
concorso ex art. 110 c.p. con eventuali altri autori materiali delle false
indicazioni contenute nella delibera "per il ruolo effettivamente svolto
nella vicenda, per la competenza "binaria" sulla materia, che
coinvolgeva i due settori amministrativi di cui essi erano i referenti e
secondo un criterio logico-deduttivo e di comune esperienza, per il quale chi
si trovi in posizione apicale di un settore o sottosettore amministrativo deve
essere non solo a piena conoscenza del contenuto degli atti e dei provvedimenti
adottati e/o proposti dal settore stesso, ma avere anche svolto un qualche
ruolo attivo, direttivo o, comunque, orientativo nella predisposizione concreta
del suo contenuto".

Avverso la citata sentenza hanno
proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori di fiducia, i
due imputati, i quali lamentano: a) violazione di legge per inosservanza dei
principi direttivi fissati dalla precedente pronunzia della Corte di cassazione
del 26 marzo 2002 con riferimento all’attribuibilità
soggettiva del delitto di falso ideologico; b) violazione di legge, carenza e contraddittorietà della motivazione in ordine
all’omessa applicazione della formula assolutoria per non avere commesso il
fatto per il delitto di falso ideologico, non potendosi distinguere, ai fini
dell’adozione della formula di proscioglimento più favorevole, tra evidenza di
assenza di responsabilità e insufficienza e contraddittorietà del quadro
probatorio.

OSSERVA IN DIRITTO

Il ricorso è fondato.

1. Relativamente al
primo profilo di doglianza, il Collegio osserva che il giudizio di rinvio va
inteso come ulteriore fase del giudizio di merito, vincolata alla sentenza di
annullamento nei limiti da questa determinati.

Il giudice di rinvio decide con gli
stessi poteri che aveva il giudice della sentenza
annullata, limitatamente, peraltro, ai punti che hanno formato oggetto
dell’annullamento o in connessione essenziale con la parte annullata, e,
inoltre, non solo deve uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per
ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa, ma non può neppure
attrarre al suo potere statuizioni diverse ed autonome rispetto a quelle
devolutegli. Il giudizio di rinvio non si identifica,
quindi, nella pura e semplice rinnovazione del giudizio conclusosi con la
sentenza annullata, ma rappresenta una fase a sé stante, caratterizzata dal
condizionamento che scaturisce dalla sentenza della Corte di Cassazione che lo
ha disposto (S.U. 11 maggio 1993, ric. Ligresti; S.U.
23 novembre 1990, ric. Agnese).

L’obbligo del giudice di rinvio di
uniformarsi alla pronunzia della Corte per ciò che concerne ogni questione di
diritto con essa deciso è assoluto e inderogabile.

Al riguardo il
Collegio osserva che l’organo di legittimità risolve una questione di diritto
anche quando giudica sull’adempimento del dovere di motivazione, sicché il
giudice di rinvio, pur conservando la libertà di decisione mediante un’autonoma
valutazione delle risultanze probatorie relative al punto annullato, è tenuto a
giustificare il proprio convincimento secondo lo schema implicitamente o
esplicitamente enunciato nella sentenza di annullamento, restando in tal modo vincolato
ad una determinata valutazione delle risultanze processuali, ovvero al
compimento di una particolare indagine, in precedenza omessa, di determinante
rilevanza ai fini delle decisione.

I poteri del giudice di rinvio sono
diversi a seconda che l’annullamento sia stato
pronunziato per violazione o erronea applicazione della legge penale oppure per
mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

In questa ultima
ipotesi il giudice di rinvio è libero di determinare il proprio apprezzamento
di merito mediante autonoma valutazione dei dati probatori e della situazione
di fatto concernenti i punti oggetto dell’annullamento, pur essendo tenuto a
giustificare il proprio convincimento secondo lo schema esplicitamente o
implicitamente enunciato nella sentenza di annullamento. Gli è, quindi, inibito
di fondare la nuova decisione sulla base degli stessi argomenti ritenuti
viziati dalla pronuncia di annullamento.

Nel caso di specie la Corte territoriale non ha
osservato il disposto di cui all’art. 627 c.p.p.

Infatti, in sede di rinvio, ha
affrontato in via preliminare il problema dell’intervenuta prescrizione del
delitto di falso ideologico e ha esaminato la questione della sua attribuibilità soggettiva a Francesco Raimondo D. e
Giampaolo F. solo incidentalmente, per giustificare
il diniego di assoluzione nel merito, pure sollecitata
dalle difese, adottando, peraltro, le medesime argomentazioni già in precedenza
censurate sotto diversi profili da questa Corte.

2. Con riferimento all’ulteriore doglianza difensiva riguardante l’omessa adozione
di una formula di proscioglimento ampia nel merito, pur in presenza di un
quadro probatorio insufficiente e contraddittorio, e l’erronea declaratoria di
estinzione del reato, la Corte
osserva quanto segue.

L’art. 530, comma 2, c.p.p., che dà attuazione alla
direttiva della legge-delega, relativa all’equiparazione delle ipotesi di
insufficienza o contraddittorietà della prova alla mancanza della medesima, ha
determinato l’eliminazione dal nostro sistema processuale penale della
tradizionale formula dubitativa, con la quale il giudice doveva definire il
processo, allorché non risultavano sufficienti prove per condannare (art. 479,
comma 3, c.p.p. abrogato).

Viene così fissato, ai fini della
decisione, un nuovo parametro valutativo che assimila la certezza che il fatto
non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso alla non scienza totale.

La nuova formulazione normativa
appare coerente con il quadro di riferimento delineato dalla Carta
fondamentale, laddove fissa la regola di giudizio in forza della quale
l’incertezza dei risultati probatori equivale all’impossibilità di superamento
di un dato di partenza, di un elemento certo,
costituzionalmente garantito, così che tra la colpevolezza e la non
colpevolezza non è consentita alcuna via intermedia.

Essa recepisce,
inoltre, l’insegnamento della Consulta, che, nella vigenza dell’abrogato codice
di rito, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione
dell’art. 3 Cost., l’art. 152, comma 2, c.p.p., nella parte in cui, a differenza degli artt. 387 e 479 c.p.p., non comprendeva tra le ipotesi in cui il giudice, a
istruttoria ultimata, deve pronunziare sentenza di proscioglimento nel merito
anziché declaratoria di estinzione del reato, oltre a quella in cui sussista la
prova positiva dell’innocenza dell’imputato, anche quella in cui manchi del
tutto la prova che l’imputato abbia commesso il reato.

La Corte costituzionale aveva al
riguardo evidenziato che una differenziazione normativa delle formule di
proscioglimento avrebbe comportato una disparità di trattamento rispetto a
situazioni sostanzialmente omogenee per equivalenza di risultati negativi tra
prova evidente ed assoluta mancanza di prova, sussistendo in entrambi i casi i presupposti per l’assoluzione con formula piena
(sentenza Corte costituzionale 5/1975).

Peraltro, già la giurisprudenza
formatasi in merito alla disciplina contenuta nel codice abrogato, con
orientamento consolidato, aveva ritenuto applicabile l’assoluzione con formula
dubitativa non in base ad un mero dubbio soggettivo del giudice, fondato su
ipotesi astrattamente configurabili, ma solamente in presenza
di una obiettiva incompletezza ed equivocità degli elementi positivi di prova
assunti, configurabile anche in presenza di un contrasto dialettico tra
elementi positivi e negativi, che, pur non annullando del tutto il valore
probatorio dei primi, ne diminuisca il significato e la rilevanza, sì da
renderli del pari oggettivamente incompleti ed equivoci al fine di un sicuro
giudizio di responsabilità (Cassazione 9 dicembre 1985, ric. Ventra, riv. 172216; Cassazione
15 novembre 1983, ric. Casini, riv. 161709).

Aveva, inoltre, sottolineato
che, in presenza di elementi contrari all’imputato, ma tali da non ingenerare
neppure il dubbio di una sua responsabilità, si versava nella distinta ipotesi
di mancanza totale della prova.

Alla luce della mutata disciplina positiva, ai fini dell’affermazione di responsabilità, la
condotta ascritta all’imputato deve essere provata per intero e la condanna non
può essere basata su un contesto probatorio incompleto, superato dall’assunto
che i fatti provati consentono di immaginare con sufficiente approssimazione i
fatti non provati.

Naturalmente, la completezza del
quadro probatorio può essere raggiunta sia attraverso prove dirette che attraverso prove indirette o logiche e deve riferirsi
non ad ogni dettaglio della condotta, ma all’esistenza dei fatti nei loro
aspetti essenziali (Cassazione 21 aprile 1997, ric. Angelici, riv. 209112).

L’art. 530, comma 2, c.p.p. equipara le situazioni di dubbio sulla prova (prova
insufficiente o contraddittoria) alla mancanza di prove e stabilisce che, in
tal caso, la formula di assoluzione deve essere
riportata ad una delle quattro previste dall’art. 530, comma 1, c.p.p.

La disposizione in esame stabilisce,
poi, un ordine progressivo di cause di proscioglimento che è necessario
seguire, in quanto rispecchia un criterio logico-giuridico favorevole
all’imputato, sicché l’accertamento sull’insussistenza del fatto o
sull’innocenza dell’imputato per non avere costui commesso il fatto prevale
sulle successive cause di proscioglimento. Il giudice è, perciò, legato
all’applicazione della esatta formula di assoluzione
nel rispetto di quella che viene chiamata la gerarchia delle formule, per la quale
deve essere innanzitutto valutato se il fatto sussiste nei suoi lineamenti
obiettivi. In caso affermativo se l’imputato lo ha commesso con dolo o colpa,
stabilendo il necessario nesso di causalità tra la condotta e l’evento; in caso
di risposta affermativa anche a questo secondo quesito, per
cui il fatto commesso dall’imputato costituisce il reato contestatogli,
se il fatto medesimo sia o meno previsto come reato.

3. Deve essere, a questo punto,
affrontato il problema del rapporto esistente tra l’art. 530 e l’art. 129 c.p.p. e la questione correlata della traduzione
processuale della presunzione costituzionale di non
colpevolezza dell’imputato.

In questa prospettiva occorre in
primo luogo richiamare alcuni significativi parametri
di riferimento normativo: a) la presunzione di non colpevolezza sancita
dall’art. 27, comma 2, Cost.; b) il diritto di difesa
(art. 24 Cost.), che trova la sua piena esplicazione nell’insopprimibile
facoltà di far assumere le prove a discarico; c) il principio, fissato dall’art.
2, n. 1, della legge delega per la riforma del c.p.p.,
di adeguamento del codice di procedura penale alle norme delle convenzioni
internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al
processo penale (Corte costituzionale, sentenza 41/1975 in tema di legittimità
costituzionale di norme emanate in contrasto con i principi e i fini della
legge di delegazione); d) la presunzione di innocenza fissata dall’art. 6, n.
2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; e) la direttiva contenuta
nella parte finale dell’art. 2, n. 11, della medesima legge delega, nella parte
in cui configura un obbligo di proscioglimento nel merito, quando ne ricorrono
gli estremi, anche in presenza di una causa estintiva
del reato.

Dalla interpretazione sistematica di questa
articolata trama normativa possono trarsi alcune conseguenze:

a) il concetto di
"evidenza", richiamato dall’art. 129, comma 2, c.p.p.
non può essere inteso come prova prima facie
dell’innocenza dell’imputato, immediatamente rilevabile dalla lettura degli
atti, perché l’estraneità dell’imputato al fatto può anche costituire la
conclusione logico-giuridica del percorso seguito dal giudice nella valutazione
della prova;

b) il richiamo contenuto nell’art.
531, comma 1, c.p.p. all’art. 129, comma 2, c.p.p. come regola di giudizio nella scelta tra le formule
di proscioglimento delle sentenze dibattimentali è indicativo della volontà del
legislatore di non restringere la possibilità di un proscioglimento ampio nel
merito in presenza di un fenomeno estintivo
ai soli casi di prova manifesta, tanto più che la disposizione si riferisce ad
un dibattimento ormai concluso e, quindi, ad una fase processuale nella quale
le esigenze di economia non possono essere più apprezzate in maniera
significativa;

c) alla luce dei principi fissati
dalla sentenza 5/1975 della Consulta, applicabili nell’interpretazione del
vigente art. 129 (sostanzialmente corrispondente all’abrogato art. 152 del previgente codice di rito), la dichiarazione di estinzione del reato è consentita solo allorché sia
esclusa la sussistenza delle condizioni richieste dalla citata norma per
un’assoluzione piena nel merito (v. in tal senso Sezione quinta, 13170/2002, riv. 221257; v., inoltre, Sezione sesta, 16 aprile 1991,
ric. Sciuto; Sezione seconda, 15 ottobre 1992, ric.
Tulipani; Sezione prima, 9 maggio 1994, ric. Forneris);

d) in presenza
di una prova insufficiente e contraddittoria in merito alla sussistenza del
fatto, alla sua attribuibilità all’imputato, alla sua
configurabilità come reato, all’imputabilità deve
essere adottata la formula ampiamente liberatoria in luogo della pronuncia estintiva del reato; la situazione di dubbio sulla
responsabilità dell’imputato è equiparata alla mancanza di prova sulla stessa.

4. Nel caso in esame la Corte territoriale non ha
osservato i principi in precedenza illustrati, in quanto, omessa qualsiasi
ulteriore, nuova pronunzia sui profili di responsabilità soggettiva, il cui
approfondimento era stato espressamente indicato nel provvedimento di annullamento con rinvio da parte di questa Corte, ha
adottato la declaratoria di improcedibilità per
estinzione del reato, pur in presenza dei presupposti per una pronunzia più
favorevole all’imputato, dovendosi equiparare, ai sensi dell’art. 530, comma 2, l’insufficienza e la
contraddittorietà degli elementi probatori, quali illustrati nel testo della
sentenza impugnata, alla mancanza di prove.

Per queste ragioni la sentenza
impugnata deve essere annullata. Poiché dall’esame degli atti e, in
particolare, dal provvedimento impugnato emerge che non residuano ulteriori elementi probatori suscettibili di apprezzamento e
di nuova deliberazione da parte della Corte territoriale, l’annullamento deve
essere disposto senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza
impugnata, per non avere gli imputati commesso il
fatto.