Enti pubblici
Il nuovo piano sanitario nazionale per il triennio 2003-2005 II parte.
Il nuovo piano sanitario nazionale per il triennio 2003-2005 II parte.
3.3. Ridurre gli incidenti e le invalidita’
Le cause esterne di morte e disabilita’, che includono gli
incidenti nell’ambiente sociale e sul lavoro, i disastri naturali e
quelli provocati dall’uomo, gli avvelenamenti, gli incidenti durante
le cure mediche e la violenza, costituiscono, particolarmente
nell’eta’ adulta, un’importante causa di morte.
I dati relativi agli incidenti stradali, indicano un incremento a
partire dalla fine degli anni ’80, soprattutto nel Nord dell’Italia,
con un quadro che comporta circa 8.000 morti, 170.000 ricoveri,
600.000 prestazioni di pronto soccorso ogni anno, cui fanno riscontro
circa 20.000 invalidi permanenti. Il fenomeno costituisce ancora la
prima causa di morte per i maschi sotto i 40 anni e una delle cause
maggiori di invalidita’ (piu’ della meta’ dei traumi cranici e
spinali sono attribuibili a questi eventi).
Gli incidenti stradali sono pertanto un’emergenza sanitaria che
va affrontata in modo radicale al fine di rovesciare l’attuale
tendenza e pervenire, secondo l’obiettivo fissato dall’OMS per l’anno
2020, ad una riduzione almeno del 50% della mortalita’ e disabilita’.
Gli interventi principali di prevenzione riguardano:
la utilizzazione del casco da parte degli utenti di veicoli a
motore a due ruote;
gli standard di sicurezza dei veicoli;
l’uso corretto dei dispositivi di sicurezza (cinture e
seggiolini);
le migliori condizioni di viabilita’ (segnaletica stradale,
illuminazione, condizioni di percorribilita) nelle zone ad alto
rischio di incidenti stradali;
la promozione della guida sicura mediante campagne mirate al
rispetto dei limiti di velocita’ e della segnaletica stradale nonche’
alla riduzione della guida sotto l’influsso dell’alcool;
il potenziamento del trasporto pubblico.
Anche il fenomeno degli incidenti domestici e del tempo libero
mostra un andamento in continua crescita, con un numero di casi di
circa 4.000.000 per anno, che coinvolgono soprattutto
ultrasessantacinquenni e donne. Si stima che circa la meta’ di questi
incidenti avvenga in casa o nelle pertinenze (incidenti domestici).
Gli incidenti domestici rappresentano dunque un fenomeno di grande
rilevanza nell’ambito dei temi legati alla prevenzione degli eventi
evitabili e particolare attenzione deve essere dedicata agli
incidenti che coinvolgono gli anziani, soprattutto
istituzionalizzati. Per quanto riguarda l’obiettivo di ridurre in
modo significativo la mortalita’ e la disabilita’ da incidenti
domestici, gli aspetti prioritari sono quelli connessi
all’informazione e comunicazione nonche’ alla:
incentivazione delle misure di sicurezza domestica strutturale
ed impiantistica e dei requisiti di sicurezza dei complementi di
arredo;
predisposizione di programmi intersettoriali volti a favorire
l’adattamento degli spazi domestici alle condizioni di disabilita’ e
di ridotta funzionalita’ dei soggetti a rischio;
costruzione di un sistema di sorveglianza epidemiologica del
fenomeno infortunistico e individuazione di criteri di misura degli
infortuni domestici.
Per gli incidenti negli ambienti esterni, durante il tempo
libero, gli uomini sono piu’ a rischio delle donne, anche per il
maggiore consumo di alcool. Le piscine, i laghi ed altri bacini
d’acqua dolce contribuiscono in modo significativo alle statistiche
sugli annegamenti, specialmente nei bambini, con 500-600 morti
all’anno.
3.4. Sviluppare la riabilitazione
La domanda di riabilitazione negli ultimi anni ha registrato un
incremento in parte imputabile all’aumento dei gravi traumatismi
accidentali e ai progressi della medicina che consentono la
sopravvivenza a pazienti un tempo destinati all’exitus. In questo
contesto particolare rilevanza assumono le lesioni del midollo
spinale e i gravi traumi cranioencefalici per le conseguenze
altamente invalidanti che possono comportare. Dati recenti indicano
l’incidenza delle mielolesioni pari a circa 1500 nuovi casi l’anno,
di cui il 67% imputabile ad eventi traumatici. L’incidenza dei gravi
traumatismi cranioencefalici, e’ di circa 4.500 nuovi casi l’anno su
tutto il territorio nazionale. Di questi la mortalita’ in fase acuta
incide per il 34%, il 40% dei pazienti presenta esiti invalidanti
modesti, il 25% e’ affetto da danni o complicanze di gravita’ tale da
richiedere il ricovero in strutture di terapia intensiva e
neuroriabilitazione e l’1% (45 casi per anno) permane in stato
vegetativo dopo 12 mesi dall’evento.
La riabilitazione del soggetto gravemente traumatizzato deve
essere garantita con tempestivita’ gia’ durante le fasi di ricovero
nelle strutture di emergenza. Non appena cessino le condizioni che
richiedono un ricovero nell’area della terapia intensiva, deve essere
garantita l’immediata presa in carico del paziente da parte delle
Unita’ Operative di alta specialita’ riabilitativa per assicurare la
continuita’ del processo terapeutico assistenziale.
Quale che sia la natura dell’evento lesivo che causa la
necessita’ di interventi di riabilitazione, gli obiettivi da
perseguire sono la garanzia dell’unitarieta’ dell’intervento mediante
un approccio multidisciplinare e la predisposizione ed attuazione di
un progetto riabilitativo personalizzato, al fine di consentire al
paziente il livello massimo di autonomia fisica, psichica e
sensoriale. Cio’ implica l’attivazione di un percorso in cui si
articolano competenze professionali diverse, funzionamento in rete
dei servizi e strutture a diversi livelli e con diverse modalita’ di
offerta (ospedaliera, extrospedaliera, residenziale, semiresidenziale
e domiciliare) e di integrazione tra aspetti sanitari e sociali.
3.5. Migliorare la medicina trasfusionale
Le attivita’ di medicina trasfusionale sono parte integrante dei
livelli essenziali di assistenza garantiti dal Servizio Sanitario
Nazionale e si fondano sulla donazione volontaria, e non remunerata,
del sangue e dei suoi componenti.
Considerando che gli attuali sistemi di coordinamento a livello
regionale e nazionale sono riusciti solo in parte a raggiungere gli
obiettivi previsti dai precedenti Piani Sanitari e dai Piani Sangue,
si pone l’urgenza di riformare la legge 4 maggio 1990, n. 107, anche
alla luce dei cambiamenti conseguenti all’organizzazione federalista
dello Stato. La nuova legge dovra’ razionalizzare il sistema a
livello regionale, indicando i rispettivi ruoli del Ministero della
Salute, delle Regioni, dei Centri Regionali di Coordinamento e
Compensazione e del Centro Nazionale Trasfusione Sangue da istituirsi
presso l’Istituto Superiore di Sanita’.
L’introduzione di nuovi test sierologici ed in particolare delle
tecniche di biologia molecolare ha ridotto il rischio di trasmissione
dei virus dell’epatite o dell’AIDS mediante la trasfusione del sangue
e dei suoi prodotti a livelli molto bassi, inferiori al rischio di
infezione associato ad altre manovre invasive ospedaliere. Malgrado
questo notevole incremento della sicurezza della trasfusione, per
realizzare il quale sono necessarie ingenti risorse economiche, molto
resta ancora da fare per assicurare l’appropriatezza della richiesta
e della trasfusione. Per diffondere la cultura del buon uso del
sangue sono state emanate Linee Guida ed istituiti in tutto il Paese
Comitati ospedalieri per il buon uso del sangue, ma il risultato e’
stato molto modesto: tra le cause di questo insuccesso vi e’ da un
lato la scarsa attenzione dei clinici per le problematiche della
donazione e trasfusione di sangue, dall’altro l’inquadramento del
servizio trasfusionale in un’area quasi esclusivamente di
laboratorio. Gli obiettivi primari dell’autosufficienza regionale e
nazionale, i piu’ elevati livelli di sicurezza uniformi su tutto il
territorio nazionale e la definizione dei Livelli Essenziali di
Assistenza trasfusionale possono essere ottenuti attraverso un nuovo
modello di sistema trasfusionale, con criteri di funzionamento e di
finanziamento definiti sulla base:
delle attivita’ di produzione, comprendenti la selezione ed i
controlli periodici del donatore, la raccolta, la lavorazione, la
validazione, la conservazione ed il trasporto del sangue e degli
emocomponenti, comprese le cellule staminali da sangue periferico e
placentare (sangue da cordone ombelicale), nonche’ la raccolta di
plasma da destinare alla preparazione degli emoderivati;
attivita’ di servizio, quali l’assegnazione e la distribuzione
del sangue e dei suoi prodotti, anche per l’urgenza.
Con l’intervento insostituibile delle Associazioni di Donatori
Volontari di Sangue, e delle relative Federazioni, va incrementato in
tutto il territorio nazionale il numero dei donatori volontari
periodici e non remunerati per eliminare le carenze di sangue ancora
esistenti in alcune Regioni.
Per i prossimi anni occorre perseguire i seguenti obiettivi:
raggiungere l’autosufficienza regionale e nazionale del sangue
e dei suoi prodotti;
conseguire piu’ elevati livelli di sicurezza nell’ambito di
tutto il processo finalizzato alla trasfusione;
assicurare al sistema trasfusionale un sistema di garanzia di
qualita’ e sviluppare l’emovigilanza, articolata a livello locale,
regionale e nazionale;
stipulare fra le Regioni e le Aziende ubicate sul territorio
dell’Unione Europea convenzioni per la produzione di emoderivati
(specialita’ medicinali) nel rispetto delle norme per le gare ad
evidenza pubblica.
3.6. Promuovere i trapianti di organo
Per quanto riguarda i trapianti di organo, e’ noto che i vantaggi
prevalgono sulle complicanze (rigetto, infezioni e loro conseguenze)
con una sopravvivenza a cinque anni compresa tra il 70% e l’80%,
secondo l’organo trapiantato. E’, comunque, necessario continuare a
perseguire il reperimento degli organi in tutte le Regioni. Nel
nostro Paese, tuttavia, i livelli di attivita’ sono disomogenei tra
le diverse Regioni, sia in termini di donazioni sia in termini di
trapianti, e cio’ non contribuisce certamente a garantire quella
parita’ di accesso alle cure cui i pazienti hanno diritto.
Nel corso dell’ultimo triennio l’incremento complessivo del
numero di donazioni e della qualita’ dei trapianti in Italia ha
portato il nostro Paese al livello delle principali Nazioni europee,
e il numero dei donatori di organo e’ aumentato del 42,3%, con un
incremento complessivo del 27,4% del numero dei trapianti.
Sono obiettivi strategici in questo campo:
promuovere la valutazione di qualita’ dell’attivita’ di
trapianto di organi, tessuti e cellule staminali;
favorire la migliore utilizzazione degli organi disponibili,
attraverso la diffusione di tecniche avanzate, addestrando gli
operatori e favorendo lo svolgimento di queste attivita’ in Centri di
Eccellenza;
predisporre un Piano nazionale per prelievo, conservazione,
distribuzione e certificazione dei tessuti;
verificare la possibilita’ che nei casi opportuni vengano
utilizzati organi anche da donatore vivente, dopo una attenta
valutazione dell’applicazione della normativa in vigore e delle Linee
Guida, formulate dal Centro Nazionale Trapianti. Va comunque
ricordato che la donazione da vivente non e’ scevra da pericoli
sanitari e sociali ed e’ quindi da considerarsi residuale rispetto
alla donazione da cadavere che deve restare l’obiettivo principale
del Servizio Sanitario Nazionale;
attivare algoritmi oggettivi e trasparenti per l’assegnazione
degli organi da trapiantare e per il monitoraggio dei pazienti
trapiantati, uniforme su tutto il territorio nazionale;
prevedere che il flusso informativo dei dati relativi ai
trapianti di cellule staminali emopoietiche sia integrato nell’ambito
del Sistema Informativo Trapianti, anche attraverso la collaborazione
con il Gruppo Italiano per il Trapianto di Midollo Osseo (GITMO) e
l’organizzazione GRACE (Gruppo di Raccolta e Amplificazione delle
Cellule Staminali Emopoietiche) che riunisce le banche di cellule
staminali placentari;
definire la Carta dei Servizi dei Centri di trapianto,
prevedendo aggiornamenti continui;
estendere lo sviluppo del Sistema Informativo Trapianti;
incrementare l’informazione ai cittadini circa le attivita’
quali-quantitative dei Centri di trapianto.
Per il prossimo futuro, inoltre, occorre procedere a:
ridurre il divario fra le Regioni in termini di attivita’ di
reperimento donatori per raggiungere il numero delle 30 donazioni per
milione di abitanti;
predisporre, per i familiari dei soggetti sottoposti ad
accertamento di morte, un supporto psicologico e di aiuto;
attuare il finanziamento per funzione, come individuato
nell’articolo 8-sexies del Decreto Legislativo 19 giugno 1999, n.
229, superando il finanziamento per DRG;
sorvegliare il rispetto delle Linee Guida per i trapianti da
donatore vivente attivando in particolare l’organismo di parte terza
ivi previsto per informare correttamente le parti in causa sui
vantaggi e svantaggi delle procedure;
monitorare l’attivita’ delle singole Regioni circa i prelievi
di tessuti umani e la loro utilizzazione, l’attivazione di banche dei
tessuti regionali o interregionali, il loro accreditamento e la loro
funzionalita’;
inserire anche i trapianti di cellule staminali emopoietiche
tra i trapianti d’organo e da tessuti, raccogliendo i dati presso il
Centro Nazionale Trapianti, e collegando quest’ultimo con il registro
dei donatori viventi di midollo osseo istituito presso l’Ospedale
Galliera di Genova;
favorire lo sviluppo di attivita’ di ricerca connesse alle
attivita’ di trapianto;
supportare l’attivazione di procedure informatiche
standardizzate, soprattutto per la gestione delle liste di attesa;
promuovere adeguate campagne di informazione rivolte ai
cittadini, con il concorso delle Associazioni dei pazienti e dei
volontari;
realizzare la selezione dei riceventi il trapianto con
algoritmi condivisi e procedure informatizzate, documentando ogni
passaggio del processo decisionale ai fini di un controllo superiore;
valutare e rendere pubblici i risultati delle attivita’ di
prelievo e trapianto di organi;
rendere sempre piu’ oggettivi e trasparenti i criteri di
ammissione del paziente al trapianto.
4. L’ambiente e la salute
Sono in molti casi ben accertate le interazioni fra i fattori di
rischio ambientali e la salute, anche se la ricerca delle possibili
soluzioni resta talvolta problematica particolarmente per le
complesse implicazioni socio-economiche sottostanti. In questo
settore importanti benefici sono prevedibili attraverso l’efficace
collaborazione fra i settori che, a livello nazionale e territoriale,
sono responsabili per la salute o per l’ambiente.
4.1. I cambiamenti climatici e le radiazioni ultraviolette
La difesa dalle eccessive radiazioni UV e dalle variazioni nelle
condizioni climatiche che possano colpire particolari gruppi
vulnerabili, rende prioritaria l’attuazione di programmi di
informazione ed educazione sanitaria.
Inoltre, vi e’ la forte necessita’ di ulteriori ricerche per
valutare meglio:
l’effetto del riscaldamento globale sui trends stagionali delle
maggiori cause di malattia e mortalita’;
l’effetto del riscaldamento globale sulla variabilita’
climatica e valutazione delle capacita’ di adattamento specialmente
tra le fasce di popolazione particolarmente vulnerabile come gli
anziani;
l’effetto del riscaldamento globale sulle patologie trasmesse
da virus e batteri e stima degli andamenti dell’incidenza di queste
malattie;
l’impatto potenziale della radiazione UV-B in relazione alla
deplezione dell’ozono in termini di aumento dell’incidenza dei casi
di cataratta, delle affezioni cutanee e del cancro della pelle;
il rischio di riduzione di risposta immunitaria ai vaccini ed
alle malattie infettive a causa dell’aumento della radiazione UV-B.
Per quanto riguarda gli aspetti connessi all’«effetto-serra» e
alla deplezione dell’ozono stratosferico, e’ indispensabile, da una
parte, continuare la politica di collaborazione internazionale
dell’Italia a sostegno degli sforzi congiunti per rimuovere le cause
di queste modificazioni climatiche, e dall’altra, operare a livello
territoriale per il conseguimento degli obiettivi di abbattimento
delle emissioni nocive concordati a livello internazionale.
4.2. L’inquinamento atmosferico
L’inquinamento atmosferico derivante dal traffico veicolare,
impianti di riscaldamento e sistemi di produzione industriale, e’ un
noto fattore di rischio per la salute (vedi tabella 1, pag. 99 e 100
– tratta dal Prof. Antonio Ballarin Denti «Aggiornamenti Sociali» n.
3, 2002, pag. 209-220).
Secondo una serie di studi e valutazioni condotte dalle agenzie
ambientali europee e nazionale, il trasporto su strada contribuisce
mediamente in Europa al 51% delle emissioni degli ossidi di azoto, al
34% di quelle composti organici volatili e al 65% di quelle del
monossido di carbonio.
I due principali inquinanti secondari, le polveri fini e l’ozono,
che sono prodotti, attraverso una serie complessa di reazioni
chimiche, dai tre inquinanti prima citati, sono pertanto imputabili,
anch’essi in misura preponderante, al traffico su strada.
Le emissioni prodotte dagli autoveicoli (al di la’ del loro
contributo complessivo) sono inoltre fortemente dipendenti dal tipo
di motore. A parita’ di condizioni di manutenzione, un motore diesel
tradizionale (come quello di gran parte dei veicoli commerciali) puo’
emettere una quantita’ di polveri fini anche dieci volte superiore a
quelle emesse da un diesel «ecologico»; e questo e’ a sua volta molto
piu’ inquinante di un motore a benzina. Un veicolo non catalizzato
emette fino a dieci volte piu’ di un’auto con marmitta catalitica. Un
motore a due tempi (come quello dei ciclomotori) emette molto piu’ di
un analogo motore a quattro tempi: pertanto un motorino medio puo’
inquinare piu’ di un’auto di grossa cilindrata di recente
omologazione. Anche tra le automobili catalizzate ci sono forti
differenze (a prescindere da quelle determinate da una cattiva
carburazione del motore) dovute alle diverse classi di omologazione
dei motori in funzione delle loro emissioni che l’Unione Europea sta
imponendo da qualche anno alle industrie automobilistiche. Ad esempio
un veicolo classificato EURO 3 (del tipo cioe’ oggi in commercio)
emette fino a quattro volte di meno di un veicolo, pur catalizzato,
del tipo EURO 1 (cioe’ prodotto e venduto piu’ di sei anni fa).
Asserire quindi che globalmente il comparto del trasporto su
strada contribuisce in misura maggioritaria all’inquinamento e’
affermazione vera, ma, come tale, troppo generica per farne scaturire
adeguate politiche di intervento, a meno che si entri nel merito
delle singole tipologie di motore e sulle loro condizioni di
esercizio.
Il peso del traffico non deve comunque far dimenticare che un
contributo all’inquinamento atmosferico urbano, minore in valore
percentuale ma pur sempre alto in valore assoluto, deriva dagli
impianti di riscaldamento; questo comparto, ora che l’industria
pesante ha praticamente abbandonato l’ambiente urbano, resta, insieme
al traffico, di fatto l’unica sorgente di inquinamento. In questo
settore il diffondersi degli oli combustibili leggeri e soprattutto
del metano (che, a parte gli ossidi di azoto, non emette praticamente
altri inquinanti) e il rafforzamento delle politiche di controllo
sugli impianti in esercizio da parte delle Autorita’ istituzionali
(Province e Comuni) hanno portato a marcati miglioramenti, anche se
molto ancora potrebbe e dovrebbe essere fatto (e’ oggi
realisticamente immaginabile, grazie ad una ulteriore estensione
dell’impiego del metano e a politiche di obblighi di manutenzione, un
dimezzamento delle emissioni da impianti di riscaldamento entro un
periodo di 3-5 anni).
Il particolato atmosferico, indicato con il termine di
particolato totale sospeso (PTS), e’ un inquinante la cui origine e’
molto diversificata derivando dall’erosione del suolo e degli
edifici, dall’attivita’ umana (agricoltura, edilizia, industrie), dai
processi di combustione (impianti di riscaldamento e traffico
autoveicolare) e da reazioni chimiche di processi gassosi. Nelle aree
urbane l’aereosol atmosferico e’ costituito dal 30% circa di
particelle naturali e dal 60% di particelle derivanti dalla
combustione delle quali piu’ del 50% attribuibili al traffico. La
composizione del particolato e’ estremamente variabile in base
all’origine delle particelle (piombo, nichel, zinco, rame, cadmio,
fibre di amianto, solfati, nitrati, idrocarburi policiclici pesanti,
polvere di carbone e cemento). La frazione di polveri considerata
piu’ pericolosa per l’uomo e’ quella in grado di superare le barriere
delle vie aeree superiori ovvero i PM10 e i PM2,5, particelle di
polvere con diametro inferiore a 10 e a 2,5 micron rispettivamente.
E’ stato dimostrato da vari studi che il particolato PM10 origina
soprattutto dalla combustione, permane nell’aria qualche giorno e la
sua concentrazione viene abbattuta solo per dilavamento da parte
della pioggia. Questo inquinante reagisce chimicamente nell’atmosfera
con altre sostanze.
I danni addebitabili alle particelle inalate sono dovuti al fatto
che tali particelle, raggiungendo gli alveoli polmonari, rilasciano
sostanze tossiche e possono ostruire gli alveoli stessi. Ne consegue
un effetto irritante per le vie respiratorie e la possibilita’ di
indurre alterazioni nel sistema immunitario, favorendo il
manifestarsi di malattie croniche, quali maggior sensibilita’ agli
agenti allergizzanti. L’effetto irritante e’ strettamente dipendente
dalla composizione chimica del particolato. E’ anche ormai accertato
il diretto rapporto tra elevata concentrazione di particolato e tasso
di mortalita’ per complicanze polmonari che si verificano nei giorni
successivi ad elevate concentrazioni: sono soprattutto gli anziani, i
bambini e le persone con malattie croniche dell’apparato respiratorio
ad essere maggiormente colpite. Inoltre, alcuni studi epidemiologici
hanno dimostrato che elevate concentrazioni di PM10 non solo
determinano anticipi sulla mortalita’ (ovvero decessi in soggetti
compromessi che sarebbero comunque avvenuti a breve) ma causano in
soggetti sani patologie polmonari che possono cronicizzare e portare
a morte i soggetti stessi. L’aumento della morbilita’ inoltre porta
ad un incremento della spesa sanitaria (maggiore numero di visite
mediche, di ricoveri ospedalieri, di assenze dal lavoro per
malattia).
Recenti studi epidemiologici indicano che l’inquinamento
atmosferico nell’ambiente esterno delle 8 maggiori citta’ italiane ha
un impatto sanitario rilevante in termini di mortalita’, ricoveri
ospedalieri per cause cardiovascolari e respiratorie e prevalenza di
malattie respiratorie (WHO-ECEH, 2000). I dati raccolti su numerosi
inquinanti (monossido di carbonio, biossido di azoto, biossido di
zolfo, ozono, benzene e polveri sospese) sono stati impiegati per
misurare il trend dell’inquinamento negli anni, mentre per la stima
dell’impatto sulla salute l’OMS si e’ avvalsa delle concentrazioni di
PM10. Le concentrazioni medie di PM10 misurate nelle citta’ oggetto
di studio sono superiori all’attuale obiettivo di qualita’ dell’aria,
che e’ pari a 40mu g/m3, valore attualmente in corso di revisione in
diminuzione. Lo studio ha preso in considerazione la mortalita’ a
lungo termine ed altri effetti a medio e breve termine osservati nel
corso di un anno (come i ricoveri ospedalieri, i casi di bronchite
acuta e gli attacchi d’asma nei bambini) ed e’ stato stimato il
carico di malattia potenzialmente prevenibile qualora si riuscisse ad
abbattere le concentrazioni medie di PM10 a 30mu g/m3. E’ stato
stimato che riducendo il PM10 ad una media di 30mu g/m3 si
potrebbero prevenire circa 3.500 morti all’anno nelle 8 citta’
studiate. Inoltre, riducendo le concentrazioni medie di PM10 a 30mu
g/m3, migliaia di ricoveri per cause respiratorie e cardiovascolari,
e decine di migliaia di casi di bronchite acuta e asma fra i bambini
al di sotto dei quindici anni, potrebbero essere evitati. In aggiunta
all’onere legato al ricovero e cura dei casi di malattia legati
all’inquinamento, il numero stimato di giorni di attivita’
compromessa a causa di disturbi respiratori (per persone di eta’
superiore ai venti anni) e’ di oltre 2,7 milioni, cioe’ il 14,3% del
totale.
Anche la qualita’ dell’aria negli ambienti confinati ha
ripercussioni per la salute, in particolare nei bambini, negli
anziani e per persone gia’ affette da alcune patologie croniche.
Molti materiali da costruzione liberano nell’ambiente il gas radon,
sorgente di radiazioni ionizzanti, con una stima di possibile
riduzione di 2-3% di casi di tumore polmonare a seguito di bonifica.
Un’indagine campionaria nazionale ha stimato un valore medio nelle
abitazioni italiane (e scuole) di 70-75 Bq/mc, piu’ alta che negli
USA (46 Bq/mc) e in Germania (50 Bq/mc). Valori di 200 e 100 Bq/mc
erano raggiunti rispettivamente nel 4% e nell’1% delle abitazioni. Si
stima che alle esposizioni a radon in Italia siano attribuibili
1.500-6.000 casi annui di cancro polmonare. Le evidenze di effetti
cancerogeni su altri organi bersaglio sono contraddittorie e non
consentono alcuna stima.
Oltre a cio’, in Italia sono stimati in:
oltre 200.000 i casi prevalenti di asma bronchiale in bambini e
adolescenti, causati da allergeni (acari, muffe, forfore animali) e
da esposizione a fumo di tabacco ambientale;
oltre 50.000 i casi incidenti di infezioni acute delle vie
aeree (principalmente da fumo di tabacco ambientale);
circa un migliaio gli infarti del miocardio da fumo di tabacco
ambientale;
oltre 200 i decessi per intossicazione acuta da CO.
Materiali da arredo e un grande numero di prodotti di consumo
liberano sostanze tossiche, come i composti organici volatili, e
possono essere causa di fenomeni allergici. Anche il microclima
caldo-umido delle abitazioni, favorisce la crescita degli acari e dei
funghi nella polvere domestica. Infine, alcuni composti chimici,
anch’essi presenti negli ambienti confinati, sono noti o sospettati
quali cause di irritazione o stimolazione dell’apparato sensoriale e
possono dare vita ad una serie di sintomi comunemente rilevati nella
cosiddetta «Sindrome da Edificio Malato» .
Per quanto riguarda gli aspetti essenziali di prevenzione e
protezione ambientale nelle aree urbane e’ prioritario assicurare il
rispetto delle vigenti normative in materia di livelli consentiti di
inquinanti atmosferici e adoperarsi per abbattere ulteriormente i
livelli del PM10 e degli altri inquinanti. Il conseguimento di questo
obiettivo richiede una serie complessa di interventi essenzialmente
relativi al traffico automobilistico e agli impianti di
riscaldamento.
In particolare, e’ importante:
ridurre l’inquinamento atmosferico da fonti mobili, utilizzando
strumenti legislativi e fiscali, migliorando le caratteristiche
tecniche dei motori dei veicoli e la qualita’ dei carburanti;
ridurre l’inquinamento atmosferico da fonti fisse,
identificando le fonti inquinanti, migliorando i processi tecnici e
cambiando i combustibili.
A causa della struttura particolare delle citta’ italiane, questi
due tipi di interventi dovrebbero prevedere restrizioni severe e
regolamentazione del traffico nelle aree urbane, tenendo in
considerazione tutte le tipologie di veicoli esistenti compresi i
ciclomotori. Questi ultimi contribuiscono significatamene all’aumento
delle concentrazioni di inquinanti pericolosi, come il benzene.
Per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria negli ambienti
confinati, significativi benefici per la salute sono prevedibili
dall’attuazione di programmi di riduzione all’esposizione al radon,
basati prioritariamente sull’aumento del numero di edifici pubblici
sottoposti a misurazioni e a bonifica.
Il recente accordo approvato dalla Conferenza Stato-Regioni
(27 settembre 2001, n. 252) indica le Linee Guida per la tutela e la
promozione della salute negli ambienti confinati, e rappresenta
quindi il documento di riferimento per gli obiettivi e gli interventi
in questo settore.
Tabella 1
Gli inquinanti dell’aria: origini, sorgenti, effetti
sulla salute e sull’ambiente
Benzene: da un punto di vista tossicologico e’ classificato come
un potente cancerogeno. Viene emesso quasi integralmente dal
trasporto su strada, per lo piu’ direttamente (85%) e in parte per
evaporazione durante il rifornimento di benzina o dai serbatoi delle
automobili.
Biossido di zolfo: noto anche come anidride solforosa, si forma
per reazione tra lo zolfo contenuto in alcuni combustibili fossili
(carbone, oli minerali pesanti) e l’ossigeno atmosferico. Le fonti di
emissione sono soprattutto gli impianti industriali o di
riscaldamento. Il composto irrita e, ad alte concentrazioni,
danneggia gli epiteli delle vie respiratorie superiori predisponendo
ad episodi infettivi acuti e cronici.
Idrocarburi non metanici (composti organici volatili): nascono da
processi di combustione incompleta o sono emessi da molti prodotti
chimici (ad esempio solventi e vernici). I contributi principali
vengono dal traffico veicolare e dalle industrie. Alcune classi di
composti hanno marcati effetti cancerogeni (ad esempio gli
idrocarburi policiclici aromatici).
Monossido di carbonio: si forma per combustione incompleta dei
combustibili a base carboniosa (naturali e fossili). Deriva da
sorgenti industriali, ma soprattutto dal traffico (marmitte non
catalizzate). E’ un potente agente tossico perche’ blocca la
capacita’ di trasporto di ossigeno nel sangue. Ad alte concentrazioni
provoca dapprima malessere, disorientamento e infine stato di coma e
morte.
Ossidi di azoto: sono composti di azoto e ossigeno generati nei
processi di combustione ad alta temperatura, per reazione dell’azoto
e dell’ossigeno naturalmente presenti in atmosfera. Vengono prodotti
dagli impianti di riscaldamento, dai cicli termici industriali, dalle
centrali termoelettriche e, in misura oggi considerevole dagli
autoveicoli. Provocano disturbi alle vie respiratorie profonde e
causa maggiore predisposizione alle infezioni soprattutto nei
soggetti affetti da patologie polmonari.
Ozono: si origina per processi fotochimica (dipendenti cioe’
dalla radiazione solare) partendo da ossidi di azoto e da composto
organici volatili (idrocarburi non metanici). E’ un inquinante
secondario cioe’ non e’ emesso in quanto tale, ma si forma a partire
da altri inquinanti (primari). Essendo un potente ossidante attacca i
tessuti delle vie aree, provoca disturbi alla respirazione, aggrava
gli episodi di asma. E’ particolarmente dannoso alla vegetazione,
producendo cali di rese in molte colture agricole e defoliazione
nelle foreste.
Particolato aerodisperso: conosciuto anche come «polveri totali
sospese» (PTS); puo’ avere origini naturali (erosione dei suoli) o
antropiche (combustibili legneo-cellulosici o fossili, eccetto il gas
naturale). Il particolato entra nelle vie respiratorie spingendosi
tanto piu’ verso quelle profonde quanto minore e’ il diametro delle
particelle che lo costituiscono. Ha azione irritante nelle vie
respiratorie superiori (faringe), ma nel sistema broncopolmonare puo’
rilasciare composti tossici producendo o aggravando patologie
respiratorie o svolgendo anche azione cancerogena.
Piombo: veniva impiegato come additivo delle benzine tradizionali
sotto forma di composti metallo-organici (piombo tetraetile) usati
come anti detonanti. Il piombo viene rintracciato nel particolato
aerodisperso e proviene in prevalenza dalle vecchie benzine «rosse».
E’ un elemento tossico e provoca alterazioni nel sistema nervoso e
patologie neurologiche.
PM10: Le cosiddette «polveri fini» sono costituite dalle
particelle aerodisperse di diametro inferiore ai 10 micrometri (10
millesimi di millimetro) e pertanto classificate come PM10 (da
Particulate Matter < 10 micrometri). Data la loro piccola massa
restano piu’ a lungo sospese in atmosfera e, a causa del loro piccolo
diametro, sono in grado di penetrare nelle vie aeree profonde
(bronchi e polmoni) depositandovi gli elementi e i composti chimici
da cui sono costituite, quali metalli pesanti e idrocarburi. Il
rischio tossicologico associato al PM10 e’ percio’ elevato. Da un
recente studio epidemiologico condotto su un campione di citta’
statunitensi e’ emerso che un incremento di 10 microgrammi/metro cubo
nella concentrazione atmosferica di PM10 provoca un aumento dallo
0,5% allo 0,7% delle cause generali di morte. E’ un corrispondente
incremento dei decessi dovuti a patologie cardio respiratorie.
Analoghi studi condotti su citta’ europee, hanno evidenziato dati che
se applicati (con tutte le incertezze e cautele del caso) a una
citta’ media europea di un milione di abitanti che registri una
concentrazione media di polveri fini di 50 microgrammi/metro cubo
rispetto al valore limite indicato dalla recente direttiva europea di
40 microgrammi/metro cubo (tale e’ il caso di alcune tra le
principali citta’ italiane), implicherebbero un incremento di 500
decessi annui e un controvalore economico per le giornate lavorative
perdute di almeno 20 milioni di euro per anno.
4.2.1. L’amianto
Ogni anno circa 1000 italiani muoiono per mesotelioma pleurico o
peritoneale causati prevalentemente dall’esposizione ad amianto e
altri 1000 per cancro polmonare attribuibile all’amianto. Nello
stesso periodo di tempo si verificano circa 250 casi di asbestosi. E’
documentata anche la comparsa di mesoteliomi a seguito di esposizione
ambientale non lavorativa in residenti in aree prossime a pregressi
impianti di lavorazione dell’amianto o a cave in soggetti che non
sono mai stati addetti alla lavorazione dell’amianto. Dati i lunghi
periodi di latenza, gli effetti dell’amianto, in misura simile a
quella riscontrata negli anni ’90, sono destinati a prolungarsi nel
tempo anche se, per effetto della legge 27 marzo 1992, n. 257, in
Italia non sono piu’ consentite attivita’ di estrazione,
importazione, commercio e esportazione di amianto e materiali
contenenti amianto.
Vi e’, poi, un numero difficilmente stimabile di lavoratori
esposti per la presenza di amianto come isolante in una molteplicita’
di luoghi di lavoro (quali ad esempio industria chimica, bellica,
raffineria, metallurgia, edilizia, trasporti, produzione di energia),
ed un numero anch’esso difficilmente stimabile di soggetti residenti
in prossimita’ di stabilimenti nei quali e’ stato lavorato l’amianto.
Il censimento di queste situazioni, previsto dalla citata legge del
1992, procede con lentezza, ed in assenza di dati attendibili sulla
mappa delle esposizioni, anche le attivita’ di risanamento ambientale
procedono in modo relativamente frammentario ed episodico.
E’ quindi prioritaria una piu’ idonea strategia per la bonifica
dei siti dove si lavorava amianto e una verifica della presenza di
residui di amianto nelle vicinanze degli stessi.
E’ necessario, poi, elaborare ed adottare d’intesa con le
Regioni, Linee Guida che indirizzino l’attivita’ delle strutture
sanitarie a fini di prevenzione secondaria e sostegno psico-sociale
delle persone esposte in passato ad amianto. Presentano anche
carattere prioritario l’aggiornamento e l’estensione degli studi
epidemiologici che, insieme alla mappatura delle esposizioni attuali
e pregresse, possano fornire basi piu’ solide agli interventi di
risanamento ambientale e criteri per il sostegno sanitario e
psicologico alle popolazioni esposte.
4.2.2. Il benzene
Per quanto riguarda il benzene, nota sostanza cancerogena per
l’uomo, l’esposizione avviene principalmente nell’ambiente esterno
urbano a causa degli scarichi dei motori a combustione a benzina. Il
benzene puo’ essere emesso sia come prodotto di combustione (che si
forma a partire dai componenti della benzina, in particolare
idrocarburi aromatici), sia in forma di sostanza incombusta, per
evaporazione dal carburatore, dal serbatoio e da altre parti dei
veicoli.
Un’altra sorgente di rilievo in ambito urbano e’ rappresentata
dalla distribuzione, dall’immagazzinamento e dalla manipolazione di
carburanti contenenti benzene.
Per quanto concerne specificamente gli ambienti interni degli
edifici, le sorgenti di maggior rilievo risultano essere alcuni
prodotti di consumo, come adesivi, materiali di costruzione e
vernici. L’emissione di tali prodotti e’ funzione della temperatura
e, in particolare nel caso delle vernici, decresce con il tempo.
Inoltre, il fumo di sigaretta contiene quantitativi di benzene
significativi e considerevolmente variabili.
L’evaporazione del benzene ha anche influenza sulle
concentrazioni indoor attribuibili a parcheggi interni agli edifici e
sull’esposizione all’interno delle auto. Uno dei problemi tipici
degli ambienti urbani italiani e’ quello della elevatissima densita’
di auto parcheggiate in quasi tutte le strade, a cui corrisponde una
considerevole emissione evaporativa dai serbatoi e altre parti delle
auto.
Ulteriori condizioni nelle quali si puo’ realizzare l’esposizione
al benzene sono quelle particolari di alcuni ambienti di lavoro
quali, ad esempio, l’industria della gomma.
L’obiettivo di ridurre l’esposizione al benzene e’ stato
perseguito con successo attraverso la riduzione del benzene nella
benzina, ma e’ indispensabile continuare con determinazione gli
sforzi intrapresi. I dati disponibili non indicano in modo chiaro
quanto la catalizzazione delle auto abbia contribuito a ridurre
l’emissione di benzene, anche se certamente vi sono stati dei
significativi benefici. Una valutazione appropriata della possibile
riduzione futura delle emissioni in rapporto al cambiamento del parco
auto e’ essenziale a fini strategici per comprendere quali obiettivi
siano effettivamente conseguibili in tal modo. Appare, comunque,
importante prevedere un qualche sistema di controllo della
funzionalita’ dei dispositivi di abbattimento. In base ai dati oggi
forniti dai sistemi di monitoraggio, non sembra al momento possibile
prescindere da una riduzione e razionalizzazione del traffico,
quantomeno nelle aree critiche.
Le concentrazioni indoor, oltre che dall’ovvia eliminazione del
fumo di tabacco dagli ambienti di vita e di lavoro, potrebbero essere
prevedibilmente ridotte da un’ottimizzazione dei sistemi di
parcheggio delle auto all’interno degli edifici, con sistemi di
ventilazione ed aerazione e altri metodi utili a ridurre la
penetrazione del benzene nelle abitazioni a partire dai luoghi in cui
sono posteggiate le auto.
E’, infine, indispensabile realizzare idonee reti di rilevazione
per il benzene con particolare riferimento alle aree urbane.
4.3. La carenza dell’acqua potabile e l’inquinamento
In Italia solo i due terzi della popolazione riceve quantita’
sufficienti di acqua per tutto l’anno, circa il 13% degli Italiani
non riceve sufficienti quantita’ di acqua per un quarto dell’anno e
circa il 20% per due/tre quarti dell’anno.
Inoltre, in molte parti d’Italia, per le quali vi sono dati
disponibili, i caratteri organolettici dell’acqua come torbidita’,
colore, odore o sapore sono di bassa qualita’. La proporzione della
popolazione che non beve o beve raramente acqua di rubinetto e’
elevata in tutte le aree, soprattutto nelle Isole e nel Nord-Ovest.
Per quanto riguarda l’inquinamento, sono quasi scomparse le
epidemie idriche causate dai tradizionali patogeni quali Salmonella,
Shigella e Vibrio, ma permane problematica la valutazione del rischio
microbiologico di altri agenti biologici patogeni diffusibili
attraverso l’acqua potabile. Inoltre, la popolazione italiana resta
esposta, attraverso l’acqua potabile, a bassi livelli di numerosi
composti chimici, fra i quali vi sono i residui dei prodotti
fitosanitari, i nitrati, i sottoprodotti della disinfezione delle
acque a fini di potabilizzazione e le cessioni da parte dei materiali
con i quali sono state realizzate le reti di captazione, adduzione e
distribuzione dell’acqua all’utenza.
Problemi di miglioramento delle caratteristiche delle acque si
pongono, inoltre, per il parametro boro e per il parametro arsenico
poiche’ in alcune situazioni, peraltro limitate e localizzate, e’
accertata la presenza di dette sostanze nelle acque in concentrazioni
superiori alle concentrazioni massime ammissibili, per cause connesse
alla natura geologica dei suoli.
Per il prossimo futuro occorrera’ promuovere le seguenti azioni:
riduzione della quantita’ di prodotti impiegati in agricoltura
e autorizzazione dei preparati fitosanitari a minor impatto
sull’ambiente e sulla salute umana;
adozione di norme per la buona pratica agricola, al fine di
ottimizzare l’impiego dei fertilizzanti e minimizzare il loro impatto
sull’ambiente;
promozione di un adeguato monitoraggio ambientale ed indagini
epidemiologiche mirate, con particolare riferimento ai potenziali
effetti dei contaminanti chimici dell’acqua potabile sulle funzioni
riproduttive umane;
miglioramento delle tecnologie acquedottistiche;
ottimizzazione della gestione e incentivazione della ricerca di
disinfettanti integrativi/alternativi del cloro e suoi composti;
incremento della tutela delle acque dai processi di
contaminazione urbana, agricola o industriale;
intensificazione dell’attivita’ di controllo dei contaminanti
chimici, fisici e biologici delle acque potabili con l’esclusione
dell’erogazione delle acque non conformi.
4.4. Le acque di balneazione
La normativa italiana relativa al controllo delle acque di
balneazione ha fissato, per gli indicatori microbiologici di
contaminazione fecale, valori limite piu’ restrittivi rispetto alla
direttiva europea attualmente in vigore. Inoltre, la normativa
italiana considera «acque di balneazione» le acque nelle quali la
balneazione e’ espressamente autorizzata dalle Autorita’ e non
vietata, mentre la direttiva europea stabilisce che «acque di
balneazione» sono da considerarsi quelle dove la balneazione e’
praticata da «un congruo numero di bagnanti». Questo comporta che in
Italia, tranne le zone non idonee per motivi diversi
dall’inquinamento e quelle verificate non idonee per inquinamento,
tutte le acque siano considerate «acque di balneazione».
A causa di cio’ il nostro Paese ha un numero di punti di
campionamento controllati di gran lunga superiore a qualsiasi altro
Paese dell’Unione Europea.
L’osservazione dei dati raccolti negli ultimi anni, durante le
campagne di controllo svolte in base al Decreto del Presidente della
Repubblica 8 giugno 1982, n. 470, porta a riconoscere un generale
miglioramento della qualita’ delle acque delle zone costiere
italiane, valutato in funzione dei chilometri di costa controllata.
L’ulteriore miglioramento della qualita’ delle acque di
balneazione passa attraverso la riduzione della contaminazione
ambientale, un opportuno ed idoneo trattamento di tutti gli scarichi,
urbani e non, un’adeguata progettazione degli impianti di
depurazione, ed il censimento regolare e continuativo degli scarichi.
4.5. L’inquinamento acustico
L’inquinamento acustico causato dal traffico, dalle industrie,
dalle attivita’ ricreative interessa circa il 25% della popolazione
europea, provocando sia disagi che danni alla salute. Infatti, anche
se le conseguenze dell’esposizione al rumore a bassi livelli variano
da individuo ad individuo, un’esposizione prolungata nel tempo, che
raggiunge determinati valori di pressione sonora, e’ causa, in tutta
la popolazione, di effetti nocivi sull’organo dell’udito e
sull’intero organismo. Per un’esposizione ad elevati livelli,
protratta per anni, quale puo’ riscontrarsi in alcuni ambienti di
lavoro, si registra un abbassamento irreversibile della soglia
uditiva. Anche in relazione a esposizione a piu’ bassi livelli di
rumore si registrano nell’intero organismo, secondo il perdurare
dello stimolo, una serie di modificazioni a carico di vari organi ed
apparati.
Numerose indagini dimostrano che nella maggior parte delle citta’
italiane esaminate i livelli di rumore sono superiori ai livelli
massimi previsti dalle norme vigenti sia di giorno che di notte. Per
quanto riguarda l’esposizione al rumore negli ambienti di lavoro, si
puo’ stimare, in maniera conservativa, che la popolazione dei
lavoratori esposti a piu’ di 90 dB(A) di Leq (Livello Equivalente di
pressione sonora) sia pari almeno alle 100.000 unita’, e le ipoacusie
professionali rimangono di gran lunga la prima tecnopatia in Italia,
contribuendo con piu’ del 50% al totale delle malattie professionali
indennizzate.
Da quanto esposto scaturisce con urgenza la necessita’ di
interventi, sia negli ambienti di lavoro che negli ambienti di vita,
finalizzati alla riduzione dell’esposizione al rumore.
Per quanto riguarda gli ambienti di vita, la limitazione del
traffico veicolare e’ soltanto uno degli strumenti per migliorare la
qualita’ ambientale, e deve essere integrata con altre azioni
individuabili a livello locale, nazionale, comunitario: dalla
pianificazione urbanistica, alla viabilita’ e conseguente
regolamentazione dei flussi di traffico, al potenziamento
dell’attivita’ di controllo e repressione dei comportamenti
eccessivi, agli incentivi economici per lo svecchiamento dei mezzi di
trasporto pubblici e privati, al finanziamento dell’attivita’ di
ricerca per lo sviluppo di veicoli a basse emissioni di inquinanti,
alla zonizzazione acustica (classificazione del territorio comunale
in 6 classi in base ai livelli di rumore), al piano di risanamento
acustico comunale.
Per quanto riguarda l’esposizione negli ambienti di lavoro,
quattro sono i livelli di azione da intraprendere per ridurre
l’incidenza sulla salute di questo fattore di rischio:
migliorare gli standard di sicurezza e tutela aziendali tramite
una piu’ corretta e puntuale applicazione della vigente legislazione;
incrementare l’azione di vigilanza a livello territoriale sulla
corretta applicazione della vigente legislazione in materia;
completare l’emanazione dei decreti attuativi previsti dal
Decreto Legislativo 15 agosto 1991, n. 277;
attuare una politica di incentivazione e di sostegno alle
aziende che vogliono attuare interventi di riduzione della
rumorosita’ negli ambienti di lavoro.
I macrosettori produttivi ai quali dovrebbero essere indirizzati
i maggiori sforzi sono quello metalmeccanico, quello edile e quello
estrattivo.
4.6. I campi elettromagnetici
Negli ultimi anni si e’ verificato un aumento senza precedenti
del numero e della varieta’ di sorgenti di campi elettrici, magnetici
ed elettromagnetici utilizzate a scopo individuale, industriale e
commerciale. Tali sorgenti comprendono, oltre le linee di trasposto e
distribuzione dell’energia elettrica, apparecchiature per uso
domestico, personal computers (dispositivi operanti tutti alla
frequenza di 50 Hz), telefoni cellulari con le relative stazioni
radio base, forni a microonde, radar per uso civile e militare
(sorgenti a radio frequenza e microonde), nonche’ altre
apparecchiature usate in medicina, nell’industria e nel commercio.
Tali tecnologie, pur di grande utilita’, generano continue
preoccupazioni per i possibili rischi sanitari della popolazione.
Per quanto riguarda i campi a frequenza estremamente bassa (ELF),
l’esposizione dell’uomo e’ principalmente collegata alla produzione,
alla distribuzione ed all’utilizzazione dell’energia elettrica. Nel
1998, il gruppo di esperti internazionali del National Institute of
Environmental Health Sciences (USA) ha affermato che, usando i
criteri stabiliti dalla Agenzia Internazionale per la Ricerca sul
Cancro (IARC), i campi ELF dovrebbero essere considerati come
«possibili cancerogeni». Possibile cancerogeno per l’uomo significa
che esistono limitate evidenze scientifiche sulla possibilita’ che
l’esposizione a campi ELF possa essere associata all’insorgenza dei
tumori. Sulla base di queste valutazioni di esposizioni e della stima
del livello di rischio di leucemia per l’infanzia, e’ stato calcolato
che ogni anno si potrebbero verificare 1,3 (95% intervallo di
certezza: 0 – 4,1) casi aggiuntivi di leucemia infantile collegabili
alla vicinanza delle abitazioni a linee elettriche ad alta tensione e
26,7 casi (95% intervallo di certezza: 3,9 – 57,3) collegabili
all’esposizione nelle case. Tali dati corrisponderebbero
rispettivamente a valori che variano da 0,3% a 6,1% del totale dei
432 casi di leucemia infantile che si verificano ogni anno in Italia.
Restano, tuttavia, ovvie incertezze sul rapporto causa-effetto.
4.7. Lo smaltimento dei rifiuti
Il rischio per la salute si manifesta anche quando risultano
assenti o inadeguati i processi di raccolta, trasporto, stoccaggio,
trattamento o smaltimento finale dei rifiuti, nonche’ quando lo
smaltimento avviene senza il rispetto delle norme sanitarie rigorose
previste dalle norme vigenti. La mancata raccolta dei rifiuti
costituisce una causa importante di deterioramento del benessere e
dell’ambiente di vita. I rifiuti, qualora non vengano adeguatamente
smaltiti, possono contaminare il suolo e le acque di superficie.
L’esalazione di metano dai siti di interramento non idonei
rappresenta un rischio di incendio ed esplosioni. Tuttavia, se
trattati adeguatamente, i rifiuti possono costituire una fonte
combustibile. Le emissioni in atmosfera in strutture atte alla
produzione di compost e negli impianti di incenerimento dei rifiuti,
qualora non opportunamente abbattute, sono state identificate quali
fattori di rischio per la salute dei lavoratori addetti.
La discarica rimane il sistema piu’ diffuso di smaltimento dei
rifiuti, sia perche’ i costi sono ancora oggi competitivi con quelli
degli altri sistemi sia perche’ l’esercizio e’ molto piu’ semplice.
La discarica controllata, se ben condotta, non presenta particolari
inconvenienti, purche’ sia ubicata in un idoneo sito e sia dotata
degli accorgimenti atti ad evitare i pericoli di inquinamento che i
rifiuti possono provocare in via diretta ed indiretta.
I principali obiettivi in questo settore sono:
l’adozione di un regime di smaltimento dei rifiuti urbani ed
industriali, che minimizzi i rischi per la salute dell’uomo ed
elimini i danni ambientali;
l’attivazione di azioni educative per ridurre la produzione dei
rifiuti;
l’incentivazione della gestione ecocompatibile dei rifiuti, con
particolare riferimento al riciclaggio;
l’incremento delle attivita’ di tutela ambientale per
l’individuazione delle discariche abusive e delle altre forme di
smaltimento non idonee;
il monitoraggio accurato delle emissioni inquinanti degli
impianti di incenerimento.
4.8. Pianificazione e risposta sanitaria in caso di eventi
terroristici ed emergenze di altra natura
Negli ultimi anni, ed in particolare nel corso del 2001, si e’
presentato in forme nuove la minaccia del terrorismo con uso di armi
non convenzionali. Gli episodi di bioterrorismo sono diventati un
rischio piu’ plausibile per molti Paesi occidentali, ivi inclusa
l’Italia.
Risposte rapide ed efficaci a questo tipo di emergenze, come
d’altra parte ad altre emergenze associate, ad esempio, a gravi
incidenti chimici o a disastri naturali, non possono essere
assicurate se non esiste un’attivita’ di preparazione continua a
monte dell’evento. Questo e’ particolarmente vero per il Servizio
Sanitario, specie nelle grandi citta’ ove e’ piu’ elevato il rischio,
e dove i servizi sono, di norma, gia’ saturi di richieste e spesso
troppo rigidi per adattarsi in tempi brevi alle emergenze.
Anche se la risposta ad eventuali attacchi terroristici e ad
altre emergenze non e’ solo di competenza del settore sanitario, e’
ovvia la necessita’ di preparare e, quando necessario, mobilitare il
servizio sanitario alla cooperazione con le forze di soccorso, di
difesa e di ordine interno, a seconda del caso.
Il sistema di emergenza 118, gli Ospedali e le ASL, i
dipartimenti di prevenzione, i laboratori diagnostici, i Centri
anti-veleni e le Agenzie regionali per l’ambiente, unitamente all’ISS
ed all’ISPESL, sono alcuni dei soggetti che devono collaborare per
sviluppare un’adeguata rete di difesa e protezione sanitaria. In sede
locale, un piano di interventi sanitari contro il terrorismo ed altri
gravi eventi non puo’ pertanto che risultare dalla progettualita’ di
ciascuna Regione e dall’efficacia e dall’efficienza delle attivita’
svolte dalle diverse articolazioni in ciascuna Azienda Sanitaria.
Per garantire una pronta risposta sanitaria di fronte a possibili
aggressioni terroristiche di natura chimica, fisica e biologica ai
danni del nostro Paese sono state gia’ assunte iniziative a livello
centrale e locale, che hanno consentito di superare il primo momento
dell’emergenza.
Fra le iniziative piu’ importanti assunte immediatamente a
ridosso dei tragici eventi dell’11 settembre 2001:
e’ stata costituita, con Decreto Ministeriale 24 settembre 2001
un’apposita Unita’ di crisi che, fra l’altro, ha elaborato il
protocollo operativo per la gestione della minaccia terroristica
derivante da un eventuale uso del bacillo dell’antrace;
sono stati individuati, d’intesa con le Regioni, l’ISS e
l’ISPESL, come Centri di consulenza e supporto, rispettivamente, per
gli eventi di natura biologica e chimico-fisica e per gli ambienti di
lavoro; l’Ospedale L. Sacco di Milano, l’IRCSS L. Spallanzani di
Roma, il Policlinico di Bari e il Presidio Ascoli Tomaselli di
Catania, quali Centri nosocomiali di riferimento per il supporto
clinico nonche’ l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Foggia
quale centro di riferimento per il controllo analitico del materiale
sospetto (alla data del 15 febbraio 2002 sono stati analizzati 1876
campioni di materiale sospetto);
e’ stato istituito un numero telefonico verde dedicato tanto
agli operatori sanitari quanto ai singoli cittadini che, alla data
del 15 febbraio 2001, ha dato riscontro a 4.239 richieste pervenute;
si e’ provveduto al reperimento dei vaccini e altri medicinali
ritenuti essenziali;
si e’ fattivamente collaborato in sede UE e G8 al necessario
coordinamento per la costruzione di una elevata capacita’ di risposta
sanitaria.
Contestualmente, si e’ reso necessario predisporre altre misure
sanitarie utili per far fronte ad altre situazioni ipotizzabili,
stabilendo l’idonea pianificazione degli interventi.
In linea con il Piano nazionale di difesa da attacchi
terroristici di tipo biologico, chimico e radiologico, emanato dalla
Presidenza del Consiglio dei Ministri, e’ stato, percio’, redatto un
documento di Piano che si articola in due parti: nella prima e’ presa
in considerazione la minaccia biologica; nella seconda, e’ trattata
la minaccia chimica e radiologica. Ognuna di dette parti puo’, a sua
volta, essere considerata come sostanzialmente suddivisa in due
capitoli. Nel primo, di tipo divulgativo, vengono fornite
informazioni sui criteri essenziali per l’identificazione di eventi
dannosi a seguito di atto terroristico, sui siti bersaglio, sugli
aggressivi presumibilmente utilizzabili in tali scenari, sulle
modalita’ patogenetiche di detti aggressivi, ipotizzando, in ultimo,
una scala di gravita’ riferita alle caratteristiche specifiche di
ciascun aggressivo e rapportata alle varie tipologie di siti
bersaglio ed al numero di individui colpiti; nel secondo, a carattere
eminentemente operativo, vengono enunciate considerazioni di massima
di tipo organizzativo in base alle quali possono essere sviluppate in
sede locale le procedure di intervento piu’ idonee. Nell’allegato
sono riportate le schede tecniche relative ad agenti biologici,
chimici e fisici nonche’ approfondimenti su alcuni temi
particolarmente critici, che riprendono, sviluppano ed integrano
argomenti ed informazioni gia’ esposti nella prima e nella seconda
parte del Piano.
Il documento di Piano, redatto con l’apporto dell’ISS,
dell’ISPESL e della Direzione generale della Sanita’ Militare, tiene
conto della linea organizzativa prevista dalle vigenti disposizioni
in materia di gestione delle crisi, che individuano nel Presidente
del Consiglio dei Ministri, nel Consiglio dei Ministri e nel Comitato
Politico Strategico gli organismi decisionali nazionali, nel Nucleo
Politico Militare il massimo organo di coordinamento nazionale, nella
Commissione Interministeriale Tecnica per la Difesa Civile l’organo
di coordinamento tecnico delle attivita’ di difesa civile al momento
dell’emergenza e nel Prefetto l’autorita’ di coordinamento della
difesa civile a livello periferico. Nel rispetto dell’autonomia
organizzativa e gestionale delle Istituzioni centrali e territoriali
che potrebbero essere chiamate ad attivare operazioni di soccorso ai
cittadini, il documento di Piano vuole offrirsi come un punto di
riferimento per le successive fasi di pianificazione e di messa in
atto, a livello territoriale, delle azioni volte alla tutela della
salute.
Gli obiettivi strategici in questo settore sono sostanzialmente
riconducibili a:
programmare le misure preventive;
definire le misure di sorveglianza, ovvero attivare
preventivamente le funzioni specifiche e modellarle rispetto alla
minaccia;
pianificare le misure di soccorso e trattamento, al fine di
ripristinare le condizioni di salute dei soggetti eventualmente
colpiti, bonificare gli ambienti colpiti e/o i materiali contaminati
nonche’ contenere e/o inattivare il rischio residuo;
diffondere la cultura dell’emergenza e migliorare la capacita’
degli operatori a risposte pronte ed adeguate;
incrementare la capacita’ informativa a favore della
popolazione (anche attraverso l’accesso al numero telefonico verde),
al fine di accrescere la fiducia del cittadino e la conoscenza dei
comportamenti piu’ opportuni da adottare.
Conseguentemente, le principali azioni da realizzare sono:
predisporre piani operativi regionali, articolati in ciascuna
Azienda Sanitaria, che individuino le funzioni da esperire,
specifichino le modalita’ di svolgimento ed identifichino i diversi
livelli di responsabilita’;
approntare adeguate attrezzature, risorse e protocolli per
affrontare i diversi scenari di emergenza;
adottare procedure operative standard per la risposta a falsi
allarmi;
intensificare l’aggiornamento e la formazione di operatori
sanitari;
sviluppare le indagini epidemiologiche e potenziare il
collegamento e l’integrazione tra diversi sistemi informativi.
4.9 Salute e sicurezza nell’ambiente di lavoro
Una profonda trasformazione delle condizioni di lavoro e’ in atto
in tutti i settori lavorativi a causa dell’impiego di nuove
tecnologie e del conseguente cambiamento dei modelli di produzione.
Inoltre la competitivita’ del mercato ha determinato la graduale
introduzione di nuovi modelli organizzativi e operativi.
Nel settore della sicurezza e della salute occupazionale cio’ sta
determinando la comparsa di nuovi rischi e induce una progressiva
modificazione dei modelli tradizionali di esposizione al rischio.
La mutata organizzazione del lavoro (telelavoro,
esternalizzazione della produzione), la comparsa e il rapido
incremento di nuove tipologie di lavoro flessibile (lavori atipici,
lavoro interinale) e le diverse caratteristiche della forza lavoro,
introducono modifiche nella distribuzione e diffusione dei rischi.
Nel frattempo permangono in numerosi settori lavorativi i rischi
tradizionali, non sempre e non diffusamente risolti.
Negli ultimi anni si e’ inoltre profondamente modificata la
normativa di riferimento, con l’avvento delle direttive comunitarie
ed in particolare con il decreto legislativo n. 626 e successive
modifiche che hanno introdotto varie innovazioni nell’organizzazione
della sicurezza e della salute nei luoghi di lavoro ma la cui
applicabilita’ non sempre e’ risultata agevole, soprattutto nella
Piccola e Media Impresa (PMI). Ciononostante il ruolo centrale
dell’impresa nei processi di valutazione dei rischi e di
organizzazione e gestione della sicurezza e’ risultato rafforzato.
Cio’ comporta quindi nuove dinamiche anche nei rapporti tra il
sistema delle imprese e quello dello Stato e delle Regioni. Per
quanto concerne il primo, e’ necessario che sia completato il
processo di adeguamento alle norme e siano potenziati gli strumenti
della partecipazione previsti dal decreto legislativo n. 626.
Per quanto concerne il sistema pubblico, cui compete il ruolo di
promozione, regolazione, verifica e controllo, si pone l’esigenza di
una strategia di pianificazione e intervento in ordine a una reale
promozione della sicurezza e della salute nelle Piccole e Medie
Imprese. Altrettanto significativa e’ la necessita’ di una migliore
integrazione con l’attivita’ delle Agenzie Regionali per l’ambiente.
Gli infortuni
Il fenomeno infortunistico, nonostante mostri una complessiva
affermazione se osservato sul lungo periodo, appare ancora rilevante
in termini sia di numero di eventi sia di gravita’ degli effetti
conseguenti. L’andamento infortunistico dell’anno 2000 mostra una
modesta crescita del numero degli infortuni nell’Industria e Servizi
(+1,2%), con riduzione peraltro degli infortuni mortali, e una
diminuzione in Agricoltura (-7,4%). Tale andamento e’ in linea con la
crescita occupazionale registrata nell’ultimo periodo.
I settori a maggior incidenza infortunistica (tenendo conto sia
della frequenza sia della gravita’ delle conseguenze), pur con
andamenti non costanti in tutte le regioni, rimangono l’industria del
legno, quella dei metalli, l’industria della trasformazione ed il
settore delle costruzioni.
A conferma di una tendenza degli ultimi anni, una parte assai
rilevante (piu’ del 50%) dei 1.354 infortuni mortali e degli
infortuni particolarmente gravi e’ stata legata a mezzi di trasporto
e ad incidenti stradali.
Per quel che riguarda il 2001, i dati relativi al primo
trimestre, mostrano un ulteriore crescita degli infortuni
nell’industria e nei servizi, in prevalenza nella popolazione
femminile. Permane il decremento generalizzato in agricoltura.
Altro aspetto rilevante e’ quello relativo alla sicurezza dei
lavoratori in «nero». Applicando gli indici infortunistici della
popolazione regolarmente occupata ai dati ISTAT sull’occupazione non
regolare (anno ’97) e’ stato stimato che il numero degli infortuni
nel «sommerso» sia pari a 165.000 casi. Tale stima appare
conservativa in quanto e’ presumibile che le attivita’ non regolari
vengano svolte senza alcuna applicazione delle norme di prevenzione.
I dati relativi agli infortuni, su base regionale mostrano il
seguente andamento (Tab. 2):
Tabella 2
Frequenze relative di infortunio (x 1.000 addetti) per
regione e tipo di conseguenza (media triennio 1997-1999)
=====================================================================
Tipo di conseguenza
=====================================================================
| Inabilita’ | |
Regioni | temporanea |Inabilita’ permanente|Morte
=====================================================================
Industria e Servizi | | |
———————————————————————
Umbria | 52.92 | 3.82 |0.08
———————————————————————
Emilia | 49.63 | 2.21 |0.09
———————————————————————
Marche | 48.81 | 3.01 |0.10
———————————————————————
Friuli-Venezia | | |
Giulia | 49.12 | 2.10 |0.09
———————————————————————
Basilicata | 46.94 | 2.80 |0.14
———————————————————————
Veneto | 47.90 | 1.60 |0.09
———————————————————————
Abruzzo | 43.83 | 2.55 |0.12
———————————————————————
Liguria | 42.57 | 2.69 |0.06
———————————————————————
Puglia | 42.27 | 2.83 |0.15
———————————————————————
Toscana | 41.53 | 2.44 |0.08
———————————————————————
Trentino-Alto Adige | 41.36 | 1.74 |0.07
———————————————————————
Molise | 37.83 | 2.43 |0.15
———————————————————————
Sardegna | 34.81 | 2.21 |0.12
———————————————————————
Valle d’Aosta | 33.92 | 1.51 |0.11
———————————————————————
Piemonte | 33.69 | 1.44 |0.07
———————————————————————
Lombardia | 33.07 | 1.40 |0.06
———————————————————————
Calabria | 28.89 | 2.38 |0.14
———————————————————————
Sicilia | 26.64 | 1.92 |0.10
———————————————————————
Campania | 25.12 | 2.55 |0.13
———————————————————————
Lazio | 25.45 | 1.41 |0.07
———————————————————————
Italia | 37.99 | 1.90 |0.09
Le malattie professionali
Per quanto riguarda le malattie professionali, la loro
valutazione include un rapporto stretto tra lo studio dei rischi
attuali e pregressi e le tendenze in atto nelle patologie legate al
lavoro.
Accanto alle patologie da rischi noti (prevalentemente in
attenuazione), acquistano sempre maggior rilievo le patologie da
rischi emergenti, non necessariamente legate a rischi nuovi, rispetto
alle quali sono iniziati approfondimenti soprattutto negli ultimi
anni. Tra queste si segnalano le patologie dell’arto superiore da
sovraccarico meccanico, le patologie da fattori psico-sociali
associate a stress e la cancerogenesi professionale Tab. 3). Per
quanto riguarda quest’ultima, il recente studio multicentrico europeo
CAREX stima che i lavoratori potenzialmente esposti in Italia a
sostanze cancerogene siano pari al 24% degli occupati, ed e’ stimato
in 160.000 il numero di morti per anno dovute a cancro e correlabili
a esposizioni lavorative.
Tabella 3a
Patologie da rischi noti
=====================================================================
Industria | Agricoltura
=====================================================================
Ipoacusie da rumore |Broncopneumopatie
Malattie cutanee |Asma bronchiale
Pneumoconiosi |Alveoliti allergiche
Tabella 3b
Patologie da rischi emergenti
Patologie dell’arto superiore da sovraccarico meccanico
Patologie da fattori psico-sociali associate a stress (burn-out,
mobbing, alterazioni delle difese immunitarie e patologie
cardiovascolari)
Patologie da sensibilizzazione
Patologie da agenti biologici
Patologie da composti chimici (effetti riproduttivi e cancerogeni)
Tumori di origine professionale
Effetti sulla salute dei fattori organizzativi del lavoro
Obiettivi:
riduzione dei rischi per la sicurezza in particolare in quei
settori contrassegnati da un maggior numero di eventi infortunistici
e da una maggiore gravita’ degli effetti;
riduzione dei rischi per la salute e progressivo miglioramento
delle condizioni di lavoro;
riduzione dei costi umani ed economici conseguenti ai danni
alla salute dei lavoratori;
riordino, coordinamento e semplificazione in un testo unico
delle norme vigenti in materia di igiene e la sicurezza del lavoro,
nel rispetto delle normative comunitarie e delle prerogative
regionali, al fine dello snellimento delle procedure di applicazione;
promozione di linee guida per l’applicazione della normativa in
settori specifici (PMI, agricoltura, lavori atipici);
potenziamento e coordinamento delle attivita’ di prevenzione e
vigilanza rispetto ai processi ed alle procedure di lavoro anche
attraverso il monitoraggio dell’applicazione del decreto legislativo
n. 626;
programmazione delle priorita’ d’intervento nei settori piu’ a
rischio in funzione degli studi epidemiologici e dei dati provenienti
da un adeguato sistema informativo;
attuazione di programmi per il contrasto del lavoro sommerso e
la tutela della sicurezza e la salute sul lavoro degli impiegati in
lavori atipici;
azioni per la specificita’ di genere sul lavoro a tutela delle
lavoratrici;
azioni per l’inserimento o reinserimento lavorativo di
particolari tipologie di lavoratori come i minori, i disabili, i
tossicodipendenti, gli immigrati;
integrazione dei sistemi informativi;
azioni per la formazione dei soggetti deputati alla attuazione
della sicurezza nei luoghi di lavoro (datori di lavoro, addetti alla
sicurezza, medici competenti rappresentanti dei lavoratori) ivi
compreso il personale del Servizio Sanitario Nazionale addetto alla
prevenzione e vigilanza nei luoghi di lavoro;
promozione di programmi di formazione nella scuola;
miglioramento progressivo dei processi di verifica della
qualita’ e dell’efficacia delle azioni di prevenzione basata
sull’evidenza;
miglioramento dell’accertamento e dell’evidenziazione delle
malattie professionali;
individuazione di strumenti adeguati di carattere informativo,
tecnico ed economico per la corretta implementazione delle norme.
5. La sicurezza alimentare e la sanita’ veterinaria
L’impatto della globalizzazione dei mercati sia sulla sicurezza
degli alimenti sia sulla salute delle popolazioni animali e’ stato
considerevole. Il sistema Italia ha registrato notevoli difficolta’
di adattamento rispetto agli scenari che si sono venuti delineando in
seguito alla stipula dell’Accordo sulle misure sanitarie e
fitosanitarie (Accordo SPS) nell’ambito dell’Organizzazione Mondiale
del Commercio. Questi accordi hanno modificato de facto in modo
radicale una serie di impostazioni tradizionali nella gestione della
sicurezza igienico-sanitaria. Tali difficolta’ sono, per certi
aspetti, comuni a tutta l’Unione europea, ma in Italia l’adattamento
e’ risultato, sotto diversi aspetti, piu’ difficile.
Molte energie sono state assorbite dalla necessita’ di gestire
una serie di emergenze che si sono succedute negli ultimi anni.
Zoonosi causate da nuovi patogeni ed, in particolare, l’encefalopatia
spongiforme bovina (BSE) hanno costituito un serio problema negli
ultimi anni in Italia e in numerosi altri Stati europei. Altre
recenti crisi sanitarie hanno investito il sistema
agrozootecnico-alimentare, quali la contaminazione da PCB, diossina e
altre sostanze chimiche, nonche’ la febbre catarrale degli ovini, la
peste suina classica e l’influenza aviaria.
Nonostante i successi registrati nel fronteggiare questi ed altri
problemi, la realizzazione di una rete di sorveglianza epidemiologica
nazionale (come componente primaria di una politica di gestione del
rischio adeguata alla sfida posta dall’internazionalizzazione dei
mercati), malgrado l’impegno profuso da parte di diverse componenti
del sistema di Sanita’ pubblica veterinaria nazionale, non e’ ancora
sufficientemente sviluppata.
Una politica di sicurezza degli alimenti, soprattutto per un
Paese come l’Italia, che e’ membro della Unione Europea e forte
importatore sia di animali e loro derivati sia di vegetali da tutto
il mondo, deve assumere come riferimento imprescindibile la realta’
del mercato globale delle materie prime e dei prodotti trasformati.
Inoltre, le grandi trasformazioni dei sistemi di produzione e
distribuzione degli alimenti richiedono anche sul piano nazionale e
locale che i metodi e l’organizzazione dei controlli si rinnovino e
si adeguino continuamente.
Il controllo igienico-sanitario degli alimenti, in un contesto di
questo tipo, assume connotati completamente diversi rispetto alla
realta’ esistente fino alla meta’ degli anni ’90. In particolare, i
controlli non sono piu’ concentrati sul prodotto, ma sono distribuiti
lungo tutto il processo di produzione «dall’aratro al piatto» e le
garanzie date dal produttore sono parte non esclusiva, ma certamente
determinante del sistema della sicurezza.
In questo senso deve essere inquadrato il recente accordo tra il
Ministro della Salute e la Federazione Italiana Pubblici Esercizi –
Confcommercio, che ha portato alla elaborazione di Linee Guida per la
Certificazione delle imprese di somministrazione di alimenti e
bevande, con l’obiettivo di garantire una maggiore e piu’ diffusa
sicurezza alimentare. L’accordo prevede che le aziende di
ristorazione commerciale e collettiva si sottopongano ad una
periodica verifica di conformita’ da parte di organismi accreditati,
al cui superamento consegue il rilascio di un marchio, denominato
«Bollino Blu»: questo certifica il rispetto dei requisiti di
sicurezza alimentare e di igiene sanciti dall’accordo, nonche’
l’attivazione della Carta dei Servizi nel cui contesto rientra
l’informazione puntale sugli alimenti nonche’ la disponibilita’ ad
adattare le preparazioni a corretti stili di vita per la prevenzione
delle malattie metaboliche e delle intolleranze alimentari.
La sicurezza degli alimenti, pertanto, assume in concreto una
dimensione internazionale e puo’ essere assicurata solo attraverso
un’azione che non solo si basi su accordi commerciali bi- o
multi-laterali, ma sia capace di influire sulle istanze comunitarie
ed internazionali dove si discutono e si approvano le norme che
regolano la sicurezza e la tutela igienico-sanitaria, degli scambi di
animali, vegetali e prodotti derivati. Paradossalmente, a fronte di
una sempre piu’ marcata domanda di autonomia istituzionale dei
livelli locali dei sistemi di controllo, la sicurezza degli alimenti
diventa sempre piu’ dipendente dalla capacita’ di azione a livello
internazionale.
Per l’Italia che fonda parte importante del successo economico
delle proprie imprese agro-alimentari sulla capacita’ di trasformare
materie prime nazionali e di importazione in prodotti di alto pregio
qualitativo da collocare sul mercato dei Paesi piu’ avanzati, la
capacita’ di assicurare alti livelli di sicurezza delle filiere
produttive diventa non solo elemento determinante per la sicurezza
dei propri consumatori, ma anche per lo sviluppo economico. La
mancanza o la percezione di mancanza di sicurezza igienico-sanitaria
degli alimenti puo’ indurre, infatti, sconvolgimenti profondi del
mercato agro-alimentare. La mancanza di fiducia dei consumatori, nel
contesto di una forte competizione, puo’ portare a perdite
significative di quote di mercato.
Il sistema dei controlli deve assicurare nel concreto delle
azioni quotidiane la qualita’ dei processi, dalla produzione delle
materie prime alla somministrazione, per consentire la libera
circolazione delle merci e la concorrenza sui mercati. In
particolare, i pericoli insiti nei sistemi di produzione devono
essere individuati e eliminati o minimizzati mediante processi
trasparenti e documentati di analisi e gestione del rischio secondo
le norme internazionali e comunitarie che regolano in modo molto
puntuale il controllo della sicurezza degli alimenti, della salute e
del benessere degli animali.
La strategia e gli obiettivi da perseguire, in materia di
sicurezza degli alimenti e delle popolazioni animali, dunque, devono
necessariamente tener conto del contesto internazionale, comunitario
e nazionale. Essi, pertanto, da un lato devono essere tali da
garantire che i fornitori comunitari ed internazionali di animali,
materie prime e prodotti, operino secondo criteri di sicurezza
equivalenti a quelli attesi dai produttori e consumatori italiani.
Dall’altro, l’Italia deve essere in grado di garantire ai consumatori
nazionali ed a quelli dei Paesi che importano le derrate alimentari
prodotte in Italia livelli di sicurezza omogenei del piu’ alto
tenore, su tutto il territorio nazionale.
La sicurezza degli alimenti oggi puo’ essere assicurata solo
attraverso azioni di prevenzione, eliminazione e mitigazione del
rischio che iniziano nella fase di produzione agricola e si estendono
in modo integrato nelle fasi di trasformazione, distribuzione,
conservazione e somministrazione. Livelli di sicurezza adeguati non
sono raggiungibili se non si adottano misure operative integrate
concertate e verificate a livello internazionale, comunitario,
nazionale e locale.
Gli obiettivi prioritari sono i seguenti:
definire una politica della sicurezza degli alimenti e della
salute e del benessere degli animali basata sulla valutazione e la
gestione del rischio che consenta di uscire gradualmente dalla logica
dell’emergenza, realizzando una politica fondata su obbiettivi di
sicurezza e di salute misurabili e verificati;
ridurre i rischi connessi al consumo degli alimenti ed alle
zoonosi, assicurando alti livelli di sicurezza igienico-sanitaria
degli alimenti ai consumatori italiani;
ridurre l’incidenza delle zoonosi e delle malattie diffusive
nelle popolazioni degli animali domestici, con particolare
riferimento alle infezioni della lista A dell’OIE, alla brucellosi
bovina, ovi-caprina e bufalina ed alla tubercolosi, nonche’ alle
encefalopatie spongiformi trasmissibili.
Il perseguimento degli obiettivi posti richiede l’attenzione agli
strumenti organizzativi e l’attuazione di numerosi programmi
operativi. In particolare, e’ necessario garantire un sistema che:
fornisca la consulenza ed il supporto tecnico e scientifico per
le attivita’ di pianificazione e legislazione nei settori che hanno
un impatto diretto o indiretto sulla sicurezza degli alimenti
destinati all’uomo ed agli animali, nonche’ sulla salute ed il
benessere degli animali;
rappresenti l’interfaccia operativa nazionale dell’Autorita’
europea degli alimenti, che ha visto l’avvio con l’inizio del 2002, e
costituisce un importante modello di coordinamento istituzionale dei
diversi soggetti tenuti a collaborare in vista del raggiungimento
dell’obiettivo di sicurezza alimentare nell’Unione Europea.
All’Autorita’ europea, soggetto indipendente che agisce secondo il
principio dell’elevata qualita’ scientifica e della trasparenza, e’
attribuito il compito fondamentale dell’analisi scientifica del
rischio su cui fondare le decisioni politiche e amministrative.
L’Autorita’ Europea cura in particolare l’analisi scientifica e la
valutazione del rischio, la comunicazione del rischio per consentire
una chiara comprensione dello stesso e delle implicazioni sottostanti
e il sistema di allerta;
raccolga e analizzi i dati che permettono la caratterizzazione
ed il monitoraggio dei rischi per la sicurezza alimentare che hanno
un impatto diretto o indiretto sulla sicurezza degli alimenti
destinati all’uomo ed agli animali e sulla salute ed il benessere di
questi ultimi;
assicuri le analisi e valutazioni scientifiche che servono come
base scientifica per l’azione legislativa e regolamentare nei campi
della sicurezza degli alimenti, della salute e del benessere degli
animali;
realizzi un sistema di auditing per la verifica dell’efficacia
del sistema nazionale del controllo ufficiale degli alimenti e delle
popolazioni animali, conformemente ai requisiti stabiliti da norme
riconosciute a livello internazionale (OIE, Codex, ISO EN) che
permettono di misurare la qualita’ del servizio/prodotto;
organizzi un sistema per la gestione delle emergenze
veterinarie, soprattutto per quelle ad andamento prevalentemente
diffusivo, coordinato a livello nazionale ed in grado di mobilitare
le risorse necessarie ove occorrano, nei tempi e nei modi adeguati
alle esigenze. Particolare attenzione dovra’ essere rivolta agli
strumenti di mobilitazione delle risorse umane ed al reperimento
delle attrezzature necessarie, anche, ove indispensabile, mediante la
mobilitazione della protezione civile ed ai sistemi di abbattimento e
distruzione delle carcasse animali;
migliori in modo significativo il sistema di sorveglianza
epidemiologica nazionale nel settore della sicurezza degli alimenti,
della salute e del benessere degli animali e delle zoonosi,
attui concretamente un programma di formazione straordinario
per favorire la realizzazione di sistemi di gestione ed assicurazione
della qualita’ nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale e
assumere comportamenti che assicurino omogeneita’ di prestazioni su
tutto il territorio nazionale. In particolare deve essere assicurato
l’accreditamento dei servizi di Sanita’ pubblica secondo norme di
assicurazione della qualita’ riconosciute a livello internazionale.
L’accreditamento e’ indispensabile per poter continuare nel
medio-lungo termine le attivita’ di certificazione, indispensabili
per la libera circolazione degli animali e degli alimenti in ambito
internazionale. Le attivita’ di formazione devono, inoltre, essere
indirizzate all’introduzione e utilizzazione della sorveglianza
epidemiologica e dell’analisi del rischio.
Nel settore della sicurezza alimentare, piu’ che in molti altri
settori, il raggiungimento degli obbiettivi posti e’ fortemente
condizionato dal contesto internazionale e comunitario. E’
indispensabile, pertanto, creare le condizioni, sia a livello
nazionale che a livello comunitario ed internazionale, che consentano
il perseguimento degli obbiettivi e delle azioni identificate. In
particolare:
gli obiettivi di sicurezza degli alimenti e di salute e
benessere degli animali devono essere individuati in modo esplicito e
trasparente e verificati sistematicamente, assicurando l’efficace
integrazione del controllo pubblico con l’effettiva attribuzione di
responsabilita’ agli operatori economici della produzione primaria,
della trasformazione, e del commercio degli alimenti;
l’attuale revisione delle politiche di sicurezza degli
alimenti, in ambito dell’Unione Europea deve tenere conto delle
peculiarita’ del sistema di produzione agro-alimentare dell’Italia;
la partecipazione dell’Italia alle attivita’ delle
Organizzazioni internazionali che operano nel campo della sicurezza
degli alimenti e della salute e al benessere degli animali deve
essere rafforzata;
la collaborazione dell’Italia con i Paesi dai quali il sistema
agro-industriale italiano si approvvigiona, deve essere rafforzata,
dando alla cooperazione internazionale un ruolo piu’ importante ed
organico.
6. La salute e il sociale
Nessun sistema sanitario, per quanto tecnicamente avanzato, puo’
soddisfare a pieno la propria missione se non e’ rispettoso dei
principi fondamentali di solidarieta’ sociale e di integrazione
socio-sanitaria.
6.1. Le fasce di poverta’ e di emarginazione
Numerosi studi hanno documentato che la mortalita’ in Italia,
come in altri Stati, cresce con il crescere dello svantaggio sociale.
Alcuni studi mostrano che le diseguaglianze nella mortalita’ non si
riducono nel tempo, anzi sembrano ampliarsi, almeno tra gli uomini
adulti.
Effetti diretti della poverta’ e dell’emarginazione sono
misurabili sulla mortalita’ delle persone e delle famiglie assistite
dai servizi sociali per problemi di esclusione (malattie mentali,
dipendenze, poverta’, disoccupazione), che in alcune zone presentano
uno svantaggio nella aspettativa di vita di 13 anni per gli uomini e
7 per le donne, rispetto al resto della popolazione.
Le cause di morte e di malattia piu’ frequentemente associate
alle differenze sociali sono quelle correlate alle dipendenze e al
disagio sociale (droga, alcool e fumo), quelle legate a storie di
vita particolarmente svantaggiate (malattie respiratorie e tumori
allo stomaco), quelle che hanno a che fare con la prevenzione nei
luoghi di lavoro o sulla strada (incidenti), quelle correlate con la
scarsa qualita’ dell’assistenza sanitaria (morti evitabili) e, in
minore misura, quelle ischemiche del cuore.
Un’associazione con la condizione socio-economica, misurata in
base al livello d’istruzione della madre, e’ stata osservata anche
per il peso alla nascita; la probabilita’ di mettere al mondo un
bambino sotto peso risulta 1,5 volte maggiore per le madri con un
basso livello di istruzione (scuola elementare), rispetto alle madri
con un livello di studi universitari.
Per quanto riguarda il ruolo del sistema sanitario sono
documentati svantaggi sociali sia nell’accesso alla prevenzione
primaria e alla diagnosi precoce, sia nell’accesso a cure tempestive
ed appropriate. Per quanto riguarda la prevenzione primaria si
possono citare le diseguaglianze fra il Nord e il Sud d’Italia nella
prevenzione della carie dentaria e nella pratica delle vaccinazioni
obbligatorie nei bambini tra i 12 e i 24 mesi.
Nel campo della prevenzione secondaria occorre ricordare il
minore ricorso allo screening dei tumori femminili delle donne meno
istruite.
Rispetto all’accesso alle cure, merita ricordare le
diseguaglianze nella sopravvivenza per tumori a favore delle sedi che
dispongono di strutture sanitarie in grado di erogare trattamenti
piu’ efficaci.
Altri indizi di discriminazione sono ricavabili dall’esame
dell’accesso al by-pass coronarico o alle cure per l’AIDS, o del
ricorso ad una ospedalizzazione inappropriata, che risultano a
vantaggio delle persone di piu’ alto stato sociale.
In generale, i gruppi di popolazione che meritano piu’
attenzione, per gli svantaggi sociali che li caratterizzano sono: i
bambini e i ragazzi poveri (0-18 anni), gli anziani poveri (piu’ di
65 anni), le madri sole con figli a carico, i disoccupati di lunga
durata (piu’ di un anno), i disoccupati giovani (15-24 anni), gli
stranieri immigrati da Paesi poveri a forte pressione migratoria, i
tossicodipendenti, gli alcoolisti e i senza fissa dimora, cioe’ da un
lato i gruppi che sono piu’ esposti alla marginalita’ sociale (si
tratta di bambini, adulti e anziani in difficolta’ e in poverta),
dall’altro gli emarginati estremi (i senza fissa dimora), e nel mezzo
le categorie come quelle delle persone affette da una dipendenza (gli
alcoolisti o i tossicodipendenti) e quelle degli stranieri immigrati
che cercano di inserirsi nella societa’ italiana con un nuovo
progetto di vita.
Secondo gli obiettivi adottati dall’OMS nel 1999, il divario
nella salute tra diversi gruppi socio-economici dovrebbe essere
ridotto, entro l’anno 2020, di almeno un quarto. In particolare il
divario in termini di aspettativa di vita tra i vari gruppi
socio-economici dovrebbe essere ridotto di almeno il 25%, e i valori
dei principali indicatori di morbilita’, disabilita’ e mortalita’ nei
diversi gruppi socio-economici dovrebbero essere distribuiti piu’
uniformemente. Inoltre, dovrebbero essere migliorate le condizioni
socio-economiche che possono produrre effetti dannosi per la salute,
quali il basso reddito, bassi livelli di istruzione e limitato
accesso al mondo del lavoro, cosi’ da ridurre la percentuale di
persone che vivono in poverta’. Infine, i soggetti che hanno bisogni
speciali, in ragione delle proprie condizioni di salute, dovrebbero
essere protetti dall’esclusione e fruire di un agevole accesso a cure
appropriate.
Le azioni prioritarie per conseguire questi obiettivi riguardano
in primo luogo gli interventi sulle cause che generano le
disuguaglianze nella salute soprattutto per quanto riguarda i bambini
in poverta’ e le madri sole con figli a carico, i disoccupati, gli
stranieri immigrati ed altri gruppi.
E’ ben noto che la lotta alla poverta’ e’ uno degli strumenti
piu’ efficaci per migliorare lo stato di salute. Si tratta, quindi,
di misure di carattere sociale tipiche dello Stato assistenziale per
contrastare la poverta’ le quali non rientrano direttamente nella
competenza del Servizio Sanitario Nazionale. E’, quindi, molto
importante l’efficace collegamento delle politiche finalizzate alla
riduzione delle disuguaglianze nello stato di salute derivanti dalla
poverta’ con le politiche di sviluppo economico e sociale.
Nell’ambito piu’ specificamente sanitario si tratta, in
particolare, di assicurare l’accesso ai servizi sanitari superando,
attraverso idonee modifiche organizzative ed appositi programmi di
attivita’, le barriere di conoscenza ed, in alcuni casi, linguistiche
che si frappongono alla fruibilita’ dei servizi sanitari. Specifici
programmi di formazione e obiettivi di qualita’ per il personale
addetto sono auspicabili.
Un’altra serie di interventi di carattere piu’ strettamente
sanitario riguarda quelli finalizzati al contenimento dei danni delle
disuguaglianze (specie per gli anziani poveri e i soggetti dipendenti
da sostanze o alcool), nonche’ ad interrompere i processi di
esclusione che nascono da problemi di salute, quali
l’istituzionalizzazione degli anziani poveri e la segregazione dei
malati poveri.
Si richiamano qui, in quanto rilevanti, integralmente le analisi
e le proposte sviluppate nel presente Piano in materia di: (i) malati
cronici, anziani e disabili (Parte I, Sezione 2.2); (ii) stili di
vita salutari, prevenzione e comunicazione pubblica sulla salute
(Parte I, Sezione 2.9); (iii) salute mentale (Parte II, Sezione 6.3);
(iv) tossicodipendenze (Parte II, Sezione 6.4); e (v) salute degli
immigrati (Parte II, Sezione 6.6). Prezioso in tale ambito e
specialmente per l’assistenza dei senza fissa dimora, e’ la
collaborazione tra le strutture del Servizio Sanitario Nazionale e le
Organizzazioni del volontariato che dispongono di una maggiore
flessibilita’ e capacita’ di integrazione con questo gruppo di
emarginati. La messa a punto di incentivi a carattere settoriale ed
intersettoriale per facilitare azioni congiunte e’ fortemente
auspicabile.
Infine, e’ molto importante continuare l’approfondimento dei
determinanti sociali, economici ed ambientali piu’ direttamente
collegati con i problemi della salute, associati alla poverta’, e la
sistematica valutazione delle diverse iniziative ed opportunita’ per
alleviare o rimuovere le difficolta’ esistenti.
6.2. La salute del neonato, del bambino e dell’adolescente
Premesso che il Progetto Obiettivo Materno-Infantile del PSN
1998-2000 ancora non ha avuto piena applicazione, pur conservando in
linea di massima la sua validita’, vengono focalizzati in questo
capitolo solo alcuni aspetti che riguardano la salute del bambino.
Dal 1975 ad oggi il tasso di mortalita’ infantile (morti entro il
primo anno di vita per 1.000 nati vivi) in Italia e’ sceso di piu’
del 76%, dal 20,5 del 1975 al 4,9/1.000 del 1999. Si tratta di uno
dei piu’ significativi miglioramenti registrati nell’Europa
occidentale durante questo periodo. Tuttavia vi sono ancora notevoli
differenze tra le Regioni italiane: in alcune Regioni meridionali
(Puglia, Sicilia, Basilicata) il tasso di mortalita’ infantile nel
1999 era di 7,33/1.000 nati vivi, rispetto al 3,0 delle Regioni con
il tasso di mortalita’ piu’ basso (Friuli-Venezia Giulia, Liguria,
Lombardia). La mortalita’ neonatale (entro le prime quattro settimane
di vita, ed in particolare entro la prima) piu’ elevata nelle Regioni
del Centro-Sud, e’ responsabile della maggior parte di tale
mortalita’.
Obiettivo fondamentale e’ quindi innanzitutto ridurre le
disparita’ regionali nei tassi di mortalita’ neonatale, avvicinando
la media nazionale a quella della regione con indice di mortalita’
piu’ basso. Per quanto riguarda la mortalita’ nel primo anno di vita,
le malformazioni congenite rappresentano, insieme alla prematurita’,
l’83% di tutte le cause. Confronti sulla base dei registri della
popolazione in alcune aree d’Italia che partecipano alla rete EUROCAT
(«European Registration of Congenital Anomalies»), indicano che il
tasso di malformazioni congenite in Italia e’ simile a quello di
altre aree d’Europa.
Nella valutazione dello stato di salute della popolazione
infantile un importante indicatore e’ il peso alla nascita dei
neonati a termine. Esso e’ influenzato dallo stato sociale e da altri
fattori come il fumo. In Italia il tasso di basso peso alla nascita
nel 1995 era del 4,7% (4,1% maschi e 5,3% femmine, dati ISTAT).
L’incidenza di basso peso alla nascita non e’ cambiata in maniera
significativa nel corso degli ultimi 15 anni.
Per raggiungere l’obiettivo adottato dall’OMS per l’anno 2020, la
prevalenza dei bambini sottopeso alla nascita dovrebbe diminuire al
valore globale di 3,8% (3,3% per i maschi e 4,2% per le femmine).
La tutela della salute del prodotto del concepimento deve
iniziare gia’ in epoca preconcezionale e deve realizzarsi gia’ con il
coinvolgimento dei medici di famiglia, dei pediatri di libera scelta,
della scuola, dei centri di aggregazione sociale e dei mezzi di
comunicazione di massa.
La promozione della salute consiste nel dare corrette
informazioni sul possibile rischio genetico, sulla contraccezione,
sulla necessita’ di abolire il fumo, l’alcool e le droghe, sulle
problematiche della nutrizione, sulla necessita’ di profilassi con
acido folico e di un supporto sociale ed emozionale tempestivo. Vanno
inoltre date precise informazioni sull’esistenza nel territorio di
reparti e centri ostetrici-neonatologici specificamente indirizzati
all’assistenza delle gravidanze normali e ad alto rischio.
Infatti, un fattore molto importante per prevenire le patologie
del prodotto del concepimento e’ certamente la promozione
dell’assistenza preconcezionale al fine di ridurre i fattori di
rischio ed in particolare la prematurita’. L’educazione a
comportamenti corretti in gravidanza, soprattutto per quanto riguarda
il fumo, e’ a tal riguardo di fondamentale importanza. Esistono,
inoltre, molte disuguaglianze sul piano organizzativo e gestionale
nelle strutture dove avviene la nascita e questo pesa negativamente
sulla mortalita’ perinatale e sugli esiti a distanza (handicap).
Occorre anche ridurre le morti improvvise in culla, prima causa
di mortalita’ infantile dopo la prima settimana di vita, attraverso
campagne informative atte a ridurre i fattori di rischio.
Per quanto riguarda il gruppo di eta’ tra 1 e 14 anni, il tasso
di mortalita’ ha mostrato un importante declino negli ultimi 25 anni,
da 49,9/100.000 all’attuale 19,7. Le maggiori cause di morte in
questo gruppo di eta’ sono gli incidenti (5/100.000) e il cancro
(5/100.000). Le differenze geografiche riscontrate in Italia nel 1997
indicano una mortalita’ piu’ elevata (+14% circa) al Sud che al Nord.
L’obiettivo della riduzione della mortalita’ per incidenti, sia
domestici che stradali, deve prevedere misure legislative, di
controllo, ed una forte campagna di prevenzione con misure di
educazione stradale e di sicurezza in casa e nelle scuole.
Le condizioni morbose croniche prevalenti nei bambini e negli
adolescenti sia in Italia che nel resto dell’Europa, con un andamento
in continua crescita, sono l’asma e l’obesita’. E’ significativo che
le due condizioni morbose piu’ frequenti siano legate a problematiche
ambientali e a comportamenti alimentari errati, rispettivamente: la
prevenzione, in termini di salvaguardia ambientale (con lotta
all’inquinamento e al fumo passivo) e di educazione alimentare nella
popolazione, deve essere l’obiettivo fondamentale della politica
sanitaria per l’immediato futuro.
In Italia si riscontra una bassa percentuale di gravidanze in
eta’ adolescenziale (2,25%), paragonabile ai tassi osservati in altri
Paesi europei quali Germania, Danimarca, Finlandia, Svezia e Francia.
I dati riguardanti le Regioni italiane relativi al 1995 mostrano
marcate differenze geografiche: nelle Regioni meridionali si registra
una percentuale piu’ elevata di gravidanze in eta’ adolescenziale in
confronto alle Regioni del Nord anche se questo avviene nel contesto
di unioni legali.
Obiettivo di questo settore dovra’ essere la prevenzione primaria
delle gravidanze non desiderate in eta’ adolescenziale con una
appropriata educazione sessuale, che deve vedere coinvolti tutti gli
educatori e il personale sociosanitario, accanto alle famiglie,
nell’ambito di un progetto di educazione volto alla procreazione
responsabile e alla prevenzione delle malattie trasmissibili per via
sessuale.
La rete ospedaliera pediatrica, malgrado i tentativi di
razionalizzazione, appare ancora decisamente ipertrofica rispetto ad
altri Paesi europei, con un numero di strutture pari a 504 nell’anno
1999, mentre la presenza del pediatra dove nasce e si ricovera un
bambino e’ garantita nel 50% degli Ospedali, l’attivita’ di pronto
soccorso pediatrico e’ presente solo nel 30% degli Ospedali. La
guardia medico-ostetrica 24 ore su 24 nelle strutture dove avviene il
parto e’ garantita solo nel 45% dei reparti. Inoltre, malgrado la
forte diminuzione della natalita’, il numero dei punti nascita e’
ancora molto elevato, 605 in strutture pubbliche o private
accreditate: tra queste poco meno della meta’ ha meno di 500 parti
all’anno, soprattutto nelle Regioni del Sud del Paese.
L’attuale organizzazione ospedaliera, insieme alla mancanza di
una continuita’ assistenziale sul territorio, ha determinato, nel
1999 un tasso di ospedalizzazione del 119 %, un valore
significativamente piu’ elevato rispetto a quello dei Paesi europei,
quali ad esempio il Regno Unito (51 %) e la Spagna (60 %). E’
necessario aggiungere che i fattori sopra indicati hanno una
distribuzione geografica diversa, e sono tra i piu’ importanti
determinanti delle differenze interregionali nei tassi di mortalita’
infantile e neonatale a sfavore delle Regioni del Sud, anche sulla
base di differenti sistemi organizzativi e gestionali delle unita’
operative pediatriche.
Gli stessi fattori condizionano anche l’elevato numero di parti
per taglio cesareo nel nostro Paese, ben il 33% nel 1999, piu’
frequenti nelle strutture del Centro-Sud con un basso numero di nati,
fino a raggiungere in Campania il 51%, mentre le Regioni Trentino
Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia hanno una percentuale di parti per
taglio cesareo pari al 20%, valori di poco superiori a quelli
riportati dalla maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea. Fattori
economici relativi al sistema di rimborso delle prestazioni come
anche fattori organizzativi del sistema sanitario hanno contribuito
in questi anni ad incrementare il ricorso al parto cesareo, a scapito
di quello per via naturale.
Peraltro, va notato che la pratica del parto indolore ancora non
e’ garantita in Italia dal Servizio Sanitario Nazionale, e cio’
induce alcune gravide ad effettuare parto cesareo o a recarsi
all’estero per partorire.
Malgrado la Convenzione Internazionale di New York e la Carta
Europea dei bambini degenti in ospedale (con la risoluzione del
Parlamento Europeo del 1986), ancora piu’ del 30% dei pazienti in
eta’ evolutiva viene ricoverato in reparti per adulti e non in area
pediatrica. L’area pediatrica e’ «l’ambiente in cui il Servizio
Sanitario Nazionale si prende cura della salute dell’infanzia con
caratteristiche peculiari per il neonato, il bambino e
l’adolescente».
Gli obiettivi strategici:
attivare i programmi specifici per la protezione della maternita’
e migliorare l’assistenza ostetrica e pediatrico/neonatologica nel
periodo perinatale;
educare alla salute e all’igiene i giovani e le famiglie, col
contributo essenziale della scuola e degli enti territoriali e dei
servizi socio-assistenziali competenti con particolare riguardo alla
prevenzione dei maltrattamenti, abusi e sfruttamento minorile,
dell’obesita’, delle malattie sessualmente trasmesse, con particolare
riguardo alla prevenzione della tossicodipendenza, e degli infortuni
ed incidenti;
valorizzare la centralita’ di ruolo del pediatra di libera scelta
e del medico di base nella definizione di percorsi
diagnostico-terapeutici e la sua funzione di educazione sanitaria
individuale;
attivare in ogni Regione il Servizio di trasporto di emergenza
dei neonati e delle gestanti a rischio;
ridurre il tasso di ospedalizzazione con l’obiettivo di ridurlo
del 10% per anno;
elaborare Linee Guida e percorsi diagnostico-terapeutici
condivisi anche in ambito locale con particolare attenzione alle
patologie che comportano il maggior numero di ricoveri in eta’
pediatrica e alle patologie chirurgiche piu’ a rischio di interventi
inappropriati;
diminuire la frequenza dei parti per taglio cesareo, e ridurre le
forti differenze regionali attualmente esistenti, arrivando entro il
triennio ad un valore nazionale pari al 20%, in linea con i valori
medi degli altri Paesi europei, anche tramite una revisione dei DRG
relativi;
ottimizzare il numero dei punti nascita;
riqualificare i consultori-ambulatori che operino sul
territorio ed in ospedale gia’ in epoca preconcezionale per una
promozione attiva di tutte le iniziative atte a ridurre i rischi
durante la gravidanza;
promuovere campagne informative rivolte alle gestanti e alle
puerpere sulle norme comportamentali di prevenzione quali la
promozione dell’allattamento al seno, l’estensione delle
vaccinazioni, il corretto trasporto in auto del bambino, ricordando
l’importanza della prevenzione della morte in culla del lattante:
posizione nel sonno supina, evitare il fumo di sigaretta e
temperature ambientali elevate.
6.3. La salute mentale
I problemi relativi alla salute mentale rivestono, in tutti i
Paesi industrializzati, un’importanza crescente, perche’ la loro
prevalenza mostra un trend in aumento e perche’ ad essi si associa un
elevato carico di disabilita’ e di costi economici e sociali, che
pesa sui pazienti, sui loro familiari e sulla collettivita’.
Numerose evidenze tratte dalla letteratura scientifica
internazionale segnalano che nell’arco di un anno il 20% circa della
popolazione adulta presenta uno o piu’ dei disturbi mentali elencati
nella Classificazione Internazionale delle Malattie
dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’.
Tra i disturbi mentali piu’ frequenti vi sono i disturbi d’ansia,
il cui tasso di prevalenza supera il 15%, con un incremento degli
attacchi di panico e delle forme ossessivo-compulsive.
La depressione nelle sue varie forme cliniche colpisce tutte le
fasce d’eta’ e il tasso di prevalenza supera il 10%. Spesso
depressione e disturbi d’ansia coesistono. Significativa anche la
prevalenza dei disturbi della personalita’ e dei disturbi
dell’alimentazione (anoressia e bulimia). Il tasso di prevalenza
delle psicosi schizofreniche, che rappresentano senza dubbio uno dei
piu’ gravi disturbi mentali, e’ pari a circa lo 0,5%.
Occorre considerare, inoltre, i disturbi mentali che affliggono
la popolazione anziana, soprattutto le demenze nelle loro diverse
espressioni. Va segnalata, infine, la complessa problematica relativa
alle condizioni di comorbidita’ tra disturbi psichiatrici e disturbi
da abuso di sostanze e tra disturbi psichiatrici e patologie
organiche (con particolare riferimento alle patologie
cronico-degenerative: neoplasie, infezione da HIV, malattie
degenerative del Sistema Nervoso Centrale).
Recenti studi hanno documentato che molti disturbi mentali
dell’eta’ adulta sono preceduti da disturbi dell’eta’
evolutiva-adolescenziale. In particolare, l’8% circa dei bambini e
degli adolescenti presenta un disturbo mentale, che puo’ determinare
difficolta’ interpersonali e disadattamento; non va dimenticato che
il suicidio rappresenta la seconda causa di morte tra gli
adolescenti.
Le condizioni cliniche citate presentano un differente indice di
disabilita’: i disturbi ansioso-depressivi, pur numerosi, possono,
quando appropriatamente trattati, presentare una durata e gradi di
disabilita’ non marcati, anche se alcuni casi di sindrome
ossessivo-compulsiva o di agorafobia sono seriamente invalidanti.
D’altro canto le psicosi (schizofreniche, affettive e le
depressioni maggiori ricorrenti) impegnano i servizi sanitari e
sociali in maniera massiccia, per via della gravita’, del rischio di
suicidio, della lunga durata e delle disabilita’ marcate che le
caratterizzano.
Nel nostro Paese, il processo di adeguamento dell’assistenza
psichiatrica alle necessita’ reali dei malati ed agli orientamenti
piu’ attuali della sanita’ pubblica, avviato con la legge 23 dicembre
1978, n. 833, ha determinato l’integrazione dell’assistenza
psichiatrica nel Servizio Sanitario Nazionale, l’orientamento
comunitario dell’assistenza alle persone con disturbi mentali, il
superamento del modello custodialistico rappresentato dall’Ospedale
Psichiatrico.
Le aree critiche che si rilevano nella tutela della salute
mentale, al momento attuale, sono:
la disomogenea distribuzione dei Servizi sul territorio
nazionale, con particolare riferimento ai Servizi Psichiatrici di
Diagnosi e Cura ospedalieri, ai Centri Diurni ed alle Strutture
Residenziali per attivita’ riabilitative, insieme ad una mancanza di
coordinamento fra i servizi sociali e sanitari per l’eta’ evolutiva,
i servizi per gli adulti ed i servizi per i soggetti anziani;
la mancanza di un numero adeguato di Strutture residenziali per
le condizioni psichiatriche che prevedono una piu’ elevata intensita’
e durata dell’intervento riabilitativo;
la carenza di sistemi informativi nazionali e regionali per il
monitoraggio quali-quantitativo delle prestazioni erogate e dei
bisogni di salute della popolazione;
la scarsa diffusione delle conoscenze scientifiche in materia
di interventi basati su prove di efficacia e la relativa adozione di
Linee Guida da parte dei servizi, nonche’ di parametri per
l’accreditamento delle strutture assistenziali pubbliche e private;
la presenza di pregiudizi ed atteggiamenti di esclusione
sociale nella popolazione;
la scarsa attenzione alla prevenzione primaria e secondaria, ai
problemi della salute mentale in eta’ evolutiva e nell’eta’ «di
confine», che si concretizza in un’offerta di servizi insufficiente
ed alla quale e’ utile rispondere anche con il contributo, almeno in
fase sperimentale, di strutture accreditate del privato sociale ed
imprenditoriale;
la carente gestione delle condizioni di comorbidita’ tra
disturbi psichiatrici e disturbi da abuso di sostanze, e tra disturbi
psichiatrici e patologie organiche;
la scarsa attenzione alla presenza di disturbi mentali nelle
carceri. Tale evidenza segnala l’importanza della sperimentazione in
corso in alcune Regioni sulla base di quanto previsto dal Decreto
Legislativo 22 giugno 1999, n. 230, e dal relativo progetto
obiettivo, anche ai fini della valutazione della rispondenza del
modello organizzativo ivi delineato.
Gli obiettivi strategici da realizzare sono rappresentati da:
la riduzione dei comportamenti suicidari, con particolare
attenzione all’eta’ adolescenziale e a quella anziana;
la riduzione delle interruzioni non concordate di trattamento,
mediante attuazione di programmi terapeutico-riabilitativi
multidisciplinari integrati in risposta ai bisogni di salute mentale
dei pazienti e delle famiglie;
la riduzione dei tempi d’attesa per l’accesso ai trattamenti,
ivi compresi quelli psicoterapici;
il miglioramento delle conoscenze epidemiologiche sui bisogni
di salute mentale nella popolazione e sull’efficacia degli
interventi;
la promozione della salute mentale nell’intero ciclo della
vita, garantendo l’integrazione tra servizi sanitari e sociali –
pubblici e del privato sociale ed imprenditoriale – con particolare
riferimento agli interventi a favore dei soggetti maggiormente a
rischio;
la cooperazione dei servizi di salute mentale con soggetti non
istituzionali (Associazioni dei familiari, dei pazienti,
volontariato, Associazioni di Advocacy), il privato sociale ed
imprenditoriale;
la promozione dell’informazione e della conoscenza sulle
malattie mentali nella popolazione, al fine di:
1) realizzare interventi di prevenzione primaria e secondaria
(informazione sui disturbi mentali, sui servizi, collegamenti tra le
strutture sanitarie, i servizi sociali, le scuole, le associazioni di
volontariato);
2) incrementare la lotta allo stigma verso la malattia
mentale e la promozione di una maggiore solidarieta’ nei confronti
delle persone affette da disturbi mentali gravi;
3) diffondere e sviluppare la cultura del volontariato,
dell’associazionismo, dell’auto-aiuto, per uno sforzo congiunto nella
cura delle malattie mentali.
Inoltre e’ necessario pianificare azioni volte a:
ridurre le disomogeneita’ nella distribuzione dei servizi
all’interno del territorio nazionale superando le discrepanze
esistenti tra il nord e il sud del Paese ed all’interno delle singole
realta’ regionali;
concludere il processo di superamento dei manicomi pubblici e
privati superando, finalmente, qualunque approccio custodialistico;
pianificare interventi di prevenzione, diagnosi precoce e
terapia dei disturbi mentali in eta’ infantile ed adolescenziale
attivando stretti collegamenti funzionali tra strutture a carattere
sanitario (neuropsichiatria infantile, dipartimento
materno-infantile, pediatria di base), ed altri servizi sociali ed
Istituzioni a carattere educativo, scolastico e giudiziario;
assicurare la presa in carico e la continuita’ terapeutica dei
problemi di salute mentale del paziente, qualunque sia il punto di
accesso;
promuovere la formazione e l’aggiornamento continuo di tutto il
personale operante nel campo della salute mentale;
attuare interventi di sostegno ai gruppi di auto-aiuto di
familiari e di pazienti;
attivare interventi per la prevenzione e cura del disagio
psichico nelle carceri, secondo quanto previsto dal Decreto
Legislativo 22 giugno 1999, n. 230;
aumentare l’accessibilita’ dei servizi, superando procedure
farraginose e burocratiche, per garantire tempestivita’ nelle
risposte;
migliorare l’assetto del DSM ai fini di una maggiore
flessibilita’ nell’attuazione dei percorsi di cura, soprattutto per i
pazienti affetti da disturbi mentali gravi;
rinforzare la rete di interventi domiciliari, anche in
situazioni di urgenza, e sviluppare una forte continuita’
terapeutico-assistenziale;
incrementare la dotazione di strutture semiresidenziali e
residenziali, a differente gradiente di intensita’ riabilitativa e
assistenziale, finalizzate agli interventi sulle disabilita’ ed
all’integrazione familiare e sociale;
sviluppare strategie di intervento precoce, al fine di ridurre
il tempo che intercorre tra l’esordio della patologia e la presa in
carico, migliorando cosi’ sensibilmente le prospettive di guarigione;
definire in modo piu’ appropriato le procedure per gli
accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori, specificando le
responsabilita’ e le titolarita’ dell’intervento, senza abbassare i
livelli di garanzia per il paziente ma rinforzandoli in relazione al
diritto all’accesso ad una cura tempestiva ed efficace;
mettere in atto programmi adeguati per il sostegno alle
famiglie ai fini di non disperdere risorse e relazioni che sono
fondamentali nei processi di cura;
coniugare gli aspetti organizzativi con la possibilita’ che il
paziente sia partecipe ad ogni livello del programma d’intervento,
anche attraverso la scelta consapevole del luogo di cura e del
curante per migliorare la adesione al trattamento;
mettere in campo nuovi strumenti per l’integrazione sociale e
lavorativa del paziente, nel contesto del tessuto sociale e non in
surrogati di esso, superando barriere e stigmatizzazioni che ancora
oggi riducono le opportunita’ per pazienti e familiari;
migliorare il funzionamento in rete dei servizi, pubblici e
privati, puntando all’integrazione e all’incremento della qualita’
dell’assistenza erogata;
favorire il coinvolgimento dei pazienti e delle associazioni
dei familiari nella individuazione delle priorita’ e nella verifica
di efficienza dei servizi;
sviluppare adeguate iniziative di formazione ed aggiornamento,
per migliorare costantemente la competenza e la motivazione degli
operatori.
6.4. Le tossicodipendenze
In un tessuto sociale, educativo e culturale fortemente segnato
dalla crisi della famiglia e dai modelli di deresponsabilizzazione
individuale e talora istituzionale, nonche’ di solitudine subita e
talora ricercata, la diffusione dei vari tipi di droghe interessa un
numero considerevole di giovani e di giovanissimi troppo spesso
inconsapevoli dei pericoli cui vanno incontro, ma anche privi di
stimoli ed orientamenti positivi per la propria vita.
Adeguate strategie pubbliche contro la droga richiedono che le
Amministrazioni dello Stato promuovano una cultura istituzionale
idonea a contrastare l’idea della sostanziale innocuita’ delle droghe
e l’atmosfera di «normalita» in cui il loro uso, non di rado, si
diffonde determinando un pericoloso abbassamento dell’allarme
sociale, fattori questi che contribuiscono a determinare un oggettivo
vantaggio per il mercato criminale nell’offerta di droghe.
Asse portante della nuova linea di politica sociale in materia di
droghe dovra’ essere, pertanto, la considerazione che la
tossicodipendenza e l’uso delle sostanze illecite non possono essere
fronteggiati con scelte tecnico-politiche fondate sul puro controllo
farmacologico del problema. Si correrebbe in tal caso, e purtroppo si
e’ corso, il rischio di contribuire al rafforzamento di una
condizione invalidante e di dipendenza cronica, rinunciando a
perseguire l’obiettivo del pieno recupero personale e sociale della
persona.
Nel corso del mese di novembre 2001, di fronte al Comitato
Interministeriale di Coordinamento per l’azione anti-droga,
costituito ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica n.
309 del 1990, si e’ insediato il Commissario straordinario di
Governo, in qualita’ di responsabile del Dipartimento Nazionale per
le Politiche Antidroga, che avra’ il compito di coordinare le
politiche e le competenze oggi distribuite in diversi Ministeri,
cosi’ da progettare un Piano Nazionale piu’ incisivo ed efficace.
Le azioni e gli interventi indicati di seguito sono quelli
contenuti nel Piano predisposto e approvato dal Governo il
14 febbraio 2002, che avranno attuazione con il coinvolgimento di
tutte le componenti istituzionali direttamente interessate.
Alla luce dei dati piu’ recenti e’ possibile affermare che il
fenomeno della tossicodipendenza riguarda oggi, in misura largamente
prevalente, l’uso contemporaneo di piu’ sostanze, dalle cosiddette
droghe leggere, alle amfetamine, all’eroina e alla cocaina.
E’ anche accertato come l’eta’ del primo approccio con le
sostanze sia in continua e progressiva diminuzione: recenti ricerche
hanno posto in evidenza come essa sia collocabile, per la stragrande
maggioranza dei consumatori di droghe, fra gli 11 e i 17 anni, con la
media della «prima esperienza» stabilizzata ormai al di sotto dei 13
anni.
Dai dati ufficiali risulta inoltre che:
il consumo di eroina, nonostante in alcune zone del Paese il
trend dei nuovi consumatori di tale sostanza sia in contrazione, e’
in aumento, specialmente attraverso nuove modalita’ di assunzione
(fumo, inalazione);
continua il progressivo aumento, peraltro gia’ rilevato, del
consumo di cocaina, che da droga di «elite» si e’ trasformata
rapidamente in una droga di massa. L’assunzione della sostanza
riguarda, infatti, fasce sempre piu’ diversificate e giovani di
utilizzatori;
si evidenzia un costante aumento dei consumi di «ecstasy» e di
amfetamine, come indirettamente confermato dall’aumento esponenziale
dei sequestri di questo tipo di droghe;
il consumo di cannabinoidi coinvolge ormai, secondo le
statistiche piu’ attendibili, oltre un terzo degli adolescenti ed e’
un comportamento considerato «normale» da una parte consistente
dell’opinione pubblica, dei mezzi di informazione e perfino da alcuni
soggetti istituzionali.
Panorama internazionale.
L’andamento del fenomeno negli altri Paesi dell’Unione Europea
non si discosta significativamente dalla situazione italiana con
punte di forte diffusione del consumo di sostanze sintetiche in Gran
Bretagna e nei Paesi Bassi, di cannabis in Francia e Spagna e di
eroina in Germania.
Al fine di contrastare tale situazione, e facendo seguito agli
impegni sottoscritti in occasione dell’Assemblea generale dell’ONU
(giugno 1998), il Consiglio Europeo ha adottato ufficialmente (giugno
2000) un Piano d’Azione sulle droghe per gli anni 2000-2004,
indicando con precisione i seguenti sei obiettivi strategici ed
impegnando i Paesi aderenti al loro integrale recepimento:
ridurre in misura rilevante, nell’arco di cinque anni, il
consumo di droghe illecite e il numero di nuovi consumatori,
soprattutto tra i giovani di eta’ inferiore ai diciotto anni;
abbassare in misura sostanziale l’incidenza dei danni causati
alla salute dall’uso di sostanze stupefacenti nonche’,
conseguentemente, anche il numero di decessi correlati all’uso di
droghe;
aumentare in misura rilevante il numero dei tossicodipendenti
sottoposti con successo a trattamento;
diminuire considerevolmente la reperibilita’ di droghe
illecite;
ridurre in misura significativa il numero di reati correlati
alla droga;
contrastare in maniera sempre piu’ efficace il riciclaggio di
denaro sporco ed il traffico illecito delle sostanze chimiche
impiegate nella produzione di droghe.
Il contesto nazionale.
Nel nostro Paese risultano attivi 555 SerT (Servizi per le
Tossicodipendenze), che hanno in carico 150.400 soggetti
tossicodipendenti; tale dato presenta un aumento di circa il 2,2%
rispetto all’anno precedente. La maggioranza degli utenti dei SerT
(81,4 %) e’ dipendente principalmente da eroina, mentre i soggetti
che fanno uso solamente di cannabis, ecstasy e cocaina costituiscono
una percentuale del tutto irrilevante.
Nelle strutture socio-riabilitative residenziali e
semi-residenziali, gestite nella maggioranza dei casi da soggetti del
privato sociale, risultano invece assistiti 19.465 soggetti; tale
valore manifesta una diminuzione di circa l’1% rispetto all’anno
precedente.
Per quanto riguarda gli utenti dei SerT i dati mostrano una
costante crescita dei trattamenti farmacologici con metadone,
trattamenti che superano ormai la meta’ dei casi seguiti (51,2%
rispetto al 49,5% del 1999 e al 43% del 1995). All’interno dei
trattamenti metadonici aumentano inoltre i casi di «terapia di lunga
durata» (30,9% nel 2001 rispetto al 27 del 1999) a scapito di quelli
a breve termine (8,5% nel 2001 rispetto al 10,2% del 1999).
I dati sopra riferiti evidenziano, in sostanza, come l’approccio
farmacologico alla tossicodipendenza rappresenti la principale
attivita’ svolta dai SerT.
Le nuove politiche del Governo in materia di tossicodipendenza.
Il Governo italiano intende dare piena attuazione al piano di
azione comunitario e degli indirizzi ONU in materia di riduzione
della domanda e dell’offerta di droga, potenziando, in coerenza con
quanto affermato nel DPEF 2002-2006, le iniziative orientate alla
prevenzione della tossicodipendenza, al recupero del valore della
persona nella sua interezza e al suo reinserimento a pieno titolo
nella societa’ e nel mondo del lavoro.
Prevenzione del disagio giovanile e delle dipendenze.
Gli interventi di prevenzione debbono rappresentare il punto
centrale delle politiche sociali.
Occorre, in particolare, ampliare e diversificare le tipologie di
intervento e rivolgerle in modo efficace ad una piu’ vasta platea di
soggetti destinatari, considerato che il disagio giovanile non
riguarda ormai piu’ «categorie a rischio», ma puo’ prodursi in
maniera del tutto asintomatica e poi esplodere in forme di devianza
imprevedibile, tra le quali, appunto, l’uso di sostanze stupefacenti
e/o psicotrope.
In tale ottica risulta, quindi, indispensabile definire un
sistema coordinato ed integrato di interventi, che coinvolgano la
societa’ civile nel suo insieme e, in particolare, le principali
agenzie educative: famiglia e scuola.
Gli interventi debbono pertanto essere orientati, pur nelle
differenti specificita’ e contesti di riferimento, sia al sostegno
della progettualita’ e dell’autonomia dei giovani (in alternativa al
modello massificante della droga) e alla realizzazione di un patto di
intenti tra famiglia e scuola, nell’interesse del futuro dei giovani,
libero dall’uso di qualunque sostanza.
I progetti dovranno essere orientati a:
promuovere lo sviluppo integrale della persona;
offrire occasioni di miglioramento dei processi di
partecipazione attiva e di riconoscimento della propria identita’;
contribuire a creare consapevolezza e capacita’ decisionali ed
imprenditoriali nei giovani;
offrire concrete occasioni di inserimento nel mondo della
formazione e del lavoro;
qualificare la vita in termini complessivi, come valore
insostituibile.
Per quanto riguarda, poi, le campagne informative, si intende
fare riferimento a dati e ricerche autorevoli, scientificamente
credibili e facilmente «acquisibili» dai giovani, evitando messaggi
approssimativi e contraddittori. Una campagna di prevenzione non puo’
ovviamente basarsi sulla sola informazione. Non ci si puo’, infatti,
limitare a spiegare la formula chimica di una droga ed i suoi
effetti, ma occorre promuovere e illustrare stili di vita
responsabili e rispettosi di se’ e degli altri.
Gli obiettivi della campagna informativa nazionale di prevenzione
devono pertanto essere quelli di ridurre il consumo di droghe,
promuovere stili di vita responsabili, valorizzare tra i giovani,
coloro che non praticano comportamenti a rischio e fornire
intelligente e valido sostegno a tutte le agenzie educative.
Strutture socio-riabilitative.
Le Istituzioni intendono assicurare la disponibilita’ dei
principali trattamenti relativi alla cura e alla riabilitazione
dall’uso di sostanze stupefacenti e garantire la liberta’ di scelta
del cittadino/tossicodipendente e della sua famiglia di intraprendere
i programmi riabilitativi presso qualunque struttura autorizzata su
tutto il territorio nazionale, sia essa pubblica che del privato
sociale.
I tossicodipendenti in carcere.
Un problema prioritario e’ rappresentato dalle migliaia di
detenuti tossicodipendenti ai quali occorre garantire il diritto di
accedere, se ne fanno richiesta e secondo le normative vigenti, a
percorsi riabilitativi alternativi alla detenzione. Si dovranno,
pertanto, snellire le procedure amministrative e potenziare le
presenze di educatori e volontari all’interno delle strutture
penitenziarie, per motivare il maggior numero di tossicomani detenuti
a scegliere la strada del cambiamento e della riabilitazione. Si
rende, infine, necessaria la realizzazione di specifiche strutture «a
custodia attenuata», inserite nel quadro del Dipartimento di
Amministrazione Penitenziaria, gestite in collaborazione con le
realta’ del privato sociale e propedeutiche al successivo inserimento
delle persone in programmi riabilitativi «drug-free», sia presso il
carcere che in comunita’ vigilate.
Reinserimento lavorativo.
Un Piano di azione efficace e completo contro le dipendenze deve
necessariamente prevedere la fase fondamentale del reinserimento
lavorativo di coloro che hanno concluso con successo un programma di
riabilitazione dalla tossicodipendenza. A tal fine il Governo intende
incentivare i programmi riabilitativi che prevedano e/o includano,
fra le finalita’, azioni di formazione professionale orientate a
facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro degli
ex-tossicodipendenti.
Sono stati, in proposito, prioritariamente individuati i seguenti
interventi:
applicazione dell’Atto di Intesa Stato-Regioni, laddove esso
prevede «programmi di formazione ed avviamento al lavoro dei
tossicodipendenti tramite l’inserimento in attivita’ interne alle
comunita’ o in realta’ esterne nell’ambito di accordi predefiniti»;
inclusione degli ex-tossicodipendenti tra le «categorie
svantaggiate» previste dal comma 1, dell’art. 4 della legge
8 novembre 1991, n. 381, in materia di Cooperative Sociali;
incentivazione all’avviamento di attivita’ imprenditoriali da
parte di ex-tossicodipendenti;
ampliamento e miglioramento della normativa che prevede congrui
periodi di aspettativa per i lavoratori che si sottopongono ad un
programma riabilitativo in una struttura riconosciuta, eliminando la
disparita’ di trattamento tra i diversi contratti pubblici e privati.
In sintesi quindi l’azione in questo campo deve tenere conto di
due direttrici strategiche:
la prima direttrice si snoda sulla valorizzazione delle buone
esperienze gia’ in atto nel sistema pubblico e nel privato sociale
accreditato in materia di prevenzione, trattamento, cura e recupero
del tossicodipendente;
la seconda direttrice prevede, da parte del Ministero della
Salute:
1) l’assunzione – nell’ambito delle linee strategiche
definite dal «Programma triennale del Governo per la lotta alla
produzione, al traffico, allo spaccio ed al consumo di sostanze
stupefacenti e psicotrope 2002-2004», e degli indirizzi definiti dal
Dipartimento nazionale per le politiche anti-droga istituito presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri – di un ruolo di
coordinamento del settore rispetto agli altri Ministeri coinvolti
(Lavoro e Politiche Sociali, Istruzione, Beni Culturali,
Comunicazioni, Giustizia, Interno);
2) la creazione del necessario raccordo programmatico con le
Regioni, in quanto titolari di competenza in materia di
tossicodipendenze; cio’ dovra’ aver luogo nel rispetto e
valorizzazione dei legami specifici con il territorio che ciascuna
Regione ha gia’ in atto con il servizio pubblico e privato
accreditato;
3) l’attivazione di momenti di verifica, valutazione e
coordinamento delle informazioni inerenti i dati, gli indicatori
sanitari e sociali, i risultati, le azioni svolte, sia dal sistema di
risposta pubblico sia da parte di tutto il privato sociale.
In conclusione si possono identificare i seguenti obiettivi
prioritari:
promuovere la partecipazione delle associazioni delle famiglie
sin dal momento programmatorio, prevedendone il coinvolgimento nella
logica dell’integrazione interistituzionale;
inserire nel programma di abbattimento dell’uso e dell’abuso,
oltreche’ le sostanze illegali, anche la tematica della prevenzione
dell’alcoolismo (soprattutto giovanile) e del tabagismo e estendere
l’azione anche a settori innovativi di intervento come le dipendenze
comportamentali (es.: gioco d’azzardo);
attivare programmi di prevenzione e informazione nella scuola;
promuovere e attivare sperimentazioni e ricerche su effetti,
danni e patologie derivati da uso e abuso di sostanze stupefacenti;
produrre Linee Guida e protocolli terapeutici per gli
interventi in campo sociale e sanitario;
attivare sinergie con le Forze dell’Ordine sia sulla
repressione del fenomeno sia, soprattutto, sul loro ruolo
fondamentale di prevenzione attraverso le informazioni, le analisi e
i collegamenti internazionali;
concordare con le Regioni le modalita’ per il recupero globale
della persona evitando quando possibile il ricorso esclusivo alla
terapia farmacologica di lunga durata;
attivare il monitoraggio delle informazioni e della
comunicazione dei mass media e delle campagne della stampa
quotidiana.
6.5. La sanita’ penitenziaria
Nell’anno 2000 le persone detenute erano 53.340 (51.074 uomini e
2.266 donne), nonostante le infrastrutture avessero una
disponibilita’ di 35.000 posti distribuiti nei 200 istituti
esistenti. Dei suddetti detenuti 13.668 (25,63%) erano
extracomunitari, 14.602 (27,38%) tossicodipendenti, di cui 1.548
(2,9% dei detenuti) sieropositivi per HIV (9,8% dei sieropositivi in
AIDS conclamata), oltre 4.000 (7,5%) sofferenti di turbe psichiche e
695 (1,3%) alcooldipendenti.
Nel 1999 la sanita’ penitenziaria ha subito profonde
modificazioni a seguito dell’emanazione del Decreto Legislativo
22 giugno 1999, n. 230, che stabilisce il trasferimento al Servizio
Sanitario Nazionale delle competenze in tema di assistenza sanitaria
ai detenuti e agli internati.
Le funzioni sanitarie svolte dall’amministrazione penitenziaria
con riferimento ai soli settori della prevenzione e dall’assistenza
ai detenuti e agli internati tossicodipendenti sono gia’ state
trasferite al Servizio Sanitario Nazionale.
Tra le problematiche sanitarie di piu’ vasto impatto in ambito
penitenziario, individuate anche dal Progetto Obiettivo, vi sono le
malattie infettive (specialmente epatiti virali, HIV, tubercolosi,
scabbia e dermatofitosi), le tossicodipendenze e la salute mentale.
E’ indispensabile prevedere misure di prevenzione, sistemi di
sorveglianza e modalita’ di trattamento. Per contrastare tali
patologie e’ di primaria importanza migliorare la formazione degli
operatori sanitari e degli agenti di polizia penitenziaria e
l’informazione dei detenuti.
La crescente presenza nelle carceri di cittadini provenienti da
altri Paesi rende opportuno prevedere la presenza di mediatori
culturali, persone qualificate non soltanto sul piano linguistico, ma
anche culturale, che consentano di superare le difficolta’ nei
rapporti con i detenuti.
Obiettivi prioritari in questo campo sono i seguenti:
attivare programmi di prevenzione primaria per la riduzione del
disagio ambientale e rendere disponibili programmi di riabilitazione
globale della persona;
attivare programmi per la riduzione dell’incidenza delle
malattie infettive fra i detenuti;
migliorare la qualita’ delle prestazioni di diagnosi, cura e
riabilitazione a favore dei detenuti.
6.6. La salute degli immigrati
Al 1° gennaio 2001 gli stranieri ufficialmente registrati dal
Ministero dell’Interno erano in Italia 1.338.153. Se si aggiungono ad
essi i richiedenti il permesso di soggiorno, il numero complessivo di
stranieri regolarmente presenti sul territorio risulta di 1.686.606
persone, pari a circa il 2,9% dell’intera popolazione italiana (la
media europea e’ del 5,1%). Il 27% degli immigrati proviene dai Paesi
dell’Europa centro-orientale, il 29,1% dall’Africa settentrionale, il
7,3% dall’Asia centro meridionale, il 10,5% dall’Asia orientale. Il
67% circa ha una eta’ compresa tra 19 e 40 anni; il numero dei minori
e’ stimato intorno al 15% e gli ultrasessantenni sono circa il 10%.
Meno del 45% degli stranieri e’ di sesso femminile. La presenza
irregolare e’ stata stimata ufficialmente dal Governo pari a circa
400.000 unita’ sulla base del numero di domande di regolarizzazione
presentate entro il termine del 15 dicembre 1998 sulla base della
legge n. 40 del 1998.
Negli ultimi anni i flussi dall’Europa dell’Est, in particolare
ex-Yugoslavia, Polonia e Albania, sono fortemente cresciuti,
superando quelli del Nord Africa, prevalenti fino a poco tempo fa. Il
fenomeno dei «ricongiungimenti familiari» sta rapidamente
riequilibrando la composizione per eta’ e genere degli stranieri
immigrati, che ancora agli inizi degli anni ’90 era prevalentemente
rappresentata da giovani adulti maschi.
Il tempo intercorso dal momento della migrazione configura
esperienze di svantaggio molto diverse. In prossimita’
dell’immigrazione prevalgono il trauma del distacco dalla casa e dal
Paese di origine e le condizioni di estremo disagio nella ricerca di
un tetto e di un lavoro, di relazioni sociali, di affetti, e di un
riconoscimento giuridico. In questa fase, gli immigrati condividono
con gli italiani senza fissa dimora condizioni di svantaggio estremo.
In un secondo momento, diventano piu’ importanti le difficolta’
di integrazione o di interazione e convivenza con la cultura ospite e
con il sistema dei servizi e le difficolta’ di apprendere la lingua
accrescono le barriere alla fruizione dei servizi ed alla
soddisfazione delle necessita’ quotidiane.
Osservando il flusso di utilizzo di alcuni servizi sanitari da
parte degli stranieri, si evidenzia una sostanziale mancanza di
elasticita’ dell’offerta di servizi, a fronte dei nuovi problemi di
salute di questi nuovi gruppi di clienti.
Tra i 25.000 bambini nati da almeno un genitore straniero sono
piu’ frequenti la prematurita’, il basso peso alla nascita, la
mortalita’ neonatale e i calendari vaccinali sono effettuati in
ritardo o in modo incompleto specie nelle popolazioni nomadi.
Per quanto riguarda la salute della donna, i temi emergenti sono
l’alto tasso di abortivita’, la scarsa informazione (con conseguente
ridotta domanda di assistenza alla gravidanza), la presenza di
mutilazioni genitali femminili. Un’indagine coordinata dall’Istituto
Superiore di Sanita’ ha evidenziato che le I.V.G. effettuate da donne
straniere sono passate da 4.500 nel 1980 a 20.500 nel 1998, con un
trend fortemente decrescente dalle eta’ piu’ giovani a quelle in eta’
piu’ avanzate.
Anche la percentuale dei casi di tubercolosi in cittadini
stranieri e’ in costante aumento; secondo i dati dell’Istituto
Superiore di Sanita’ essa e’ passata dall’8,1% nel 1992 al 16,6% nel
1998. Questa tendenza e’ confermata anche da altri studi
epidemiologici europei effettuati dall’International Centre for
Migration and Health dell’OMS. Questa patologia colpisce pazienti
irregolari che vivono in condizioni igienico-abitative peggiori sia
rispetto alla popolazione generale sia rispetto agli stranieri con
regolare permesso di soggiorno.
Una maggiore frequenza, in confronto alla popolazione italiana,
dei ricoveri causati da traumatismi (5,7% negli stranieri, 4,8% negli
italiani), segnalata dalle schede di dimissione ospedaliera, potrebbe
essere la spia di un maggior numero di incidenti sul lavoro ai quali
vanno incontro i lavoratori immigrati. L’analisi delle schede di
dimissione ospedaliera mostra, inoltre, tra le cause piu’ frequenti
di ricovero quelle legate alla patologia della gravidanza (7,3% dei
ricoveri nelle straniere, 3,2% nelle italiane), alle infezioni delle
vie aeree (3,1% negli stranieri di cui 0,8% per tubercolosi, 1,8%
negli italiani, di cui 0,1% per tubercolosi), agli aborti indotti
(1,7% nelle straniere, 0,5% nelle italiane).
Nel quadro dei molteplici interventi necessari per superare
l’emarginazione degli immigrati bisognosi, un importante aspetto e’
quello di assicurare l’accesso delle popolazioni immigrate al
Servizio Sanitario Nazionale adeguando l’offerta di assistenza
pubblica in modo da renderla visibile, facilmente accessibile,
attivamente disponibile e in sintonia con i bisogni di questi nuovi
gruppi di popolazione, in conformita’ a quanto previsto dal testo
unico sulla immigrazione che ha sancito il diritto alle cure urgenti
ed essenziali e alla continuita’ della cura anche per gli immigrati
irregolari. In tale contesto, sono necessari, fra l’altro, sia
interventi di tipo informativo dell’utenza immigrata sull’offerta dei
servizi da parte delle ASL che l’individuazione all’interno di
ciascuna ASL di unita’ di personale esperte e particolarmente idonee
per questo tipo di rapporti.
Altre azioni prioritarie riguardano i seguenti aspetti:
migliorare l’assistenza alle donne straniere in stato di
gravidanza e ridurre il ricorso alle I.V.G.;
ridurre l’incidenza dell’HIV, delle malattie sessualmente
trasmesse e delle tubercolosi tramite interventi di prevenzione
mirata a questa fascia di popolazione;
raggiungere una copertura vaccinale della popolazione infantile
immigrata pari a quella ottenuta per la popolazione italiana;
ridurre gli infortuni sul lavoro tra i lavoratori immigrati,
tramite gli interventi previsti a tal fine per i lavoratori italiani.