Famiglia

Thursday 12 May 2005

Il marito che tace problemi sessuali alla moglie risarcisce i danni. Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 18 aprile-10 maggio 2005, n. 9801

Il marito che tace problemi sessuali alla moglie
risarcisce i danni.

Cassazione – Sezione prima civile –
sentenza 18 aprile-10 maggio 2005, n. 9801

Presidente Criscuolo
– relatore Luccioli

Pm Maccarone
– conforme – ricorrente Schembri ed altro

Svolgimento del processo

Con sentenza del 4 marzo – 21 aprile
1998 il Tribunale di Palermo rigettava la domanda con la quale Cristina Schembri, dopo aver ottenuto dall’ autorità
ecclesiastica la dispensa dal matrimonio contratto con Stefano Brancato e dallo stesso Tribunale la sentenza di divorzio
per inconsumazione, aveva chiesto che l’ex coniuge
fosse condannato al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
subito a causa della sua condotta illecita e contraria ai canoni di lealtà, correttezza
e buona fede, per non averla informata
prima delle nozze delle sue condizioni fisico-psichiche o della sua incapacità coeundi, e per aver omesso dopo il matrimonio, onde evitare
che le sue condizioni di salute fossero conosciute da terzi, di sottoporsi alle
opportune cure.

Proposto appello dalla Schembri ed appello incidentale dal Brancato
in ordine alla disposta compensazione delle spese, con
sentenza del 2 maggio – 19 giugno 2001 la Corte di appello di Palermo rigettava
entrambe le impugnazioni e compensava le spese del grado.

Osservava in motivazione la Corte
territoriale, quanto alla condotta posta in essere
precedentemente alle nozze,, che il dovere di informazione
asseritamente violato presupponeva la consapevolezza
da parte del Brancato della sua malformazione; che
tale circostanza poteva ritenersi acquisita in giudizio; che il predetto aveva
volontariamente disatteso l’obbligo di comunicare alla fidanzata i suoi
problemi sessuali; che parimenti certo era che la Schembri
non avrebbe contratto le nozze se fosse stata dì essi informata;
che tuttavia, trovando il danno ingiusto dedotto la propria fonte nella
celebrazione di i un matrimonio infelice, tale evento non poteva che essere
disciplinato dai corrispondenti istituti del diritto di famiglia, non
residuando margini per l’applicazione della norma generale di cui all’ articolo
2043 Cc.

Osservava in particolare che il
mancato assolvimento del debito coniugale da parte del marito, determinato da
causa patologica, non costituiva in sé fatto doloso o colposo al quale
collegare la lesione dell’ interesse della Schembri a vedersi realizzata come donna, come moglie e
come possibile madre, essendo stata in realtà tale aspirazione frustrata dalla
malattia del marito, al medesimo non addebitabile; né detta aspirazione avrebbe
potuto realizzarsi ove ella avesse saputo preventivamente della malformazione
del futuro coniuge. E pertanto l’unico evento suscettibile di essere evitato
ove il promesso sposo avesse informato
la fidanzata sarebbe stato il matrimonio stesso, ma
tale evenienza era emendabile solo mediante annullamento per errore essenziale
sulle qualità personali o con il divorzio per mancata consumazione, conseguito
appunto nella specie.

Aggiungeva che a diversa soluzione avrebbe potuto pervenirsi se la Schembri
avesse esercitato, nel prescritto termine annuale, l’azione di nullità del
matrimonio, sanzionando gli articoli 129 bis e 139 Cc
la reticenza del coniuge cui sia addebitabile la nullità.

Rilevava infine, in
relazione alla successiva condotta del Brancato
oggetto di denuncia, che il mancato ricorso a cure specialistiche non si
configurava come illecito civile, non solo perché in qualche misura il predetto
aveva cercato di farsi curare, quanto perché
l’esercizio del diritto sancito dall’ articolo 32 Costituzione, in base
al quale nessuno può essere obbligato a sottoporsi a trattamento sanitario. non può valutarsi come fonte di responsabilità aquiliana, ed anzi ha carattere preminente rispetto al
dovere della traditio corporis
nascente dal matrimonio.

Avverso tale
sentenza ha
proposto ricorso per cassazione la Schembri deducendo
sei motivi. Il Brancato ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale fondato su
un unico motivo.

Motivi della decisione

Va innanzi tutto disposta la riunione
del ricorso principale e di quello incidentale, ai sensi dell’articolo 335 Cpc.

Con il primo motivo del proprio ricorso la Schembri, denunciando
erronea e falsa applicazione degli articoli 122 e 129 bis Cc,
violazione dell’ articolo 2043 Cc, violazione degli
articoli 115 e 116 Cc, omissione e/o insufficienza di
motivazione, sostiene che la sentenza impugnata ha erroneamente scisso la
condotta dei Brancato prospettata come fonte di
responsabilità civile in due distinte frazioni, relative al periodo precedente
e a quello successivo al matrimonio, traendo da tale scissione altrettanto
erronee conseguenze, atteso che con l’azione proposta era stato dedotto un
unico comportamento illecito e l’ingiustizia dei danni dallo stesso derivati.

Più in particolare, richiamato il
principio secondo il quale solo l’impotenza perpetua costituisce causa di
nullità del matrimonio, osserva la ricorrente che la Corte di
Appello avrebbe dovuto accertare, a fronte delle contestazioni del Brancato ed in accoglimento di istanza dell’ appellante, se
l’impotenza denunciata avesse natura permanente o fosse emendabile con le
opportune cure e se nel procedimento dinanzi all’ autorità ecclesiastica, che
aveva concesso la dispensa super rato, fosse emerso che l’inconsumazione
era riferibile ad impotenza perpetua del coniuge.

Con il secondo motivo si deduce che
la sentenza impugnata, nell’ affermare che la Schembri disponeva dell’alternativa di chiedere
l’annullamento dei matrimonio, beneficiando dei contributi economici previsti
dalla relativa disciplina, o ottenere il divorzio, con esclusione di ogni
pretesa risarcitoria, stante la possibilità di
ottenere l’assegno divorzile, ha disatteso la
consolidata giurisprudenza che attribuisce a detto assegno finzione
assistenziale, e non risarcitoria, ed ha violato i
principi elaborati in sede di legittimità circa la risarcibilità
del danno ingiusto.

Con il terzo motivo, denunciando
erronea e falsa applicazione degli articoli 122 e 129 bis Cc,
violazione dell’ articolo 2043 Cc,
si sostiene che la sentenza impugnata non ha spiegato la ragione per la quale
l’azione risarcitoria sarebbe incompatibile con la
pretesa indennitaria a tutela del coniuge di buona
fede prevista dall’articolo 129 bis Cc nel caso di
annullamento del matrimonio.

Con il quarto motivo, denunciando
violazione dell’ articolo 143 Cc
in relazione agli articoli 2 e 29 Costituzione5 erronea applicazione
dell’articolo 32 Costituzione, si deduce, in relazione alla condotta tenuta dal
Brancato durante la vita matrimoniale, che la libertà
costituzionalmente garantita a ciascuno di non sottoporsi a trattamenti
sanitari non può essere causa di conseguenze pregiudizievoli nei confronti di
altri soggetti, e che pertanto detta libertà non escludeva che egli potesse
sottoporsi spontaneamente alle opportune cure, nel rispetto dell’ altro
principio costituzionale di cui all’ articolo 29 Costituzione

Con il quinto motivo, denunciando
violazione degli articoli 115 c.p.c. e 2043 Cc, si osserva che l’affermazione della sentenza impugnata
secondo la quale il mancato assolvimento del debito coniugale non era
imputabile al Brancato è priva di riscontri
obiettivi, essendo stata preclusa all’attrice la possibilità di fornire le
prove al riguardo dedotte e disattesa la sua richiesta di consulenza tecnica,
dalla quale avrebbe potuto risultare l’esistenza di
una patologia emendabile, e quindi la colpa del coniuge nel sottrarsi alle cure
necessarie.

Con l’ultimo motivo. denunciando violazione degli articoli 2043 e 143 Cc, 2 e 29 Costituzione, si sostiene che, una volta
ritenuto il comportamento colpevole del Brancato per
non aver informato la fidanzata dei
propri problemi sessuali, avrebbe dovuto ravvisarsi la lesione di un interesse
giuridicamente rilevante della medesima, suscettibile di ristoro in forza della
clausola generale di cui all’ articolo 2043 Cc, sulla
base dei principi elaborati in materia di responsabilità aquiliana
dalla più recente giurisprudenza di legittimità. In applicazione di tali
principi, e tenuto conto che la violazione dei doveri nascenti dal matrimonio
può essere causa di danno ingiusto, fonte di responsabilità risarcitoria,
avrebbe dovuto procedersi ad una comparazione degli
interessi in conflitto al fine di accertare se il sacrificio dell’interesse del
soggetto danneggiato trovasse o meno giustificazione
nella realizzazione di un contrapposto interesse dell’ autore della condotta,
in ragione della sua prevalenza.

I motivi così sintetizzati vanno
esaminati congiuntamente, in quanto investono sotto diversi profili la
complessa problematica relativa alla configurabilità di una responsabilità aquiliana
nell’ambito dei rapporti coniugali e familiari, sulla quale questa Suprema
Corte ha fornito non numerose e non univoche risposte, ed anche la dottrina
specialistica è approdata a conclusioni differenziate.

Nella risalente sentenza 2468/75 la
soluzione positiva della questione appare quasi
scontata, lì dove si afferma non potersi escludere a priori che l’adulterio,
nel particolare ambiente in cui vivono i coniugi, sia causa di tanto discredito
da costituire per l’altro coniuge fonte di danno, a carattere patrimoniale,
nella vita di relazione, e che pertanto la violazione da parte di un coniuge
dell’obbligo di fedeltà, a prescindere dalle conseguenze sui rapporti di natura
personale, possa determinare, in concorso di particolari circostanze, un
obbligo risarcitorio in favore del coniuge
danneggiato. A diversa soluzione sono pervenute le due sentenze 3367 e 4108 del
1993 – la prima delle quali ha affermato che nel caso di addebito
della separazione la tutela risarcitoria di cui
all’articolo 2043 Cc non può essere invocata per la
mancanza di un danno ingiusto, non integrando l’addebito della separazione la
violazione di un diritto dell’ altro coniuge, mentre la seconda ha osservato
che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico,
soltanto il diritto all’assegno di mantenimento, sempre che ne sussistano i
presupposti di legge, e che tale diritto esclude la possibilità di chiedere
anche il risarcimento dei danni a qualsiasi titolo subiti a causa della
separazione imputabile all’altro coniuge, costituendo la separazione personale
un diritto attinente alla libertà della persona ed avendo il legislatore
specificamente, e quindi esaustivamente previsto le
sue conseguenze all’interno della disciplina del diritto di famiglia.

Da tale orientamento, che chiaramente
si fonda sul convincimento che le regole che disciplinano la materia familiare costituiscano un sistema chiuso e completo, a sua volta si è
discostata la successiva sentenza 5866/95, la quale, pur affermando che
l’addebito della separazione non costituisce di per sé fonte di responsabilità
extracontrattuale, ha ammesso in linea teorica la risarcibilità
del danno, oltre l’eventuale diritto all’ assegno, ove i fatti che hanno dato
luogo all’addebito integrino gli estremi dell’ illecito ipotizzato dall’
articolo 2043 Cc

Va infine richiamata la più recente
sentenza di questa sezione 7713/00, relativa alla
diversa pretesa risarcitoria di un figlio nei
confronti di un genitore, riconosciuto tale a seguito di dichiarazione
giudiziale di paternità, che per anni gli aveva rifiutato i mezzi di
sussistenza, secondo la quale siffatta condotta dà luogo ad una lesione in sé
di fondamentali diritti della persona inerenti alla qualità di figlio e di
minore. collocati al vertice della gerarchia dei
valori costituzionalmente garantiti, e conseguentemente può costituire fonte di
responsabilità risarcitoria, indipendentemente dalla
esistenza di perdite patrimoniali del danneggiato: si è osservato in tale
decisione che una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 2043 Cc impone di ritenere che tale disposizione sia diretta a
compensare il sacrificio che detti valori subiscono a causa dell’ illecito,
cosi che la norma stessa, correlata agli articoli 2 e ss. Costituzione, deve
necessariamente intendersi come comprensiva del risarcimento di tutti i danni
che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona
umana, indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la lesione
possa comportare.

In tale direzione sembra muoversi la
giurisprudenza di merito, sempre più incline a ravvisare una responsabilità risarcitoria per violazione degli obblighi familiari.

Come appare evidente, la problematica
si innesta in quella più ampia relativa alla risarcibilità della lesione di diritti fondamentali della
persona, oggetto di ampia elaborazione nella giurisprudenza di questa Suprema
Corte, nel solco tracciato dalla nota sentenza della Corte Costituzionale
184/86, che nel dichiarare infondata
la questione di costituzionalità dell’articolo 2059 Cc
– proposta in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 32 Costituzione, sotto il
profilo che esso prevederebbe la risarcibilità
del danno per lesione dei diritto alla salute solo in conseguenza di un reato –
ebbe ad affermare che la nonna scrutinata riguarda soltanto i danni morali
soggettivi, mentre il pregiudizio ai diritti fondamentali della persona, come
il decoro, il prestigio, la dignità e la salute, deve trovare indefettibile
ristoro, in applicazione dell’articolo 2043 Cc, al di
là dei limiti previsti per il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti
da reato.

E’ altresì noto che il più recente
orientamento di questa Suprema Corte, del quale le
sentenze 8827 e 8828 del 2003 costituiscono fondamentali arresti, si esprime
nel senso che nel sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non
patrimoniale l’articolo 2059 CC riveste una funzione non più sanzionatoria, ma tipizzante dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale, cosi che
l’astratta previsione normativa deve intendersi come comprensiva di ogni danno
di natura non patrimoniale derivante dalla lesione dei valori della persona, e
dunque sia del danno morale soggettivo, consistente nella mera sofferenza psichica
e nel patema d’animo, sia del danno biologico in senso stretto, configurabile
in presenza di lesioni all’ integrità psico-fisica secondo i canoni fissati
dalla scienza medica ( articolo 32 Costituzione), sia del danno derivante dalla
lesione di altri interessi di rango costituzionale relativi alla persona.

In tale prospettiva, nell’ambito
dell’articolo 2059 Cc trovano collocazione
e protezione tutte quelle situazioni soggettive relative a perdite non
patrimoniali subite dalla persona, per fatti illeciti determinanti un danno
ingiusto e per la lesione di valori costituzionalmente protetti o
specificamente tutelati da leggi speciali: ciò vale a dire che il rinvio recettizio dell’ articolo 2059 Cc
ai casi determinati dalla legge non riguarda le sole ipotesi del danno morale
soggettivo derivante da reato, ma vale ad assicurare la tutela anche alla
lesione di diritti fondamentali della persona, atteso che in forza del rilievo
costituzionale di tali diritti il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente
alla loro lesione non è soggetto alla riserva di legge posta dalla norma
richiamata.

Tale impostazione ha ricevuto
l’avallo della Corte Costituzionale con la sentenza 233/03, che investita
ancora una volta della questione di incostituzionalità
dell’articolo 2059 Cc ha affermato essere ormai
superata la tradizionale affermazione secondo la quale il danno non
patrimoniale riguardato dall’articolo 2059 Cc si
identificherebbe con il cosiddetto danno morale soggettivo, ed ha dato
espressamente atto che le sentenze 8827 e 8828 del 2003 della Corte di
Cassazione hanno l’indubbio pregio di ricondurre a razionalità e coerenza il
tormentato capitolo della tutela risarcitoria dei
danno alla persona.

Sul principio che il danno non
patrimoniale è risarcibile non solo nei casi previsti
dalla legge ordinaria, ma anche in quelli di lesione di valori della persona
costituzionalmente protetti, non potendo il legislatore ordinario rifiutare,
per la forza únplicìta nell’ inviolabilità di detti
diritti, la riparazione mediante indennizzo, che costituisce la forma minima ed
essenziale di tutela, la giurisprudenza di questa Suprema Corte è orinai
saldamente attestata (v. in tal senso, tra le altre, Cassazione 16716/03;
17429/03; 19057/03;10482/03; 14488/04 ).

Sulla base di tale impostazione, cui il Collegio
intende dare continuità, assume rilievo essenziale, non solo in relazione alla risarcibilità del danno non patrimoniale, ma anche, e prima
ancora, ai fini della esperibilità dell’ azione di
responsabilità, l’indagine se il diritto oggetto di lesione sia riconducibile a
quelli meritevoli di tutela secondo il parametro costituzionale.

Né può fondatamente ritenersi che una
disamina siffatta non abbia ragione di essere svolta nella fattispecie in
esame, non trovando spazio applicativo il principio di indefettibilità della tutela risarcitoria
per violazione di diritti fondamentali all’ interno dell’ istituto familiare,
in ragione di una presunta completezza della relativa disciplina, tale da
imporre di reperire unicamente al suo interno la regolamentazione dei rapporti
familiari, anche in contrasto con le norme di altri rami dei diritto o con i
principi generali dell’ ordinamento.

Costituisce acquisizione da tempo
condivisa dalla giurisprudenza e dalla dottrina che nel sistema delineato dal
legislatore del 1975 il modello di famiglia-istituzione, al quale il codice
civile del 1942 era rimasto ancorato, è stato superato da quello di
famiglia-comunità, i cui interessi non si pongono su
un piano sovraordinato, ma si identificano con quelli
solidali dei suoi componenti. La famiglia si configura ora come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi membri, tra i quali si
stabiliscono relazioni di affetto e di solidarietà riferibili a ciascuno di
essi. Come si è osservato da alcuni Autori, di tale processo di valorizzazione
della sfera individuale dei singoli componenti del
nucleo costituisce emblematica espressione la recente legge 154/01 sulla
violenza familiare, che prevede l’allontanamento per ordine del giudice dalla
casa familiare dell’ autore della violenza, nell’ implicita attribuzione di
prevalenza alla tutela della persona che ne sia stata vittima rispetto alle
ragioni dell’ unità della famiglia.

L’articolo 29 Costituzione, se da un
lato giustifica l’articolata previsione di diritti ed obblighi derivanti dal
matrimonio, dall’ altro lato garantisce una
eguaglianza fondata sui vincoli della responsabilità e della solidarietà: il
principio di eguaglianza tra i coniugi costituisce mera specificazione del
principio generale di eguaglianza dettato dall’articolo 3 Costituzione, e
comporta il riconoscimento di uguali responsabilità dei coniugi nello
svolgimento dei rapporti familiari e pari diritti di sviluppo e di
arricchimento della loro personalità sia all’ interno del nucleo che nella vita
di relazione. La famiglia si configura quindi non già come un luogo di
compressione e di mortificazione di diritti irrinunciabili, ma come sede di autorealizzazione e di
crescita,, segnata dal reciproco rispetto ed immune da ogni distinzione di
ruoli, nell’ ambito della quali i singoli componenti conservano le loro
essenziali connotazioni e ricevono riconoscimento e tutela, prima ancora che
come coniugi, come persone, in adesione al disposto dell’ articolo 2
Costituzione, che nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’ uomo
sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità
delinea un sistema pluralistico ispirato al rispetto di tutte le aggregazioni
sociali nelle quali la personalità di ogni individuo si esprime e si sviluppa.

E pertanto il rispetto della dignità
e della personalità, nella sua interezza, di ogni
componente dei nucleo familiare assume i connotati di un diritto inviolabile,
la cui lesione da parte di altro componente della famiglia, cosi come da parte
del terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non
potendo chiaramente ritenersi che diritti definiti come inviolabili ricevano
diversa tutela a seconda che i loro titolari Si pongano o meno all’ interno di
un contesto familiare.

E’ noto peraltro che i doveri che
derivano ai coniugi dal matrimonio non sono soltanto di carattere morale, ma
hanno natura giuridica, come può desumersi dal reiterato riferimento contenuto nell’ articolo 143 Cc alle nozioni
di dovere, di obblìgo e di diritto, dall’ espresso
riconoscimento nell’ articolo 160 Cc della loro
inderogabilità, dalle conseguenze che l’ordinamento giuridico fa derivare dalla
loro violazione, onde è certamente ravvisabile un diritto soggettivo di un
coniuge nei conftonti dell’ altro a comportamenti
conformi a detti obblighi ( v. sul punto Cassazione 7859/00, che ha qualificato l’obbligo di
fedeltà coniugale regola di condotta imperativa).

Né potrebbe sostenersi, seguendo la
richiamata impostazione volta ad esaltare la specificità e completezza del
diritto di famiglia, che la violazione di obblighi
siffatti trovi la propria sanzione nelle misure tipiche in esso previste, quali
la stessa separazione o il divorzio, l’addebito della separazione, con ì suoi
riflessi in tema di perdita del diritto all’ assegno e dei diritti successori,
la sospensione del diritto all’ assistenza morale e materiale nel caso di
allontanamento senza giusta causa dalla residenza familiare ai sensi dell’
articolo 146 Cc, l’assegno di divorzio. E’ invero
agevole osservare che la separazione e il divorzio costituiscono strumenti
accordati dall’ordinamento per porre rimedio a situazioni di impossibilità
di prosecuzione della convivenza o di definitiva dissoluzione del vincolo; che
la circostanza che il comportamento di un coniuge costituisca causa della
separazione o del divorzio non esclude che esso possa integrare gli estremi di
un illecito civile; che l’assegno di separazione e di divorzio hanno funzione
assistenziale, e non risarcitoria; che la perdita del
diritto all’ assegno di separazione a causa dell’ addebito può trovare
applicazione soltanto in via eventuale, in quanto colpisce solo il coniuge che
ne avrebbe diritto, e non quello che deve corrisponderlo, e non opera quando il
soggetto responsabile non sia titolare di mezzi. La natura, la funzione ed i
limiti di ciascuno degli istituti innanzi richiamati
rendono evidente che essi non sono strutturalmente incompatibili con la tutela
generale dei diritti costituzionalmente garantiti, non escludendo la rilevanza
che un determinato comportamento può rivestire ai fini della separazione o
della cessazione del vincolo coniugale e delle conseguenti statuizioni di
natura patrimoniale la concorrente rilevanza dello stesso comportamento quale
fatto generatore di responsabilità aquiliana.

Appare peraltro opportuno precisare
che non vengono qui in rilievo i comportamenti di
minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’ interno
della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e tolleranza che è
parte del dovere di reciproca assistenza. ma
unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come
fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona. Deve pertanto
escludersi che la mera violazione dei doveri matrimoniali o anche la pronuncia di addebito della separazione possano di per sé ed
automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria;
così come deve affermarsi la necessità che sia accertato in giudizio il danno
patrimoniale e non patrimoniale subito per effetto della lesione, nonché il
nesso eziologico tra il fatto aggressivo ed il danno.

L’intensità dei doveri derivanti dal
matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non
riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente
il matrimonio, imponendo loro ‑ pur in mancanza, allo stato, di un
vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo ‑ un obbligo di lealtà, di correttezza
e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie
condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la
comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto.

Applicando i richiamati principi alla
fattispecie in esame, osserva la Corte che il diritto dei
quale la ricorrente assume la lesione assurge certamente al rango di
diritto fondamentale della persona. E’ qui in discussione il diritto alla
sessualità, che la dottrina costituzionalistica degli anni ottanta annoverava
tra i nuovi diritti, e che certamente si sostanzia in una posizione soggettiva
tutelata dalla Costituzione. Va al riguardo richiamata
la sentenza n. 561 del 1987 della Corte Costituzionale,, la quale affermò che
la sessualità costituisce uno degli essenziali modi di espressione della
persona umana, che va ricompreso tra le posizioni
soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti
inviolabili della persona umana che I’ articolo 2
Costituzione impone di garantire. Soccorre ancora la sentenza n. 6607 del 1986
di questa Suprema Corte, che nell’ esaminare la
pretesa risarcitoria di un coniuge nei confronti del
terzo che aveva cagionato alla moglie l’impossibilità di rapporti, qualificò il
diritto reciproco di ciascun coniuge al rapporti sessuali con l’altro coniuge
come un diritto inerente alla persona, che ha per contenuto un modo di essere,
un aspetto dello svolgimento della persona di ciascun coniuge nell’ ambito
della famiglia, e precisò che la sua lesione è di per sé risarcibile, quale
danno che non è né patrimoniale, né non patrimoniale, ma comunque rientra nella
previsione dell’ articolo 2043 Cc

Viene ancora in discussione il
diritto alla sessualità nella sua proiezione verso la procreazione, che
costituisce una dimensione fondamentale della persona ed una delle finalità del
matrimonio.

Viene insomma in rilievo una
violazione della persona umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà ‑ dignità, nella sua autonoma
determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di
armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in
una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e sulla piena
esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare
formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli
articoli 2, 3, 29 e 30 Costituzione

Né può validamente sostenersi che il
mancato ricorso da parte della Schembri alla tutela
concessa dall’articolo 129 bis Cc al coniuge di buona
fede, per avere la medesima optato per la domanda di
divorzio piuttosto che per l’azione di impugnazione dei matrimonio al sensi
dell’articolo 122 Cc, le precluda di avvalersi di uno
strumento di tutela che le spetta nei confronti di tutti i consociati: ed
invero l’indennità prevista dall’ articolo 129 bis Cc
‑ della quale è generalmente affermata la natura risarcitoria ( v. sul punto Cass. 1990 n. 8703), pur non
disgiunta da profili a carattere sanzìonatorio, in
quanto spettante anche in difetto di prova del danno sofferto e facente carico
al coniuge in mala fede ‑ costituisce misura specifica,
conseguente alla pronuncia di nullità del vincolo5 che per la sua precisa
funzione ed il suo limitato ambito di applicazione non si pone in termini di
esclusione rispetto alla responsabilità generale conseguente all’ attentato ad
un valore dotato di tutela costituzionale.

La Corte di Appello
ha ritenuto come acquisito in giudizio che il Brancato
fosse pienamente consapevole prima dei matrimonio della sua malformazione: tale
apprezzamento in fatto non è ovviamente censurabile in questa sede. Altrettanto
incensurabile è l’ulteriore affermazione della stessa
Corte che la Schembrì non avrebbe contratto
matrimonio ove fosse stata edotta dei problemi sessuali che affliggevano il
fidanzato.

La Corte territoriale ha peraltro
ritenuto, sulla base di una inaccettabile scissione
tra omessa informazione alla
fidanzata da parte Brancato circa la sua condizione
fisica e mancato assolvimento dell’obbligo coniugale, che non fosse ravvisabile
un illecito per non essere il medesimo responsabile di tale mancato
assolvimento: in tale percorso argomentativo si
annida chiaramente un errore di prospettiva, in quanto non si considera che è
appunto l’omessa informazione ad
integrare l’illecito, quale fatto violativo
dell’obbligo di lealtà ivi richiamato, tale da indurre la Schembri
‑ secondo l’accertamento compiuto dalla stessa Corte ‑ ad un matrimonio che ove informata non avrebbe contratto, e che era destinato
a sfociare nella dispensa e quindi nello scioglimento in sede civile.

Non appare per contro meritevole di
censure la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato i profili dell’ illecito nel rifiuto del Brancato
di sottoporsi alle opportune cure mediche, atteso che il necessario
bilanciamento del diritto della Schembri con quello
costituzionalmente tutelato di disporre liberamente del proprio colpo, sancito
dall’ articolo 32 Costituzione, non consente di attribuire prevalenza al primo
di essi.

L’accertamento, nei limiti innanzi
precisati, della lesione del diritto fondamentale della Schembri
a realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, come moglie
ed eventualmente come madre vale a qualificare il danno subito in termini di ingiustizia, mentre restano da accertare le conseguenze
pregiudizievoli alla medesima derivate sia sotto il profilo del danno
patrimoniale che dei danno non patrimoniale. Resta invero onere dell’attrice
provare l’entità del nocumento recato dall’illecito, salvo ovviamente
l’intervento suppletivo del giudice ove i danni subiti non possano essere
provati nel loro preciso ammontare.

In tali limiti va accolto il ricorso
principale.

Il ricorso incidentale del Brancato. diretto a censurare la
sentenza impugnata per ‘ aver disposto la compensazione delle spese del grado e
confermato la compensazione di quelle dinanzi al Tribunale, resta logicamente
assorbito.

La sentenza impugnata va pertanto
cassata e la causa rinviata ad altro giudice, che si designa in altra sezione
della Corte di Appello di Palermo., che si atterrà ai
principi di diritto innanzi espressi, procederà all’espletamento della attività
istruttoria richiesta dalle parti ai fini della prova del danno patrimoniale e
non patrimoniale derivato dall’illecito e pronuncerà anche sulle spese di
questo giudizio di cassazione.

PQM

La Corte di Cassazione, riunisce i
ricorsi; accoglie il ricorso principale nei sensi di
cui in motivazione e dichiara assorbito il ricorso incidentale. Cassa la
sentenza impugnata e rinvia anche per le spese ad altra sezione della Corte di Appello di Palermo.