Penale

Friday 19 November 2004

Il giudice del dibattimento può smentire il GIP in ordine al rifiuto di giudizio abbreviato. Cassazione – Su penali (up) – sentenza 27 ottobre-18 novembre 2004, n. 44711

Il giudice del dibattimento può smentire il GIP in
ordine al rifiuto di giudizio abbreviato.

Cassazione – Su penali (up) –
sentenza 27 ottobre-18 novembre 2004, n. 44711

Presidente Marvulli
– Relatore Canzio

Pg Siniscalchi – ricorrente Pg in proc. Wajib

Ritenuto in fatto

1.1. Wajib Nabil,
arrestato perché trovato in possesso di gr.
308 di cocaina e imputato del reato di illecita
importazione di un quantitativo della medesima sostanza stupefacente
“quantomeno pari a 3,5 kg”, sulla base tra l’altro delle dichiarazioni
accusatorie di tale Marmorio Antonino, aveva
sollecitato nel corso dell’udienza preliminare davanti al Gup
del Tribunale di Milano la definizione del giudizio mediante rito abbreviato,
subordinando la richiesta all’esame del Marmorio. Il Gup, respinta la richiesta sul presupposto che l’audizione
di quest’ultimo non era necessaria ‑ ai fini della decisione, aveva
disposto il rinvio a giudizio dell’imputato.

Il Tribunale di Milano, con sentenza
del 3 maggio 2002, dichiarava Wajib Nabil colpevole del delitto di illecita
importazione di un quantitativo non modico di cocaina, benché indeterminato
nella precisa misura. Sollecitato tuttavia dalle conclusioni del difensore
perché rivalutasse la fondatezza del provvedimento reiettivo
della richiesta condizionata di rito abbreviato, ai
fini dell’eventuale riduzione di pena in caso di condanna, il Tribunale,
premesso di non condividere le ragioni di detto provvedimento quanto alla
ritenuta superfluità dell’esame del Marmorio ‑ in punto di precisa quantificazione
dello stupefacente importato ‑, riconosceva all’imputato la
diminuente per il giudizio speciale e, ridotta la pena di un terzo, determinava.la pena inflitta in anni 3, mesi
6 e giorni 20 di reclusione ed euro 14.000 di multa, oltre pena accessoria e
confisca.

Il Pg
presso la Corte di appello di Milano ha proposto
ricorso immediato per cassazione contro detta sentenza, deducendo violazione di
legge sul rilievo che il giudice dibattimentale non avrebbe potuto applicare la
diminuente di cui all’articolo 442 Cpp, non essendo
consentito dalla disciplina introdotta dalla legge 479/99 ‑ anche alla luce della sentenza
costituzionale 54/2002 ‑ alcun sindacato sulla decisione del Gup di rigetto della richiesta condizionata di rito
abbreviato.

1.2. La quarta Sezione penale di
questa Corte, premesso che per effetto della sentenza costituzionale 169/03
l’imputato, che si sia visto respingere una richiesta
condizionata di rito abbreviato, ha la facoltà di rinnovare la richiesta prima
dell’apertura del dibattimento, con la possibilità che il rito speciale sia
ammesso e celebrato dal giudice dello stesso, osservava che, nel caso di
specie, il sindacato sulla decisione di rigetto del Gup
non era stato né poteva essere esercitato nella “nuova” forma indicata dalla
Consulta, bensì nella “tradizionale” versione dello sconto di pena in esito al
dibattimento, e si chiedeva se tale meccanismo fosse ancora operante dopo la
legge 479/99. Rilevato pertanto che la censura formulata dal Pg ricorrente postulava l’esame di questioni sulle quali si
registrava un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità, la
stessa Sezione, con ordinanza in data 13 maggio-21 giugno 2004, rimetteva la
decisione del ricorso alle Su.

Con apposito
decreto il Primo presidente ha assegnato il ricorso alle Su, fissando per la
trattazione l’odierna udienza pubblica.

Considerato in diritto

2. ‑ Le Su sono
chiamate a risolvere la questione «se e in quali limiti (tenuto conto della
sentenza 169/03 della Corte costituzionale) il giudice del dibattimento possa
sindacare l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare di rigetto della
richiesta dell’imputato di giudizio abbreviato condizionata ad una integrazione
probatoria».

Si assume da parte della Sezione remittente che su tale questione esiste nella
giurisprudenza di legittimità un contrasto interpretativo.

Da un lato, secondo la sentenza della
prima Sezione, 12 giugno 2003, Gravante, rv 225986,
sarebbe immanente al sistema il principio della necessità di un sindacato della
decisione di rigetto ed esso sarebbe tuttora consentito nella forma
“tradizionale” della riduzione di pena all’esito del dibattimento, in tutti i
casi nei quali non sia risultata possibile la
sollecitazione del rito abbreviato in apertura del dibattimento, come nei casi
in cui le relative formalità si fossero già celebrate all’epoca della sentenza
costituzionale 169/03.

Dall’altro, ad avviso della medesima
prima Sezione, 13 gennaio 2004 Larocca, rv 226923/226924, sarebbe inammissibile un sindacato
richiesto per la prima volta al giudice di appello,
che proceda con rito ordinario dopo il rigetto della domanda di rito abbreviato
formulata nell’udienza preliminare, non essendo consentito all’imputato di
avvalersi d’una riduzione di pena senza che sia stato attivato il rito
finalizzato alla deflazione del carico dibattimentale.

3. Ritiene il Collegio che il
controllo ermeneutico debba
innanzi tutto svolgersi alla stregua di un’analisi diacronica della originaria
disciplina codicistica ‑ articolo 438 ss. Cpp
secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata di essa desumibile dai
plurimi interventi, anche additivi, della Corte costituzionale, e delle
rilevanti innovazioni normative apportate alla disciplina del giudizio
abbreviato dagli articoli 27-31 della legge 479/99, anch’esse già incise
parzialmente da ulteriori arresti del Giudice delle leggi. I profili della
nuova disciplina traggono infatti ragion d’essere e
spessore di contenuti dalle vicende interpretative che, nel primo decennio di
applicazione del modello codicistico, hanno preceduto
e segnato le vigenti soluzioni legislative.

3.1. Il giudizio abbreviato, nello
schema delineato dal previgente regime di cui agli
articoli 438 e ss. Cpp (cfr., per la ricostruzione dei relativi profili, Cassazione,
Su, 6 dicembre 1991, Di Stefano; Su, 21 aprile 1995, Zoccoli; Su, 13 dicembre
1995, Clarke; Su, 21 giugno 2000, Tammaro), si
configurava come procedura semplificata a definizione anticipata nell’udienza
preliminare, subordinata all’opzione negoziale “sul rito”, immotivata e
insindacabile, delle parti principali ed all’apprezzamento del giudice,
anch’esso insindacabile, circa la definibilità del
processo allo stato degli atti. Esso si caratterizzava inoltre come
procedimento “a prova contratta”, nel quale le parti accettavano che la regiudicanda fosse decisa alla stregua degli atti
d’indagine già acquisiti e rinunciavano a chiedere ulteriori
mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso
delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono di norma
sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie. La scelta del rito
da parte dell’imputato risulta favorita da una serie
di incentivi premiali quale, innanzi tutto, la diminuzione di un terzo della
pena per il reato ritenuto in sentenza in caso di condanna, così realizzandosi
una commistione assolutamente originale tra condotte processuali ed effetti
indiretti, ma automatici, sul trattamento sanzionatorio
dell’imputato in caso di condanna, ispirata al fine pratico di assicurare la
deflazione del dibattimento e una migliore efficienza del sistema processuale. Una diminuente di natura “processuale”, dunque, ma le cui
caratteristiche si presentano strettamente collegate con aspetti di sicuro
rilievo “sostanziale”, risolvendosi in un trattamento penale di favore
(Cassazione, Su, 31 maggio 1991, Volpe; Su, 6 marzo 1992, Piccillo).

Il primo decennio di vita
dell’istituto è stato segnato dai plurimi interventi, talora correttivi ed
altre volte demolitivi o additivi, della Corte costituzionale (sentenze 66 e
183/90, 81/1991, 23, 92 e 318/92, 56/1993 e 442/94), con sentenze dichiarative
d’illegittimità costituzionale o interpretative di rigetto, ovvero
di inammissibilità e di monito al Legislatore perché conducesse a coerenza
costituzionale il modello codicistico, mediante un
generale riassetto che perseguisse entrambi gli obiettivi di deflazione e di
garanzia.

E però, venute meno per effetto delle
progressive pronunzie d’incostituzionalità l’efficacia preclusiva del
presupposto consensuale del rito e la sua ineludibile
connotazione di giudizio allo stato degli atti, risultava
irrimediabilmente spezzato il sinallagma fra il
trattamento premiale e la funzione deflativa del procedimento speciale, a favore
di una nozione del “diritto” dell’imputato allo sconto della pena anche senza
la corrispondente semplificazione del rito, potendosi applicare la relativa
diminuente anche alla conclusione del giudizio ordinario, resosi necessario in
conseguenza del dissenso del Pm o della decisione
negativa del giudice dell’udienza preliminare circa la definibilità
del processo allo stato degli atti. Situazioni, queste, che, comportando
conseguenze di carattere sostanziale sul trattamento sanzionatorio,
sarebbero state sindacabili soltanto dal giudice e alla conclusione del
dibattimento, all’esito di una valutazione prognostica,
postuma ma ex ante, secondo un principio di generale sindacabilità
del provvedimento preclusivo di un rito alternativo di
tipo negoziale, affermato per la prima volta dalla Corte costituzionale con
sentenza 120/84, con riferimento al “patteggiamento” introdotto dagli articoli
77 e 78 della legge 689/81.

3.2. Gli articoli 27-31 della legge
479/99, raccogliendo il reiterato invito della Corte costituzionale «ad evitare
che permanga la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi
costituzionali» (sentenza 442/1994), hanno ridisegnato in maniera significativa la sagoma del giudizio abbreviato, qual’era tracciata nell’originaria formulazione codicistica, trasformandone radicalmente i presupposti e
gli schemi procedurali.

Costituisce infatti
coerente sviluppo della citata giurisprudenza costituzionale l’odierna
previsione normativa, secondo la quale l’imputato ha la facoltà di chiedere che
il processo sia definito all’udienza preliminare allo stato degli atti
(articolo 438, comma 1), senza che la sua richiesta resti subordinata al
consenso del Pm né al vaglio discrezionale di
ammissibilità da parte del giudice. Questi è tenuto infatti
a disporre con ordinanza il giudizio abbreviato (articolo 438, comma 4),
essendo a lui riservato esclusivamente il potere d1ntegrazione probatoria ex
officio, mediante l’assunzione degli “elementi necessari ai fini della
decisione”, quando ritiene “di non poter decidere allo stato degli atti”
(articolo 441, comma 5), ma non più quello di disattendere la richiesta sulla
base di un apprezzamento discrezionale in punto di non definibilità
del processo allo stato degli atti, né tanto meno di complessità delle acquisizioni
probatorie necessarie ai fini della decisione, e quindi di compatibilità
dell’integrazione probatoria officiosa con le esigenze di deflazione tipiche
del rito speciale.

Secondo il più recente modello
normativo, le cui linee complessive sono state positivamente scrutinate dalla
Corte costituzionale con sentenza 115/01, l’imputato é così diventato arbitro
esclusivo dell’instaurazione del giudizio “semplice” o “puro”, perché né il Pm può opporsi, né il giudice può valutare se il processo
sia effettivamente definibile all’udienza preliminare allo stato degli atti e,
in caso negativo, rigettare la richiesta, essendo la completezza e la
sufficienza delle prove comunque assicurata dal potere
integrativo, anche officioso, dello stesso . giudice.

Risulta chiaro l’intento del Legislatore
della riforma di svincolare la richiesta dell’imputato sia dal parere del Pm che da qualsiasi apprezzamento discrezionale del
giudice, secondo una prospettiva di “ordinarietà” del
giudizio abbreviato; qualora presenti la richiesta “semplice”, l’imputato ha il
diritto di essere giudicato mediante il rito abbreviato, così da usufruire, in
caso di condanna, della riduzione di pena prevista dall’articolo 442.2 Cpp. Secondo l’ormai prevalente
giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sezione prima, 11 dicembre 2000, Litrico, rv 218114; 20 dicembre
2000, Strangio, rv 218577;
17 giugno 2001, Saliko, rv
219688; 2 luglio 2001, Sangani, rv
219633; Sezione sesta, 20 settembre 2002, Putignano, rv 222428; Sezione prima, 2 aprile 2004, Petrucci, rv 228198; 15 giugno
2004, D’Amato, rv 228948; 7 ottobre 2004, Riccardi) sarebbe pertanto abnorme l’eventuale
provvedimento reiettivo del Gup
ed ammissibile il relativo conflitto di competenza proposto dal giudice
dibattimentale.

3.3. Ben più complesso e articolato
si presenta l’iter del procedimento speciale nei casi di richiesta
“condizionata”, che sia cioè subordinata
dall’imputato, ferma restando l’utilizzabilità ai fini della prova degli atti
delle indagini preliminari e delle prove assunte nell’udienza preliminare, ad
una “integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione”. Il giudice
dispone infatti il giudizio abbreviato soltanto se la
postulata

integrazione probatoria «risulta necessaria ai
fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale
proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed
utilizzabili», ed in tal caso il Pm può chiedere
l’ammissione di prova contraria e procedere anche all’eventuale modificazione
dell’imputazione. È evidente, quindi, che il giudice, nell’ipotesi di richiesta
“condizionata”, non é tenuto a consentire, sempre e in ogni caso, l’accesso al
rito abbreviato atteso che, quando non ritiene “necessaria ai fini della
decisione” ovvero “compatibile con le finalità di economia
processuale proprie del procedimento” l’integrazione probatoria indicata
dall’imputato nella richiesta risolutivamente condizionata all’assunzione di
quelle prove, ben può deliberare di non ammetterle e, di conseguenza, di non
disporre il giudizio speciale. Una volta rigettata, la richiesta, non più
“condizionata” o diversamente “condizionata” rispetto alla precedente, può
essere riproposta dall’imputato fino al momento in cui
sono formulate le conclusioni nell’udienza preliminare (articolo 438, commi 5 e
6).

La Corte costituzionale, con la
citata sentenza 115/01, ha ritenuto, da un lato, coerente con la posizione
dell’imputato l’attribuzione della facoltà di chiedere
l’acquisizione di nuovi e ulteriori elementi di prova, trovandosi egli ad
affrontare il rischio di un giudizio (e di una possibile condanna) basato sugli
atti raccolti dal Pm nel corso delle indagini
preliminari, e, dall’altro, rafforzata da siffatto riconoscimento l’esigenza di
completezza delle indagini medesime, dovendo il Pm
tenere conto che sulla base degli elementi raccolti l’imputato potrà chiedere
ed ottenere di essere giudicato con tale rito, e non potrà quindi esimersi dal
predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell’esercizio dell’azione
penale.

In particolare, sulla “compatibilità
con le finalità di economia processuale proprie del
procedimento”, in riferimento alla eventuale complessità o lunghezza dei tempi
della pretesa acquisizione probatoria, la Corte costituzionale
(neutralizzandone sostanzialmente la portata) ha avvertito con la medesima
pronunzia n. 115 del 2001 che, ove si debbano compiere valutazioni in termini
di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con
l’ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito rigorosamente limitato allo
stato degli atti previsto dalla precedente disciplina, né con il giudizio
abbreviato “puro”, accompagnato dalla mera eventualità di integrazione
probatoria disposta ex officio. Nelle situazioni in cui é oggettivamente
necessario procedere ad una integrazione probatoria,
anche se “consistente”, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in
una considerevole economia processuale rispetto alla più onerosa formazione
della prova in dibattimento, sì che il minor dispendio di tempo e di energie processuali
rispetto al procedimento ordinario continua ad essere un carattere essenziale
del rito alternativo.

Quanto alle caratteristiche
dell’altro presupposto, occorre premettere che il Legislatore della riforma,
mediante il meccanismo delle ulteriori acquisizioni
probatorie, necessarie per completare una piattaforma investigativa inadeguata,
ha inteso superare lo scoglio dell’indecidibilità
conseguente all’insufficienza o incompletezza delle indagini preliminari, nel
segno di quella tendenziale completezza delle stesse già indicate dalla Corte
costituzionale (sentenza 98/1991) come premessa per l’incentivazione del rito
semplificato.

Un’attenta lettura del complessivo
quadro normativo segna, tuttavia, il limite naturale delle ulteriori
acquisizioni probatorie, nel senso che esse debbano essere soltanto
integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come
base cognitiva (Cassazione, Sezione sesta, 8 aprile 2003, Bonasera,
rv 225678), ponendosi, siccome circoscritte e
strumentali “ai fini della decisione” di merito, quale essenziale e
indefettibile supporto logico della stessa. Ne consegue che, per
l’identificazione del carattere di “necessità” della integrazione
probatoria richiesta, debba farsi riferimento ad un titolo specifico della
prova, più stringente di quella provvista dei tradizionali requisiti di
pertinenza/rilevanza e non superfluità previsti dall’articolo 190.1 del codice
di rito, a norma del quale il giudice può escludere solo “le prove vietato
dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue e irrilevanti”. Il
valore probante dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’articolo 438.5
Cpp, va sussunto piuttosto
nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad
assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio,
nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla
disposizione generale di cui all’articolo 187 Cpp. Di
talché, la doverosità dell’ammissione della richiesta
integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità
ai fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un
qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non
rimanga privo di solido e decisivo supporto logico-valutativo.

4. Con riferimento al preesistente
quadro normativo, in virtù dell’intervento additivo di cui alla sentenza
23/1992, era comunque riservato il sindacato del
provvedimento reiettivo al giudice del dibattimento,
il quale, valutate le ragioni del rigetto da parte del Gup
alla luce del parametro della decidibilità allo stato
degli atti, avrebbe potuto, a dibattimento concluso, applicare la riduzione di
pena in caso di condanna dell’imputato, in considerazione dei cennati profili di commistione tra i connotati processuali
e la rilevanza sostanziale del trattamento sanzionatorio
conseguente alla scelta del rito.

Riguardo allo schema riformato, é
stata per contro immediatamente segnalata dalla dottrina la lacuna legislativa
(con i relativi, consistenti, dubbi di legittimità costituzionale), circa i
rimedi che l’ordinamento pure avrebbe dovuto apprestare all’imputato a fronte
dell’ordinanza reiettiva della richiesta condizionata
di integrazione probatoria, frutto di una valutazione
discrezionale attribuita tra l’altro, secondo l’archetipo legislativo, alla
competenza funzionale di un giudice monocratico: il
giudice dell’udienza preliminare quale giudice “naturale”, ovvero il giudice
per le indagini preliminari nei casi di giudizio immediato attivato dal p.m. e
di giudizio conseguente all’opposizione al decreto penale di condanna (articoli
458.2 e 464.1 Cpp). li
provvedimento negativo, se ingiustificato o illegittimo circa il profilo della
necessità della prova ai fini della decisione, appare infatti idoneo a
pregiudicare definitivamente per la sua insindacabilità,
insieme con l’accesso al giudizio speciale, anche l’aspettativa di una
riduzione premiale della pena in caso di condanna, essendo indubbio che il
diniego del rito comporta effetti rilevanti in tema di individuazione della
pena legale.

Con sentenza n. 54 del 2002, la Corte
costituzionale, sollecitata dal giudice a quo (nel corso degli atti
introduttivi del dibattimento) ad un intervento additivo sulla falsariga del
modulo procedimentale individuato dalla sentenza
23/1992, ha rilevato che questa era intervenuta su un contesto
normativo significativamente diverso e che i profondi mutamenti delle premesse
logico‑giuridiche, essendo venute meno le condizioni impeditive all’instaurazione del rito basate sulla non definibilità del processo allo stato degli atti, non
consentivano di riproporre acriticamente la medesima soluzione a suo tempo
indicata, cioè il potere di applicare, in esito al dibattimento, la diminuzione
di pena prevista dall’articolo 442 Cpp. E poiché il
giudice é ora chiamato a compiere una valutazione discrezionale alla stregua di
un parametro molto più circoscritto, “il cui eventuale
riesame non deve più necessariamente essere collocato in esito al
dibattimento”, la questione di legittimità costituzionale degli articoli 438,
441 e 442 Cpp, sotto i profili della irragionevolezza
e della lesione del diritto di difesa, è stata dichiarata inammissibile,
essendo stata prospettata dal giudice rimettente “una soluzione incongrua”
rispetto alla nuova disciplina del giudizio abbreviato.

La Corte costituzionale ha però, successivamente, esplicitato con chiarezza il suo
ragionamento con la sentenza 169/03, con la quale, chiamata a pronunciarsi su
analoghe questioni, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli
438.6, 458.2 e 464.1 Cpp, nella parte in cui non
prevedono che, in caso di rigetto, da parte del giudice dell’udienza
preliminare o, rispettivamente, del giudice per le indagini preliminari, della
richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una integrazione probatoria,
l’imputato possa rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento di primo grado e il giudice possa disporre il giudizio
abbreviato.

Ed invero, premesso che «restano
valide le ragioni che avevano indotto, con la sentenza 23/1992 a dichiarare
illegittima la mancata previsione di un sindacato giurisdizionale sul rigetto
della richiesta del rito abbreviato» poiché anche nell’attuale sistema la
decisione negativa sulla richiesta subordinata ad una integrazione
probatoria è sottratta a qualsiasi forma di sindacato e preclude in via
definitiva l’ammissione dell’imputato al rito alternativo, ha osservato la
Corte costituzionale che «alla luce del nuovo quadro normativo non vi è alcun
ostacolo a che, qualora l’imputato riproponga prima dell’apertura del
dibattimento la richiesta di giudizio abbreviato condizionata, sia lo stesso
giudice del dibattimento, ove ritenga ingiustificato il rigetto della
precedente richiesta, a disporre e celebrare il giudizio abbreviato». Da un
lato, tale soluzione è conforme alle finalità di economia
processuale che connotano il giudizio abbreviato quale rito alternativo al
dibattimento; dall’altro, l’ordinamento già prevede che sia lo stesso giudice
del dibattimento a celebrare il giudizio abbreviato nelle ipotesi di giudizio
direttissimo e di citazione diretta a giudizio ex articoli 452.2 e 555.2 Cpp; inoltre, sebbene le differenze di struttura e di
presupposti non consentano di assumere la disciplina del patteggiamento come
termine omogeneo di comparazione, un’ipotesi di recupero in limine al
dibattimento di un rito ingiustamente negato è già prevista dall’articolo 448.1
Cpp nel caso di rigetto della richiesta di
applicazione della pena da parte del giudice per le indagini preliminari.

E tale dictum
é stato recentemente ribadito con ordinanza 273/03,
dichiarativa della manifesta infondatezza
delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 458.2 Cpp, in riferimento agli articoli 3 e 24 Costituzione,
affermandosi che la possibilità di proporre in via gradata,
anche contestualmente alla richiesta di giudizio abbreviato “condizionata”,
quella di giudizio abbreviato “semplice”, così da garantirsi comunque
l’ammissione al rito speciale, non esclude la facoltà dell’imputato, che
ritenga imprescindibile l’integrazione probatoria richiesta, di operare la
diversa scelta, come riconosciuta dalla sentenza 169/03, di rinnovare al
giudice del dibattimento la richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad una
integrazione probatoria e di ottenere così “il riesame nel merito” del
provvedimento che gli ha negato l’accesso al rito con integrazione probatoria.

5. Sulla base della
rinnovata richiesta dell’imputato, il giudice del dibattimento (presa visione
degli atti contenuti nel fascicolo del Pm, acquisiti
in applicazione analogica dell’articolo 135 n. att. Cpp),
in limine litis e all’esito di una valutazione
meramente incidentale e non contenutistica dei risultati delle indagini e
dell’udienza preliminare che si traduca in una decisione sul merito dell’azione
penale, perciò immune da censure di incompatibilità
(Cassazione, Sezione sesta, 30 ottobre 2001, Calabrò,
rv 220275), verifica la doglianza relativa alla
effettiva ed oggettiva necessità dell’integrazione probatoria e, se la ritiene
fondata, instaura il rito alternativo nella fase introduttiva del dibattimento.

La sequenza, per così dire “virtuosa”
disegnata dalla Corte costituzionale appare dunque finalizzata a consentire lo
scrutinio critico del provvedimento negativo del giudice preliminare e
l’effettiva celebrazione da parte del giudice del dibattimento del giudizio abbreviato. li nucleo
essenziale di essa consiste nell’ancorare il sindacato ad un segmento procedimentale in cui é ancora possibile coniugare
l’esigenza di economia processuale con l’eventuale sconto di pena per
l’imputato, garantendo da un lato la definizione del processo con un sensibile
risparmio di tempo e di risorse, in coerenza con il principio enunciato
dall’articolo 111 comma 2 Costituzione, e dall’altro il nesso finalistico tra il trattamento premiale dell’imputato, in
caso di condanna, e la funzione deflativa del rito speciale.

5.1. Ritiene tuttavia il Collegio
che, nonostante il rispetto della sequenza procedimentale
nei termini delineati prima dal meccanismo codicistico
di cui all’articolo 438.6 Cpp e poi dalla pronuncia
additiva n. 169 del 2003 della Corte costituzionale, l’intento di assicurare la
persistenza del sinallagma fra il beneficio premiale
e la disincentivazione del dibattimento non possa
essere, sempre e comunque, realizzato.

Ed invero, qualora si sia proceduto
al giudizio ordinario a seguito del reiterato rigetto anche da parte del
giudice del dibattimento, prima che questo venga
dichiarato aperto, della rinnovata richiesta dell’imputato, condizionata ad una
integrazione probatoria necessaria, non può seriamente dubitarsì
che l’eventuale sentenza di condanna possa essere appellata, mediante uno
specifico motivo di gravarne, per l’eventuale profilo di “illegalità” della
pena inflitta. L’imputato ha infatti il diritto di
dedurre che, a causa del diniego di accesso al rito, asseritamente
ingiustificato o erroneo, non ha conseguito lo sconto di pena previsto
dall’articolo 442.2 Cpp, nonostante egli abbia
assolto l’onere di attivare nelle forme e nei termini previsti dall’ordinamento
le iniziative di volta in volta prescritte a suo carico. In tal caso,
l’imputato postula ancora una volta il sindacato da parte del giudice
dell’impugnazione delle ragioni poste a fondamento del
provvedimento negativo. Ma ‑ a ben vedere oltre il rilievo di apparenza unificante ‑ tale provvedimento viene criticato
non già in quanto preclusivo dell’accesso ad un rito speciale orinai
irreversibile, per il non consentito regresso dalle forme ordinarie in cui si
sia regolarmente svolto il giudizio e adottata la decisione di merito alla
stregua della base cognitiva formatasi nel contraddittorio dibattimentale,
bensì quale presupposto che ha condizionato la legalità della pena inflitta con
la condanna. La concreta determinazione di quest’ultima
resta infatti rivalutabile dal giudice dell’appello,
cui la relativa questione venga devoluta con uno specifico motivo di gravame,
ben potendo derivare dalla eventuale verifica di fondatezza della relativa
censura una ricaduta “sostanziale” in termini di riduzione premiale della pena.

E però, una volta accertato che
l’imputato ha ritualmente e fondatamente assolto
l’onere di attivare nelle forme e nei termini previsti dall’ordinamento le
iniziative di volta in volta poste a suo carico per indurre la forma economica
del processo, deve convenirsi, per lineari ragioni
logico‑sistematiche, che dei requisiti di legalità nella
quantificazione della pena non possa certo disinteressarsi ‑ innanzitutto ‑ il giudice che ne statuisce

l’applicazione in caso di condanna,
ancor prima che intervengano la censura dell’imputato e la revisione critica da
parte del giudice dell’impugnazione.

S’intende cioè
affermare il principio, coerente con le garanzie costituzionali del diritto di
difesa e di legalità della pena, nonché con le esigenze pure costituzionalmente
avvertite di effettività della giurisdizione e di ragionevole durata del
processo, che anche il giudice del dibattimento, a conclusione dello stesso,
considerati complessivamente gli esiti dell’istruzione probatoria e la portata
degli atti delle indagini preliminari (dei quali, a norma dell’articolo 135 n. att., ha già preso visione prima dell’apertura del
dibattimento, in vista della negativa delibazione della rinnovata richiesta di
rito abbreviato), abbia il potere‑dovere di rivalutare funditus,
nell’esercizio della plena cognitio
di merito, i connotati del parametro della oggettiva necessità
dell’integrazione probatoria, cui l’imputato abbia condizionato la richiesta di
giudizio abbreviato.

Di talché, qualora prenda atto della carenza giustificativa del pregresso provvedimento reiettivo, per un errore di valutazione circa la inidoneità
del proposto supplemento istruttorio, i cui risultati si siano per contro
rivelati decisivi per la soluzione della regiudicanda,
egli sarà tenuto, nella determinazione finale della pena da irrogare in caso di
condanna dell’imputato, ad applicare la diminuente premiale prevista
dall’articolo 442.2 Cpp, nonostante la netta
divaricazione degli itinerari procedimentali e della
giustificazione razionale della decisione.

5.2. Costituisce ulteriore
corollario del principio sopra affermato l’assunto per il quale, nelle ipotesi
in cui l’ordinamento prevede che sia lo stesso giudice del dibattimento, prima
che questo sia dichiarato aperto, a delibare per la prima volta la richiesta
dell’imputato “condizionata” ad una integrazione probatoria ed a celebrare il
giudizio abbreviato (nelle ipotesi di giudizio direttissimo e di citazione
diretta a giudizio davanti al tribunale in composizione monocratico,
a norma degli articoli 452.2 e 555.2 Cpp), le ragioni
dell’eventuale provvedimento negativo, siccome incidente sulle condizioni di
legalità della pena da irrogare, non possano sottrarsi al riesame di merito,
anche alla stregua dei risultati della svolta istruzione probatoria, da parte
dello stesso giudice e all’esito del dibattimento di primo grado ovvero, in
forza di specifico motivo di gravame, del giudice dell’impugnazione, circa la
oggettiva necessità dell’integrazione probatoria, E ciò al limitato fine,
ovviamente, non di rendere possibile un ormai non più consentito recupero del
rito speciale, bensì di applicare, in caso di condanna dell’imputato, la
diminuente di cui all’articolo 442.2 Cpp.

6. Le coordinate fin qui tracciate
consentono di trarre le conclusioni anche in ordine alla
questione controversa riguardante i processi ‑ come quello in esame ‑ nei quali alla data di pubblicazione (in Gu
28 maggio 2003) della sentenza costituzionale 169/03 sia stato già dichiarato
aperto il dibattimento e per i quali pertanto, attesa l’irreversibilità delle
forme del giudizio ordinario, non sia più percorribile il “virtuoso” ed
“economico” paradigma procedimentale indicato dalla
Consulta per assicurare, mediante la tempestiva, rinnovazione da parte
dell’imputato della richiesta precedentemente respinta dal giudice preliminare,
la convergenza biunivoca fra trattamento premiale e deflazione del
dibattimento.

Orbene, se resta valida e immanente
al sistema la forza cogente del nucleo centrale delle «ragioni che avevano
indotto con la sentenza 23/1992 a dichiarare illegittima la mancata previsione
di un sindacato giurisdizionale sul rigetto della richiesta del rito
abbreviato» per la sua pertinenza al trattamento sanzionatorio
dell’imputato, non appare giustificata, nonostante le profonde modifiche
dell’impianto normativo dell’istituto, la tesi che ritiene definitivamente
sottratta al riesame critico la decisione negativa del giudice sulla richiesta
dell’imputato subordinata ad una integrazione
probatoria necessaria ai fini della decisione, laddove la soluzione di tipo
additivo indicata dalla sentenza costituzionale 169/03 non possa in concreto
funzionare per l’orinai avvenuto superamento della fase degli atti preliminari
al dibattimento.

Anche per questa, pur residuale e per
così dire “transitoria” dimensione del fenomeno, il provvedimento negativo del
giudice, siccome incidente sostanzialmente sulla legalità della pena da irrogare in caso di condanna, deve ritenersi sindacabile,
non ex officio ma su esplicita e documentata sollecitazione dell’imputato nel
corso del dibattimento di primo grado, da parte del giudice e all’esito dello
stesso, ovvero, in forza di specifico motivo di gravame, da parte del giudice
dell’impugnazione. Entrambi i giudici sono infatti
chiamati dall’imputato a valutare (presa visione degli atti contenuti nel
fascicolo del Pm, acquisiti in applicazione analogica
dell’articolo 135 n. att. Cpp, ed alla luce altresì
del più ampio orizzonte cognitivo frutto della espletata
istruzione dibattimentale) il parametro della oggettiva ed effettiva necessità
dell’integrazione probatoria richiesta, al limitato fine non di consentire un
ormai impossibile regresso nelle forme del rito alternativo, bensì di
applicare, in caso di condanna, lo sconto di pena previsto dall’articolo 442.2 Cpp.

Attesi i riflessi sul piano
sostanziale dell’ingiustificata o erronea determinazione in senso negativo del
giudice preliminare e l’irragionevolezza di una compressione sul punto del
diritto di difesa, la netta divaricazione fra la mancata semplificazione delle
forme processuali ‑
essendosi celebrato in concreto il rito ordinario ‑ e il trattamento premiale a favore
dell’imputato, che ha legittimamente richiesto ma non
ottenuto il rito speciale, risulta dunque giustificata, ancora una volta, dalla
ineludibilità delle garanzie previste dagli articoli 3, 24 comma 2 e 25 comma 2
della Costituzione.

7. Ed è proprio questa la soluzione
interpretativa che, in relazione alla particolare
tipologia dei processi in esame, è stata recepita dalla più recente
giurisprudenza di legittimità (Cassazione, Sezione prima, 12 giugno 2003,
Gravante, rv 225986; Sezione terza, 8 gennaio 2004, Vata, rv 228003; Sezione sesta,
18 marzo 2004, Gabrielli), secondo un indirizzo
coerente e uniforme che le Su condividono.

Né costituisce espressione di un
opposto orientamento (contrariamente a quanto sembra ritenere la Sezione
rimettente) la citata pronunzia della prima Sezione, 13 gennaio 2004, Larocca, che riguarda un’ipotesi in cui la richiesta
condizionata di giudizio abbreviato, ai fini del riconoscimento della
diminuente, non era stata affatto reiterata
dall’imputato nel corso del giudizio di primo grado, essendo stato sollecitato
il sindacato sul diniego del Gup solo nel corso del
giudizio di appello. Ha osservato in proposito la Corte che l’inerzia della
parte ‑ in assenza di un corrispondente obbligo del giudice del dibattimento di primo grado di
attivarsi d’ufficio ‑ ha
efficacia preclusiva in merito alta formulazione della richiesta, per la prima
volta, nel giudizio di appello, poiché, da un lato, deve intendersi ormai
definitivamente dissolta la funzione deflativa del rito speciale per causa
imputabile all’acquiescenza dell’interessato e, dall’altro, l’assunto contrario
rimetterebbe irragionevolmente all’insindacabile opzione dell’imputato il
momento di attivazione del meccanismo di controllo giurisdizionale per il
recupero dello sconto sanzionatorio.

Soluzione preclusiva, questa, che
appare coerente sia con l’intervento additivo, effettuato
sul tessuto normativo dell’articolo 438.6 Cpp dalla
Corte costituzionale con la sentenza 169/03, che con l’articolata sequenza procedimentale sopra delineata.

Nel senso che, in tanto può porsi,
all’esito del dibattimento di primo grado e a fortiori
nel giudizio di appello, una questione di legalità
della pena, con l’eventuale riconoscimento del diritto alla diminuente a causa
dell’ingiustificato o erroneo diniego del rito abbreviato condizionato, in
quanto non si sia verificata alcuna preclusione, e cioè sempre che la richiesta
sia stata tempestivamente e inutilmente formulata per la prima volta (nei
giudizi direttissimi o a citazione diretta) o rinnovata (se già avanzata e
disattesa dal giudice preliminare) in limine litis,
ovvero e in via residuale, se tale fase sia ormai esaurita alla data di
pubblicazione della citata sentenza costituzionale, nel corso del dibattimento
di primo grado: conseguendone, come logico corollario, la decadenza e
l’inammissibilità di ogni richiesta “tardiva”.

In ordine al quesito interpretativo riportato in
premessa e sottoposto all’esame delle Su, devono essere pertanto enunciati, ai
sensi dell’articolo 173.3 n. att. Cpp,
i seguenti principi di diritto:

a) nel caso di rigetto della
richiesta condizionata di rito abbreviato, già respinta dal giudice
dell’udienza preliminare o per le indagini preliminari e
rinnovata dall’imputato prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento, ovvero formulata per la prima volta in quella fase nelle ipotesi
di giudizio direttissimo e di citazione diretta a giudizio, il giudice del
dibattimento, all’esito dello stesso, se accerta l’erroneità del provvedimento reiettivo in punto di necessità ai fini della decisione
del17ntegrazìone probatoria richiesta, applica in caso di condanna la riduzione
di pena prevista per il rito abbreviato;

b) per i processi nei quali alla data
di pubblicazione (in Gu 28 maggio 2003) della
sentenza costituzionale 169/03 sia già stato dichiarato aperto il dibattimento,
il giudice del dibattimento, all’esito dello stesso e su specifica istanza dell’imputato, se accerta l’erroneità del
provvedimento reiettivo del giudice dell’udienza
preliminare o per le indagini preliminari in punto di necessità ai fini della
decisione dell’integrazione probatoria richiesta, applica in caso di condanna
la riduzione di pena prevista per il rito abbreviato.

In conclusione, ritiene il Collegio
che l’impugnata sentenza del giudice di merito sia
coerente con i principi di diritto suenunciati e che
il ricorso per cassazione del Pg presso la Corte
d’appello di Milano, risultando infondato,
debba essere respinto.

PQM

La Corte suprema di cassazione a Su rigetta il ricorso.