Penale
Il fallo di gioco non volontario nel corso di una partita di calcio può integrare il reato di lesioni colpose. Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.19473/2005)
Il fallo di gioco non
volontario nel corso di una partita di calcio può integrare il reato di lesioni
colpose.
Corte
di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.19473/2005)
Suprema
Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.19473/2005
(Presidente: R.L. Calabresi;
Relatore: P.A. Bruno )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 27 settembre 1999, il Tribunale
di Venezia dichiarava F. D.
colpevole del reato
di lesioni volontarie aggravate, ai sensi dell’art. 582,583, comma II, n. 3,
c.p. [1] ( per aver cagionato a D. A., colpendolo violentemente con
una gomitata all’addome, nel corso di una partita di calcio, una lesione
gravissima dalla quale derivava la perdita dell’uso dell’organo della milza) e,
con la concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata
aggravante, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, nonché al
risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da determinarsi
in separata sede, con provvisionale liquidata in £ 20.5151.600, oltre
consequenziali statuizioni di legge.
La vicenda processuale riguardava un episodio
accaduto il 3/3/1995 durante un incontro di calcio del
campionato Eccellenza tra le squadre Nuova Salzano
e Jesolo 91.
Sugli sviluppi di un calcio d’angolo, il D.,
portiere dello Jesolo, aveva respinto, in elevazione,
il pallone e subito dopo, in fase di ricaduta, era stato colpito dal F.,
giocatore avversario, con una gomitata all’addome.
Immediatamente soccorso, lo stesso D. era stato trasportato all’Ospedale di Mirano dove, otto
giorni dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una perforazione
intestinale.
Pronunciando sul gravame proposto dal difensore
dell’imputato, la Corte
d’appello di Venezia riformava, in parte, l’appellata decisione, dichiarando
non doversi procedere nei confronti del F. perché il
reato ascrittogli era estinto per intervenuta prescrizione.
Confermava le disposizioni relative
all’azione civile, con ulteriori statuizioni di legge.
Avverso l’anzidetta pronuncia lo stesso difensore
e l’imputato personalmente propongono ora distinti ricorsi per cassazione,
deducendo le ragioni di censura in parte motiva indicate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore
denuncia mancanza o manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di
deposizioni testimoniali contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei
molteplici rilievi mossi nell’atto di appello.
Il secondo motivo denuncia violazione dell’art.
606 lett. e) del codice di rito, nonché mancanza e,
comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine a quella stessa
dinamica, in palese contrasto con univoche risultanze testimoniali.
Il terzo motivo denuncia identica violazione
dell’art. 606 lett. e) del codice di rito con riferimento alla ritenuta
volontarietà della duplice lesione della milza e dell’intestino, nonostante le
precise affermazioni del dr. Dall’Olivo, il chirurgo
che aveva operato la parte offesa.
Il quarto motivo eccepisce la violazione
dell’art. 606 lett. b) ed e) del codice di rito in relazione
agli artt. 50 e 51 c.p. ed alle cause di
giustificazione non codificate; nonché errata
interpretazione ed applicazione della lege penale od
illogicità della motivazione.
Contesta, in particolare, la qualificazione delle
scriminante di cui agli artt.
50, 51 c.p. (consenso dell’avente diritto ed esercizio
di un diritto) ovvero di quelle, atipiche e non codificate, dell’esercizio
dell’attività sportiva e dell’azione socialmente adeguata, sulla base,
peraltro, di autorevoli insegnamenti di questo Giudice di legittimità.
Il quinto motivo denuncia violazione dell’art.
606 lett. b) c.p.p. in
relazione agli artt. 582, 590 c.p.; errata interpretazione ed applicazione della
legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di
specie, sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai sensi
dell’art. 590 c.p.
Il primo motivo del ricorso proposto
personalmente dall’imputato riproduce, in buona sostanza, le censure già
espresse nel ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale,
in ordine alla lettura delle risultanze testimoniali.
Il secondo motivo eccepisce inosservanza o
erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’art. 606, lett. b) del
codice di rito, sul riflesso, fondato anche su diversi richiami
giurisprudenziali di legittimità e di merito, che nel caso di specie, sarebbe
operante la scriminante del consenso dell’avente diritto nell’ambito del rischio consentito che ogni
giocatore conosce ed accetta e che l’ordinamento non punisce per l’interesse
pubblico sotteso alla pratica sportiva.
Le censure relative alla
motivazione ed alla metodologia di lettura delle risultanze di causa, che
sostanziano i motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore
ed il primo motivo del ricorso dell’imputato, valutate globalmente per identità
di ratio, devono essere disattese in quanto si risolvono in censure di merito.
Peraltro, la dinamica del
sinistro, nelle sue particolari modalità, risulta delineata sulla base di
un’argomentazione immune da incongruenze di sorta.
Dal coacervo delle motivazioni della sentenza di
primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti in punto di penale
responsabilità, si integrano vicendevolmente,
costituendo una sola entità giuridica, risulta infatti accertato che le gravi
conseguenze fisiche patite dal D. sono riconducibili alla gomitata inferta dal
F., nel corso di un’azione di gioco.
Il dato sostanziale, emerso pacificamente dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate divergenze
su particolari ininfluenti e marginali, depone incontrovertibilmente
per l’ascrivibilità del fatti allo stesso imputato e
per l’accidentalità dell’evento nell’ambito di una ordinaria fase di gioco, non
essendo emerso da alcunché che il colpo sia stato inferto deliberatamente od in
un diverso contesto, vale a dire a gioco fermo, con lo specifico e diretto
intendimento di aggredire la persona offesa.
In questa sede di legittimità risultano, allora,
insindacabili la ricostruzione della dinamica
dell’incidente, la determinazione dell’evento lesivo e la sua riconducibilità all’azione violenta del F.
L’esistenza di un idoneo apparato giustificativo
a fondamento della versione dei fatti prescelta dal giudice del merito non
lascia, dunque, spazio a natura ed eziologia delle lesioni riportate dalla
persona offesa, a fronte delle dichiarazioni, giustamente valorizzate,
del consulente di parte civile e del chirurgo che aveva operato il D.
Le censure di parte vanno, poi, disattese nella
misura in cui, sono intese alla contestazione del mancato rilievo dell’art. 129
c.p.p., a fronte della causa
estintiva maturata per decorso del termine
prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa sede di
legittimità.
È ius receptum, infatti, che l’art. 129 c.p.p., come, del resto, è fatto palese dal
significato letterale delle locuzioni usate dalla stessa norma, postula che, in
presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice debba privilegiare la
pronuncia di proscioglimento nel merito, con formula corrispondente, soltanto
quando dagli atti di causa risulti evidente, e, dunque, con rilievo percettivo ictu oculi, che il fatto non
sussiste o che l’imputato non lo ha commesso e che il fatto non costituisce
reato o non è previsto dalla legge come reato (cfr.
Cass. n. 48527 del 18/11/2003, rv. 228505, secondo
cui la valutazione che, in proposito, deve essere compiuta dal giudice
appartiene più al concetto di constatazione che a quello di apprezzamento;
con la conseguenza che, qualora le risultanze processuali siano tali da
condurre a diverse ed alternative interpretazioni, senza che risulti evidente
la prova dell’estraneità dell’imputato al fatto criminoso, non può essere
applicata la regola di giudizio ex art. 530, comma II cod. proc.
pen., la quale equipara la
prova incompleta, contraddittoria od insufficiente alla mancanza di prova, ma
deve essere dichiarata la causa estintiva della
prescrizione).
La Corte di merito ha correttamente applicato tale
principio giurisprudenziale rilevando che non risultava
evidente in atti alcuna situazione sostanziale che potesse giustificare il
proscioglimento in merito del F., da privilegiare rispetto alla declaratoria
della causa estintiva del reato per prescrizione.
Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le doglianze di parte, espresse nei
motivi quarto e quinto del ricorso del difensore e nel motivo secondo
dell’impugnazione dello stesso imputato, relativamente alla qualificazione
giuridica del fatto in questione.
Profilo questo che, nell’economia del giudizio,
mantiene la sua rilevanza anche in presenza di una
causa estintiva, per la ricaduta che, agli effetti
civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini della determinazione del
quantum risarcitorio.
Orbene, in materia di lesioni personali derivanti
dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali
hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito
sportivo, nozione che ricomprende tutti quei
comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo
svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente
perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica
di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio
consentito.
Si tratta di un’area di non punibilità, la cui
giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica
di una condizione scriminante.
Il quesito interpretativo se l’esimente in
questione debba essere ricondotta al paradigma del
consenso di una tipica causa di giustificazione prevista dal sistema positivo,
ovvero all’area delle cause di giustificazione c.d. non codificate è stato
risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso, in
considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette
alla pratica dello sport (cfr., tra le altre, Cass.
sez. IV, 12/11/1999, n. 2765, rv. 217643; id., sez. V, 2/6/2000, n. 8910, rv. 216716).
Tale interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la riconducibilità
ad una tipica causa di giustificazione comporterebbe non trascurabili problemi
di coordinamento con il generale principio della non disponibilità di beni
giuridici fondamentali, quali la salute o anche la vita, dotati, certamente, di
valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla pratica sportiva
l’ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo.
La considerazione privilegiata attiene sia ad una
duplice prospettiva, sia individuale, sul piano della tutela della persona, sia
di carattere sociale; entrambe meritevoli di protezione.
Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico,
sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante
al rispetto delle norme ed all’acquisizione della regola di vita secondo cui il
conseguimento di determinati obiettivi (quale può essere la vittoria di una
gara o il miglioramento di record personale) è possibile solo attraverso
l’applicazione, il sacrificio e l’allenamento e, soprattutto, deve essere il
risultato di tali componenti, senza callide o pericolose scorciatoie.
Ed in tale prospettiva, lo sport diventa anche
formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo
spirito giusto, la grande competizione della vita che
li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove
interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e
del prossimo.
La valenza positiva
dello sport la si coglie, in modo più vistoso, in chiave sociale, con
riferimento alle discipline di squadra, in quanto al valore del benessere
fisico, si accompagna quello della socializzazione, con evidente ricaduta nella
sfera di previsione dell’art. 2 della Carta Costituzionale, alla luce del
riferimento alla formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità, tra
le quali sono certamente da ricomprendere anche le
associazioni sportive.
Senza dire, poi, dell’ulteriore
profilo di utilità sociale connesso al fatto che lo sport può aiutare le
istituzioni a distogliere i giovani da pericolose forme di devianza.
Funzionale al perseguimento di questi valori è il
principio di lealtà e di rispetto dell’avversario, codificato mediante regole
tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta
consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche
sanzioni.
Non a caso tutti i
regolamenti delle federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali
quello della lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di
ciascun ordinamento.
Orbene, proprio sulla base di
tali principi è stata ritagliata la nozione di illecito sportivo, con
riferimento all’inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti
per ciascuna disciplina (ad esempio, determinate tipologie comportamentali
anche estranee alla competizione vera e propria; tesseramenti fraudolenti o
iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara ed altro
ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate
nell’agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento di
ciascuna federazione.
L’area del rischio consentito deve ritenersi
coincidente con quella delineata dal rispetto di quest’ultime regole, che individuano, secondo una
preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento
sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun
praticante deve aver piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di
praticare, o in forma agonistica, un determinato sport.
Le regole tecniche mirano, infatti, a
disciplinare l’uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata, in forme corrette, al
perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza
dell’avversario, (quale può essere l’impossessamento di un pallone conteso o la
realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey, pallanuoto, pallamano;
di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia, o ancora il superamento dell’avversario nel
pugilato, nella lotta ed altro ancora).
Posto che l’uso della forza fisica, nel senso
anzidetto, può essere causa di pregiudizi per l’avversario che cerchi di
opporre regole azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva.
Ma neppure in ipotesi di violazione di quelle
norme, tale da configurare illecito sportivo, viene
travalicata l’area del rischio consentito, ove la stessa violazione non sia
volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un’azione
che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare
alla non voluta elusione delle regole deliberatamente
piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l’altrui
integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di
pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del
penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa.
Il dolo ricorre quando
la circostanza di gioco è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare
lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per
ragioni estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali o per ragioni
di rivalsa, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica
dunque punitiva o da contrappasso).
È evidente che, ai fini dell’indagine in
questione, risulta decisivo accertare se il fatto si
sia o meno verificato nel corso di una tipica azione di gioco, in quanto in
ipotesi alternativa ricorre sempre una fattispecie dolosa. Quando, invece, la
violazione delle regole avvenga nel corso di una
ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la
violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici
all’avversario, ma al conseguimento, in forma illecita, e dunque antisportiva,
di un determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in
concreto che lo svolgimento di un’azione di gioco non sia stato altro che mero
pretesto per arrecare, volontariamente, danni all’avversario.
Orbene, applicando tali principi alla fattispecie
in esame, è agevole rilevare che dall’esposizione della sentenza impugnata,
integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non emerge
alcun elemento, neppure dalle dichiarazioni della persona offesa, che potesse
indurre a ritenere che il F. avesse profittato delle
circostanze di tempo e luogo per colpire deliberatamente il D., sull’impulso
motivazionale estraneo allo svolgimento della partita.
È risultato, inoltre, che il fatto lesivo h avuto
luogo nel coso di un’ordinaria azione di gioco, sugli sviluppi di un corner,
nella tipica situazione che si verifica quando il
pallone, dopo la battuta del calcio d’angolo, spiove in area avversaria e viene
conteso dal portiere e dagli altri giocatori.
Nello specifico, il D., in elevazione, era
saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato, era riuscito a
respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva subito l’azione fallosa
del F. che lo aveva colpito con una gomitata.
Quindi, certa la circostanza di gioco, certa
l’azione fallosa per violazione di una specifica regola di gioco (tipico fallo
sul portiere) ed altrettanto certo l’effetto lesivo, non risulta
indicata prova alcuna che l’impatto sia stato volontariamente inteso ad
arrecare pregiudizio all’integrità fisica dell’avversario, piuttosto che evento
conseguente ad un’intempestiva azione di contrasto (il portiere aveva già
colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto (con le braccia allargate
ed i gomiti alzai) ovvero da volontaria violazione di regole di gioco (fallo da
frustrazione) non accompagnata però da univoca volontà di ledere.
In questa logica, la parte motiva della sentenza
impugnata offre un elemento di particolare pregnanza che, riduttivamente,
è stato valorizzato dal giudice di merito, al solo fine di ribadire
il giudizio di riconducibilità del fatto lesivo al F.
E cioè la circostanza
che, al termine della partita, l’atleta si sia recato prontamente nello
spogliatoio avversario per sincerarsi delle condizioni del D., ad eloquente
riprova, ancorché postuma, non solo che era stato proprio lui l’autore del
fallo, ma, soprattutto, che non v’era stato alcun pregresso risentimento od
alcuna volontà di far male.
Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa deve essere riqualificato, ai sensi
dell’art. 590, c.p., come fatto colposo, con
conseguente statuizione nei termini indicati in dispositivo.
PQM
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza
limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto che qualifica come reato di lesione colpose.
Rigetta nel resto il ricorso.
Roma, 20 gen. 2005.
Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2005.