Assicurazione ed Infortunistica

Wednesday 22 June 2005

Il datore di lavoro deve risarcire i danni da fumo passivo.

Il datore di lavoro deve risarcire i danni da fumo passivo.

Tribunale di Roma Sezione lavoro sentenza 9 maggio-20 giugno 2005

Giudice dott. Vetritto

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 27 novembre 2002, XXX in qualità di eredi di XXX convenivano in giudizio dinanzi a questo Tribunale il Ministero XXX, deducendo che lo stesso doveva ritenersi responsabile dei gravi danni alla salute sofferti dalla loro dante causa ‑ già dipendente del Ministero ‑ per avere violato lobbligo di adottare misure idonee a tutelare la salute della propria dipendente, salvaguardandola dal fumo presente in forte concentrazione nella stanza ove la stessa lavorava.

Premesse le vicende lavorative ed illustrati e documentati i problemi di salute della XXX, richiamati il quadro normativo di riferimento e la giurisprudenza in tema di responsabilità del datore di lavoro ex articolo 2087 Cc i ricorrenti chiedevano accogliersi le seguenti conclusioni:

accertare la violazione da parte del resistente datore di lavoro delle norme innanzi citate che ponevano a suo carico lobbligo di tutelare la salute della dipendente XXX ai rischi sui luoghi di lavoro e per leffetto condannarlo al risarcimento: A) del danno biologico nella misura di euro 338.289 (lire 655.014.969) o in quella maggiore o minore ritenuta di giustizia o che dovesse essere accertata in corso di causa; B) del danno patrimoniale connesso alla perdita della capacità lavorativa specifica nella misura ritenuta equa dal giudice;  C) del danno morale nella misura di non meno di 3/4 del danno biologico o in quella maggiore  o minore ritenuta di giustizia; D) del danno esistenziale ed alla vita di relazione nella misura ritenuta equa dal giudice; oltre agli interessi e alla rivalutazione per ciascuna voce di danno dalla data dellevento al soddisfo.

Con vittoria di spese, competenze ed onorari di causa.

Si costituiva tardivamente la mattina stessa delludienza fissata ex articolo 420 Cpc ‑ alla quale, peraltro, si asteneva dal comparire ‑ la parte convenuta, che eccepiva preliminarmente lintervenuta prescrizione del diritto al risarcimento dei danni e contestava la fondatezza della domanda eccependo altresì, quanto alla richiesta di risarcimento del danno morale, lincompetenza funzionale del giudice del lavoro; concludeva per il rigetto della domanda.

Disposta ed espletata Ctu per la determinazione della misura del danno biologico e depositate note conclusive della sola parte ricorrente la causa, alludienza del 9 maggio 2005, assente la difesa del resistente, veniva quindi discussa e decisa come da allegato dispositivo.

Motivi della decisione

Deve in primo luogo evidenziarsi che leccezione di prescrizione avanzata nella memoria difensiva è inammissibile in quanto tardiva, atteso che la costituzione dellAmministrazione convenuta è avvenuta solo la mattina stessa delludienza, ben oltre il termine di cui allarticolo 416 Cpc.

Per mera completezza e solo in via incidentale può comunque rilevarsi linfondatezza di detta eccezione, basata sul presupposto che linfermità è stata diagnosticata il 25 settembre 1992, mentre il ricorso introduttivo del presente giudizio è stato depositato il 27 novembre 2002 in quanto la difesa ricorrente ha prodotto copia della lettera con la quale è stata avanzata la richiesta di tentativo di conciliazione, lettera inviata anche al Ministero e da questo ricevuta in data 8 maggio 2001, con conseguente effetto interruttivo della prescrizione.

Passando allesame del merito rileva il giudicante che i ricorrenti agiscono in qualità di eredi di XXX già dipendente del Ministero  XXX, lamentando i gravi danni alla salute derivati alla dante causa dal fumo passivo che è stata costretta a respirare per anni, e lamentano la violazione da parte dellAmministrazione dei doveri imposti dagli articoli 32 della Costituzione e 2087 del Cc.

E appena il caso di ricordare che tale ultima norma prevede che  limprenditore è tenuto ad adottare nellesercizio dellimpresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, lesperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare lintegrità  fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Sostiene la convenuta nella memoria difensiva che i ricorrenti non avrebbero dimostrato il nesso causale tra il danno lamentato ed una specifica condotta dellAmministrazione violativa degli obblighi previsti dallarticolo 2087 Cc, sul presupposto che tale specifica condotta deve necessariamente riferirsi a norme già in vigore al tempo in cui linfermità e insorta con la conseguente necessità di specifica prova che i locali nei quali la sig.ra XXX (ma il cognome esatto e XXX, come evidentemente è sfuggito al redattore della memoria) svolgeva le sue funzioni non erano dotati di quelle caratteristiche di sufficiente areazione richieste da norme in vigore tra il 1980 ed il 1992.

Appare opportuno a questo punto, anche per valutare le eccezioni della parte resistente nella giusta prospettiva, ricostruire brevemente la vicenda che ha portato alla instaurazione del presente giudizio.

XXX dante causa degli odierni ricorrenti, è stata assunta dal Ministero XXX nel 1980; nel 1992 le fu diagnosticato un tumore al polmone destro, che rese necessario lintervento chirurgico di asportazione di parte del polmone.

Da detta patologia sono derivate alla XXX una serie di patologie, tra le quali lultima è stata una grave forma depressiva che lha afflitta fino alla data della morte, avvenuta in esito ad un incidente stradale.

Sono prodotte in atti relazioni mediche dalle quali risulta che lisotipo del suo cancro è quello associato al fumo di sigaretta, sia attivo che passivo, e cioè un carcinoma epidermoidale, e che alla luce delle attuali conoscenze scientifiche ed epidemiologiche il cancro epidermoidale del  polmone della signora XXX non fumatrice, è insorto a causa dellinquinamento da fumo di sigaretta presenta nellambiente lavorativo in forte concentrazione (relazione Dott. Giulio Bigotti, in atti); nonché che la Sig.ra XXX ha contratto per causa di servizio una neoplasia polmonare destra; infatti, lisotipo di tale neoplasia (carcinoma epidermoidale non corneificante) è compatibile con una etiopatogenesi da fumo di sigaretta e, in un non fumatore, da fumo passivo. Da tale neoplasia, dalla conseguente exeresi chirurgica, dai successivi cicli di chemio e radioterapia, sono derivati una sindrome depressiva reattiva ed un indebolimento psico-fisico progressivo della predetta (relazione Dott. Gavino Cossu, pure allegata al fascicolo di parte ricorrente).

E stata altresì prodotta relazione del Dottor Benedetto Maturani, Direttore della IV Divisione del Ministero presso la quale operava la dipendente, il quale a seguito della istanza presentata dalla XXX il 17 marzo 1993 per ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della infermità ha riferito: la sig.ra XXX, non fumatrice, ha prestato servizio per ben sette anni presso la stanza n. 75 di questa Direzione Generale, insieme a tre colleghe, fumatrici e pertanto costretta ad inalare continuamente il fumo presente nella stanza in forte concentrazione.

Aggiungasi a ciò la circostanza che la suddetta stanza n.75, ubicata al di sotto del livello stradale, è scarsamente illuminata ed insufficientemente riscaldata per cui, durante i mesi invernali, veniva di rado areata mediante lapertura della finestra.

Dalla fine dellanno 1991 la predetta impiegata presta servizio nella stanza n. 81 di questa Direzione, migliore come ubicazione rispetto alla precedente, ma sempre con colleghe fumatrici.

Risulta infine dagli atti che allistanza della lavoratrice del 1993 segui un provvedimento di diniego che, impugnato dinanzi al Giudice Amministrativo, fu dallo stesso annullato (v. sentenza in atti); che a seguito di tale pronuncia, passata in giudicato, la XXX fu sottoposta a visita presso la Commissione Medica Ospedaliera dellOspedale Militare Principale di Roma ed ottenne infine il provvedimento in data 19 dicembre 1997, con il quale si riconosceva che la infermità riscontrata era dipendente da causa di servizio ed ascrivibile alla 2^ categoria di menomazione dellintegrità fisica.

La disamina dei fatti e dei documenti posti a base della domanda consente di comprendere la ragione per la quale lAmministrazione qui resistente non ha contestato lesistenza del nesso causale tra lattività lavorativa svolta ‑ o meglio, le condizioni ambientali nelle quali è stata svolta ‑ e la patologia tumorale insorta nella lavoratrice; di tale nesso, accertato con sentenza ormai passata in giudicato dal Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, non può dubitarsi, e questo stesso giudicante ha ritenuto di non dover demandare al nominato Ctu alcuna indagine in tal senso.

Il convenuto Ministero contesta invece la possibilità di equiparare il riconoscimento della infermità per causa di servizio alla responsabilità per fatto illecito del datore di lavoro.

Siffatta equivalenza non è infatti possibile, né ad onor del vero è stata prospettata dalla difesa ricorrente, che come si è sopra anticipato incentra le proprie richieste risarcitorie sulla violazione degli articoli 32 della Costituzione e 2087 Cc, cui dovrebbero aggiungersi larticolo 9 del Dpr  303/56 e larticolo 9 della legge 300/70 (cfr. pagg. 6 e 7 del ricorso).

Occorre premettere un richiamo alla costante giurisprudenza della Corte Costituzionale che, più volte investita di questioni collegate direttamente al fumo negli ambienti di lavoro, ha sottolineato che la salute è un bene primario che assurge a diritto fondamentale della persona ed impone piena ed esaustiva tutela, tale da operare sia in ambito pubblicistico sia nei rapporti di diritto privato.

Né può dimenticarsi che già con la sentenza 202/91, pur emettendo una pronuncia di inammissibilità soprattutto per motivi di non rilevanza nel giudizio a quo, la Corte già dava per pacifica la nocività del cd. fumo passivo ed affermava la legittimità di una richiesta diretta al risarcimento dei danni per detta causa in base allarticolo 32 Costituzione, invitando nel contempo il legislatore ad intervenire per la necessità di apprestare una più incisiva e completa tutela della salute dei cittadini dai danni cagionati dal fumo anche cd. passivo, trattandosi di un bene fondamentale e primario costituzionalmente garantito.

Anche con la pronuncia 399/96 la Corte ha fatto riferimento sia allarticolo 32 Costituzione, sia allarticolo 2087 Cc richiamando la giurisprudenza di legittimità secondo cui tale ultima norma come tutte le clausole generali, ha una funzione di adeguamento permanente dellordinamento alla sottostante realtà socio-economica e pertanto vale a supplire alle lacune di una normativa che non può prevedere ogni fattore di rischio, ed ha una funzione sussidiaria rispetto a questultima di adeguamento di essa al caso concreto.

Sempre con la pronuncia in esame la Corte Costituzionale, dopo aver fatto ampio riferimento alle previsioni dellarticolo 9 del Dpr 303/56 (con relativi obblighi a carico della parte datoriale) e dellarticolo 9 legge 300/70 (con i corrispondenti diritti di controllo e di promozione dellattuazione delle norme di prevenzione in favore dei lavoratori) ha precisato come tutte le disposizioni sopra richiamate abbiano natura precettiva ed impongano specifici doveri per il datore di lavoro (pubblico o privato che sia) di attivarsi perché la salute dei dipendenti sia adeguatamente tutelata, con le modalità più opportune.

Sul punto è interessante riportare che la Corte ha ritenuto di dovere aggiungere: non è dato ovviamente precisare in questa sede le varie misure possibili e le modalità di detti interventi dislocazioni, orari, impianti, fino ad eventuali divieti) dal momento che ciò discende, oltre che dal rispetto delle prescrizioni legislative, dalle diligenti valutazioni del datore di lavoro in corrispondenza alle diverse circostanze in cui viene prestata lattività lavorativa.

Preme in definitiva evidenziare che la lettura delle previsioni in esame da parte del convenuto Ministero appare a dir poco riduttiva, non potendo limitarsi lindagine alla esistenza di norme che imponessero determinate caratteristiche di areazione degli ambienti negli anni in questione ma dovendosi valutare in concreto se la situazione dellambiente lavorativo fosse tale da rendere effettiva la tutela della integrità fisica dei dipendenti; se, in altre parole, il Ministero datore di lavoro avesse in concreto adottato tutte le misure suggerite dalle conoscenze sperimentali o tecniche a detto fine.

La precisazione è di non poco momento, non potendo dubitarsi che già nel corso degli anni Ottanta la consapevolezza degli effetti nocivi del fumo non solo nei soggetti fumatori ma anche nei non fumatori esposti al fumo altrui stava prendendo piede rapidamente; non a caso sul punto nessuna contestazione è stata avanzata dalla parte resistente, limitatasi come si è detto a contestare lesistenza di una normativa specifica.

Non vi è dubbio invero che fosse di comune esperienza già nel corso del decennio precedente linsorgere della malattia della XXX la nocività del fumo anche c.d. passivo, se è vero che già nel 1991, come si è sopra ricordato, la Corte Costituzionale la dava per pacifica; che nel 1995 la questione era già approdata dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che affermavano che la disciplina in tema di divieto di propaganda pubblicitaria dei prodotti da fumo ‑risalente al 1983 ‑ trova il suo fondamento prioritario nellesigenza di tutela della salute della collettività, in una prospettiva che individua luso del tabacco come fonte possibile di danno per la salute dellindividuo fumatore ed indirettamente di danno per la salute collettiva (comprendendo tra i soggetti tutelati anche i non fumatori); che il divieto di fumo imposto dalla legge 584/75, anche se riguarda solo i locali espressamente indicati allarticolo 1, ha quale ratio giustificatrice proprio gli effetti particolarmente dannosi del fumo nei locali chiusi, evidentemente non solo a carico dei fumatori ma anche di tutti coloro che in detti luoghi si trovassero; che persino una nota pubblicità progresso molto trasmessa nella prima metà degli anni ottanta recitava chi fuma avvelena anche te, digli di smettere.

Ritiene pertanto il giudicante che non possa dubitarsi nel caso di specie che a fronte delle doglianze a suo tempo manifestate dalla XXX circa le condizioni ambientali nelle quali era costretta ad operare (sul punto non vi è alcuna contestazione da parte del Ministero) la parte datoriale abbia del tutto ignorato le conseguenze dannose che il fumo passivo poteva provocare nella salute della dipendente, omettendo di adottare qualsiasi misura atta ad evitare siffatte conseguenze, persino quella assai banale di assegnarle una stanza da condividere con colleghi non dediti allabitudine di fumare, con un comportamento che non può non ritenersi violativo dellarticolo 2087 Cc ‑ in quanto, come si è già illustrato, già allepoca erano noti i danni derivanti anche dal fumo c.d. passivo ‑ ed anche dei principi di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro.

Ritiene pertanto questo Giudice che sia senzaltro ravvisabile la dedotta responsabilità dellodierno resistente, che deve rispondere delle conseguenze dannose del proprio comportamento tutto incontestate, avendo la parte resistente omesso di presenziare a quasi tutte le udienze, e di depositare le note conclusive per le quali pure era stato concesso termine ‑ ha fornito precise risposte quanto allentità dei postumi sia direttamente ricollegabili alla patologia tumorale, sia connessi allulteriore patologia depressiva conseguita alla prima, indicando nel 55% la misura dei primi e nel 10% quella dei secondi.

La misura complessiva del 65% ‑ di poco inferiore, in definitiva, a quella individuata dal consulente di parte nella relazione originariamente allegata al fascicolo di parte ‑ dà luogo, sulla base delle vigenti tabelle, ad una liquidazione del danno biologico pari ad euro 263.725,00 allattualità.

I ricorrenti richiedono altresì la condanna dellAmministrazione al risarcimento del danno morale; la parte resistente da un lato eccepisce lincompetenza funzionale del giudice del lavoro in favore del Tribunale ordinario, dallaltro contesta la risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto i ricorrenti agiscono a titolo contrattuale mentre i danni in parola hanno natura extracontrattuale.

Leccezione di incompetenza, inammissibile in quanto anchessa tardivamente avanzata solo alla data fissata per ludienza, è in ogni caso infondata.

Se infatti è indubbio che gli odierni ricorrenti abbiano intentato lazione jure hereditatis, per far valere diritti derivati alla dante causa dallintercorso rapporto di lavoro, non può non ritenersi con la costante giurisprudenza della Suprema Corte che ove la domanda di risarcimento dei danni si fondi sulla pretesa violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi contrattuali di prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro (articolo 2087 Cc), anziché sulla dedotta esistenza di un illecito extracontrattuale (articolo 2043 Cc) la competenza sia del Giudice del lavoro.

Analogamente infondata è la seconda delle eccezioni sopra riportate, atteso che la giurisprudenza anche di legittimità ricomprende nei danni sofferti dal lavoratore in conseguenza del mancato rispetto da parte del datore di lavoro degli obblighi di sicurezza imposti dallarticolo 2087 anche il danno morale, laddove dalla inosservanza della richiamata previsione derivino al dipendente lesioni personali o uno stato di malattia (Cassazione, Sezione lavoro, 4012/98).

La fattispecie in esame rientra perfettamente nella categoria individuata dalla Suprema Corte, in considerazione dei rilevanti danni alla salute sofferti dalla XXX; danni che questo Giudice ritiene equo liquidare nella misura pari alla metà (arrotondata per eccesso) del danno biologico ‑ criterio, questo, che viene comunemente assunto per la determinazione del danno morale.

Ritiene invece il giudicante che le richieste di riconoscimento del danno patrimoniale connesso alla perdita della capacità lavorativa specifica e del danno esistenziale ed alla vita di relazione non possano essere accolte, in difetto di specifica prova, quanto alla prima, di danni patrimoniali non coperti dalla pensione privilegiata e dallequo indennizzo spettanti alla XXX in esito al riconoscimento della causa di servizio ed allinquadramento della infermità nella categoria 2^ (misura massima) di menomazione dellintegrità fisica; quanto alla seconda, di ripercussioni delle patologie sulla vita di relazione, direttamente riconducibili alle patologie stesse, tali da pregiudicarne lo svolgimento se non da escluderla.

In ordine a tale ultimo punto non può non rilevarsi che il capitolo di prova articolato in ricorso (Vero che la sig.XXX frequentava spesso i propri parenti, e che da quando fu scoperto il tumore polmonare, non gli fu più possibile recarsi in Grecia o in Abruzzo ), oltre a tradursi di fatto in una valutazione preclusa ai testi, è del tutto insufficiente a dimostrare leffettiva portata della incidenza dello stato di salute sulla normale vita di relazione.

Alla stregua delle considerazioni che precedono la domanda va quindi accolta con il riconoscimento delle due voci principali di danno e con la condanna della resistente Amministrazione al pagamento, in favore degli eredi di XXX delle somme indicate in dispositivo, liquidate allattualità.

A carico del Ministero soccombente vanno altresì poste come di norma le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, e quelle relative allespletata consulenza, liquidate con separato decreto.

Tali i motivi della decisione in epigrafe.