Penale

Tuesday 25 September 2007

I reati riconducibili ai falsi nelle autocertificazioni.

I reati riconducibili ai falsi
nelle autocertificazioni.

Cassazione – Sezioni unite penali – sentenza 28 giugno – 24 settembre 2007, n.
35488

Presidente
Morelli – Relatore Fiale

Pm Ciani – difforme – Ricorrente
Scelsi ed altro

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bari,
con sentenza del 27.1.2006, confermava la sentenza 3.12.2002 del Tribunale di
Foggia, che aveva affermato la responsabilità penale di Scelsi Domenico e Liso
Beatrice in ordine ai delitti di cui:

a) agli artt. 110 e 483 cod. pen., in relaz. all’art. 26 della
legge n. 15/1968, perché, in concorso tra loro, nelle qualità di legali
rappresentanti, rispettivamente, della s.p.a. Icop e della s.r.l. Elca, società
facenti parte del consorzio Sierp – avendo inviato all’Amministrazione provinciale
di Foggia, nella richiesta di partecipazione alla procedura di licitazione
privata per l’appalto dei lavori di costruzione della nuova sede dell’Istituto
polivalente di Manfredonia, due distinte dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà nelle quali falsamente affermavano che le società anzidette erano
iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al 24.11.1999
(mentre, in realtà, detta iscrizione era stata conseguita dalla s.p.a. Icop il
30.11.1999 e dalla s.r.l. Elca il 14.12.1999) – attestavano falsamente fatti
dei quali le rispettive dichiarazioni sostitutive erano destinate a provare la
verità – in Foggia, l’1.12.1999;

b) agli artt. 110, 48 e 479 cod.
pen., perché, in concorso tra loro, con le condotte
dianzi descritte, inducevano in errore, sull’effettiva esistenza di un
requisito indispensabile di partecipazione alla licitazione privata, il
dirigente dei servizi tecnici ed i componenti della Giunta provinciale, i
quali, sulla base delle dette false dichiarazioni, attestavano falsamente negli
atti pubblici rispettivamente adottati (verbali del 2.12.1999 e del 9.2.2000 e
proposta di aggiudicazione dell’appalto del 26.1.2000) che le due imprese
anzidette erano iscritte all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al
24.11.1999

e,
riconosciute circostanze attenuanti generiche, ritenuto il concorso formale dei
reati, aveva condannato ciascuno alla pena complessiva di anni uno di
reclusione, concedendo ad entrambi i doppi benefici di legge.

La Corte territoriale rigettava
le impugnazioni degli imputati volte a contestare la sussistenza delle figure
criminose e poneva in rilievo, innanzitutto, la situazione di fatto accertata,
non contestata dagli stessi appellanti.

Essi avevano partecipato alla
licitazione privata per l’appalto dei lavori di costruzione sopra specificati
e, come richiesto dal bando, avevano allegato le dichiarazioni sostitutive di
atto di notorietà nelle quali avevano attestato che la società da ciascuno
rappresentata era iscritta all’Albo nazionale costruttori
sin da data anteriore al 24 novembre 1999, requisito indispensabile per la
partecipazione alla gara in quanto ad essa la detta iscrizione doveva
preesistere.

Per le caratteristiche di
convenienza della proposta di tali società, la aggiudicazione
dell’appalto era avvenuta in loro favore ed i conseguenti atti deliberativi e
dispositivi della procedura erano stati redatti sul presupposto – attestato dai
pubblici ufficiali redigenti sulla base delle anzidette dichiarazioni
sostitutive di atto di notorietà, facenti fede di quanto dichiarato – che le
imprese aggiudicatarie presentavano il requisito della iscrizione all’Anc alla
data della presentazione della offerta.

La Corte di merito osservava
che:

– la presentazione delle
dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà con contenuto ideologicamente
falso integra il reato previsto dall’art. 483 cod. pen.,
posto che del falso deve rispondere il dichiarante in relazione ad un
preesistente obbligo di attestare il vero (art. 26 della legge n. 15 del 1968),
senza che occorra la prova del dolo specifico, essendo sufficiente il dolo
generico per la configurazione del reato;

– la condotta in esame ha poi
dato luogo, nella specie, ad un ulteriore reato continuato di falso ideologico,
questa volta per induzione in errore dei pubblici ufficiali, posto che nei tre
diversi atti specificati nel capo di imputazione, e precisamente nella parte
dei provvedimenti destinata a far constare pubblicamente l’esistenza dei
requisiti di legge, essi hanno dato atto del requisito della anteriorità della
iscrizione delle imprese all’Albo.

I giudici di appello
argomentavano sulla esistenza del concorso tra i due reati, citando la
giurisprudenza di questa Corte che lo sostiene quando
la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, si pone
anche in rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico
ufficiale ha posto in essere (Cass., Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 38453,
Perfetto).

Avverso tale
sentenza ha proposto ricorso il difensore degli imputati, il quale – con
un unico motivo, formulato ai sensi dell’art. 606, lett. b) ed e), c.p.p. – ha
chiesto di ritenere assorbito il reato sub B) (falso ideologico per induzione
in errore, ex artt. 48 e 479 cod. pen.) in quello sub A) (falso ideologico del
privato, ex art. 483 cod. pen.).

Viene
evidenziato nel ricorso un contrasto esistente sul punto nella giurisprudenza
di legittimità, ove una tesi diversa da quella recepita dai giudici del merito
è orientata nel senso che il falso per induzione in errore del pubblico
ufficiale sarebbe configurabile soltanto nella ipotesi in cui la falsa
attestazione provenga da questi sulla base di dichiarazioni del privato che
però egli integri con una attestazione di rispondenza al vero. Se invece
l’attestazione proviene dal privato e il pubblico ufficiale la riporta come
tale nell’atto pubblico a sua firma, ossia si limita a riprodurla, allora
dovrebbe riconoscersi che di falso vi è solo la dichiarazione del privato, il
quale ne è l’autore immediato, mentre non vi è falso per induzione con autore
mediato (così Cass.: Sez. I, 26
maggio 1987, n. 2222, Crespi; Sez. VI, 28 giugno 1994, n. 8996, P.M. in proc.
Zungoli).

Prospetta al riguardo la difesa che, nella motivazione della sentenza impugnata,
non vi sarebbe menzione alcuna della attestazione integrativa (quid pluris) dei
pubblici ufficiali sulla veridicità delle dichiarazioni dei privati e quindi
non potrebbe configurarsi induzione in errore dei primi, con la conseguenza che
gli imputati non potrebbero essere chiamati a rispondere del reato di cui agli
artt. 48 e 479 cod. pen. Tanto si evincerebbe anche dal tenore letterale degli
atti pubblici indicati nel capo di imputazione.

La Corte territoriale, in
particolare, non si sarebbe soffermata su due requisiti ineludibili per la
configurazione del reato e nella specie mancanti: 1) il rilievo, ai fini della
parte narrativa dell’atto pubblico, della falsa attestazione che ne costituisce
la premessa; 2) l’obbligo giuridico di verifica, da parte dell’organo
decidente, sul fatto falsamente attestato. Proprio la assenza
di tale obbligo sarebbe sintomatico del fatto che i pubblici ufficiali si sono
limitati a trasfondere negli atti a loro firma i fatti (falsi) attestati dai
privati.

Si rappresenta, infine, che nella
stessa sentenza Perfetto, evocata nella decisione impugnata e sostenitrice
della possibilità del concorso fra i due reati in contestazione, la sussistenza
del delitto ex artt. 48 e 479 cod. pen. sarebbe
comunque subordinata ad un elemento non presente nel caso di specie: e cioè che
la falsa attestazione del privato raccolta dal pubblico ufficiale sia
utilizzata da questi per descrivere una situazione di fatto più ampia di quella
certificata dal mentitore.

Il ricorso è stato assegnato alla
quinta Sezione penale di questa Corte Suprema, la quale, all’udienza dell’11
aprile 2007, ha
rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla materia e (con
ordinanza depositata il successivo 20 aprile) ha rimesso la decisione alle
Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p.

Nell’ordinanza di rimessione è
stato posto in rilievo come il tema effettivo del contrasto non sia tanto
quello del concorso fra il reato di cui all’art. 483 cod. pen. e quello di falso ideologico per induzione (ex artt. 48 e
479 cod. pen.), quanto quello degli esatti termini per la configurazione di
questo secondo reato, pure in presenza (o meno) del primo.

Il reato in questione si
struttura per l’esistenza di una falsità del privato (quella del decipiens) che
determina un’altra falsità – ideologica in atto pubblico – posta in essere dal
deceptus (il pubblico ufficiale), che però non risponde di essa
per mancanza di dolo.

La questione da risolvere,
dunque, è se, nella specie, oltre al falso ideologico del privato ex art. 483
cod. pen., la condotta dei pubblici ufficiali abbia
dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui
all’art. 479 cod. pen., tenendo conto, in punto di fatto, che, secondo
l’accusa, nella specie i pubblici ufficiali si limitarono a prendere atto della
attestazione dei privati sulla data della iscrizione all’Albo.

Il panorama giurisprudenziale che
è sullo sfondo della vicenda processuale vede, da un lato, la presa di
posizione delle Sezioni Unite con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G.
in proc. Proietti, nella cui motivazione si legge che l’atto pubblico, nel
quale sia richiamato altro atto ideologicamente falso, è anch’esso falso,
quantomeno perché certifica l’esistenza di attestazioni presumendole
"vere", con la conseguenza che se, invece, le attestazioni richiamate
sono false, è falso pure l’atto pubblico che le pone a premessa.

L’opposto orientamento è quello
secondo cui la falsità ideologica del privato non concorre con il delitto di
falso per induzione in errore del pubblico ufficiale quando
l’atto pubblico da questi adottato, a seguito della presentazione dell’atto
falso del privato, non è inteso ad accertare proprio "il fatto"
oggetto della attestazione falsa del privato ma, più semplicemente, l’esistenza
dell’"atto" del privato in cui, questi, ha trasfuso l’attestazione di
un certo fatto (così Sez. V: 19 maggio 2003, n. 22021, Carbini; 20 giugno 2006,
n. 21209, Bartolazzi).

Ancora, la sentenza della Sez. V,
26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, afferma che solo quando il pubblico
ufficiale, inconsapevolmente, raccolga dal privato una falsa attestazione
relativa a fatti dei quali essa è destinata a provare la verità e quando detta
attestazione venga poi utilizzata dal soggetto
ingannato per descrivere od attestare una situazione di fatto più ampia di
quella certificata dal mentitore, resta integrata la fattispecie del falso
ideologico per induzione (artt. 48-479, 48-480, 48-481 cod. pen.), la quale può
concorrere con il delitto di cui all’art. 483 cod. pen.,
quando la falsa dichiarazione del privato, prevista di per sé come reato, è in
rapporto strumentale con la falsità ideologica che il pubblico ufficiale, in
quanto autore mediato, ha posto in essere.

Dunque, secondo quest’ultimo
orientamento, il pubblico ufficiale, quando si limita a riportare la esistenza della attestazione del privato (poi risultata
falsa), non realizza una attestazione falsa ma svolge una argomentazione errata
(consistente nel presupporre come vero il fatto attestato dal privato) che dà
luogo ad una conclusione falsa. Tale distinzione non è ritenuta rilevante,
invece, nell’anzidetta sentenza delle Sezioni unite.

Il Primo Presidente aggiunto ha
assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione
l’odierna udienza pubblica.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato
perché infondato.

1. Sussiste anzitutto, nella
fattispecie in esame, il reato di cui all’art. 483 cod. pen.,

considerato
che nelle due distinte dichiarazioni sostitutive di certificazione (destinate a
provare la verità dei fatti dichiarati) gli imputati hanno falsamente attestato
il possesso, da parte delle imprese societarie da loro rappresentate, di un
requisito indispensabile per la partecipazione all’appalto e, a maggior
ragione, per la relativa aggiudicazione.

Presupposto del delitto di
falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 cod. pen.) è
l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca
all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così
collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante
di dichiarare il vero [vedi Sezioni Unite: 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e
9.3.2000, n. 28, Gabrielli].

Per l’individuazione delle norme
giuridiche che, nella specie, istituiscono l’efficacia probante della
dichiarazione sostitutiva, equiparandola anche alla dichiarazione fatta a
pubblico ufficiale ai fini e per gli effetti dell’applicazione delle sanzioni
del codice penale, va ricordato che la "dichiarazione sostitutiva di
certificazione" è stata inizialmente regolata dall’art. 2 della legge
4.1.1968, n. 15 (Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione
e autenticazione di firme) – abrogata dall’art. 77 del D.P.R. n. 445/2000 – ed
essa è destinata, tra l’altro, a comprovare "le iscrizioni in albi o
elenchi tenuti dalla pubblica amministrazione" (tale deve intendersi l’Albo nazionale costruttori).

La stessa legge n. 15/1968
richiedeva che la dichiarazione sostitutiva di certificazione fosse sottoscritta dall’interessato e autenticata,
stabilendo che le dichiarazioni autenticate "sono considerate come fatte a
pubblico ufficiale".

All’epoca dei fatti per i quali
si procede vigeva la legge 15.5.1997, n. 127 (c.d.
Bassanini bis), come modificata dalla legge 16.6.1998, n. 191 (c.d. Bassanini
ter), ed era stata eliminata la necessità di autenticazione della firma,
sostituita dalla produzione, in una con la dichiarazione, della fotocopia non
autenticata di un documento di identità del sottoscrittore (modalità attuata in
concreto nella vicenda che ci occupa).

La materia ha trovato poi
sistemazione organica nel D.P.R. 28.12.2000, n. 445 (Testo unico in materia di
documentazione amministrativa), che ha stabilito la non necessità di autentica
di firma per le dichiarazioni sostitutive di certificazione, ribadendo, ai fini penali, che "le dichiarazioni sostitutive rese
ai sensi degli artt. 46 e 47 … sono considerate come fatte a pubblico
ufficiale".

Ciò non significa, però, che
soltanto a fare data dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 445/2000 le
dichiarazioni sostitutive di certificazione non richiedenti autentica di firma
(come quelle rese nel procedimento in esame) possano considerarsi, ai fini penali, come fatte a pubblico ufficiale e, quindi,
presentino uno dei requisiti rilevanti per la configurazione del delitto di cui
all’art. 483 cod. pen.

È vero che nella legge n. 15/1968
la parificazione della presentazione della dichiarazione sostitutiva alle
dichiarazioni direttamente fatte a pubblico ufficiale riguardava le
dichiarazioni ritualmente autenticate; deve però ritenersi che, caduta la obbligatorietà dell’autenticazione, era venuta meno la
necessità della sussistenza di tale condizione ma non anche la doverosità
dell’equiparazione già operata dall’art. 26 della stessa legge n. 15/1968 e
ribadita dal legislatore del 2000, che, con il Testo unico (in conformità ai
principi fissati dalla legge-delega 8.3.1999, n. 50), non ha innovato
ma ha recepito e riorganizzato le precedenti normazioni.

Nella fattispecie in esame, in
conclusione, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. non
può ritenersi escluso dalla circostanza che le attestazioni dei ricorrenti
(concernenti l’iscrizione delle società da loro rappresentate all’Albo
nazionale costruttori in data anteriore al 24 novembre 1999) sono contenute in
autocertificazioni recanti sottoscrizioni non autenticate ma ritualmente
prodotte, a corredo della istanza principale, unitamente alla fotocopia di un
documento di identificazione (secondo le modalità all’epoca previste dalla
legge).

2. Tanto premesso, va rilevato
che la questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste
nello stabilire se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato (del
quale, nella specie, è ravvisata la sussistenza) concorra
con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella
redazione dell’atto pubblico al quale l’attestazione inerisca e quali siano le
condizioni per la configurazione di questo secondo reato, in presenza (o meno)
del primo.

3. In relazione alla
individuazione delle condizioni di configurabilità del reato di cui agli artt.
48 e 479 cod. pen. esiste effettivamente un contrasto
nella giurisprudenza di questa Corte Suprema.

3.1 Le Sezioni Unite – con la
sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G. in proc. Proietti – hanno avuto modo
di pronunciarsi sulla portata del falso ideologico in atto pubblico mediante
induzione in errore del pubblico ufficiale, in una fattispecie, però, nella
quale non risultava valorizzata la presenza di condotte presupposte rilevanti
ai sensi dell’art. 483 cod. pen..

La vicenda che aveva dato luogo
alla questione era quella del rilascio di un diploma di laurea, previa
redazione del verbale della relativa seduta, atto, quest’ultimo, nel quale si
era attestato il superamento, da parte del laureando, degli esami del corso,
mentre tale superamento non era mai avvenuto, essendo stato documentato
dall’interessato, con la complicità di un dipendente della università, mediante
falsi statini di esame e falsi verbali delle sedute di esame.

Il giudice del merito era
pervenuto ad una pronuncia assolutoria, avendo escluso la configurabilità del
reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. sul
presupposto che il verbale dell’esame di laurea e il relativo diploma non
attesterebbero e non proverebbero la verità del fatto presupposto (superamento
degli esami del corso) in quanto la Commissione ne prenderebbe atto senza effettuare
alcun accertamento.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto
tale ragionamento non condivisibile ed hanno affermato che tutte le volte in
cui il pubblico ufficiale adotti un provvedimento, a contenuto descrittivo o
dispositivo, dando atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza
delle condizioni richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni
non veri prodotti dal privato, si è in presenza di un
falso del pubblico ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod.
pen., colui che ha posto in essere l’atto o l’attestazione non vera. Il
provvedimento del pubblico ufficiale, infatti, è ideologicamente falso in
quanto adottato sulla base di un presupposto che in realtà non esiste. Di tale
falso, però, non risponde il pubblico ufficiale, perché in buona fede in quanto
tratto in inganno, bensì il soggetto che lo ha ingannato. Le Sezioni Unite
hanno argomentato, al riguardo, che "Il procedimento di formazione di
qualsiasi atto amministrativo prevede come primo momento l’accertamento dei
presupposti, accertamento che viene compiuto dalla
stessa autorità che deve porre in essere l’atto o direttamente o, più
frequentemente, sulla base di documenti che possono consistere anche in atti
pubblici e certificati rilasciati da altre autorità; e l’accertamento trova poi
la sua attestazione nel preambolo dell’atto, quali che siano le espressioni
usate, usualmente concise tipo "Visti gli atti relativi a …"
"Visti gli attestati….", peraltro da
intendere nel senso che con le stesse viene attestato, sulla base dei
documenti, dei certificati etc. forniti dal richiedente all’ufficio, la
sussistenza dei presupposti dell’atto. E quindi, se detti documenti,
certificati etc. sono falsi, materialmente o ideologicamente, deriva che anche
la conseguente attestazione circa l’esistenza dei presupposti è falsa".

A tale
orientamento si sono conformate alcune successive decisioni delle Sezioni semplici
di questa Corte Suprema (vedi Sez. VI, 19 gennaio 1996, n. 607 Ceccarello; Sez.
V, 5 marzo 1997, n. 2043, Bornigia; Sez. V, 28 gennaio 2005, n. 2703, Foffì,
quest’ultima in una fattispecie di falsa attestazione dell’iscrizione negli
elenchi degli invalidi civili, utilizzata per ottenere un posto di lavoro con
preferenza rispetto agli altri aspiranti).

3.2 Altro orientamento
giurisprudenziale si pone in termini riduttivi rispetto all’anzidetta
interpretazione "totalizzante" delle Sezioni Unite ed afferma la
configurabilità di fattispecie nelle quali il falso per induzione non sussiste
nei suoi elementi costitutivi, perché il tipo di attestazione che il pubblico
ufficiale redige non è falso: ciò si verifica quando
la attestazione ha ad oggetto non il fatto attestato (falsamente) dal privato
ma la circostanza che lo stesso ha reso la relativa attestazione, cioè
l’esistenza dell’atto (contenente la falsa attestazione) proveniente dal
privato.

In tali ipotesi non si può
parlare di falsità ideologica commessa, sia pure senza dolo, dal pubblico
ufficiale, in quanto ciò che egli attesta o riporta corrisponde a quanto
realmente esistente, anche se il contenuto non è vero: non vi è, dunque,
un’attestazione falsa, ma la mera espressione di un’argomentazione errata. Può
ravvisarsi, invece, il reato di cui all’art. 483 cod. pen. (o
495 a
seconda dell’oggetto delle dichiarazioni) quando la attestazione del privato al
pubblico ufficiale in atto pubblico abbia avuto ad oggetto fatti dei quali
l’atto era destinato a provare la verità.

In questo senso si è espressa la V Sezione, con la
sentenza 26 ottobre 2001, n. 38453, Perfetto, che riprende integralmente la
diffusa motivazione della sentenza 4 gennaio 1995, n. 1408, Scarvaci.

Secondo queste sentenze, in
particolare:

"Perché si renda applicabile
l’art. 48 cod. pen. ai reati di falso è necessario che
l’autore immediato (il soggetto ingannato) non si limiti ad esprimere una
argomentazione errata ma compia una attestazione falsa.

Le ipotesi possibili sono cinque:

a) il soggetto ingannato si
limita a riprodurre la dichiarazione del mentitore, documentandola;

b) ovvero, pur ponendola
espressamente a premessa di una propria argomentazione, non giunge a
conclusioni errate;

c) il soggetto ingannato non solo
riproduce la dichiarazione del mentitore ma la
utilizza anche come premessa di una argomentazione che sbocchi in una
conclusione errata;

d) il soggetto ingannato descrive
e attesta lo stesso fatto rappresentato nella dichiarazione del mentitore, ma
senza far cenno di tale dichiarazione;

e) il soggetto ingannato descrive
o attesta una situazione più ampia di quella rappresentata dal mentitore".

Soltanto l’ultima fattispecie
integra la ipotesi del falso per induzione in errore
del pubblico ufficiale.

"Nelle prime due ipotesi non
può trovare applicazione l’art. 48 cod. pen., in
quanto l’attestazione del soggetto destinatario dell’inganno non è falsa: non è
falsa nel caso a), perché essa rappresenta un fatto effettivamente
verificatosi, vale a dire la dichiarazione del mentitore; non lo è nel caso b),
perché la falsità della dichiarazione del mentitore non si estende alla
conclusione del ragionamento in cui funge da premessa.

L’art. 48 non può trovare
applicazione neppure nel caso sub c), perché sebbene siano false sia le
dichiarazioni del mentitore sia la conclusione del soggetto ingannato, costui
commette un errore non un falso. La proposizione che viene
assunta come premessa del ragionamento dal soggetto ingannato, infatti, non è
immediatamente descrittiva del fatto rappresentato dal mentitore, bensì della
intervenuta dichiarazione di costui: è una attestazione della attestazione ed è
vera.

La falsità della conclusione
dell’argomento, quindi, non dipende dalla falsità della premessa (che è vera),
bensì dalla invalidità dell’argomento nel quale la conclusione viene tratta come conseguenza necessaria della attestazione
del mentitore senza considerare la possibilità che questa sia falsa. In altri
termini, si assume come premessa il fatto che è
intervenuta l’attestazione del mentitore e si trae la conclusione come se la
premessa fosse direttamente il fatto rappresentato in quella attestazione.

In tutte queste ipotesi è invece
configurabile il reato previsto dall’art. 483 cod. pen. o
quelli previsti dagli artt. 495, 496, 567 comma 2, ove
ne ricorrano i presupposti specifici. Si tratta infatti
di fattispecie nelle quali si richiede la falsità di una dichiarazione
proveniente da un privato che viene recepita come tale nella attestazione di un
pubblico ufficiale, il quale non commette neppure oggettivamente alcuna
falsità.

Nell’ipotesi d) il soggetto
ingannato descrive come se fosse stato sa lui direttamente constatato il
medesimo fatto che invece appreso dalla dichiarazione mendace del mentitore:
non pare possa dubitarsi che in questo caso non si rende applicabile l’art. 48
cod. pen. perché è lo stesso soggetto ingannato a
commettere una falsità ideologica, nel momento in cui fa apparire come da lui
percepiti i fatti che gli sono stati riferiti.

Risulta invece applicabile l’art.
48 cod. pen. nella ipotesi e), perché in essa la falsa
dichiarazione del mentitore è solo uno degli elementi dell’inganno che
determina nel soggetto ingannato una conoscenza errata, e di conseguenza una
falsa attestazione da lui proveniente anche se solo oggettivamente".

Con la sentenza della Sez. V, 19
maggio 2003, n. 22021, Carbini è stato poi affermato, pur sulla base di
principi omogenei a quelli enunciati nella sentenza Perfetto, che si può
configurare il falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale ingannato, del
quale deve rispondere colui che ha reso la dichiarazione mendace, ove sia
riscontrabile nell’atto stesso un quid pluris (cioè una situazione di fatto più
ampia) rispetto all’attestazione non veritiera o all’atto falso prodotto dal
privato, sicché (come rilevato dalla Sez. V, con la sentenza 12 gennaio 2007,
n. 545, Cogoni) "la falsa dichiarazione del mentitore è solo uno degli
elementi che determina la falsa attestazione del soggetto ingannato".

Altre pronunzie, infine, hanno
escluso ogni responsabilità del privato autore della falsa attestazione nel
caso in cui sussista un obbligo, non adempiuto, del
pubblico ufficiale di accertare la veridicità della dichiarazione (così Sez. V,
25 gennaio 2005, n. 2253, Lorenzetto).

Si è espressa, invece, per
l’irrilevanza della possibilità di controllo da parte del pubblico ufficiale
sempre la V Sezione,
con la sentenza 14 febbraio 2003, n. 7390, Porcaro.

4. Nel quadro giurisprudenziale
dianzi delineato ritiene questo Collegio di dovere ribadire l’orientamento già
espresso dalle Sezioni Unite, con la sentenza 24 febbraio 1995, n. 1827, P.G.
in proc. Proietti, secondo il quale tutte le volte in cui il pubblico ufficiale
adotti un provvedimento, a contenuto sia descrittivo sia dispositivo, dando
atto in premessa, anche implicitamente, della esistenza delle condizioni
richieste per la sua adozione, desunte da atti o attestazioni non veri prodotti
dal privato, si è in presenza di un falso del pubblico
ufficiale del quale risponde, ai sensi dell’art. 48 cod. pen., colui che ha posto
in essere l’atto o l’attestazione non vera.

Va riconfermato, al riguardo, che
il falso ideologico in documenti a contenuto dispositivo ben può investire le
attestazioni anche soltanto implicite contenute nell’atto e quei fatti,
giuridicamente rilevanti, connessi indiscutibilmente, quali presupposti, con la
parte dispositiva dell’atto medesimo (si veda già, in tal senso, Cass., Sez. Unite, 30 giugno 1984, Nirella), sia che concernano
fatti compiuti o conosciuti direttamente dal pubblico ufficiale sia che
concernano altri "fatti dei quali l’atto è destinato a provare la
verità" (art. 479, ultima parte, cod. pen.).

5. L’opposto orientamento non
può essere condiviso.

Il pubblico ufficiale, invero –
allorquando nell’atto da lui formato fa riferimento ad atti o a
"dichiarazioni sostitutive" (non veri) provenienti dal privato e
riferiti a presupposti richiesti per la legittima emanazione dello stesso atto
pubblico – non si limita ad "attestare l’attestazione del mentitore"
né a "supporre che quella attestazione sia veridica",
ma compie, sia pure implicitamente, una attestazione falsa circa la
sussistenza effettiva di quei presupposti indefettibili: attestazione di
rispondenza a verità che si connette alla funzione fidefaciente che la legge
assegna alle dichiarazioni sostitutive dei privati.

La premessa, contenuta nella
parte descrittiva dell’atto, non è la mera circostanza che sia
intervenuta un’attestazione del mentitore o che questi abbia prodotto un
atto determinato, bensì che il fatto rappresentato in quell’atto o in quella
"dichiarazione sostitutiva" sia certo, effettivamente accaduto ed
integri l’esistenza di un elemento necessario per l’emanazione dell’atto del
pubblico ufficiale. Quest’ultimo perviene ad una conclusione errata
ma l’errore non si connette alla interpretazione e/o alla valutazione
soggettiva di ciò che è ontologicamente esistente, costituendo invece il frutto
di un falso determinato dalla falsità oggettiva dei presupposti attestati nella
premessa, sicché viene esternata una non veridica rappresentazione della realtà
e ad essa viene conferita pubblica fede.

Stante il rapporto di
causa-effetto tra il fatto attestato dal privato, quale presupposto
dell’emanazione dell’atto del pubblico ufficiale, ed il contenuto dispositivo
di quest’ultimo e stante, altresì, la stretta connessione logica tra l’uno e
l’altro, la falsità del primo si riverbera sul secondo e diventa essa stessa
falsità di questo, sicché la recepita falsa attestazione del decipiens acquista
la ulteriore veste di falsa attestazione del pubblico
ufficiale deceptus sui fatti falsamente dichiarati dal primo e dei quali l’atto
pubblico è destinato a provare la verità.

Si configurano perciò, anche
sotto il profilo naturalistico, due condotte riconducibili al decipiens: una
prima condotta consistente nella redazione della falsa attestazione ed una
seconda concretatasi nell’induzione in errore del pubblico ufficiale mediante
la produzione della stessa ai fini dell’integrazione di un presupposto
dell’atto pubblico emanando, con conseguente configurabilità del concorso
materiale tra i due reati, legati anche da connessione teleologica.

Nell’atto del pubblico ufficiale
non deve necessariamente riscontrarsi un "quid pluris" (cioè una
situazione di fatto più ampia) rispetto alla dichiarazione non veritiera o
all’atto falso prodotto dal privato, poiché il reato previsto e sanzionato
dell’art. 479 cod. pen. può essere commesso con
modalità molteplici (come risulta evidente dalla stessa formulazione della
norma incriminatrice) ed in particolare attraverso la falsa attestazione non
soltanto di vicende che hanno comportato la partecipazione attiva e diretta del
pubblico ufficiale, bensì anche e comunque, indipendentemente da ciò che questi
ha compiuto, di "fatti dei quali l’atto è destinato a provare la
verità" (art. 479, ultima parte, cod. pen.), fatti suscettibili di prova
storica attraverso la loro attestazione.

La falsa premessa deve concernere
un fatto del quale l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la
verità e ciò va inteso anche quale "immutatio veri" circa l’esistenza
di un presupposto in assenza del quale il provvedimento non avrebbe
potuto essere adottato.

Restano escluse le ipotesi in cui
il pubblico ufficiale al quale l’inganno era rivolto sia
caduto in errore "per causa propria", e l’art. 48 cod. pen.,
per il richiamo al precedente art. 47, ammette pure la possibilità che
l’inganno del decipiens e la colpa del deceptus concorrano nel provocare la
falsa rappresentazione e che, di conseguenza, quest’ultimo debba eventualmente
rispondere a titolo di colpa del fatto commesso.

6. Ne consegue l’affermazione del
principio secondo il quale il delitto di falsa attestazione del privato (di cui
all’art. 483 cod. pen.) può concorrere – quando la
falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con
quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella
redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca (di cui agli artt. 48 e
479 cod. pen.), sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna
fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità.

7. Sussiste pertanto, nella
specie, anche il reato di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen.,
poiché le false dichiarazioni degli imputati, già costituenti di per sé reato,
si sono poste in rapporto strumentale con atti pubblici successivamente redatti
da pubblici ufficiali, pure affetti da falsità ideologiche, tenuto conto che:

– nel verbale del 2 dicembre
1999, la competente Commissione ha ammesso alla gara le società rappresentate
dai ricorrenti, attestando la regolarità delle loro domande di partecipazione e
la rituale produzione dei documenti richiesti nel relativo invito (ove veniva indicata, quale condizione indefettibile, la
necessità della iscrizione all’Albo nazionale costruttori in data anteriore al
24 novembre 1999);

– nel verbale del 26 gennaio
2000, la Giunta
provinciale ha ribadito la regolarità della documentazione presentata dalle
imprese partecipanti alla gara, con ciò attestando l’esistenza di tutti i
presupposti per l’assegnazione dell’appalto.

Detti atti della P.A. erano
destinati a provare la verità dell’esistenza degli enunciati presupposti
nell’ambito di un determinato procedimento di licitazione privata ed erano
produttivi di effetti, anzitutto nei confronti degli altri partecipanti alla
gara, proprio in virtù di detta esistenza. Un asserito presupposto essenziale,
invece, non esisteva in concreto e la falsa configurazione dello stesso ha
consentito l’aggiudicazione dell’appalto con preferenza rispetto alle altre
imprese concorrenti.

Incongruo sarebbe il riferimento
ad un obbligo, non adempiuto, dei pubblici ufficiali di accertare la veridicità
della dichiarazione: il meccanismo di semplificazione amministrativa,
introdotto dalle c.d. leggi Bassanini e culminato nel
T.U. n. 445 del 2000, assegna infatti una funzione
fidefaciente alle attestazioni dei privati, che si riflette automaticamente
sugli elementi attestativi della P.A., senza che questa abbia il dovere di
effettuare controlli o di acquisire conoscenze dirette.

8. Il ricorso, per tutte le
argomentazioni svolte dianzi, deve essere rigettato ed i ricorrenti devono
essere condannati, in solido, al pagamento delle spese del procedimento.

PQM

La Corte Suprema di
Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al
pagamento delle spese processuali.