Penale

Saturday 10 March 2007

I limiti oggettivi dell’ appello incidentale nel processo penale.

I limiti oggettivi dell’appello
incidentale nel processo penale.

Cassazione – Sezioni unite penali
(up) – sentenza 17 ottobre 2006 – 9 marzo 2007, n .10251

Presidente Marvulli – Relatore De
Roberto

Ricorrente Michaeler Manfred

Rilevato in fatto

1. con sentenza 10 giugno 2004 la Corte di Assiste di Bolzano
affermava la penale responsabilità di Manfred Michaeler perché resosi colpevole
del delitto di omicidio preterintenzionale, così modificata l’originaria
imputazione di omicidio volontario, per aver cagionato – quale conseguenza non
voluta – la morte di Michela De Villa per asfissia. Lo condannava,
conseguentemente, muovendo dalla pena base di anni sedici di reclusione e
tenuto conto delle contestate circostanze aggravanti di cui all’
articolo 61, n. 5 e n. 11, Cp, alla pena di anni diciotto di reclusione.

A fondamento della affermazione
di responsabilità il giudice di primo grado annoverava quattro indizi da
ritenere gravi, precisi e concordanti.

1) la presenza della vittima, la
notte in cui avvenne il suo decesso, in casa del Michaeler;

2) la distruzione e l’occultamento
del cadavere da parte dell’ imputato e la condotta
successiva del Michaeler;

3) le dichiarazioni del teste
Tassinari il quale aveva riferito di aver ricevuto le
confidenze dell’ imputato che si era confessato autore dell’ omicidio;

4) l’assenza dell’
accertamento di una diversa causa della morte e la presenza,
invece, di un assetto indiziario
qualificabile a norma dell’ articolo 192, comma 2, Cpp., univocamente
dimostrativo del fatto che la
De Villa era morta per asfissia.

Contro tale pronuncia proponeva
appello l’imputato, deducendo sia vizi procedurali sia censure di merito.

In particolare, lamentava la
nullità del decreto che dispone il giudizio e del
verbale dell’ udienza preliminare per violazione dell’ articolo 18, lettere a)
ed i), del Dpr 574/88, in quanto la versione di tali atti in lingua tedesca
sarebbe risultata non corrispondente letteralmente alla versione in lingua
italiana.

Sosteneva, inoltre, che ‑
in quanto detenuto per altro titolo ‑ non aveva potuto partecipare all’ intero dibattimento, non essendo stata disposta la sua
traduzione per le udienze successive a quella del 19 dicembre 2003. Rilevava
che la Corte
aveva ritenuto valida la sua rinuncia a comparire presentata all’
udienza del 19 settembre 2003, nonostante ad essa fosse seguita la
comparizione dell’ imputato all’ udienza del 19 dicembre 2003.

Nel merito invocava una pronuncia
di assoluzione, sostenendo l’inattendibilità delle prove testimoniali e, più in
generale, la lacunosità del quadro indiziario sulla cui base la Corte era pervenuta al
riconoscimento della sua responsabilità e alla stessa affermazione che la causa
della morte della De Villa non era riferibile ad un fatto naturale ma ad una
causa omicidiaria.

In via subordinata lamentava
l’eccessiva entità della pena inflitta, chiedendo la concessione delle
circostanze attenuanti generiche e la riduzione della pena nei minimi edittali
per il reato eventualmente ravvisato.

In relazione a tale ultimo punto
della sentenza denunciata proponeva altresì appello incidentale il Pubblico
ministero, evidenziando che la pena era stata commisurata in conseguenza di una
non corretta qualificazione giuridica del fatto contestato. Chiedeva, pertanto,
la riqualificazione del fatto stesso in omicidio volontario, potendosi, al più,
ravvisare un, ipotesi di dolo eventuale, con
determinazione della pena ritenuta di giustizia.

In sede di richieste finali il Pm
domandava l’accoglimento del proprio atto di gravame, ferma
restando la misura della pena inflitta in primo grado.

La Corte di assise di appello
di Bolzano, con sentenza 8 giugno 2005, riqualificava il fatto come omicidio
volontario e, concesse le circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti
sulle contestate aggravanti, confermava la pena già irrogata dalla Corte di
assise, questa volta, però, muovendo dalla pena base anni ventisette di
reclusione.

In particolare, i giudici di
appello rigettavano le eccezioni procedurali sollevate dall’ imputato,
osservando che le forme del processo c.d. bilingue (imposto nel caso di specie
dalla scelta da parte dell’ imputato della lingua tedesca e delle parti civili
di quella italiana) imponevano l’uso contestuale, ma non formalmente
equipollente di entrambe le lingue; nelle due versioni, inoltre, erano comunque
presenti gli elementi indispensabili affinché gli atti processuali potessero
assolvere la funzione loro affidata dal codice di rito.

La Corte riteneva altresì
destituita di fondamento la censura concernente l’illegittima celebrazione del
dibattimento in assenza, avendo l’imputato presentato il 19 settembre 2003,
nelle forme previste dall’ articolo 123 Cpp., la
dichiarazione di rinuncia, che non poteva ritenersi revocata dalla successiva
presentazione in udienza del Michaeler, resasi necessaria solo in quanto
l’imputato era stato chiamato a rendere l’esame, richiesto dal Pubblico
ministero e dalle partì civili, al quale, tra l’altro, si era rifiutato di
rispondere.

Nel merito, la Corte se, da un lato,
riteneva di non condividere
l’impianto probatorio posto a fondamento della sentenza di primo
grado, in particolare per l’inattendibilità delle dichiarazioni rese dai testì
(e, più specificamente, dal Tassinari), dall’ altro lato, perveniva ad un giudizio
di responsabilità dell’ imputato, valorizzando:

1) l’occultamento del cadavere
nel letamaio davanti la casa del Michaeler, accertato da una sentenza di
condanna divenuta irrevocabile; la tesi dell’ imputato
secondo cui avrebbe rinvenuto il corpo della De Villa privo di vita nel letto
della sua abitazione e di averlo occultato anziché denunciarne il rinvenimento
per scongiurare i sospetti che ne sarebbero derivati a causa dei suoi specifici
precedenti penali sarebbe da disattendere perché si sarebbe agevolmente
accertata la causa naturale della morte; il tutto in quadro decisamente univoco
ai fini dell’ affermazione di responsabilità ove si considerino le sconcertanti
modalità dell’ occultamento, tenuto conto che il Michaeler ha infierito sul
corpo della povera De Villa in modo selvaggio ed oltraggioso, tentando di
bruciarlo, procurandogli fratture anomale, collocandolo sotto un mucchio di
letame e mutilandolo, nell’ intento di far sparire qualsiasi possibilità di
accertare le cause della morte;

2) l’ accertamento
della causa della morte; pure se se la consulenza tecnica non ha fornito la
certezza assoluta, la Corte
di assise di appello segnala l’ assenza di elementi concreti in grado di
attribuire la morte della De Villa ad una causa naturale (possibile in
astratto, ma in concreto non probabile), nonché la presenza di un enfisema
polmonare acuto e di resti di sostanza proteica parzialmente digerita nella
trachea e nel bronco che è stata ritenuta compatibile con l’occlusione violenta
delle vie aeree per strangolamento – soffocamento; dato, questo, che
acquisterebbe decisiva significazione considerando anche i precedenti specifici
del Michaeler che dimostrano la propensione ad attingere proprio le funzioni
degli organi della respirazione;

3) un l’urlo
o rantolo” che concordemente i testi
Lombardo e Weifner dichiarano di aver percepito;

4) il viaggio intrapreso quella
stessa notte dal
Michaeler, dal Lombardo e dal Weifner che non trova altra giustificazione se
non nell’esigenza di far scomparire il cadavere della De Villa, viaggio non
andato in porto anche per la resipiscenza del Michaeler preoccupato di far
conoscere agli altri il luogo del seppellimento.

In ordine alla qualificazione
giuridica del fatto, la Corte
accoglieva l’appello incidentale del Pubblico ministero, ritenendo
l’accettazione del rischio da parte dell’ imputato
della morte della vittima ‑ e pertanto il dolo eventuale del reato di
omicidio di cui all’ articolo 575 Cpp. ‑ insita di per sé nelle modalità
della condotta (azione di soffocamento).

2. Contro la sentenza di appello,
il difensore di fiducia del Míchaeler, con atto depositato il 29 ottobre 2005
presso la

cancelleria
della Corte di appello di Trento, ricorre per cassazione proponendo cinque
ordini di motivi.

Con il primo motivo deduce la
violazione dell’ articolo 595 Cpp, dolendosi della
diversa qualificazione del fatto in omicidio volontario, conseguente all’
accoglimento dell’ appello incidentale del Pubblico ministro. Rileva a tal
riguardo che il giudice di appello aveva travalicato
l’ambito del devolutum, contraddistinto dai “punti” investiti dall’ appello
principale – “promosso dall’ imputato esclusivamente al fine di accertare
l’assenza di qualsiasi responsabilità rispetto al reato ritenuto in sentenza” ‑
ai quali l’appello incidentale doveva necessariamente limitarsi.

Con il secondo ed il terzo motivo
il ricorrente ripropone le questioni procedurali ‑già sollevate in
appello. In ordine alla violazione delle regole sul bilinguismo, evidenzia
l’estrema lacunosità della redazione in lingua tedesca degli atti dell’ udienza preliminare rispetto alla versione italiana,
che avrebbe privato l’imputato della possibilità di difendersi. Ribadisce che
gli effetti della rinuncia a comparire del 19 settembre 2003 sarebbero
stati elisi dalla successiva comparizione del Michaeler dalla quale
sarebbe desumibile l’univoca manifestazione della sua volontà di partecipare al
dibattimento cosi neutralizzando la precedente dichiarazione di volontà di non
partecipare al dibattimento stesso.

Con i restanti motivi deduce vizi
della motivazione della sentenza impugnata, della quale censura le gravi
carenze, la illogicità e la contraddittorietà quanto
alla valutazione degli elementi di prova posti a carico dell’imputato.

Sulla base di tali motivi, chiede
che la Corte
annulli la sentenza impugnata.

3. La prima Sezione di questa
Corte Suprema, assegnataria del ricorso, con ordinanza pronunciata alla udienza
pubblica del 22 febbraio 2006, rimetteva gli atti alle Su,
evidenziando, in ordine al primo motivo del ricorso, la sussistenza nella giurisprudenza di
legittimità di un contrasto interpretativo sui limiti dell’appello incidentale
del Pm.

Secondo un orientamento,
l’appello incidentale avrebbe natura accessoria rispetto a quello principale,
dovendosi limitare non solo ai capi della sentenza, ma anche ai “punti” della
decisione investiti da quest’ultimo. La sua funzione pertanto non sarebbe
quella di legittimare una impugnazione fuori termine,
ma soltanto quella di “contrastare” l’appello principale (Sezione prima, 16 dicembre 2004, Grima; Sezione terza, 14
giugno 1994, Franini; Sezione terza, 25
febbraio 1999, Coppola; Sezione prima, 2
dicembre 1999, Cucitro).

Secondo un altro indirizzo, l’appello
incidentale, pur essendo designato dalla sua natura accessoria, dovrebbe essere
contenuto nei soli “capi” della sentenza su cui si incentra l’appello
principale, potendo in tale ambito investire anche punti diversi. In caso
contrario l’appello incidentale finirebbe per perdere la sua funzione di
impugnazione, essendo comunque le parti legittimate a contrastare le iniziative
processuali avversarie (Sezione sesta, 4 ottobre 2002, Zullo). Talune
decisioni avrebbero posto in evidenza che la disciplina dell’
appello incidentale del pubblico ministero non differisce da quella
delle altre parti processuali, come si desumerebbe dall’ articolo 595, comma 3,
Cpp. (Sezione sesta, 19 gennaio 1999, Pancheri;
Sezione prima, 14 aprile 1992, Ruffalini, Sezione prima, 17 febbraio 1992,
Notarrigo).

Con decreto del 29 marzo 2006 il
Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni unite per la soluzione della
questione giuridica controversa.

Osserva in diritto

1. . Preliminare all’ esame del contrasto che ha determinato la rimessione
del ricorso alle Su è lo scrutinio delle altre due questioni processuali
sollevate dalla difesa con esse ponendosi in dubbio la stessa règolare
costituzione del rapporto processuale.

2. Con la prima il ricorrente
deduce la violazione delle norme sul bilinguismo.

Tale censura non contesta il
mancato uso della lingua materna ma la estrema
lacunosità della redazione in lingua tedesca del verbale dell’ udienza
preliminare, celebratasi il 27 gennaio 2003, e del decreto che dispone il
giudizio rispetto alla loro versione italiana, che avrebbe privato l’imputato
della possibilità di difendersi.

Il motivo è infondato.

2.1. La sentenza di primo grado
aveva respinto l’eccezione evidenziando che:

a) il verbale dell’
udienza preliminare era composto di un modulo prestampato compilato a
mano dal cancelliere e dalla
trascrizione della riproduzione fonografica in lingua tedesca, nonché di quella
stenotipica in lingua italiana;

b) le differenze riscontrabili
nelle due versioni linguistiche non avevano compromesso la sostanziale corrispondenza
di contenuto degli atti;

c) le due versioni del decreto
che dispone il giudizio erano esattamente corrispondenti, così escludendosi che
come prospettato dalla difesa, la mancata motivazione (cioè la sommaria
indicazione delle fonti di prova e dei fatti a cui
esse si riferiscono) potesse configurare un, ipotesi di nullità del decreto
stesso.

Il giudice di appello, pur dando
atto che il verbale di udienza in lingua tedesca era
stato redatto in forma più “concentrata” (tre pagine rispetto alle otto della
versione italiana) e che il decreto che dispone il giudizio in lingua tedesca
si presentava in forma più “telegrafica e meno completa” (riportando un meno
esaustivo elenco delle fonti di prova ritenute rilevanti rispetto a quello
redatto nell’ altra versione) , aveva escluso che “tale certamente non
esemplare impostazione” degli atti avesse compromesso la funzionalità degli
effetti di garanzia salvaguardati dalla normativa sul bilinguismo, posto che
nel processo comune da celebrare in una sola lingua nessuna norma impone una
maggiore o minore completezza nella formazione dei verbali e nella redazione
dei provvedimenti, essendo unicamente indispensabile che tali atti siano dotati
dei requisiti minimi sufficienti per consentire alle parti di avere certezza
degli avvenimenti verificatisi nel corso dell’ udienza e di conoscere le
ragioni ed il contenuto delle decisioni adottate dal giudice.

3. Le norme in materia di uso delle lingue italiana e tedesca nei processi penali e civili
in provincia di Bolzano sono dettate dal Dpr 574/88, e successive
modificazioni; più in particolare, il D.Lgs 283/01, ed il D.Lgs 124/05.

La giurisprudenza di questa Corte
è costante nel senso che il sistema di garanzie delineato dalla normativa ora
ricordata è predisposto al fine di consentire all’ imputato
o all’ indagato di esercitare pienamente il diritto di difesa (Sezione prima, 1
ottobre 2004, Ladurner; ma anche Corte costituzionale, sentenza 271/94),
attraverso la regola della piena “parificazione” della lingua tedesca alla
lingua italiana e dell’ impiego per ciascun atto “della lingua usata” dall’
interessato; con la conseguenza che gli atti assunti e le espressioni usate in
una delle due lingue formano direttamente oggetto della “cognizione dell’
organo giudicante, e non di una operazione di interpretazione” (Sezione prima,
14 ottobre 1999, Dander).

Secondo le disposizioni
applicabili all’ epoca del procedimento, l’udienza
preliminare doveva essere svolta nella lingua richiesta dall’ imputato – nella
specie, nella lingua tedesca ‑ (articolo 16) e, in presenza della
costituzione di parti civili appartenenti a gruppi linguistici diversi,
dovevano essere osservate, a pena di nullità assoluta (articolo 18 bis), una
serie di prescrizioni (articolo 18) volte a consentire lo sviluppo bilingue del
processo. In particolare, i verbali erano da redigere contestualmente in
entrambe le lingue, così come i provvedimenti del giudice, comprese le
sentenze, dovevano essere redatti contestualmente e pronunciati in entrambe le
lingue (lettere h ed i).

La normativa ora ricordata non detta peraltro disposizioni in merito alle
conseguenze derivanti dalla mera inosservanza delle regole concernenti le
modalità di documentazione degli atti, che quindi devono desumersi dalla
ordinaria disciplina codicistica. Ora è noto che l’articolo 142 Cpp. ricollega la nullità del verbale all’ incertezza assoluta
sulle persone intervenute ed alla mancata sottoscrizione del pubblico ufficiale
che lo ha redatto, mentre l’ articolo 429 Cpp. prevede
la stessa sanzione nell’ ipotesi in cui non risulti identificato in modo certo
l’imputato ovvero manchi o sia insufficiente la indicazione del fatto, o del
luogo, giorno ed ora della comparizione.

La giurisprudenza ha più volte
affermato, con riferimento alla suddette disposizioni,
che, per il principio di tassatività, non è consentito ravvisare la sanzione
della nullità quando non sia espressamente prevista (Sezione terza, 13
novembre, Pacca; Sezione terza, 10 marzo 1994, Bottero; Sezione prima, 12
novembre 1996, Mazza).

Ne consegue, dunque, che ‑
fermo restando che le nullità derivanti dalle violazioni della disciplina sull’ uso processuale della lingua negli uffici giudiziari
della provincia di Bolzano sono assolute ed insanabili, nonché rilevabili di
ufficio in ogni stato e grado del giudizio (cfr., ex plurimís, Sezione terza,
30 settembre 2005, Pichler) ‑ poiché nessuna decisiva lesione del diritto
di difesa, rilevante ai sensi dell’ articolo 178, lettera C, Cpp può essere ravvisato nelle irregolarità
indicate nella censura in esame la censura stessa deve essere disattesa.

Il tutto pure considerando che,
come ha avuto occasione di statuire la più recente giurisprudenza di questa Corte Suprema, anche a voler ammettere la nullità
degli atti sopra ricordati, si sarebbe in presenza di una invalidità
sostanzialmente non lesiva ed innocua o, a tutto concedere, di una invalidità
per così dire “circoscritta”, che non ha avuto effetti diffusivi sull’
ulteriore sviluppo del procedimento. La nullità, infatti, è sanzione che rivela
la più tipica specie dì invalidità, espressamente comminata dalla legge
(principio di tassatività) con riferimento patologie dell’ attivitá
processuale. E se è pur vero che, in base al vigente sistema di rito, rimane
privo di rilievo, di fronte ad un atto nullo, il ricorrere di un concreto
pregiudizio all’ interesse protetto, considerato che
tale pregiudizio deve considerarsi, come sostenuto da autorevole dottrina,
“immanente nella circostanza pura e semplice che lo schema legale non si sia
realizzato” è anche vero che lo stesso sistema legittima una lettura non
rìgorosamente formalistica degli effetti connessi ad un atto processuale nullo,
che in concreto non ha dato luogo ad un “danno” misurabile e non ha aggredito
il nucleo della garanzia oggetto di tutela, ove si considerino la prevista
categoria concettuale della sanatoria per “conseguimento dello scopo”, il
richiesto interesse concreto ed attuale ‑ a fare valere la nullità e gli
effetti diffusivi o no di questa. Una regola che sì è tradotta nell’ affermazione di principio secondo cui se le forme
processuali sono un valore “lo sono in quanto funzionali alla celebrazione di
un giusto processo, i cui principi non vengono certamente compromessi da una
nullità in sé “irrilevante” o inidonea a
riverberasi sulla validìtà degli atti processuali successivi” (Sezione sesta,
19 aprile 2006, Previti).

3. In prossimità dell’ inizio del dibattimento di primo grado l’imputato, detenuto per altro titolo, aveva
presentato presso la direzione della casa circondariale di Rovereto, in data 19
settembre 2003, dichiarazione nelle forme previste dall’ articolo 123 Cpp., con
la quale rinunciava a comparire. Successivamente, all’ udienza
del 19 dicembre 2003, il Michaeler, chiamato a rendere, su richiesta del
Pubblico ministro e delle parti civili,
l’esame, aveva consentito a farsi tradurre, avvalendosi poi della
facoltà di non rispondere.

Secondo quanto prospettato nel
ricorso, alla successiva ed ultima udienza del 10 giugno 2004, la Corte di assise avrebbe
respinto con ordinanza l’istanza dei difensori che avevano rappresentato la
volontà dell’ imputato di essere presente, rilevando
che nessuna revoca era intervenuta dopo la “formale rinuncia a comparire. una
motivazione, quella ora ricordata, recepita dalla Corte di assise di appello,
la quale aveva escluso che la volontà di revocare la precedente rinuncia
potesse risultare da fatti concludenti (nella specie, tra l’altro, non
intervenuti), essendo invece necessaria l’una formale dichiarazione in tal
senso.

Anche tale motivo è privo di
fondamento.

3.1. Questa Corte ha
ripetutamente statuito che la rinuncia a comparire dell’ imputato
detenuto produce i suoi effetti non solo per
l’udienza in relazione alla quale essa è formulata, ma anche per quelle
successive, fissate a seguito di rinvio ad un, udienza determinata, fino a
quando questi non manifesti la volontà di essere tradotto (Sezione sesta, 14
gennaio 1998, Giuliano; Sezione prima,
31 gennaio 2000, Pianese; Sezione seconda, 15 dicembre 2000, Greco;
Sezione seconda, 25 settembre 2003, Garofalo). Il tutto quale corollario del
principio secondo cui la dichiarazione dell’ intento
di far celebrare l’intero dibattimento in absentia deve risultare espressamente
in modo tale da comprovare che l’imputato non abbia inteso presenziare all’ intero
dibattimento, dovendosi diversamente attribuire alla stessa valore di rinuncia
solo per la singola udienza (Sezione seconda, 11 novembre 1999, Massarutti).

In merito alle forme attraverso
le quali deve essere manifestatala la volontà dell’ imputato
‑ quando costui si trovi in stato di detenzione ‑ di revocare la
precedente dichiarazione di rinuncia a comparire, si sono profilati due
orientamenti interpretativi.

Si è affermato che gli effetti
della rinuncia a comparire in udienza, resa palese dall’ imputato
detenuto, permangono fino al momento della “revoca espressa”, di tale rinuncia,
ossia fino a quando l’interessato non manifesti, nelle forme e termini di
legge, la sua volontà di essere nuovamente presente e di porre nel nulla il suo
precedente consenso alla celebrazione del dibattimento in sua assenza: sarebbe
pertanto onere dell’ imputato detenuto concorrere alla chiarezza delle modalità
di espressione delle proprie dichiarazioni, facendo sì che esse si formalizzino
in un atto ricevuto dal direttore del carcere ai sensi dell’ articolo123 Cpp.,
senza che tale atto possa essere surrogato da equipollenti (Sezione seconda, 15
dicembre 2000, Greco).

Si è, al contrario, sostenuto che
la volontà di revocare la rinuncia a comparire all’ udienza
può essere manifestata da parte dell’ imputato detenuto anche mediante ‑un
“comportamento concludente” (Sezione seconda, 25 settembre 2003, Garofalo) dal
quale sia dato desumere l’intento di neutralizzare gli effetti derivanti dal
suo precedente disinteresse a partecipare al dibattimento.

Si è però anche precisato che la
revoca del consenso alla celebrazione del dibattimento in assenza non deve
incidere negativamente sul regolare svolgimento del processo, nel senso che
questo non può subire pause o differimenti dipendenti unicamente dalla mutevole
volontà dell’ imputato o da scelte contraddittorie e
non oggettivamente giustificate o giustificabili del medesimo; diversamente
opinando, si affiderebbe al “capriccio” dell’ imputato la gestione del
processo, il che nulla avrebbe a che vedere col legittimo esercizio del diritto
di difesa. L’atto di revoca non potrebbe pertanto avere l’ effetto di “influenzare e
sconvolgere” una situazione processuale, che, in quanto stabilizzatasi sulla
base della pregressa rinuncia a comparire, non sia più immediatamente
reversibile, e ciò proprio perché deve essere garantita la naturale evoluzione
di un iter processuale ritualmente avviato (Sezione sesta, 24 settembre 1999,
Tinnirello; Sezione sesta, 4 aprile 2000, Fichera; Sezione quarta, 13 luglio
2005, Ciotola).

Quale che sia la soluzione da
adottare, risulta evidente che nel caso di specie non può comunque assegnarsi
al contegno dell’ imputato tradottosi nella
comparizione all’ udienza per rendere
l’esame, l’univoca manifestazione di volontà di neutralizzare gli
effetti derivanti dal suo precedente consenso alla celebrazione del processo in
absentia, essendosi concretizzato il detto comportamento, come desumibile dalla
stesso silenzio del Michaeler durante l’esame, in un contegno che ha esaurito i
suoi effetti nell’ ambito della detta udienza privo di ogni ulteriore valenza
significante ai fini processuali.

E’ appena il caso di soggiungere
che nel caso di specie non può assegnarsi alcun valore dirimente alla recente
pronuncia dì queste Su che hanno risolto in senso negativo la questione circa
la sussistenza di un onere dell’ imputato di
comunicare “tempestivamente” al giudice il sopravvenuto stato di detenzione, in
modo da non consentire la sua traduzione in udienza, mentre hanno valorizzato
esclusivamente ai fini della dichiarazione di contumacia, l’eventuale
inequivoca rinunzia dell’imputato a comparire; tutto ciò nel solco di un
orientamento interpretativo già da tempo tracciato dalle Su in ordine alle
modalità di manifestazione della rinuncia da parte dell’ imputato ai diritti
espressione del fair trial (Su, 26 settembre 2006, Arena; v. anche Su, 26 marzo
2003 Caridi; nonché la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti
dell’ uomo).

4. E’ ora il momento di prendere
in esame la questione che ha dato vita al contrasto interpretativo da cui è
scaturita la rimessione del ricorso alle Sezioni unite.

E’ indispensabile, peraltro,
prima di penetrare davvero in medias res, soffermarsi sulle nozioni di capo e
punto della decisione, incentrandosi ‑ come si è già esposto in narrativa
e come si vedrà più diffusamente tra poco ‑ proprio sul rilievo di tale
distinzione il
nucleo del conflitto giurisprudenziale segnalato dall’ ordinanza di rimessione.

4.1. Le Sezioni unite hanno
chiarito che, nel sistema delle impugnazioni, la nozione di “capo della
sentenza” è riferita soprattutto alla sentenza plurima o cumulativa,
caratterizzata dalla confluenza nell’ unico processo
dell’ esercizio di più azioni penali e dalla costituzione di una pluralità di
rapporti processuali, ciascuno dei quali inerisce ad una singola imputazione;
tanto che per capo deve intendersi ciascuna decisione emessa relativamente ad
uno dei reati attribuiti all’ imputato. Può quindi affermarsi che il capo
corrisponde ad “un atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo,
anche separatamente, il contenuto di una sentenza:” la
decisione “che conclude una fase o un grado del processo” può, dunque,
“assumere struttura monolitìca o composita, a seconda che l’imputato sia stato
chiamato a rispondere di un solo reato o di più reati”; nel primo caso, nel
processo è dedotta un’ unica regiudicanda mentre, nel secondo, “la regiudìcanda
è scomponibile in tante autonome parti quanti sono i reati per i quali è stata
esercitata l’azione penale”. Il concetto
di “punto della decisione” ha una portata più ristretta, in quanto riguarda
tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per
ottenere una decisione completa su un capo, tenendo presente, però, che non costituiscono
punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di
ciascuna statuízíone: se ciascun capo è concretato da ogni singolo reato
oggetto di imputazione, i punti della decisione, ai quali fa espresso
riferimento 11 articolo 597, comma 1, Cpp., coincidono
con le parti della sentenza relative alle statuizioni indispensabili per il
giudizio su ciascun reato; in primo luogo, l’ accertamento della responsabilità
e la determinazione della pena, che rappresentano, in tal senso, due distinti
punti della sentenza. Ne consegue che ad ogni capo corrisponde una pluralità di
punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la
completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere
giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano
stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia
finale su ogni reato, quali l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’ imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la
colpevolezza, e ‑ nel caso di condanna ‑ l’accertamento delle circostanze aggravanti
ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la
sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle
parti o rilevabili di ufficio. Alla stregua della distinzione tra capi e punti
della sentenza ‑ applicata nell’ esperienza
giudiziaria non sempre con la dovuta chiarezza ‑ deve ritenersi che la
cosa giudicata si forma sul capo e non sul punto, nel senso che la decisione acquista il carattere dell’
irrevocabilità soltanto quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni
necessarie per il proscioglimento o per la condanna dell’ imputato rispetto ad
uno dei reati attribuitigli. Nel caso di processo relativo ad un solo reato la
sentenza passa in giudicato nella sua interezza, mentre nell’
ipotesi di processo cumulativo o complesso la cosa giudicata può coprire
uno o più capi e il rapporto processuale può proseguire per gli altri, investiti
dall’ impugnazione, onde, in una simile situazione, è corretto utilizzare la
nozione di giudicato parziale. I punti della sentenza non sono, invece,
suscettibili di acquistare autonomamente autorità di giudicato, potendo essere
oggetto unicamente della preclusione correlata all’ effetto
devolutivo delle impugnazioni (tantum devolutum quantum appellatum) ed al
principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni, da
cui consegue che ‑ in mancanza di un motivo di impugnazione afferente una
delle varie questioni la cui soluzione è necessaria per la completa definizione
del rapporto processuale concernente un reato ‑ il giudice non può
spingere la sua cognizione sul relativo punto, a meno che la legge processuale
non preveda poteri esercitabili ex officio. In altri termini, pur essendo
certamente vero che al giudice dell’ impugnazione è
interdetto l’esame del punto non
impugnato e che l’accertamento ad esso corrispondente non è più
controvertibile, tranne la sussistenza di questioni rilevabili anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo,
tuttavia il fondamento della preclusione operante rispetto al punto della
sentenza non può essere spiegato con
l’utilizzazione del concetto di giudicato, riferendosi questo, per sua
natura, esclusivamente all’ intera regiudicanda, coincidente con lo specifico
capo di imputazione e non già con le componenti di essa, alle quali
corrispondono le singole statuizioni, che, pur essendo caratterizzate dalla
possibilità di autonoma valutazione, hanno la peculiare funzione di convergere
e di essere finalizzate alla pronuncia finale su quella imputazione.
Conseguentemente, in caso di sentenza di condanna, l’indagine sulla
responsabilità dell’ imputato e quella sull’
accertamento delle circostanze e sulla determinazione della pena costituiscono
altrettanti, distinti punti della decisione inseriti all’interno di un medesimo
capo; la mancata impugnazione della ritenuta responsabilità dell’ imputato fa
sorgere, quindi, la preclusione su tale punto, ma non basta a fare acquistare
alla relativa statuizione l’ autorità di cosa giudicata quando, per quello
stesso capo, l’impugnante abbia devoluto al giudice l’indagine riguardante la
sussistenza di circostanze e la quantificazione della pena. Il giudicato si
forma allorché anche tali punti sono definiti dal giudice dell’
impugnazione e le relative statuizioni non sono censurate con ulteriori
mezzi di gravame: soltanto in presenza di tali inderogabili condizioni deve
considerarsi realizzata la consunzione del potere di decisione del giudice
dell’ impugnazione, anche con riguardo alle questioni rilevabili d’ufficio in
ogni stato e grado del processo, e la pronuncia sul capo, divenuta ormai
completa, assume il carattere della immutabilità, ostacolando, perciò, l’applicazione delle cause estintive del
reato (cfr., proprio in questi termini, Su, 19 gennaio 2000, Tuzzolino).

Gli approdi cui è pervenuta la
giurisprudenza delle Sezioni unite sopra riportata costituiscono la necessaria
premessa per affrontare il contrasto giurisprudenziale la cui soluzione è stata
sottoposta al vaglio della Corte e per delimitare gli spazi normativi su cui
deve incentrarsi ogni verifica, perché l’endiadi capo‑punto richiamata da
varie disposizioni codicistiche rappresenta ‑ almeno quoad effectum –
l’unica concettualizzazione in cui delimitare lo stesso significato empirico dell’ espressione appello incidentale, senza trascurare
quelle connessioni derivanti dalle interferenze entro il singolo capo o entro
il singolo punto in grado di qualificare
l’appello incidentale come modello necessariamente coerente con il
sistema generale delle impugnazioni.

4.2. occorre,
ancora, rammentare come la dicotomia, capi ‑punti della sentenza, è ormai
canonizzata in un precetto fondamentale nel regime delle impugnazioni, quello
concernente la “forma dell’impugnazione”;
il precetto, cioè, dell’ articolo 581 secondo cui l’ impugnazione deve
contenere (comma 1, lettera a) “i capi o i punti della decisione cui su
riferisce l’”impugnazione”, così annidando l’ atto d’ impugnazione entro lo
stretto ambito del devolutum, a pena di inammissibilità, comminata dall’
articolo 591 Cpp. Ed è significativo notare come la giurisprudenza di questa
Corte abbia affrontato il tema della distinzione tra “capo” e “punto” della
sentenza con prevalente riferimento ai precetti adesso ricordati (oltre che
alla tematica del giudicato parziale). Si è detto così che scopo dichiarato
della enunciazione dei capi o punti della decisione ai quali si riferisce il
provvedimento impugnato (nonché delle richieste e dei motivi) è quello di
delimitare con precisione l’oggetto dell’ impugnazione
e di scongiurare “impugnazioni generiche e dilatorie”, in modo tale che è lo
stesso impugnante a segnare gli esatti confini dell’ oggetto del gravame.
Proprio il requisito della specificità sembra inserirsi in
quasi tutto l’asse delle prescrizioni richieste dalla norma in esame;
dall’ indicazione dei capi e dei punti della decisione che si impugna per
terminare con le richieste ed i motivi; in un quadro, in cui, anche
statisticamente, il vizio di aspecificità appare quello ritenuto più frequente ‑
nella vasta gamma del suo manifestarsi, ma seguendo una nozione unitaria ‑
dall’ esame della giurisprudenza. Tanto che può condividersi l’
osservazione secondo cui effettivamente la linea di tendenza espressa
complessivamente dal legislatore del 1988 è informata alla necessità di imporre
agli “utenti” un miglioramento della qualità dell’ atto con cui si provoca l’
apertura del grado ulteriore di giudizio.

Ancora, di una verifica esegetica
appare meritevole l’ espressione “parte” della
sentenza (su cui ci si soffermerà più articolatamente in prosieguo), ritenuta
rilevante al fine sia di un suo autonomo divenire giudicato sia per il restare
ancora sub iudice in quanto abbia connessione essenziale con la “parte
annullata”.

Il contesto in cui si colloca la
nozione di disposizione della sentenza rende evidente la necessità di
individuare una terminologia più specifica che delinei in modo maggiormente
rigoroso il significato di “parte” della sentenza (o, se si vuole, di “parte”
delle disposizioni della sentenza).

Il ruolo cruciale da assegnare
alla disposizione dell’ articolo 581, comma 1, lettera
c), nel suo diretto collegamento con il regime dell’ inammissibilità dell’
impugnazione può costituire la base in grado di consentire un’ esatta verifica
delle fattispecie ora sommariamente indicate, cosi da autorizzare una corretta
individuazione delle linee giurisprudenziali fortemente affermatesi agli inizi
degli anni novanta soprattutto a sèguito dei reiterati interventi delle Sezioni
unite. Lo svolgimento ulteriore dovrà, dunque, svolgersi pure con la verifica
esegetica dell’ espressione “parte” della sentenza,
ritenuta rilevante al fine sia di un suo autonomo divenire giudicato sia per il
restare ancora sub iudice in quanto abbia connessione essenziale con la “parte
annullata”.

4.3. Occorre rammentare che la
giurisprudenza prevalente di questa Corte Suprema ‑ seguendo un tracciato
ermeneutica che
ha trovato largo seguito in dottrina ‑ è orientata nel senso che
l’appello incidentale, per quanto sul punto taccia l’articolo 595 Cpp. che lo disciplina, deve limitarsi ai capi e ai punti su cui
si incentra l’appello principale.

Una simile linea interpretativa
ha la sua base nell’ individuazione dello scopo
spiegato dall’ appello incidentale, individuato non in una funzione deterrente
ma soltanto antagonista rispetto all’ appello principale. A ciò si aggiungono
ragioni sistematiche oltre che il doveroso rispetto dei termini per impugnare.

Si è, appunto, fatto leva sulla
ratio dell’ appello incidentale, che ‑ come
sarebbe dato desumere dalla relazione preliminare al codice di procedura penale
‑ non coinciderebbe più con quella finalità deterrente (o “di dispetto”)
nei confronti delle impugnazioni dell’ imputato, alla base dell’ istituto nel
sistema dell’ abrogato codice che aveva condotto a introdurre l’appello
incidentale del pubblico ministro, né con uno scopo generico (e oltremodo
insoddisfacente a giustificarne la sua previsione) dì rimessione in termine per
le parti non impugnanti, ma piuttosto con l’ intento “certamente più
comprensibile ed apprezzabile di ottenere un riesame in tutte e due le
direzionì” delle parti della sentenza oggetto di appello. La ratio dell’ istituto andrebbe invece ricercata essenzialmente
nell’ esigenza di realizzare un sostanziale contraddittorio delle parti sul
thema decidendum devoluto al giudice dell’ impugnazione. Con la conseguenza che
solo sui capi ed i punti della sentenza attaccati dall’ appello
principale deve realizzarsi questo “completo confronto paritario” delle parti
processuali (Sezione sesta, 15 giugno 1992, Prezioso).

Nell’ offrire un’
attenta ricostruzione dell’ istituto, si è sottolineato che, mentre nel
codice del 1930 l’appello ìncidentale, riservato solo al pubblico ministro, era
stato essenzialmente previsto per scoraggiare gli appelli temerari dell’
imputato, nel codice vigente la ragion d’essere dell’appello incidentale
sarebbe quella di rimettere le parti in “posizione di equilibrio” di fronte ad
una decisione impugnata solo da alcune di esse; stante la natura di mezzo
antagonista, esso dovrebbe avere pertanto lo stesso ambito dell’ appello
principale, cioè essere limitato ai punti della decisione investiti dai motivi
dell’ appello principale, e non estendersi all’ intero capo della sentenza.
Senza il confine dei punti investiti dall’ appello
principale, questo mezzo di impugnazione violerebbe il principio di parità
delle parti, il diritto alla difesa e anche il principio dell’ obbligatorietà
dell’ azione penale. Si è osservato, più in particolare, che, sebbene, il
codice riservi ampio spazio alle transazioni processuali delle parti,
risulterebbe violato il principio dell’ obbligatorietà
dell’ azione penale se con l’appello incidentale il pubblico ministero, invece
di contraddire implicitamente l’imputato, potesse investire in toto il capo
impugnato, potesse cioè fare dopo quello che era tenuto a fare prima con
l’appello principale, ovvero chiedere la riforma di una decisione ingiusta, per
di più con una richiesta che l’imputato può rendere inefficace (Sezione terza,
17 febbraio 1993, Senibolini).

Riprendendo le argomentazioni
della sentenza ora ricordata. in relazione ad una
fattispecie in cui il appello incidentale del Pm aveva ad oggetto l’ erronea
diversa qualificazione attribuita dal giudice di primo grado al fatto, la Corte ha dichiarato
l’inammissibilità del ricorso in quanto l’imputato in via principale non aveva
posto in discussione la sua responsabilità o la qualificazione giuridica del
fatto, ma soltanto la mancata applicazione di una causa estintiva del reato; e
ciò perché il pubblico ministero aveva dimostrato piena acquiescenza nei
confronti della diversa qualificazione giuridica e pertanto su tale punto si
era formato il giudicato (Sezione terza, 14 giugno 1994, Franini).

i lavori
preparatori (nella Relazione, la commissione ministeriale, pur rilevando
l’assenza di ogni riferimento nella norma all’ area della devoluzione, avrebbe
privilegiato la tesi secondo cui un collegamento deve esistere quanto meno in
relazione ai capi della sentenza che sono stati impugnati), sono stati
l’argomento che ha indotto la
Corte ad affermare che “consentire l’estensione dell’ appello
incidentale anche ai capi, non oggetto di gravame, significa da un lato
determinare una riviviscenza illegittima dei termini oramai scaduti e dall’
altro lato conferire a questo mezzo una finalità deterrente non consona con
l’indirizzo del legislatore che ha improntato la nuova disciplina processuale
alla parità di posizioni ed alla lealtà”. In particolar modo quando appellante
principale è l’ imputato l’appello incidentale del pubblico
ministro potrebbe esercitare sull’ imputato stesso una pressione tale da
indurlo eventualmente a rinunciare e quindi a paralizzare o rendere più
difficile il pieno esercizio del diritto di difesa: pertanto “motivi
etici..pertano a concludere che l’ appello incidentale non soltanto deve essere
limitato ai capì, oggetto di gravame, ma anche ai punti della decisione
investiti dai motivi di quello principale” (Sezione terza, 13 novembre 1995,
Giacomazzo).

Stando ad un’ altra
decisione l’ appello incidentale sarebbe caratterizzato dalla sua dipendenza da
quello principale; un assetto da cui discenderebbe la conseguenza che l’
appello incidentale deve essere limitato ai capi e punti della sentenza
investiti dall’ appello principale, desumibile, indirettamente ma
inequivocamente, da alcune disposizioni positive del codice di rito vigente e
dal sistema processuale nel suo complesso.

Anzitutto, il comma 4 dell’ articolo 595 Cpp., che stabilisce chiaramente un nesso
funzionale tra le due impugnazioni, che non può non riguardare logicamente sia
l’ammissibilità sia il contenuto devolutivo delle stesse (“non avrebbe senso la
perdita di efficacia dell’ appello incidentale, ad esempio, per la rinuncia
all’ appello principale, se il primo potesse avere un contenuto devolutivo più
ampio e autonomo rispetto al contenuto devolutivo del secondo”). In secondo
luogo, assegnando all’appello incidentale un ambito devolutivo indipendente e
più ampio di
quello dell’ appello principale, verrebbero ad essere vanificati i termini per
proporre impugnazione, tassativamente fissati a pena di decadenza; tanto da
ritenere un dato esorbitante dai limiti segnati con l’appello principale avanzato dal pubblico
ministro, riferito solo alla qualificazione giuridica del fatto contestato,
l’appello incidentale proposto dall’ imputato in punto di responsabilità,
avente ad oggetto 11 assoluzione o in subordine la riduzione della pena
(Sezione terza, 25 febbraio 1999, Coppola).

Non si è mancato, poi, di
rimarcare come l’appello incidentale si presenti come un “tipo speciale di
appello”, dal quale non deriva la mera restituzione in termini nei confronti
della parte decaduta dal termine per proporre impugnazione, con la conseguenza
che i suoi limiti oggettivi devono coincidere con il ambito
dell’appello principale, ovvero con i punti della decisione impugnata (Sezione
quinta, 15 aprile 1999, Bosi; Sezione terza, 2 febbraio 1999, Cucitro).

Si è ribadito, ancora, come un’ interpretazione estensiva contrasterebbe con la
previsione dell’ articolo 585 Cpp. di termini per
proporre impugnazione stabiliti a pena di inammissibilità dall’ articolo 591,
comma 1, lettera c) , Cpp., provocando una sorta di “intimidazione” alla parte, che,
appellando la sentenza di primo grado, si troverebbe esposta ad una riapertura
dì carattere generale dei termini di impugnazione per la parte che non ha
tempestivamente proposto appello, in contrasto anche con il sistema devolutivo
dell’ appello (Sezione quarta, 22 aprile 2004, Lattanzi; Sezione quarta, 6
ottobre 2005, Alunni; Sezione quinta, 16 giugno 2004, Masocco).

Nell’ aderire, ancora, all’ orientamento in esame con riferimento all’ appello
incidentale del pubblico ministro, in una fattispecie simile a quella delineata
nel ricorso ora al vaglio delle Sezioni unite (il giudice di primo grado aveva
derubricato il reato di omicidio tentato in quello di lesioni personali e
l’imputato aveva appellato sulla sua responsabilità rispetto al reato ritenuto
in sentenza, mentre il pubblico ministro aveva proposto appello incidentale,
richiedendo il ripristino della originaria imputazione), la Corte, nel dichiarare
inammissibile il gravame incidentale, ha affermato che con tale mezzo non è
consentito il riesame di punti sui quali, mancando impugnazione dell’imputato,
si forma il “giudicato” interno allorché l’appello autonomamente proponibile
sia omesso dal pubblico ministro, la cui funzione non sarebbe quella di
attendere l’appello dell’ imputato su
aspetti processuali diversi, per sanare gli effetti della propria inerzia su
altri capi e punti della sentenza impugnata. (Sezione
prima, 16 dicembre 2004, Grima).

4.4. In tempi più recenti si è
andato formando un orientamento che individua il limite dell’
appello incidentale esclusivamente nel “capo” della sentenza investito
dall’ appello principale; con la conseguenza che il primo può ampliare il
contenuto del rapporto di impugnazione inserendo all’ interno di esso anche
punti diversi della decisione, non attinti in via principale.

L’ argomentazione utilizzata a
sostegno di questa tesi si basa sulla natura di impugnazione propria dell’ appello incidentale. Si è così argomentato che qualora
l’ appello incidentale dovesse necessariamente
limitarsi, oltre che ai capi, anche ai punti della decisione investiti dalla
impugnazione principale, esso non

svolgerebbe
una funzione eccedente l’ambito del gravame principale: tanto il pubblico
ministero quanto l’imputato, infatti,
sono già legittimati allunde a
contrastare le contrapposte iniziative processuali e a prospettare in ogni fase
del processo le ragioni rispettive dell’ accusa e della difesa; l’appello
incidentale aggiunge, invece, un quíd novum, secondo un modulo che consente di
investire il giudice della cognizione di punti che siano diversi da quelli
dedotti con l’appello principale e che possano quindi comportare un esame
completo – o, almeno, più completo ‑ delle questioni relative ad un
determinato capo della sentenza (Sezione sesta, 19 gennaio 1998, Pancheri).

Si sono richiamati, poi, il
principio di parità tra le parti nel processo penale, il criterio ermeneutico
del favor rei e la natura antagonista del rimedio storicamente assegnata all’ istituto nel sistema processuale penale, così
concludendosi che l’appello incidentale deve essere logicamente contenuto nei
confini segnati dalle censure proposte con l’appello principale, nel senso che,
sia pure con la possibilità di estendersi a “punti” della decisione diversi da
quelli gravati, debba essere quanto meno ristretto ai “capi” della sentenza
investiti dall’ appello principale. Secondo la Corte, il “riesame in tutt’e due le direzioni”
dei “capi” della sentenza posti in discussione dall’ impugnazione
principale postula infatti un rapporto di necessaria complementarità e
inscindibilità ‑ una sorta di “sinallagmaticità” –
dell’ appello incidentale rispetto a quello principale tanto da
inferirne che, in presenza dell’ impugnazione dell’ imputato contro una
pronuncia di condanna penale, è legittimamente proponibile dalla parte civile
l’ appello incidentale contro il capo della sentenza di condanna che riguarda
l’azione civile e l’ entità del danno risarcibile, in quanto la parte della
sentenza investita dall’ appello incidentale risulterebbe logicamente collegata
ai capi ed ai punti oggetto dell’ impugnazione principale (Sezione prima, 3
agosto 1999, Protti).

Si è anche argomentato che la
natura accessoria dell’ appello incidentale rispetto
all’ impugnazione principale, se importa che il primo deve avere ad oggetto
solo i capi investiti dall’ appello principale impone però di ritenere che
nell’ ambito di questi possono essere diversi i punti della decisione
incidentalmente impugnati, perché altrimenti sarebbe negata all’ appello
incidentale la natura di impugnazione, privandolo della sua funzione specifica
che non può ridursi alla semplice contestazione delle domande avversarie, che
compete a ciascuna parte senza richiedere impugnazione (Sezione sesta, 24
ottobre 2002, Zullo).

Pur muovendo la
rilievo che più ordini di ragioni inducono a ritenere che debba
individuarsi un “rapporto di continenza” tra l’oggetto dell’ appello principale
e quello introdotto successivamente al sensi dell’ articolo 595 Cpp., si è
precisato che il limite va individuato con riferimento al “capo” della sentenza
investito dall’ appello principale, ancorché vi sia una diversità di oggetto
tra i due gravami, nel senso che l’appello incidentale potrebbe riguardare
anche punti della decisione rientranti nel medesimo capo oggetto della
impugnazione principale: evocandosi a favore della esistenza del rapporto di
continenza tra i due gravami, oltre all’ ultimo comma dell’ articolo 595 Cpp. –
relativo alla regola della perdita di efficacia dell’ appello
incidentale in caso di inammissibilità di quello principale o di rinuncia allo
stesso ‑ che dimostrerebbe l’esistenza tra di essi di un rapporto di
“dipendenza funzionale”, anche la considerazione che, nell’ammettere la
possibilità di un appello incidentale atto ad introdurre temi nuovi e ulteriori
rispetto a quello principale, si verrebbe a vanificare il principio della
decadenza dalla impugnazione proposta oltre i termini ordinari previsti dalla
legge, snaturando la funzione propria dell’ appello incidentale, quale mezzo
antagonista dell’ appello principale, in quella di deterrente dello stesso,
attraverso una sostanziale e ingiustificata rimessione in termini. Non sarebbe
invece precluso all’ appellante in via incidentale
attaccare punti diversi della decisione rispetto a quelli oggetto della
impugnazione principale, e ciò”all’evidente fine di scongiurare il rischio che
con il gravame ex articolo 595 Cpp. si finisca per fornire alla parte un’arma dialettica del
tutto spuntata e in buona sostanza improduttiva di un effettivo contrasto delle
iniziative processuali avversarie” (Sezione quinta, 12 luglio 2004, Feletti).

4.5. Solo agli esordi della nuova
codificazione si era, invece, accolta la tesi ‑ peraltro rimasta del tutto isolata ‑ della c.d. funzione esclusivamente
“deterrente” dell’ istituto. Si era, più in particolare, affermato che
l’istituto dell’ appello incidentale risponde all’
esigenza di individuare adeguati strumenti processuali diretti a evitare il
ricorso all’ impugnazione come espediente “meramente dilatorio”. La previsione
della perdita di efficacia, in caso di inammissibilità (o rinuncia) dell’ impugnazione principale, risponderebbe soltanto all’
esigenza di garantire la parte da “sviluppi perversi” dell’ impugnazione.
Proposto sia dal pubblico ministero sia dall’ imputato,
l’ appello ex articolo 595 Cpp. avrebbe, secondo la Corte, funzione “ritorsiva”.
Così, l’appello incidentale del pubblico ministro avrebbe “funzione deterrente
e ritorsiva”, nei confronti dell’ appello dell’
imputato ritenuto meramente dilatorio o, comunque, ingiustificato.
Analogamente, l’appello incidentale dell’ imputato ‑
che è motivato da un’ esigenza di una difesa attiva (di “contrattacco”),
proponendosi il conseguimento di una soluzione più avanzata ‑ sarebbe
connotata da finalità ritorsiva, che si risolve, nei confronti del pubblico
ministro, in un atteggiamento ostruzionistico. Tale natura sarebbe confermata
dalla regola secondo cui l’appello incidentale perde efficacia qualora quello
principale sia dichiarato inammissibile ovvero quando l’appellante esprima
rituale rinuncia all’ impugnazione. Da tale
impostazione, la Corte
ha tratto la conseguenza che l’ appello incidentale,
in mancanza di espresse indicazioni legislative, non incontrerebbe alcun limite
derivante dal contenuto dell’ appello principale (Sezione seconda, 19 marzo
1992, Cersosimo).

5. Ritengono queste Sezioni unite
che ‑ con le precisazioni che saranno più avanti svolte la prima della linee interpretative debba essere condivisa.

5.1. In adesione alla
tradizionale regola tantum devolutum quantum appellatum (cfr. Relazione sul
codice di procedura penale del 1930, con riferimento alla disposizione dell’ articolo 480, poi trasfusa nell’ articolo 515 Cpp.),
il giudizio di appello, come ogni giudizio di impugnazione, trae origine dall’
impulso e dalla “disponibilità” di parte connessi alle questioni che si
intendono devolvere al giudice superiore. La parte interessata, dopo la
decisione di primo grado, sulla base di libere scelte, può
infatti giudicare soddisfatto il suo interesse processuale, ovvero
acquietarsi ad una o più parti della decisione concentrando, eventualmente, il
suo impegno su altre parti della stessa, la cui modificazione stima idonea e
sufficiente a soddisfare il suo residuo interesse nel processo.
Correlativamente, sulle parti non attinte dall’ impugnazione
all’ interessato non è più consentito, nonostante il processo prosegua per la definizione
delle restanti parti (cfr. quanto si osserverà più
avanti a proposito della funzione di “chiusura” dell’ articolo 624 Cpp.),
rimettere in discussione ciò che ha accettato.

Tale regola, consistente nella
“preclusione,, processuale di cui all’ articolo 597,
comma 1, Cpp. per le parti (precisamente, i “punti»,
nel significato corrente, perché il termine “parte,, ha la significazione
tecnica resa palese soprattutto dal disposto dell’ articolo 624 Cpp.) della
sentenza non impugnate, mira così a regolare lo svolgimento ordinato e logico
delle questioni preparatorie alla decisione finale senza che le stesse, nell’
ambito di un processo che non si esaurisca per il permanere di altre questioni
“Isub iudice”, possano essere indefinitamente riproposte (Su, 26 marzo 1997,
Attinà).

Corollario del principio della
devoluzione è l’esatta
individuazione del thema decidendum, ovvero dell’ area attaccata dall’
impugnazione; è onere infatti della parte appellante individuare con
specificità (articolo 581 Cpp.) il punto o i punti di un determinato capo della
sentenza (o anche di più capi, ma sempre selettivamente) da demolire.

Parallelamente, lo stesso
articolo 597 Cpp. sottolinea la stretta relazione tra
i “punti” della doglianza e il “perimetro” del potere di cognizione del giudice
di appello, nel senso che l’ impugnazione motivata, oltre a circoscrivere l’
ambito della doglianza, viene a individuare l’area della cognizione dell’
organo deputato al riesame.

Come hanno recentemente precisato
le Sezioni unite, la norma adesso ricordata contiene le linee portanti dei
poteri ‑ sia cognitivi che decisori ‑ del giudice di secondo grado
(Su, 27 settembre 2005, William Morales). Precisando che la previsione
normativa secondo cui l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la
cognizione del procedimento limitatamente ai “punti della decisione” ai quali
si riferiscono i motivi proposti, non si limita a circoscrivere l’ambito
oggettivo entro cui il giudice di secondo grado può operare, ma, con
l’esplicito riferimento ai “motivi proposti”, lascia chiaramente intendere che,
entro quell’ ambito oggettivo, la decisione non può
che essere nel senso dello accoglimento o della reiezione, in tutto o in parte,
dei suddetti motivi ì quali, a loro volta, come è dato rilevare dal testuale
tenore dell’ articolo 581 Cpp., sono strettamente collegati alle “richieste”,
cioè al petitum sostanziale dell’ impugnazione, rappresentando, rispetto ad
esso, per mutuare le categorie civilistiche, l’equivalente della causa petendi.

5.2. Secondo quanto prescrive
l’articolo 597, comma 1, Cpp., la cognizione del
giudice di appello è limitata ai “punti della decisione ai quali si riferiscono
i motivi proposti”. Pertanto, il giudizio di appello si incentra sugli
specifici punti della decisione di primo grado indicati nei motivi di doglianza
(e su quelli con essi “strettamente connessi o da essi
dipendenti” (Su, 25 giugno 1997, Gibilras) ovvero legati con i primi da un
“vincolo di connessione essenziale logico‑giuridico” (Sezione quinta, 27
ottobre 1999, Kardhiqi), con conseguente impossibilità di una nuova indagine su
punti diversi da quelli che le parti ritengono di dovere sottoporre a nuova
valutazione.

5.3. Dal precetto dell’ articolo 595, comma 3, Cpp., che richiama l’ articolo
597, comma 2, deriva che l’appello incidentale, nel caso in cui venga proposto
dal pubblico ministero, consente al giudice, per un verso, in presenza di una
sentenza di condanna, “di dare al fatto una definizione giuridica più grave”,
di “mutare la specie o aumentare la quantità della pena, revocare i benefici,
applicare, quando occorre, le misure di sicurezza o adottare ogni altro
provvedimento imposto o consentito dalla legge” (articolo 597, comma 2, lettera
a) e, per un altro verso, “se l’ appello riguarda una sentenza di
proscioglimento”, di “pronunciare condanna ed emettere i provvedimenti indicati
nella lettera a, ovvero prosciogliere per una causa diversa da quella enunciata
nella sentenza appellata”, (articolo 597, comma 2, lettera b).

Ne discende, dunque, che tale
gravame costituisce la più rilevante eccezione al divieto di reformatío in
peius come conseguenza dell’ appello del solo
imputato, secondo il precetto dell’ articolo 597, comma 3.

In presenza
di tali effetti diviene decisivo individuare il perimetro entro il quale si
iscrive l’appello incidentale, proprio sulla base degli apporti derivanti dalla
indicata giurisprudenza delle Sezioni unite in tema di capo e punto della
decisione.

Se l’ appello
incidentale si riferisce esclusivamente al capo, entro di esso è consentito al
giudice, in caso di appello incidentale del pubblico ministero, rimettere in
discussione tutti i punti decisi entro l’area del singolo capo adottando una
statuizione che potrebbe rappresentare un vero “spauracchio” per l’imputato,
esposto all’ integrale reformatio in peius dei punti decisi entro il singolo
capo.

Se, invece, l’appello incidentale
dovesse essere parametrato ai punti della sentenza, ne conseguirebbe una
funzione meramente “antagonista” di esso, in
consonanza, del resto, con la regola generale ‑ tutta intrinseca al
giudizio di appello ‑ in base alla quale “Il appello attribuisce al
giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti
della decisione cui si riferiscono i motivi proposti” (articolo 597, comma 1),
secondo il modello dell’ effetto parzialmente devolutivo proprio di tale mezzo
di impugnazione.

Ritiene questa Corte che proprio
l’applicazione del principio ora ricordato vada
richiamato ai fini della soluzione del quesito sottoposto al vaglio del
Collegio e ciò sia sotto il profilo sistematico sia sotto il profilo
funzionale.

Sotto il primo aspetto non può
porsi in discussione che l’appello incidentale debba essere .
conformato entro i confini segnati dall’ articolo 597,
comma 1, che individuano l’area oggettiva dell’ appello principale.

Se è vero, peraltro che tale
disposizione va analizzata alla luce delle regole generali tracciate dagli articoli 581, comma 1, e 591, comma 1, lettera c, Cpp.
che, prevedono, a pena di inammissibilità dell’ atto
di impugnazione, l’ indicazione dei “capi o punti della decisione ai quali si
riferisce l’atto di impugnazione”, è anche vero che l’effetto devolutivo proprio dell’ appello si
incentra sui singoli punti della decisione potendo solo dalla omessa
impugnazione di un capo scaturire la formazione del giudicato parziale a norma
dell’ articolo 624 Cpp. norma comunemente interpretata
nel senso che tale giudicato non può mai formarsi sul punto della decisione.

La natura accessoria dell’ appello incidentale ‑ secondo un modello, come
si è visto, già ampiamente scrutinato sia dalla giurisprudenza costituzionale
sia dalla giurisprudenza delle Sezioni unite di questa Corte ‑ conduce,
dunque, alla conclusione che esso (non prevedendo il sistema codicistico la
figura generale dell’ impugnazione incidentale) debba essere disegnato come
omologo all’ appello principale, con la necessità ‑ in caso di pronuncia
plurima o cumulativa ‑ di indicare i capi di sentenza coinvolti dall’
appello incidentale e, in ogni caso, i punti cui si riferisce il detto atto di
impugnazione, alla stregua del precetto dell’ articolo 597, comma 1, quale
ineludibile effetto della tipologia di protesta rispetto all’ atto di
impugnazione principale.

Ove si opinasse il contrario,
infatti, si consentirebbe una dilatazione dell’ impugnazione
principale oltre i limiti segnati dalli appello principale, con palese
violazione della norma sopra richiamata.

Poste tali premesse, l’ulteriore
risultato interpretativo è necessariamente rivolto a circoscrivere entro il
singolo punto l’ area di operatività dell’ appello
incidentale corrispondentemente all’ esigenza di disegnare tale strumento
impugnatorio, ancora una volta, secondo il modello dell’ appello principale in
consonanza con l’effetto devolutivo ricavabile dal precetto dell’ articolo 595,
comma 1, che circoscrive la devoluzione al giudice di appello ai soli punti
della sentenza impugnata, non menzionando i capi della decisione stessa perché
ininfluenti nell’ ambito di un processo che non sia plurimo o cumulativo,
occorrendo solo specificare il profilo designante l’appello principale (e,
quindi, l’appello incidentale) nell’ ambito di ciascun punto della decisione
impugnata. Il tutto ‑ come si è visto ‑ entro i singoli punti
appellati, secondo quanto risulta dalla combinazione tra l’articolo 597, comma
2, richiamato dalli articolo 595, comma 3, nonché dall’articolo 597, comma 3,
che delimita i poteri del giudice di appello se appellante sia
il solo imputato.

Non può essere trascurato che,
secondo l’ormai costante giurisprudenza di questa Corte Suprema il potere di
proporre appello incidentale non spetta a chi sia privo del potere di proporre
l’appello principale non ponendosi il primo come mezzo di impugnazione diverso
dal secondo, per caratterizzarsi essenzialmente (ed esclusivamente) per la sua
proponibilità da parte di chi aveva impugnato il provvedimento (Su, 18 giugno
1993, Rabiti) . Un principio che va letto in stretto
rapporto di complementarità con l’articolo 584 Cpp. in
tema di notificazione dell’ atto di impugnazione, appositamente richiamato
dalli articolo 595, comma 1, dello stesso codice e dell’ articolo 166 norme
att. che, a sua volta, prevede la comunicazione dell’ appello dell’ imputato
anche al procuratore generale che non abbia proposto impugnazione “agli effetti
dell’ articolo 595 del codice”.

Ora se, da un lato, la
soppressione della normale appellabilità delle sentenze di assoluzione in forza
della “novella” introdotta dall’ articolo 1 della
legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha integralmente sostituito (e in gran parte
riscritto) l’ articolo 593 Cpp. , comporta che i
poteri delle parti di proporre appello incidentale restano ancor più
delimitati, non potendo certo ritenersi che in seguito alla novazione
legislativa sia ora ipotizzabile una legittimazione all’ appello incidentale
disgiunta dalla legittimazione all’ appello principale, dall’ altro lato, dall’
assoluta omologazione dei due tipi di appello discende l’ applicazione dell’
articolo 597, comma 1, e la conseguente incidenza dell’ appello incidentale
esclusivamente entro il singolo punto.

Del resto, una tale conformazione
dell’ appello incidentale e la sua perdurante
accessorietà rispetto all’appello principale consegue direttamente dal precetto
dell’ articolo 597, comma 4, a
norma del quale (diversamente da quanto previsto per l’omonimo istituto
disciplinato dall’ articolo 515, ultimo comma, Cpp. 1930, dichiarato
illegittimo dalla sentenza costituzionale n. 177 del 1971) l’appello
incidentale perde efficacia in caso di inammissibilità dell’ appello
principale o di rinuncia allo stesso.

Tutto ciò in consonanza con il
principio devolutivo che designa l’appello e che impone di confinare l’appello
incidentale ‑quale deroga al principio della reformatio in peius ‑
entro i limiti dell’ appello principale secondo la
regola fondamentale espressa dall’ articolo 597, comma 1, Cpp. Un principio che
giustifica anche il permanere della nomenclatura “appello incidentale”, non
designata da un lessico puramente tralaticio, sibbene espresso in termini di
univoca significazione alla stregua del precetto dell’ articolo
595, comma 4, che lo definisce come impugnazione accessoria e, quindi, come
“incidente processuale”‘, secondo una formula già nota nella dottrina formatasi
nel vigore sia del codice del 1913 sia del codice del 1930 ‑ che pure non
qualificavano l’appello incidentale come decisamente subordinato alle sorti
dell’ appello principale e ingiustificatamente trascurata, nonostante le
decisive novazioni introdotte, dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi
nel vigore del codice 1988.

5.4. Sotto il profilo funzionale
occorre premettere che la
Relazione al progetto preliminare del codice, dopo aver
prospettato le singole soluzioni ipotizzabili in astratto (corrispondenti alla
silloge giurisprudenziale riportata sub 4), ha osservato che ove si dovesse
privilegiare la “finalità deterrente” dell’ appello
incidentale dovrebbe essere preferita la “soluzione” secondo cui “non sussiste
alcun limite derivante dal contenuto dell’ appello principale”, segnalando
come, “a parte considerazioni etiche che pure non devono essere trascurate”,
non sembra “anche concettualmente … accettabile che la dipendenza dall’
appello principale debba essere limitato al solo profilo dell’
inammissibilità”.

Nel privilegiare, alla stregua dell’ articolo 2, n. 90, della legge delega, le divergenze
piuttosto che le affinità rispetto alla previsione dell’ articolo 515 Cpp.
1930, rimarcando soprattutto la previsione della perdita di efficacia dell’ appello incidentale in caso di inammissibilità dell’
appello principale, la
Relazione, pur non prendendo posizione ‑ entro i limiti
sopra segnati ‑ circa l’ambito di ammissibilità dell’ appello
incidentale, avverte però la necessità di precisare come questo non può
“consentire solo una generica rimessione in termini”.

5.5. La Corte costituzionale, con
sentenza n. 280 del 1995, nel dichiarare non fondata, in
riferimento all’ articolo 112 della Costituzione, la questione di legittimità
dell’ articolo 595 Cpp., ha correttamente accentuato l’aspetto funzionale dell’
appello incidentale, rilevando come appaia l’equo e ragionevole assicurare alla
parte che si era risolta a fare acquiescenza alla sentenza del primo giudice,
il mezzo per impedire che la sentenza di secondo grado possa sacrificare le
proprie ragioni al di là di quanto accaduto per effetto della sentenza di primo
grado”. Rimarcando, peraltro, come l’appello incidentale tende ad evitare
che alla parte nei confronti ‑della quale può profilarsi il rischio

di una
reformatio in peíus della sentenza impugnata venga assicurato l’un mezzo più
efficace per impedire questo risultato, facendo valere proprie doglianze
autonome e diverse da quelle consistenti nella semplice resistenza contro l’
accoglìmento dell’ appello prìncìpale”. Cosi da introdurre un profilo
funzionale in chiave esclusivamente “antagonista” dell’ appello
incidentale secondo una prospettiva diversa sia dall’ appello “deterrente” sia
dalla mera “resistenza” all’ appello principale.

5.6. L’ appello incidentale ‑
come testualmente risulta dall’ articolo 595 e dalle
norme esplicitamente o implicitamente chiamate in causa dal primo appare,
quindi, designato, per un verso, dalla sua funzione accessoria rispetto all’
impugnazione principale e, per un altro verso, da una specifica autonomia
rilevante anche in relazione al requisito dell’ interesse all’ impugnazione,
che si proietta, non (tanto) sulla sentenza di primo grado (nei confronti della
quale, anzi, la parte si era dimostrata acquiescente, quanto) ma sulla futura,
ipotetica decisione quale conseguenza dell’ appello principale, cosicché è
proprio quest’ultimo a delimitare anche sul piano funzionale l’area di
incidenza dell’ appello incidentale. Ne deriva che la proiezione del principio
della parità delle parti non può non riverberarsi sui profili funzionali, tanto
da impedire che lo scopo dell’ appello incidentale
possa diversificarsi a seconda che questo venga spiegato dal pubblico ministero
ovvero dall’ imputato o dalle altre parti private.

Ne deriva che, se si vuole
assegnare una razionalità all’ istituto la sua
“deterrenza” non può spingersi oltre l’ambito del singolo punto impugnato con
l’appello principale, altrimenti realizzando un fine eccedente il mezzo
predisposto dal legislatore, tanto da attribuire, da un lato, a tutte le parti
la legittimazione a proporre l’appello incidentale e, dall’ altro lato, facendo
discendere dall’ inammissibilità dell’ appello principale la perdita di
efficacia dell’ appello incidentale.

5.7. Poiché poi per un principio
desumibile dall’articolo
624 Cpp 1998 (come del resto dall’ articolo 545 Cpp. 1930)
ríguardante le sentenze di annullamento parziale in sede di giudizio di legittimità, ma insite nella natura e nella logica dell’
appello, nella locuzione “punti della decisione ai quali si riferiscono i
motivi proposti” di cui all’ articolo 597 comma 1, Cpp. debbono
ricomprendersi non solo ì ,punti della decisione,, in senso stretto, e cioè le
statuizioni suscettibili di autonoma considerazione nell’ ambito della
decisione relativa ad un determinato reato, ma anche quelle riguardanti punti
della sentenza che sebbene non investiti in via diretta con i motivi risultino
tuttavia legati con i primi da un vincolo di connessione essenziale logico‑giuridico
(un principio applicato dalla giurisprudenza in relazione ai capi ma, a
fortíorí, estensibile ai punti), l’appello incidentale deve intendersi limitato
ai punti investiti dall’ appello principale ed ai punti che risultino in connessione
essenziale con i punti dell’ appello principale.

5.8. In proposito, occorre
ricordare come se, pure, le due nozioni parrebbero sovrapponibili, la nozione
di giudicato parziale solo in apparenza coincide con quella corrispondente all’ ipotesi di annullamento parziale della sentenza ad
opera della Corte di cassazione.

Se con l’espressione
giudicato parziale si vuole intendere l’effetto conseguente all’
impossibilità di rimettere in discussione parti della sentenza, la nozione
sembrerebbe ricomprendere tutti i casi in cui una pronuncia di merito sia stata
denunciata solo in parte ovvero i motivi di impugnazione siano stati solo in
parte rigettati o dichiarati inammissibili anche considerando, se
l’impugnazione sia il ricorso per cassazione, i limiti derivanti per il giudice
di legittimità dall’ essere la sentenza di appello denunciata per motivi
diversi da quelli concernenti la responsabilità dell’ imputato.

La precisazione parrebbe
scontrarsi con lo schema del giudicato parziale quale delineato dal codice di
rito e., più in particolare, oltre che con il precetto dell’ articolo 624 Cpp.,
con l’esclusività dei poteri demolitori
attribuiti in via generale alla corte di cassazione e solo eccezionalmente alla
corte di appello. Sennonché soltanto di recente la giurisprudenza è pervenuta a
segnare una precisa linea di confine tra quello che può dirsi il giudicato
parziale in senso stretto e le conseguenze derivanti da un,
impugnazione (tanto di merito tanto di legittimità) che comprenda solo
statuizioni che non coinvolgano l’affermazione di responsabilità contenuta
nella sentenza di primo grado.

Il giudicato parziale in senso
stretto si realizza nel caso di decisione soggettivamente cumulativa in quanto
strutturata, in forza delle vicende del giudizio, secondo un modello che,
lasciando integra l’affermazione di responsabilità, imponga l’annullamento con
rinvio di altre statuizioni della sentenza di merito. Non mancandosi di
avvertire che in esso potrebbero ricomprendersi anche
i casi di sentenza pronunciata nei confronti di più persone alcune delle quali
o non l’abbiano denunciata ovvero l’abbiano denunciata con ricorso dichiarato
inammissibile e che si trovino nella medesima condizione della parte
“diligente” (si veda l’articolo 627, comma 5, Cpp.) Esso, dunque, sta a
designare la decisione del giudice di legittimità che mentre, per un verso,
delimita li ambito della cognizione del giudice di rinvio, per un altro verso,
ha lo scopo di individuare quali “disposizioni” della sentenza, in quanto non
attinte dalla pronuncia di annullamento, divengono irrevocabili.

In estrema sintesi può dirsi che,
sul piano degli effetti, la nozione di giudicato parziale evoca, da un lato, le
sorti della sentenza per le parti non impugnate e per gli imputati che non
abbiano proposto impugnazione e, dall’ altro lato, la
possibilità di consentire, anche per le parti non denunciate e per i soggetti
non impugnanti ‑ ma nei limiti dell’ effetto estensivo dell’ impugnazione
– l’ applicazione di cause di non punibilità sopravvenute alla sentenza solo in
parte denunciata.

Resta, però da considerare le
convergenze che sul piano funzionale sono riscontrabili in tutte le vicende
finora enucleate; nel senso sia che ognuna di esse si
riferisce ad ipotesi di annullamento
solo parziale (sul piano soggettivo o sul piano oggettivo) della sentenza sia
nel senso che il cumulo di statuizioni determina esso stesso, in presenza di un
effetto demolitorio parziale, il convergere di tematiche tese in ogni caso a
stabilire quale sia la “tenuta” della sentenza per la parte non annullata in
presenza di una parte ancora sub íudíce e che rapporti intercorrano tra
giudicato parziale ed esecuzione.

La disciplina normativa alla base
di ogni approccio ermeneutico è agevolmente individuabile nel precetto dell’ articolo 624 Cpp. che ‑collocato
topograficamente subito dopo i casi di annullamento con rinvio della corte di
cassazione ‑ sotto la rubrica “Annullamento parziale”, stabilisce al suo
primo comma: “Se l’ annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni
della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno
connessione essenziale con la parte annullata”. Un precetto che riproduce alla
lettera ‑ nonostante le divergenze ermeneutiche manifestatesi a lungo
nella giurisprudenza – l’ articolo 545 Cpp. del codice abrogato, del quale conserva le improprietà
lessicali perpetuando cosi le conseguenti incertezze interpretative. Nel
secondo e nel terzo comma vengono disciplinati sia i
poteri della corte di cassazione di dichiarare “quali parti della sentenza
diventano irrevocabili” sia la procedura da utilizzare al fini di pervenire a
tale dichiarazione.

La disposizione adesso richiamata
sembrerebbe, dunque, alludere ad una nozione di decisione le cui statuizioni
restano scomponibili ed appare strettamente connessa alle caratteristiche
proprie del giudizio di rinvio, nel senso che se la sentenza di annullamento
con rinvio, limitatamente alla parte annullata, ha immediatamente una funzione
soltanto strumentale alla prosecuzione del rapporto processuale nella fase del
giudizio di rinvio, secondo specifiche regole codificate (v. articoli 627, 628
Cpp.), la parte non annullata (o perché non impugnata, o perché il ricorso è
stato rigettato ovvero è stato dichiarato inammissibile) ,
in quanto sia designata da assoluta autonomia, è in grado di pervenire ‑ nonostante il procedimento sia ancora
pendente in sede di rinvio ‑ alla formazione del giudicato su quelle
statuizioni che non sono più sub iudice.

L’ articolo 624 Cpp. disciplina, dunque, i soli casi in cui la decisione oggetto
del ricorso non sia stata annullata nel suo integrale contenuto dispositivo. Il
che appare confermato dall’incipit dell’ articolo 624
che ha riferimento all’ ipotesi in cui “l’annullamento non è pronunciato per
tutte le disposizioni della

sentenza”. La norma ha cura di
avvertire che è, anzi tutto, il principio devolutivo a delimitare i poteri
della corte di cassazione, condizionati ‑ come essi
sono ‑ dai motivi di ricorso. Se è vero, cioè, che l’oggetto del giudizio
di cassazione è la sentenza impugnata, è altrettanto vero che la

corte
non potrà procedere all’ esame di quelle statuizioni che non siano state
denunciate; il che, peraltro, costituisce l’espressione del principio stabilito
dall’ articolo 609, comma 1,
in base al quale “Il ricorso attribuisce alla corte di
cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti”.

Pure se, in
base al comma 2 dello stesso articolo, “La Corte decide altresì le
questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che
non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello”. L’ articolo 609,
comma 2, rappresenta, perciò, un’ eccezione alla
portata precettiva del comma 1 dello stesso articolo. E, mentre la seconda
parte di tale disposizione sembrerebbe ricollegarsi direttamente allo specifico
motivo di inammissibilità previsto dall’ articolo 606,
comma 3, che richiama espressamente il precetto in esame, la prima parte
attribuisce alla corte il potere di rilevare di ufficio, a titolo
esemplificativo, le nullità assolute di cui all’ articolo 179 Cpp., ma
soprattutto le cause di non punibilità ai sensi dell’articolo 129 ‑
preesistenti o sopravvenute alla proposizione del ricorso, sempre con i limiti
connessi all’ effettivo accesso al giudizio di legittimità ‑ nonché le
norme “di favore” nel frattempo intervenute.

Il collegamento dell’ articolo 624 Cpp. con il
precetto dell’ articolo 609, comma 2, parrebbe, pertanto, indiscutibile proprio
per limiti al principio devolutivo che conseguono dalla seconda delle norme
adesso ricordate e che consentirebbero l’ applicabilità di fatti o di norme di
favore sopravvenute alla proposizione del ricorso.

Sennonché 11 incidenza dell’ articolo 609, comma 2, è soltanto indiretta perché 11
articolo 624 Cpp. sembra dettare regole
autosufficienti se esaminate nello specifico contesto del giudizio davanti alla
corte di cassazione (cfr. Su 23 novembre 1990, Agnese; Su, 11 maggio 1993,
Ligresti. Su, 19 gennaio 1994, Celerini).

5.9. Le precisazioni che
precedono hanno l’esclusivo scopo di precisare che, se è vero che l’articolo
624 Cpp. è inscindibilmente da ricollegare ai compiti
demolitori della Corte di cassazione, come è comprovato dall’ espressione
“parti” della sentenza che figura nella norma in parola, esplicitamente
finalizzata a sancire pure il momento della esecuzione della sentenza, è anche
vero che la ratio di tale disposizione conduce a fare emergere il momento di
sintesi dell’ endiadi atomisticamente individuata in numerosi precetti
codicistici; tanto da poter attribuire ad essa una forza espansiva tale da
esprimere un principio generale del diritto delle impugnazioni designando il valore
giuridico delle interferenze tra le varie prescrizioni della decisione
investiti dal gravame, scomponibili ma talora legate da un rapporto di
interdipendenza. Il tutto in base al principio enunciato da questa Corte
Suprema secondo cui, nella locuzione “punti della decisione ai quali si
riferiscono i motivi proposti” di cui all’ articolo
597, comma 1, Cpp. debbono ricomprendersi non solo i
“punti della decisione” in senso stretto, e cioè le statuizioni suscettibili di
autonoma considerazione nell’ ambito della decisione relativa ad un determinato
reato, ma anche quelle riguardanti punti della sentenza che sebbene non
investiti in via diretta con i motivi ‑ che riguardano altro reato
‑ risultino tuttavia legati con i primi da un vincolo di connessione essenziale
logico‑giuridica (Sezione quinta, 27 ottobre 1999, Kardhiqi).

5.10. Ai sensi dell’
articolo 173, comma 3, norme att. Cpp. va,
dunque, enunciato il seguente principio di diritto: “L’appello incidentale ha
ad oggetto i soli punti della decisione oggetto dell’ appello principale nonché
i punti che hanno connessione essenziale con i punti denunciati con l’appello
principale”.

Di conseguenza, nel caso di
specie, poiché il ricorrente ha appellato i punti concernenti la responsabilità
e la misura della pena, correttamente il Pubblico ministero ha proposto appello
incidentale sulla qualificazione del fatto (omicidio volontario anziché
omicidio preterentinzionale), un dato da ritenere in rapporto di connessione
essenziale sia con 11 affermazione di responsabilità
sia con la misura della pena.

6. Scendendo ora all’ esame della censura in tema di responsabilità, è
sufficiente analizzare i singoli profili su cui sì sono ìncentrate le doglianze
del Mìchaeler non omettendosi sì rimarcare come la denuncia di ordine generale
con la quale si addebita alla sentenza impugnata la mancata osservanza del
precetto di cui all’ articolo 192, commi 1 e 2, vada recisamente disattesa.

6.1. La confluenza nella
decisione in esame di numerose massime di esperienza nella complessiva valutazione
del quadro indiziario la cui valenza motivazionale sarà tra poco, punto per
punto, analizzata nei singoli elementi ritenuti rilevanti ai fini dell’ affermazione di responsabilità, impone a queste
Sezioni unite una breve riflessione sulla nozione di massima di esperienza così
da pervenire subito alla conclusione che la Corte dì assìse dì appello ha rigorosamente
osservato i criteri di inferenza indicati nel precetto di cui all’ articolo
192, commi 1 e 2, Cpp.

6.2. Le Sezioni unite di questa
Corte hanno ritenuto che non possa essere incluso
nell’ area del vizio della motivazione il sindacato sulle “massime di
esperienza” utilizzate dal giudice di merito. Con ciò, in certo senso,
rípercorrendo le cadenze argomentative tracciate da un’ autorevole
dottrina la quale aveva puntualizzato come, per consentire che il controllo dì
legittimità sulla motivazione non irrompa a sindacare il merito del giudizio, è
necessario e sufficiente che la
Corte accerti soltanto se la motivazione rispecchi la
struttura legale, cioè espliciti i fatti probatori, le massime di esperienza e
le conclusioni. Tutto ciò in osservanza del principio che ravvisa nella Corte
di cassazione il giudice che verifica la ritualità del procedimento probatorio
e non del suo risultato. Una tesi recentemente ribadita allorché si è affermato
che il controllo della Corte di cassazione sui vizi di motivazione della
sentenza di merito, sotto il profilo della manifesta illogicità, non può
estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza delle quali il
giudice abbia fatto uso nella ricostruzione del fatto; purché la valutazione
delle risultanze processuali sia stata compiuta secondo rigorosi criteri di
metodo e con 11 osservanza dei canoni logici che
presiedono alla forma del ragionamento e la motivazione fornisca una
spiegazione plausibile e logicamente corretta delle scelte operate. Ne consegue
che la doglianza di illogicità può essere proposta quando
il ragionamento non si basi realmente su una massima di esperienza e valorizzi
piuttosto una congettura.

Una significativa convergenza si
riscontra tra tali tracciati ermeneutici e quelli percorsi dalla giurisprudenza
civile, costante nel senso che, in sede di legittimità, il controllo della
motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo
svolto dal giudice di merito presenti i requisiti minimi dell’
argomentazione (fatto probatorio ‑massima di esperienza – fatto
accertato) , mentre non è consentito alla Corte sostituire una diversa massima
di esperienza a quella utilizzata da detto giudice, la quale può essere
disattesa, non quando 11 inferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma
solo quando non sia neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita,
avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo;
precisandosi che non ogni vizio logico può condurre al controllo della Corte di
cassazione, ma solo quello incidente su elementi determinanti ai fini dell’
individuazione della disciplina giuridica della fattispecie; cosicché, la nozione
di “punto decisivo,, della controversia coincide con quella di fatto
costitutivo, rnodificativo, impeditivo o estintivo del diritto in contestazione
(cfr., ex plurimis, Cassazione civile, Sezione prima, 24 ottobre 2000, n.
13984).

Le puntualizzazioni giurisprudenziali
sopra ricordate potrebbero, per la verità, essere poste in discussione solo
riflettendo sul fatto che esse pervengono, in omaggio al principio di
“completezza”, alla conclusione che, perché la motivazione risulti
inattaccabile in cassazione, devono essere enunciate tutte le massime di
esperienza utilizzate. Ma esse appaiono davvero persuasive
solo se si consideri che, mentre, da un lato, non sarebbe ragionevole
l’indicazione delle massime di esperienza assolutamente indiscutibili, dall’
altro lato, la loro enunciazione si giustifica solo in quanto sia autorizzato
(sia pure entro i ristretti limiti indicati dal combinato disposto degli
articoli 192, comma 1, e 606, lettera e), e purché ci si trovi in presenza di
vere e proprie massime di esperienza) il loro sindacato; senza contare che non
sembra consentito accedere alla conclusione che l’indicazione di una massima di
esperienza discutibile debba necessariamente comportare l’annullamento della
decisione in quanto affetta da manifesta illogicità.

Come massime di comune esperienza
vengono comunemente intese quelle definizioni o quei
giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul
quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli
casi dalla osservazione dei quali sono dedotti ed oltre i quali devono valere
per nuovi casi (Sezione quinta, 18 dicembre 1969, Lanzarotti). Le massime di
esperienza vengono così definite quali giudizi che
sono assunti dal giudice nell’ esercizio del suo libero convincimento, ma che
vincolano le conclusioni da adottare (Sezione prima, 26 novembre 1962,
Giacalone). Ed è singolare constatare come la coessenzialità della verifica della massime di esperienza rispetto al principio del libero
convincimento finisca con l’esaltarsi, pur in presenza di puntuali canoni
valutativi espressi dalla legge (si pensi, a tutte le regole enunciate
dall’articolo 192), proprio nel regime del codice del 1988; non essendosi
mancato di precisare come il libero convincimento, che s i estrinseca nel
momento della valutazione della prova, nel processo indiziario è il corretto
risultato di un, operazione logico induttiva attraverso la quale la massima di
esperienza nel sillogismo normativamente imposto dall’ articolo 192, comma 2,
Cpp., si pone come premessa maggiore, l’indizio è la premessa minore e la
conclusione è costituita ‑ nel suo divenire, per cristallizzarsi
definitivamente ‑ dalla prova del fatto, cui si giunge (stante la naturale inadeguatezza degli
indizi) se questi siano gravi (vale a dire, resistenti alle obiezioni e perciò
convincenti), precisi (e cioè non suscettibili di diversa interpretazione, per
lo meno altrettanto verosimile) e concordanti (vale a dire, non contrastanti
tra loro o con altri elementi certi; così, Sezione prima, 14 marzo 1995,
Signori).

Nonostante l’impossibilità di
sindacato sulle massime di esperienza, non sempre la loro utilizzazione appare
designata da un alone di asettica neutralità.

Pur non essendosi mancato di
rilevare che non è consentito in sede di legittimità sostituire ad una
proposizione probatoria, che sia fondata su fatti specifici e su massime di
esperienza ad essi collegate, altra disposizione di
diversa forza persuasiva (Sezione quinta, 14 aprile 1987, Gelli), non è
infrequente l’esigenza che la massima di esperienza da utilizzare debba essere
“appropriata” (Sezione prima, 28 marzo 1969, De Pascale; v. analogamente, per
una massima di esperienza adottata dal giudice di merito e ritenuta esorbitante
rispetto a cautele già imposte dalla legge, Sezione quarta, 24 novembre 1988,
Fontanin), ovvero “plausibile” (Sezione prima, 4 febbraio 1988, Barbella),
tanto che la massima non riconosciuta come tale da tutti e generalmente
accettata finirebbe per contrastare con il principio di logicità (Sezione
prima, 22 maggio 1989, Barranca; Sezione sesta, 21 giugno 1990, Cordi) o con il
senso comune (Sezione seconda, 21 dicembre 1993, Modesto).

Frequente è, poi, il collegamento
delle massime di ‘esperienza (che, definite come regulae íuris, preesistono al
giudizio; Sezione quarta, 27 maggio 1993, Rech), alle prove c.d. índiziarie,
discriminandosi, sul punto, tra gli elementi di prova necessari e sufficienti
per affermare la responsabilità dell’ imputato e
quelli legittimanti la misura cautelare coercitiva (cfr. Sezione
prima, 21 maggio 1990, Bencini; Sezione prima, 18 marzo 1992, Russo; Sezione
prima, 22 giugno 1992, Bono; Sezione prima, 23 novembre 1992, Bottaro; Sezione
terza, 12 agosto 1993, Alberino).

Non si e
mancato di dìscriminare la massima di esperienza dalla congettura. Nel primo
caso il dato è stato già, o viene comunque, sottoposto
a verifica empiríca e quindi la massima può essere formulata sulla scorta dell’
id quod plerumque accídit, mentre nel secondo caso tale verifica non vi è stata
e non può esservi, ed essa resta affidata ad un nuovo calcolo di possìbìlità,
tanto che la massima rimane insuscettibile di verifica empirica e, quindi, di
dimostrazione (Sezione prima, 22 ottobre
1990, Grilli). In tali terminì dovrebbe dunque leggersi l’indirizzo
giurisprudenziale che preclude alla Corte di cassazione il sindacato sulle
massime di esperienza.

In presenza
di una massima di esperienza il dato è stato già sottoposto a verifica empirica
e, quindi, la massima può essere formulata sulla scorta dell’id quod plerumque
accidìt; se si è in presenza di una congettura ‑ ci si trova di fronte,
cioè, ad un, ipotesí non fondata sull’ íd quod plerumque accídít:,
insuscettibile di verifìca empirica ‑ tale possibilità manca e la massima
diviene insuscettibile di verifica empirica e, quindi, di dimostrazione.
Dunque, le massime di esperienza ‑ diversamente dalle congetture
‑trovano ingresso, nella concatenazione logica dei vari sillogismi in cui
si sostanzia la motivazione, dato che esse rappresentano quei postulati
empirici che accredìtano l’effìcacìa dimostratìva. dei
singoli fatti. La motivazione non esaurisce il suo valore designante nella mera
indicazione dei fatti che, secondo il giudice di merito, comprovano il
verificarsi dì un accadìmento costìtuente reato e la riferibilità di esso ad un autore. Dalla sua funzione di garanzia,
costituzionalmente presidiata, discende che a tale indicazione deve
accompagnarsi l’esternazione del canone logico utilizzato, così da consentire
alla parte il sindacato proprio sulla logicità e coerenza della motivazione
stessa. Il controllo sulla motivazione è, infatti, volto a verificare se il
giudice abbia indicato le ragioni del convincimento che si è formato e se
queste ultime siano plausibili in quanto fondate su tutto il materiale
probatorio (c.d. principio di correttezza) in modo che le conclusioni risultino
il frutto di sillogismi logicamente ineccepibili e di massime di esperienza
riconosciute come tali da chiunque e generalmente accettate (c.d. principio di
logicità) . E ciò secondo una regola costante nella
giurisprudenza di questa Corte Suprema in base alla quale una circostanza
(premessa minore), sussunta nella massima di esperienza (premessa maggiore)
consente di trarre una deduzione che logicamente costituisce verità. A ciò
aggiungasi che soltanto se gli elementi acquisiti, nonostante isolatamente possano, in tutto o in parte, risultare polidesignanti,
valutati nel loro insieme divengano univoci, perché confluiscono in una
ricostruzione unitaria del fatto da dimostrare, precludendo qualsiasi
ricostruzione alternativa, il giudizio logico espresso nella motivazione è da
qualificare corretto, tanto da far convergere il procedimento logico verso un
risultato contrassegnato da coerenza e ragionevolezza. Se la premessa maggiore
è essa stessa ipotetica considerati tutti i dati di qualificazione enunciati
dall’impugnata ordinanza, mentre, per un verso, diviene con essi
non combinabile la premessa minore, ne resta, per un altro verso, direttamente
coinvolta la conclusione (Sezione Fer., 12 agosto 1996, Pacìfìco; v. Sezione
seconda, 16 settembre 2003, Caruso).

D’ altro canto, nella valutazione
probatoria ‑ così come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni
procedimento di accertamento (scientifico, storico, etc.) ‑ è corretto e
legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza, ma,
affinché il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in esame
valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni
alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’ apparenza
più verosimile; ove cosi non sia, il suddetto dato si pone semplicemente come
indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi risultanti dagli atti
(Sezione prima, 21 ottobre 2004, Sala).

7. Poste tali premesse, va dato
atto alla sentenza impugnata di avere svolto una motivazione inattaccabile in
sede di legittimità per quanto afferisce al discorso probatorio ritenuto
rilevante ai fini dell’ affermazione di responsabilità
del Michaeler quale causa esclusiva della morte della De Villa da imputarsi
alla condotta omicidiaria del ricorrente.

7.1. Che la De Villa sia deceduta in
casa dell’imputato è stata ritenuta dallo stesso ricorrente
circostanza pacifica. Quel che si contesta è la presenza del solo
Michaeler al momento della morte della ragazza. Ma, su tale punto, la sentenza
impugnata resiste ad ogni censura; un simile dato è stato, infatti, dal giudice
di appello correttamente ritenuto del tutto irrilevante in
presenza degli elementi probatori complementari che assumono una valenza
esponenziale in grado di neutralizzare ogni doglianza sui criteri di inferenza
utilizzati.

7.2. Il motivo concernente la
causa della morte rivela il maggior impiego di massime di esperienza ed il
rigore logico a fondamento del ragionamento probatorio alla base della
dichiarazione di colpevolezza del Michaeler.

Già il rilievo assegnato alle
consulenze del dott. Egarter e del dott. Crestani offre il primo univoco
scenario quanto alla causazione del decesso; l’assenza di elementi concreti in
grado di attribuire la morte della De Villa a causa naturale un profilo sul
quale si è a lungo ed attentamente soffermato la difesa del Michaeler ‑ è
posto correttamente a fondamento del discorso motìvazionale (tanto
implicitamente da relegare ogni ipotesi alternativa ad un ruolo puramente
astratto). Ma la significazione più evidente del discorso giustificativo in
grado di qualificare la detta ipotesi come mera congettura proviene dal dato
complementare costituito dalla presenza sul corpo della vittima di “anomalie”;
si allude al rilevato enfisema polmonare acuto ed alla presenza di resti di
sostanza proteica parzialmente digerita nella trachea e nel bronco, ritenute
compatibili proprio “con l’ occlusione violenta delle
aeree per strangolamento/soffocamento”. Il tutto di fronte all’“abitudine”
inquietante del ricorrente di attingere gli organi della respirazione. comprovata dai precedenti specifici che ‑ come ha
osservato il giudice di primo grado ‑ “mostrano una propensione”, del
Michaeler “verso condotte omicide”.

Sotto tale
profilo davvero inconsistenti appaiono i rilievi svolti dal Michaeler
nel punto c) del quarto motivo di ricorso sovrastati dall’ attenta valenza
probatoria della ricostruzione dell’ occultamento del corpo della povera De
Villa addebitabile all’ imputato, a seguito dell’ accertamento riferibile a
decisione ormai passata in giudicato.

E’ stato verificato, infatti, che
il ricorrente, non soltanto seppellì il corpo della vittima nel letamaio
adiacente alla sua abitazione (un dato correttamente ritenuto di alta
significazione probatoria con giudizio di fatto insindacabile in questa sede,
considerate le massime di esperienza poste a base del discorso dimostrativo, di
fronte all’ alternativa di informare l’autorità di
polizia di un evento naturale e giustificabile solo in presenza di un decesso
dovuto a causa omicidiaria), ma infierì sul cadavere della De Villa il in modo
assolutamente selvaggio ed oltraggioso … tentando di bruciarlo, procurandogli
fratture anomale (femore) collocandolo sotto un mucchio di letame e mutilandolo
(il piede sinistro non è stato più trovato)n, tanto da far pervenire il giudice
di appello alla insindacabile conclusione che un simile comportamento non può
giustificarsi soltanto “con il semplice intento di nascondere un cadavere
“scomodo”, ma rivela la necessità di disfarsi del corpo della vittima proprio
al fine di nascondere la causa della morte nella “precisa consapevolezza che
non si era trattato di una morte naturale”.

7.3. Ineccepibile appare, infine,
la qualificazione del fatto come omicidio intenzionale e non
preterintenzionale, considerata la plurima azione di soffocamento posta in
essere dal Michaeler, univocamente significativa, anche qui con giudizio di
fatto incensurabile in questa sede, dell’accettazione del rischio togliere la
vita alla De Villa, nonostante il ricorrente avesse
come “fine principale” di impedire alla vittima “di gridare o chiamare aiuto”.

L’uso di appropriate massime di
esperienza conduce alla conclusione che nel caso di specie ci si trova in presenza di un fatto omicidiario contrassegnato dal dolo
eventuale, così da rendere insindacabile in questa sede il punto relativo
all’elemento soggettivo.

8. Al rigetto del ricorso
consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.