Famiglia
I criteri per l’ assegnazione della pensione di reversibilità all’ ex coniuge
I criteri per l’assegnazione della pensione di reversibilità all’ex coniuge
Cassazione – Sezione prima – sentenza 21 marzo – 9 maggio 2007, n. 10638
Presidente Luccioli – Relatore Felicetti
Pm Abbritti – Conforme – Ricorrente L. – Controricorrente R.
Svolgimento del processo
1 R. E. con ricorso 7 aprile 2003 al tribunale di Napoli, premesso di essere moglie divorziata di G. R. deceduto il 5 marzo 2003, il quale dopo il divorzio aveva contratto matrimonio con L. A., di godere di un assegno divorzile di lire 1.500.000 mensili e di non essere passata a nuove nozze, chiedeva che le fossero attribuiti ai sensi dell’art. 9 della legge n. 898 del 1970, una quota della pensione di reversibilità nonché, ai sensi dell’art. 12 bis della legge su detta, il 40% dell’indennità di fine rapporto spettante all’ex coniuge. La L. (coniuge separata del G., con assegno di mantenimento di euro 1.549), si costituiva chiedendo il rigetto della domanda. Deduceva che, comunque, l’assegno di lire 1.500.000 mensili era stato attribuito alla R. anche per il mantenimento dei due figli nati dal matrimonio, ormai maggiorenni e, quindi, la parte che doveva considerarsi assegno divorzile era di sole 500.000 lire. Si costituiva anche l’INPDAP. Il tribunale, con sentenza 22 luglio 2003, tenuto conto della durata del matrimonio della R. (anni 24) e di quello della L. (anni 7) , nonché degli anni di effettiva convivenza, attribuiva alla R. una quota di 21/31 della pensione di reversibilità e la somma di euro 58.451,27 sul trattamento di fine rapporto. Avverso la sentenza la L., alla quale era stata attribuita una quota di 10/31 della pensione di reversibilità, proponeva gravame alla Corte di appello, deducendo che il tribunale, nella determinazione della quota, non aveva adeguatamente applicato i criteri correttivi in relazione al parametro della durata dei rispettivi matrimoni, e che la quota dell’indennità di fine rapporto era stata erroneamente calcolata. L’INPDAP, premesso che aveva provveduto a versare le somme dovute secondo quanto stabilito dalla sentenza di primo grado, in quanto esecutiva, chiedeva che l’eventuale rideterminazione degl’importi fosse fatta decorrere dalla notifica della sentenza. La Corte di appello, con sentenza depositata il 23 dicembre 2003, notificata alla Longo il 15 gennaio 2004, rigettava l’appello. Avverso tale sentenza la L. ha proposto ricorso per cassazione, formulando due motivi di censura, con atto notificato all 1 INPDAP il 14 febbraio 2004 ed alla R. il 16 febbraio 2004. La R. si è costituita con controricorso notificato il 27 febbraio 2004 alla L. ed il giorno 1 marzo 2004 all’INPDAP. Quest’ultimo non si è costituito.
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Motivi della decisione
1 Con il primo motivo si denunciano vizi motivazionali e l’omessa applicazione “del criterio correttivo della condizione economica dei coniugi nel quadro dei provvedimenti concernenti la pensione di reversibilità e l’indennità di fine rapporto”. Si deduce al riguardo che la Corte di appello non avrebbe tenuto adeguato conto che essa ricorrente vive in un appartamento in locazione, non è proprietaria d’immobili e non gode di alcun reddito proprio, mentre l’ex moglie è proprietaria di due immobili, in uno dei quali vive. La Corte d’appello erroneamente avrebbe dato rilievo alla circostanza che tali immobili erano di provenienza ereditaria, mentre non avrebbe tenuto in conto adeguato la circostanza che l’assegno divorzile a suo tempo attribuito all’ex coniuge era di soli 250,00 euro mensili, di modo che doveva presumersi che la ex moglie vivesse anche di altri redditi propri. La Corte, inoltre, nell’affermare che essa ricorrente non avrebbe dato prova delle suo condizioni economiche, avrebbe omesso di valutare che nell’atto di separazione intercorso fra di essa e il G. era espressamente indicato che era casalinga, non aveva redditi propri e non era proprietaria d’immobili. Con il motivo si deduce che, pertanto la Corte di appello non avrebbe adeguatamente temperato il criterio meramente cronologico della durata del matrimonio con i criteri stabiliti dalla sentenza n. 419 del 1999 della Corte costituzionale, secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte a tutela del coniuge superstite.
Il ricorso è infondato.
2 Va pregiudizialmente respinta la deduzione del controricorso secondo le quale la sentenza in discorso, essendo stata emessa con il procedimento di camera di consiglio, sarebbe ricorribile ex art. 111 Cost. e quindi solo per violazione di legge. A norma dell’art. 360 c.p.c., infatti, tutte le sentenze, ancorché emesse a seguito di procedimento in camera di consiglio, sono ricorribili per i motivi ivi indicati, e quindi anche, ai sensi del n. 5 dell’articolo, per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
3 Nel merito va premesso che, a norma dell’art. 9, comma 3, della legge n. 898 del 1970, nel testo novellato dall’art. 13 l. n. 74 del 1987, la ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l’ex coniuge devo essere compiuta “tenendo conto della durata del rapporto” matrimoniale di ciascun coniuge.
Tale criterio, sulla base degli elementi interpretativi individuati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 419 del 1999, deve ritenersi non si ponga come. unico ed esclusivo parametro al quale conformarsi automaticamente ed in base ad un mero calcolo matematico, potendo essere corretto da altri criteri, da individuare nell’ambito dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970 (Caso. 29 gennaio 2002, n. 1057), tenuto conto del carattere solidaristico proprio della pensione di reversibilità e in relazione alle particolarità del caso concreto (Case. 10 ottobre 2003, n. 15164), fermo restando che alla durata del matrimonio “può essere riconosciuto valore preponderante e il più delle volte decisivo” (Corte cost., sentenza n. 419 del 1999) nella ripartizione della pensione.
Deve quindi tenersi anche conto delle condizioni economiche di entrambi gli ex coniugi (Casa. 9 marzo 2006, n. 5060), dell’assegno goduto dal coniuge divorziato (Cass. 16 dicembre 2004, n. 23379; 5 maggio 2004, n. 8554; 19 febbraio 2003, n. 2471), dei periodi di convivenza prematrimoniale (Cass. 7 marzo 2006, n. 4867; 22 dicembre 2005, n. 28478; 16 dicembre 2004, n. 23379; 10 ottobre 2003, n. 15148), e di ogni altro elemento desumibile dall’art. 5 della legge n. 898 del 1970, ivi compreso il contributo dato da ciascun coniuge, durante i rispettivi matrimoni, alla famiglia. Non tutti tali elementi, peraltro, debbono necessariamente essere valutati in uguale misura, rientrando nella valutazione del giudice di merito la determinazione della loro rilevanza in concreto (Cass. 14 settembre 2004, n. 6272; 30 marzo 2004, n. 6272).
La correzione del criterio di massima, dettato dal legislatore, della durata del matrimonio, peraltro, può essere compiuta unicamente e nei limiti necessari per evitare che il coniuge divorziato sia privato dei mezzi necessari a mantenere il tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare (o contribuire ad assicurare) nel tempo l’assegno di divorzio, ed il secondo coniuge del tenore di vita che il “de cuius” gli assicurava (o contribuiva ad assicurargli) in vita (Cass. 10 gennaio 2001, n. 282). E ciò, comunque, non con carattere di assolutezza, costituendo gli elementi desumibili dall’art. 5 anche il limite giuridico a tale aspettativa,che potrà restare parzialmente insoddisfatta a causa del concreto ammontare della pensione di reversibilità – rimanendo garantito a uno dei coniugi solo il soddisfacimento di minori esigenze di vita, sia in relazione alla del tutto esigua durata del suo matrimonio rispetto al matrimonio dell’altro coniuge, sia sulla base degli elementi di valutazione complessiva, fra i quali il contributo dato da un coniuge rispetto all’altro alla conduzione familiare, con particolare riferimento alla crescita ed educazione dei figli a lui affidati in regime di separazione e di divorzio.
Nel caso di specie con il ricorso si afferma di non censurare la sentenza impugnata per l’interpretazione in diritto, fatta dalla Corte di appello, della normativa che disciplina la ripartizione della pensione di reversibilità fra gli ex coniugi, ma l’applicazione compiuta in concreto dei principi sopra indicati, falsamente applicati con l’assegnazione al primo coniuge di 21/31 ed al secondo di 10/31 della pensione.
Peraltro, a giudizio di questo collegio, la censura formulata non è fondata.
Va infatti ribadito che il punto di partenza normativo per la ripartizione della pensione di reversibilità è costituito dalla durata legale dei rispettivi matrimoni alla quale, per un verso, il giudice deve attenersi in mancanza della provata adduzione, da parte del coniuge interessato, di concreti elementi che dimostrino la necessità e la misura della correzione del criterio che si renda necessaria per le finalità sopra dette. Durata dalla quale, per altro verso, il giudice può discostarsi nei limiti desumibili dagli elementi fissati nel citato articolo 5, da valutarsi in relazione ad entrambi i coniugi.
Nel caso di specie la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, è giustamente partita dal criterio della durata dei rispettivi matrimoni, considerando che il matrimonio dell’odierna ricorrente era durato solo sette anni, rispetto ai ventiquattro anni dì durata del matrimonio della controparte. Ha quindi ritenuto che tale criterio potesse essere corretto, in favore dell’odierna ricorrente, in relazione ai rispettivi periodi di effettiva convivenza, nonché alla misura dei rispettivi assegni (essendo il secondo coniuge separato) e del patrimonio del primo coniuge, di provenienza paterna (ed alla cui formazione non aveva, quindi, concorso il coniuge defunto) . Quale limite alla correzione ha, peraltro, esattamente considerato che dal primo matrimonio erano nati due figli, affidati alla madre al momento della separazione e da essa accuditi ed educati sino alla loro indipendenza economica, mentre dal secondo matrimonio non erano nati figli. Ha altresì valutato l’epoca remota in cui l’assegno di divorzio era stato determinato (complessivamente insieme all’assegno per il mantenimento dei figli) e quella recentissima in cui era stato determinato, invece, quello di separazione (nella quale era sfociato il secondo matrimonio), sull’accordo fra le parti (trattandosi di separazione consensuale, e quindi senza un accertamento delle effettive condizioni economiche dell’odierna ricorrente). Ha infine ritenuto che l’odierna ricorrente, sulla quale incombeva il relativo onere, non aveva fornito validi elementi circa le proprie condizioni economiche.
Trattasi di una motivazione elaborata priva di vizi logici e rispondente ai principi di diritto sopra esposti in relazione alla quale la ricorrente, riguardo alle proprie condizioni economiche, non può fondatamente allegare il mancato esame delle dichiarazioni rese al momento della separazione personale, non avendo valore probatorio le dichiarazioni in proprio favore.
Ne deriva l’infondatezza del motivo.
4 Con il secondo motivo si denuncia l’errata interpretazione dell’art. 12 bis della legge n. 898 dei 1970. Si deduce che la Corte di appello ha ragguagliato la quota d’indennità di fine rapporto spettante all’ex coniuge agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con la durata legale del matrimonio, mentre invece essa andrebbe ragguagliata al periodo di effettiva convivenza, con esclusione del periodo di separazione, secondo quanto sarebbe stato affermato dalla sentenza n. 5720 del 2003 di questa Corte ed in linea con il rilievo dato dalla giurisprudenza di questa Corte alla convivenza more uxorio ai fini della determinazione della quota di pensione di reversibilità spettante a ciascun ex coniuge.
Il motivo è infondato, non essendo la sentenza citata affatto pertinente alla fattispecie in esame ed avendo questa Corte già statuito (in coerenza con l’interpretazione risultante da Corte cost. 24 gennaio 1991, n. 23) che, ai fini della determinazione della quota d’indennità di fine rapporto, spettante all’ex coniuge ai sensi dell’art. 12 bis introdotto nella legge n. 898 del 1970 dall’art. 16 della legge n. 74 del 1987, il legislatore statuendo che detta percentuale pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio l’ha determinata con riferimento al dato, giuridicamente certo, della durata legale del matrimonio, piuttosto che a quello incerto della cessazione della convivenza (Cass. 7 marzo 2006, n. 4867).
5 Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato, con la condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano come in dispositivo.
PQM
La Corte di cassazione
Rigetta il ricorso. Condanna L. A. alle spese del giudizio di cassazione in favore di R. E., che liquida nella misura di euro millesettecento per onorari, oltre euro cento per spese vive, oltre spese generali e accessori come per legge.