Penale

Monday 22 February 2010

i criteri da adottare per la valutazione della persona offesa nel caso di violenza sessuale: una interessantissima pronuncia del Tribunale di Matera

 

Tribunale penale di Matera – sentenza 2 dicembre 2009 – 4 gennaio 2010
Presidente Vetrone

Svolgimento del processo


Concluse le indagini preliminari, durante le quali era stato espletato incidente probatorio, il Pubblico Ministero esercitava azione penale nei confronti di C. G., nei termini risultanti dall’originario capo d’accusa.
Con decreto datato 24 gennaio 2003 il GUP, su richiesta del requirente, disponeva così – ex art. 429 c.p.p. – il rinvio al giudizio dibattimentale del prevenuto. All’udienza del 7 maggio 2003, fissata dal GUP, il C. non compariva: per questo, il Collegio, rilevata la ritualità della notifica del decreto, dichiarava la contumacia del prevenuto. Tale dichiarazione veniva però revocata (stante l’avvenuta presentazione del C.) alla successiva udienza del 28 gennaio 2004, alla quale il tribunale rinviava, attesa la necessità di trattare incarti di data più remota o concernenti fatti più risalenti nel tempo.
Il processo subiva poi ulteriori rinvii dovuti o alla ragione già citata, ovvero (in un caso: ud. 24 settembre 2008) alla richiesta del prevenuto.
All’udienza del 18 febbraio 2009, in assenza di questioni preliminari, era dichiarata l’apertura del dibattimento.
Avuta la parola, il rappresentante dell’Ufficio del Pubblico Ministero, riportandosi ai capi d’imputazione, rappresentava di voler provare la responsabilità del prevenuto attraverso l’esame dei testi di lista (tempestivamente depositata ai sensi dell’art. 468 c.p.p.) e l’esame dell’imputato.
La parte civile chiedeva di controesaminare i testi del P.M. e quelli della difesa del prevenuto, postulando anche l’esame di quest’ultimo.
Dal suo canto, la difesa chiedeva di poter esaminare l’imputato e d’esaminare i propri testi; riservava al prosieguo richiesta d’acquisire produzione documentale.
Ammesse le prove, così come richieste, erano prima esaminati C. S., C. C., Q. V., rispettivamente padre, madre ed amica della persona offesa.
Una volta reso l’esame da parte del prevenuto, erano poi sentiti come testi: don R. M., P. V. N., P. G., D. M. A. M. (consorte del C.), A. M., S. A., tutti (a parte il sacerdote) insegnanti di musica, appartenenti – come l’imputato – alla scuola omissis.
All’esito dell’istruttoria dibattimentale [durante la quale erano acquisiti al fascicolo del dibattimento (senza che sorgessero opposizioni) sia una fotografia riproducente la sala parrocchiale della chiesa di omissis, luogo ove sarebbe avvenuto il reato oggetto dell’accusa (ud. 20 aprile 2009), sia la copia del registro originale, esistente presso la scuola di musica omissis, in cui l’imputato avrebbe annotato giorni, orari di ingresso, orari di uscita, relativi alla frequenza, da parte dell’alunna C. A. – nel periodo omissis – delle lezioni di musica a lei impartite dal C.], all’udienza dell’11 novembre 2009, fissata per eventuali richieste ex art. 507 c.p.p. e discussione, il P.M. chiedeva preliminarmente di modificare l’imputazione originaria, che così era riformulata:
C. G., imputato del reato di cui all’art. 609 bis c.p., perché durante una lezione di pianoforte presso la sacrestia della chiesa di omissis, nella qualità di insegnante di musica, con violenza consistita in gesti improvvisi, subdoli, fugaci e insidiosi, costringeva l’allieva C. A., minore di anni 16, a subire palpamenti del seno.
– In omissis, in data omissis.
Quindi, acquisita l’espressa rinuncia del prevenuto a chiedere ed ottenere un termine a difesa a fronte di detta modifica, il P.M. formulava istanza ex art. 507 c.p.p. perché fosse esaminata (anche) in dibattimento la persona offesa, C. A..
Nonostante il dissenso espresso sul punto sia dal difensore della parte civile (che evidenziava l’inopportunità dell’adempimento, considerato che la C. A. era stata sentita in sede di incidente probatorio), sia dal difensore dell’imputato (il quale faceva rilevare il decorso di quasi nove anni dai fatti e che le attuali dichiarazioni della persona offesa avrebbero anche risentito dello sviluppo del processo e “d’altre vicende”, con pregiudizio per la genuinità della testimonianza), il tribunale accoglieva l’istanza.
Riteneva il Collegio infatti assolutamente necessario esaminare la persona offesa, nonostante l’incidente probatorio: ciò, perché, proprio per via del passare degli anni e l’intervenuta maturazione della donna (che, come appreso dall’istruttoria dibattimentale, nel frattempo era divenuta moglie e madre), le sue nuove dichiarazioni avrebbero potuto portare ulteriori, utili chiarimenti alla vicenda.
Dichiarata infine chiusa l’istruttoria dibattimentale, con l’indicazione degli atti contenuti nel fascicolo del dibattimento, utilizzabili ai fini della decisione, le parti rassegnavano le conclusioni riportate nel verbale di udienza.
Il Collegio, all’esito della camera di consiglio del 2 dicembre 2009, pronunciava sentenza, come da dispositivo, riservando la motivazione in giorni novanta.

Motivi della decisione


I.
La presente vicenda processuale trae origine dalla denuncia – querela, contenente espressa richiesta di punizione, datata omissis e redatta nella Stazione dei Carabinieri di omissis, che C. S. aveva formulato nei confronti dell’attuale prevenuto per via d’un episodio increscioso che si sarebbe verificato la sera del giorno precedente, durante la lezione di pianoforte impartita dal C. G. alla figlia del denunciante, C. A., nata l’omissis e, quindi, all’epoca quindicenne.
Ai fini della ricostruzione storica della medesima vicenda[1], occorre però partire, essendo la C. A. l’unica teste diretta dei fatti, dal racconto che da lei è stato reso allorché (dinanzi a questo collegio) è stata sentita all’udienza dell’11 novembre 2009, giovando anche riportarne – ove occorra – i testuali dicta.
In detta occasione, la giovane donna, ora più che omissis (e come detto in precedenza, oramai sposatasi e divenuta madre), in risposta al P.M., il quale le ha dapprima genericamente chiesto di riferire cosa accadde durante la lezione di musica in questione – esordendo con l’affermazione di ricordare tutto bene, perché “…certe cose non si dimenticano”, e tenendo durante l’esposizione più volte a puntualizzare d’essere fornita d’una memoria “…abbastanza forte su tutto” – ha di getto primieramente riferito, in maniera sintetica, quanto segue.
Quella sera, come tante altre, si recò a lezione di pianoforte, che iniziò come tutti gli altri giorni. Sennonché, dopo che ella ebbe intrapreso ad esporre all’insegnante quello che aveva preparato a casa, iniziò “…a sentire qualcosa sul… , che un attimo prima non c’era”. Resasi conto di ciò che stava accadendo, intimò al professore di toglierle le mani di dosso: quindi, avuta la forza di alzarsi, andò via.
Richiesta dal P.M. di descrivere in maniera più dettagliata i fatti, partendo dal gesto dell’uomo e dalla posizione reciproca, che ella ed il professore – appena prima del “contatto” – avevano avuto, la C. A. ha aggiunto che, allorché ella suonava al pianoforte, insieme all’insegnante stavano vedendo la posizione del proprio braccio. Il professore, che era seduto al suo fianco (ha detto la teste: “Se non erro a destra, questa cosa non…”, così dimostrando di non aver sempre e su tutto le forti capacità di memoria appena ostentate), stava appunto mostrandole l’esatta postura. Quindi, mentre l’uomo era accinto ad indicarle la posizione dell’arto rispetto alla tastiera, ed effettivamente le stava toccando il braccio per mostrargliela, s’era “…resa conto che ad un certo punto, … (ed all’improvviso)… non era più il braccio che (quegli le) toccava.”.
Sembratole il fatto “…un po’ strano”, non appena resasi conto della cosa, le venne “…subito, d’istinto di dirgli di toglier(le) le mani di dosso”. Questo perché, come appunto già riferito, non era il braccio che l’insegnante le stava toccando, ma (testualmente) “…era qualcos’altro, visto e considerato che, non so se lì sugli atti c’è scritto, ma a omissis anni avevo un seno un po’ più prosperoso delle altre omissis, tra parentesi”.
Chiarito così finalmente che il contatto era avvenuto fra la mano del professore ed il proprio seno – ancora sollecitata dal PM, che le ha chiesto se quel gesto venne ripetuto, se fu persistente e quanto durò – la C. A. s’è limitata a dire: “Una decina di minuti, finché io poi ho messo a fuoco e ho avuto quella prontezza ad alzarmi dalla seduta del pianoforte.”.
Quando, sempre dal requirente, le è stato conseguentemente ancora domandato (a) cosa per lei volesse dire mettere (mentalmente) a fuoco la cosa, (b) perché inizialmente ella avesse dovuto “realizzare” l’accaduto e (c) cosa inizialmente ella avesse invece pensato, la donna ha risposto: “In certi momenti il cervello non pensa, dico io, perché tu ti trovi davanti a questa situazione e cominci a pensare: È una mia sensazione! Poi metti a fuoco: No, non è una mia sensazione, è questo che sta succedendo effettivamente!”.
Ancora, la C. A. ha aggiunto di non ricordare (evidenziando così una seconda fallacia di memoria) ed, anzi, ha negato[2] ciò che da lei fu invece effettivamente riferito in incidente probatorio), ossia che – nel momento in cui cominciò a percepire quel toccamento – ella (onde interrompere quel comportamento) cambiò il libro (lo spartito musicale) ed il pezzo da suonare.
Su reiterata richiesta del requirente, di precisare quale fosse stata la durata del “toccamento”, ha ancora, ed in maniera intrinsecamente contraddittoria, asserito che esso si sarebbe protratto “Una decina di minuti scarsi, questione di attimi” ed, al P.M. che le ha allora eccepito come pochi attimi e dieci minuti fossero concetti ben differenti, ha risposto: “In quel momento la durata del tempo è una cosa che va fuori da quello che ti sta succedendo, però una decina di minuti, suppongo.”.
Interrogata ancora di quale fosse stata, da un canto, la propria reazione (dopo aver capito che non aveva avuta una mera sensazione, ma che effettivamente l’uomo le stava toccando il seno) e, dall’altro, quale replica avesse avuto, di rimando, il professore, ha riferito:
d’aver allora detto al C. G.: “Mi tolga le mani di dosso” (d’iniziativa, ha aggiunto: “…me la ricordo precisamente questa frase. Mi sono alzata…”;
che il professore allora le chiese: “Cosa stai dicendo?”;
che, essendosi ella subito alzata – passato giusto il tempo di prendere il libro e metterlo nella borsa – se ne andò via. Il tutto “…senza obiettare nulla, senza dargli modo di…; Sono andata via, sono scappata a casa, insomma.”.
Domandatole dal P.M. se ricordasse d’aver invece – di fronte all’ affermazione del professore, “Cosa stai dicendo?” – precisato qualcosa, in particolare d’avergli rivolto le parole “Capisci l’italiano?”, la C. A. (solo allora e dietro la sollecitazione) ha affermato “Sì, la ricordo questa frase. Gli ho detto: Capisci l’italiano?”, aggiungendo che, dopo che il professore le aveva detto “Parliamone, ma cosa stai dicendo…?”, l’ultima propria affermazione fu, appunto, “Lei capisca l’italiano”, perché in quel momento fu la prima cosa venutale in mente; dopo di che s’indusse a “scappare, andare via”.
Circa l’orario che avevano le lezioni, la teste ha così riferito: “Quel giorno, se non ricordo male, era tardi la sera, intorno alle sei. Però, solitamente le lezioni le facevamo molto prima. Quella sera era tardi, perché ricordo in particolar modo che quando mi ritirai a casa, si faceva “Un posto al sole”, che è una telenovela che si faceva puntualmente intorno alle sei e mezzo prima e io la guardavo sempre. Quindi, quella sera mi misi davanti al televisore, come mi ritirai a casa ebbi questa…”.
Ha definitivamente aggiunto la C. A.:
che, una volta tornata a casa e messasi davanti al televisore senza parlare con nessuno, andò subito dopo a letto;
che la mattina dopo, alzatasi per andare a scuola a omissis, nell’autobus della omissis le amiche di scuola – accortesi che “era un po’ strana”- cominciarono a chiederle spiegazioni (“cos’hai, cosa non hai, come succede penso tra amiche”);
che, alla fine, in via confidenziale, ad una di loro, V. Q., disse: “Sai, ieri sera è successo questo, questo e questo…”;
che, avendole l’amica suggerito di riferire la cosa ai genitori, di rimando ella, “Lì per lì”, le disse “…va bene, poi vediamo, andiamo a scuola”, cosicché dell’accaduto ebbero ancora modo, durante la restante parte della giornata passata in classe, di parlare (“Frequentavamo la stessa classe a scuola, quindi eravamo vicine di banco, abbiamo avuto modo di parlarne di più”);
che, alla fine la Q. s’offrì – una volta tornate a omissis – d’accompagnarla a casa, per aiutarla a dire tutto ai genitori; anzi, all’occorrenza, per riferir loro – al suo posto – l’increscioso episodio;
che ella, superata non tanto la paura, ma piuttosto la vergogna[3], con il sostegno della compagna, raccontò così l’accaduto ai genitori, in tal modo inducendo il padre a presentare la denuncia-querela de qua.

II.
II.1 Poiché la disamina del materiale probatorio ha preso le mosse dalle dichiarazioni dibattimentali della presunta vittima, C. A., e su di esse dovrà incentrarsi (di secondo rilievo essendo le altre risultanze testimoniali – delle quali si farà all’occorrenza cenno – in quanto afferenti o a conoscenze dei fatti avute de relato, come è per i genitori e l’amica della persona offesa, ovvero a circostanze di mero contorno rispetto al punto centrale della vicenda, come è per il sacerdote e gli altri testi indicati dalla difesa del prevenuto) è opportuno che il Collegio espliciti i criteri che presiedono alla valutazione della deposizione della persona offesa, di particolare e decisivo rilievo nei casi, quali il presente (molto frequenti, se non ordinari per le vicende di asserite violenze ed abusi sessuali, per giunta ai danni di minori), in cui è difficile o impossibile ottenere nel processo testimonianze dirette, diverse da quella della persona che le violenze ha patito, per fatti svolti al di fuori della presenza d’altri.
II.2 È di tutta evidenza che, allorché si verta in tema di reati commessi naturalmente “in privato”, il relativo accertamento non possa che procedere attraverso la valutazione della versione della parte offesa, magari comparandola con quella dell’imputato, ove questi intenda fornire il proprio contributo conoscitivo: e tanto, non di rado, in assenza anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi.
Nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, è affermazione ricorrente quella secondo la quale il giudice può attingere la verità anche dalle sole dichiarazioni del soggetto passivo il quale, per legge, riveste anche la qualità di testimone; tuttavia, trattandosi di soggetto portatore d’interesse antagonista rispetto a quello dell’imputato, tale deposizione merita piena affidabilità ove sia sottoposta ad indagine positiva, rigorosa e penetrante, circa l’attendibilità delle sue proposizioni accusatorie.
Ciò comporta che, in concreto, la testimonianza della persona offesa, intesa come prova narrativa critica, deve essere valutata con ogni più opportuna cautela sia sotto il profilo intrinseco della costanza, della linearità e della coerenza logica, sia sotto quello estrinseco della comparazione della stessa con qualsiasi dato di riscontro – desumibile dalle emergenze di causa – che possa concorrere ad assicurare il controllo dell’attendibilità della testimonianza, confermandone indirettamente il contenuto. E tanto più “autosufficiente” è la deposizione della persona offesa, quanto più il controllo sulla credibilità intrinseca dia esito positivo, da ciò conseguendo, al contrario, che la dichiarazione della persona offesa non richiede riscontri esterni solo laddove non sussistano situazioni che inducano a dubitare della sua attendibilità, perché in caso contrario – ad esempio di dichiarazioni contrastanti rese dalla stessa persona offesa su circostanze non marginali del fatto – solo pregnanti ed univoci ulteriori elementi di prova confermativi della prospettazione accusatoria consentono di ritenere provato il fatto oggetto di imputazione (v., in punto, da ultimo: Cass. 14.4.2008 n. 27322; Cass. 4.11.2004 n. 443; . nella giurisprudenza di merito, v.: App. Milano, Sez. Il, 29.02.2008; Trib. Genova, 2.1.2008; App. Campobasso, 3.3.2005).
II.3 In altri termini, se risulta tecnicamente possibile che la persona offesa dal reato (cui è riconosciuto un interesse privato alla persecuzione penale dell’autore del fatto illecito), ovvero la parte civile (la quale a sua volta afferma di aver subito un danno dal reato e ne invoca la riparazione nelle forme del risarcimento o della restituzione) vestano i panni del testimone, non si può prescindere, in sede di decisione, da un’attenta valutazione delle loro dichiarazioni. Ciò comporta che quando l’istruttoria processuale difetta di dati probatoriamente forti, e si fonda essenzialmente sulle testimonianze per così dire “anomale” delle persone offese, il giudice è tenuto ad utilizzare criteri di valutazione molto più rigorosi e puntuali, controllando e vagliando la credibilità soggettiva dell’accusatore e la coerenza del suo racconto, verificando la plausibilità e la realizzabilità dei fatti storici sì come riferiti, senza prescindere da un’analisi critica circa il riferito movente, ovvero in ordine ai tempi in cui le denunce prima, e le dichiarazioni poi, sono state eventualmente rese.
Esemplificando, può senza dubbio apparire sospetta la dichiarazione che sia intervenuta a distanza di molto tempo dall’accadimento penalmente rilevante oppure a più riprese anziché in un’unica deposizione. Soprattutto, in caso di abusi a sfondo sessuale si può verificare che la vittima gradui le proprie accuse, per il fatto che insorge una naturale difficoltà ad esporre vicende personali magari particolarmente intime e delicate se non addirittura devastanti sotto il profilo psico-fisico. Ma non si può negare come, in presenza di simili evenienze, abbia a sorgere forte il sospetto di contaminazioni, che minano la bontà e l’aderenza al dato storico delle dichiarazioni stesse, che dunque vanno indagate ancor più attentamente e meticolosamente. Si possono poi acquisire dati utili alla comprensione del soggetto dichiarante, dati che attengono alla sua personalità: ci sono soggetti inclini a descrizioni inveritiere, ed in casi del genere è chiaro che la loro mera deposizione non potrà di per sé sola fondare un’accusa.
II.4 In definitiva: nel processo penale, a differenza che in quello civile, è consentito che un soggetto interessato e non estraneo o indifferente agli esiti del giudizio ricopra il ruolo di testimone. Tale scelta non contrasta con i principi costituzionali di uguaglianza e diritto di difesa: è una scelta che è stata ritenuta dalla Corte Costituzionale “ragionevole”, in quanto l’interesse pubblico all’accertamento di particolari reati è superiore rispetto all’interesse collegato alla risoluzione delle controversie civili, nelle quali invece la parte non può ancora essere ammessa a testimoniare.
Particolare ed ulteriore cura deve essere dal giudicante ancor più attuata nel caso in cui la violenza sessuale o gli abusi (come anche i maltrattamenti) abbiano avuto come soggetto passivo persona minorenne e, per le riferite particolari circostanze che caratterizzano la commissione del fatto, le dichiarazioni accusatorie della vittima siano, come già detto, l’unico apporto probatorio: in tal caso, la valutazione d’attendibilità è affidata al vaglio positivo dell’attitudine psicofisica del minore stesso ad esporre le vicende in maniera utile e corretta e della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni che va narrando.
Il decidente cioè deve accertare la capacità del minore di recepire le informazioni e raccordarle con altre, nonché esprimerle e contestualizzarle in maniera complessa proporzionalmente all’età, alle condizioni emozionali, alla qualità e natura dei vincoli familiari ed esaminare il modo con cui la giovane vittima ha vissuto e rielaborato l’accaduto, per selezionare sincerità, travisamento e menzogna (v., in punto: la fondamentale pronuncia, Cass. 3 luglio 1997, n. 8962, Ruggeri). Non a caso, il giudice della nomofilachia ha ritenuto affetta dal vizio di manifesta illogicità, la motivazione della sentenza nella quale la valutazione sulla credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni del minore, vittima di abusi sessuali, venga compiuta esclusivamente riferendosi all’intrinseca coerenza interna del racconto, senza tenere adeguatamente conto di tutte le circostanze concrete che possono influire su tale valutazione (Cass. 17 ottobre 2007, n. 4069).
II. 5 Resta infine da segnalare un dato comune alla valutazione della prova dichiarativa, a prescindere da chi (maggiorenne o minorenne) sia il dichiarante e per quale reato (a sfondo sessuale o meno) si proceda.
Quella dichiarativa, in genere, è – per sue caratteristiche – una prova debole, forse la più debole delle prove (anche escludendo le ipotesi di deliberata falsità delle dichiarazioni) in quanto è soggetta a gravi fattori di distorsione, che possono su essa assai influire.
Sufficit, in questa sede, fare un cenno ad alcuni dei detti fattori di distorsione, che sono:
a. anzitutto, i fattori sottratti al controllo esterno (es.: limiti fisiologici all’osservazione ed eventuali deficit sensoriali; caratteristiche individuali, aspettative e pregiudizi; stato emotivo, durata e condizioni di osservazione; selettività percettiva, trasferimento inconsapevole di memoria, falso ricordo);
b. poi, i fattori risultanti da influenze esterne (es.: attività ricostruttiva; interferenze da informazioni successive; pressioni sociali; ipermnesia; ruminazione);
c. infine, i fattori riferibili al contesto processuale (es.: disagio del dichiarante; asimmetria del rapporto personale; legge psicologica dell’inerzia; tecniche di esame; effetto suggestione; modo di formulazione delle domande).
L’esperienza processuale, poi, fonda la convinzione che i soggetti più pericolosi per l’accertamento dei fatti sono i testi oculari, i quali, talora, hanno percepito solo una parte dei fatti, selezionato i ricordi, integrato tali ricordi con altri ed a volte con i propri pregiudizi, così riferendo in modo approssimativo.

III.
III.1 Alla luce dei sopra espressi principi ed avvertimenti, può dunque passarsi alla valutazione delle dichiarazioni che C. A. ha fatto all’udienza dibattimentale su ricordata, in ripetizione e conferma di quelle, di natura egualmente accusatoria, che ella stessa mosse – nella ormai lontana data del 28 giugno 2001 – anche dinanzi al GIP, in sede d’incidente probatorio.
III.2 Va premesso che nella giurisprudenza di legittimità è principio pacifico che il palpeggiamento del seno, senza il consenso dell’interessata, sebbene fulmineo ed al di sopra dei vestiti, integra gli estremi del reato di violenza sessuale, in quanto atto diretto a mettere in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sfera sessuale.
Secondo tale orientamento, ciò avviene, purché sussista nell’atto, quale elemento necessario, l’elemento soggettivo, è cioè la finalizzazione all’ eccitamento o al soddisfacimento sessuale dell’agente (v.: Cass., sez. III, 5 aprile 2007, n. 19718).
Peraltro, il supremo Collegio, in alcuni arresti, ritiene invece sufficiente, perché possa configurarsi il reato di violenza sessuale, la ricorrenza del solo elemento oggettivo dell’idoneità dell’ atto a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo (così: Cass. 2/07/2004 n. 37395, Annunziata[4]).
Non è dubitabile, pertanto, a stregua di quanto rilevato, che nella specie ben potrebbe ritenersi correttamente realizzata, ove i fatti così come contestati si fossero con certezza effettivamente verificati, l’ipotesi del reato rubricato dal P.M. ed addebitato al C. G..
III.3 Sennonché, deve osservarsi (in sintonia con la ricordata giurisprudenza della nomofilachia) che, perché anche un semplice toccamento di zona erogena configuri il reato, occorre che esso sia stato non casuale. Ed è sotto tale aspetto ritiene il Collegio che non possa pervenirsi, oltre ogni ragionevole dubbio, ad una affermazione di colpevolezza del prevenuto.
Invero, non appare nella specie superabile ogni perplessità ed incertezza sul fatto che la narrazione della vicenda, resa dalla C. A., in termini di abuso sessuale patito dal C. G., possa esser stato il frutto d’una percezione falsata circa il reale svolgimento dell’ accaduto, la gemmazione – e la conseguente crescita – d’un errato autoconvincimento della giovane (per via d’un assolutamente inconsapevole travisamento di fatti realmente avvenuti).
La qual cosa, si noti, è dato sostenere senza dover neanche per implicito affermare che il dire della persona offesa – cui non va disconosciuta coerenza interna, univocità ed intrinseca buona fede – abbia avuto caratteristiche menzognere, né, tanto meno, insinuare che ella abbia voluto calunniare il prevenuto.
In sostanza, è perfettamente sostenibile, cioè, l’affermazione, in termini di probabilità tale da escludere ogni altra ragionevole soluzione, che la C. A. abbia interpretato, equivocando, in malam partem, quello che è stato un fortuito toccamento, causato dalla vicinanza dei due soggetti (intenti l’una all’apprendimento, l’altro all’insegnamento di corrette posture del corpo rispetto al pianoforte e del braccio alla tastiera), e che la successiva elaborazione, per “ruminazione” di tale accadimento, come malamente inteso all’epoca del suo verificarsi, abbia poi – col passare del tempo ed in mancanza d’occasioni di riflessioni opposte e contrarie, volte in positivo – oltre che perpetrato, addirittura vieppiù accresciuto l’originaria e distorta interpretazione dei fatti: il tutto, quasi come se, nella memoria della ragazzina, divenuta donna, si sia sempre più distillato il (solo) ricordo d’un fatto sgradito, d’un evento che avrebbe potuto e dovuto essere un altro, e non si siano invece, in essa memoria, configurate diverse e pur esistenti circostanze, che avrebbero evidenziato – al contrario – l’insussistenza e la negazione di quella (errata) prospettiva.
III.4 E vale, in quest’ottica, non trascurare la considerazione che, giusta quanto è desumibile ex actis, la C. A. all’epoca della vicenda, anziché avere soltanto un atteggiamento di mera stima e considerazione (sentimenti di cui ha dato anche al dibattimento senz’altro atto) per C. G. -insegnante, aveva maturato nei confronti del C. G. – uomo una vera e propria infatuazione giovanile. Di tanto è palese indizio la lettura delle dichiarazioni rese già in corso d’incidente probatorio dalla ragazza.
La stessa, dopo aver seccamente negato (“No, mai.”) d’aver – tramite cellulare – indirizzato telefonate al professore[5], ob torto collo poi ammise d’aver avuto modo di mandargli, ma per un’unica volta (“Solo una volta ricordo che…”) una dedica telefonica contenente una canzone di Gigi D’Alessio (e quindi, come tipico dello stile di quel noto cantante, un brano di natura melodica e d’argomento amoroso): tenne però subito a precisare (v. a pag. 13), senza che nessuno gliene avesse chiesto conto, che si trattava d’un gesto innocente, senza implicazioni affettuose: “Non l’ho mandato di certo perché quella canzone aveva un significato o perché volessi riferire qualcosa al professore”.
Ancora, richiesta se avesse mai consegnato al docente delle cassette musicali, dichiarò che aveva per lui registrato due supporti, contenenti sempre canzoni del cantante D’Alessio; ma anche qui, senza che le fossero state chieste spiegazioni, volle (excusatio non petita) puntualizzare: “…sempre, non perché volessi fargli capire qualcosa, ma perché parlando avevamo la stessa preferenza di cantante ed io gli ho registrato le cassette, tranquillamente, senza malignità.”.
Infine, a fronte della domanda fatta dal P.M., volta a conoscere “….se in precedenza, con qualche …comportamento aveva mai fatto credere al professore che lei fosse innamorata di lui”, rispose: “No, mai anche perché non avrei motivo per farlo. Infatti, non sono innamorata di lui e non lo sono mai stata.”.
Ed anche al momento in cui è stata sentita al dibattimento, la C. A., a domanda dell’estensore se lei avesse avuto “…una simpatia … per il Prof. C. G.”, nel senso che egli, al contrario della precedente insegnante, potesse esser stato “…una persona a lei gradita?”, ha, (inspiegabilmente) quasi stizzita, risposto: “Che significa a lei gradita? Se ha un doppio senso a lei gradita, le dico assolutamente no. Se invece lo vedevo come un buon professore perché, comunque sia, era così…”. Ha anche aggiunto: “L’ho sempre considerato un buon professore dal punto di vista professionale. Il resto, se è a doppio senso questo ‘gradita’, le dico che non esiste per niente. …L’ho sempre considerato un buon professore, non l’ho scelto io il professore, fu mandato dalla scuola. Cioè, non fui io a dire che voglio quel professore.”.
III.5 Diversamente, C. G. ha riferito (v. verbale udienza del 10 giugno 2009, pagg. 9 ss.):
che già dal primo incontro didattico, la ragazza gli disse “Voi siete napoletano, perché Gigi D’Alessio è napoletano”, ma che egli, riconosciuta come vera la circostanza, la invitò a pensare “a fare lezione”;
che la volta successiva la giovane gli portò un “cd” di D’Alessio, per farglielo ascoltare;
che qualche lezione dopo, ancora, la C. A: gli portò un’altra cassetta, dicendogli: “Ho duplicato una cassetta, queste sono tutte canzoni belle, sono tutte canzoni melodiche, questo è un regalo mio.”;
che, una sera, mentre egli stava con la moglie, D. M. A. M., a guardare la televisione, intorno alla mezzanotte gli arrivò un messaggio musicale sul telefono, gestore Wind, da lui posseduto: era la (su ricordata) canzone di D’Alessio ed il messaggio era stato mandato dalla C. A., il cui nome ed il cui numero apparvero sul display dell’apparecchio[6].
Sempre il C. G., in precedenza e nella medesima occasione dell’esame dibattimentale, riferito che la ragazza, che era scarsamente motivata nello studio del pianoforte, aveva avuto, atteso il carattere piuttosto forte e ribelle, un rapporto conflittuale con la precedente insegnante di pianoforte[7].
Ed, alla domanda del proprio difensore se egli si fosse mai reso conto, non tanto che la giovane si fosse invaghita di lui, ma d’aver dalla stessa avuto “messaggi”, il cui reale senso egli all’epoca non avesse capito, ha riferito, in ripensamento:
– che in un’occasione, la C. A., entrando nel salone parrocchiale dove stava il pianoforte ed alla presenza della collega N. V. P., disse: “gli uomini vogliono dalle donne sempre le stesse cose”; e, poi, avvicinatosi a lui, aggiunse: “ma soprattutto la stessa cosa”;
– che, altra volta, la stessa affermò, mentre si faceva lezione, “Ah, l’uomo che mi dovrà sposare mi deve regalare 100 rose rosse”, ricevendosi ancora l’invito: “Senti, continua a suonare”;
– che un’altra volta ancora l’allieva si presentò a lezione con degli amici, ragazze e ragazzi, e disse, riferendosi a questi ultimi “…sono i miei fidanzati”, ricevendosi dal Ciaramella un rimbrotto: “…questo non è un mercato, abbiate pazienza, andate fuori che qua facciamo lezione, non facciamo niente altro.”.
È il caso d’evidenziare che siffatte narrazioni del prevenuto hanno trovato riscontro sia nella testimonianza della consorte, D. M. A. M., sia dell’altra teste, che insegnava alla C. A. solfeggio, V. N. P.[8].
III.6 Ma anche riguardo a detti ultimi particolari, parzialmente (ed inspiegabilmente) diverse, invece, sono state le corrispondenti, ulteriori dichiarazioni, rese dalla C. A., (sempre) nell’occasione in cui è stata sentita dal Collegio all’udienza dell’11 novembre 2009.
Quando il difensore del prevenuto le ha domandato se, in presenza del C. G. (e d’altri), ella avesse o meno fatto la ricordata affermazione sui “pensieri” che, sempre rivolti “alla stessa cosa”, normalmente albergavano in maniera lubrica la mente dei maschi, decisamente ha negato (“Ma no! Ma non esiste proprio!”).
Ha ammesso, invece, sia pur dubitativamente, d’aver sostenuto, in quei contesti, che il proprio futuro sposo avrebbe dovuto regalarle cento rose rosse (“Sì, questo forse l’ho detto perché io ho la mania delle rose rosse. Quindi, può essere che magari ho detto che a me piacciono tanto le rose rosse, cento rose rosse a gambo lungo vellutate. Ve lo specifico perché è una cosa che ho sempre detto.”).
Inoltre, dopo aver minimizzato l’ esistenza d’un proprio rapporto conflittuale con l’insegnante S. A., la quale aveva preceduto C. G. (“Inizialmente, perché fu cambiata la professoressa, da una ne arrivò un’altra, quindi ci fu un diverso modo di insegnare, un po’ di distacco. Però, penso che capita a tutti quando si cambia insegnante di avere questo tipo di difficoltà, ma poi ci si riprende.”), a fronte alla contestazione di quanto fu da lei stessa espresso in sede d’incidente probatorio (allorché riferì: “…dissi agli insegnanti della scuola che non mi piaceva l’insegnante”) ed a fronte del rilievo che tale circostanza non poteva esserle passata di mente (atteso che aveva sostenuto di avere una memoria formidabile), ha ammesso: “Anche quando si va a scuola si dice sempre, questo insegnante mi piace, questo non mi piace, questo piace un po’, questo è meglio che non insegna più… Sono affermazioni che si fanno e probabilmente quell’insegnante a me non piaceva e io avrò fatto questa affermazione, avrò detto, a me quell’insegnante non piaceva.”.
III.7 Non basta. Notevolmente in aggiunta rileva, ai fini del decidere, che, a fronte d’altre domande postele da questo estensore, numerose incongruità e dimenticanze siano ancora emerse nelle dichiarazioni della C. A..
Può qui trascurarsi di dare particolare valenza decisionale al clamoroso errore in cui la predetta è senz’altro incorsa quando ha sostenuto che la sera dell’omissis, per via del proprio subitaneo allontanamento dalla sacrestia della chiesa, la lezione sarebbe finita ancor prima del tempo ordinario (tant’è che i genitori, tornata a casa, le avrebbero di tanto inutilmente chiesto la ragione), e che l’orario normale di conclusione della lezione era alle sei della sera[9], visto che aveva dopo la possibilità, tornata a domicilio, di vedere la telenovela “Un posto al sole”, trasmissione inserita nel palinsesto televisivo con pressoché quella collocazione oraria.
Assunti, questi, che sono stati invero del tutto smentiti, posto che, contrariamente alle dette dichiarazioni:
– è emerso, dalle annotazioni apposte sul registro in cui l’imputato segnava giorni di presenza, orari di ingresso ed orari di uscita relativi alla frequenza – da parte dell’alunna C. A: e nel periodo omissis – che le lezioni di musica da lui a quella impartite iniziarono per lo più alle ore 19.20 e terminarono sempre alle ore 20.00 (addirittura, l’annotazione relativa all’ultima data riporta “ore 20,07”[10] , ossia un orario posticipato e non anticipato, rispetto alle altre);
– è indiscutibilmente risultato dalla produzione documentale difensiva – fatta all’udienza del 25.11.2009 – della copia fotostatica della pagina degli “Spettacoli” della “Gazzetta del Mezzogiorno”, edizione dell’omissis, che la ripetuta trasmissione televisiva era invece programmata sull’emittente RAITRE alle ore 20,30, ossia in orario ben più tardo rispetto alle (indicate) “circa”, sei di sera.
Sicuramente non può esser passato sotto silenzio, però, che, a fronte della seguente domanda postale da questo estensore: «…Però, io vedo qua 20,07 come orario di uscita dell’omissis, 20 e 07. Quindi, a stretto rigore, se è veritiero questo dato, lei non è uscita prima, è uscita dopo quel giorno. Non è che per caso ha dovuto recuperare quei cinque minuti che era stati persi alla lezione precedente?»[11], la C. A. abbia vacillato nella memoria, dicendo: «Sinceramente non lo ricordo; neanche che la volta prima avevamo fatto 5 minuti in meno».
Pervicacemente, ha continuato poi nel dire, nonostante tutto: «Io, all’atto che successe il fatto, andai via prima, mi alzai e me ne andai.».
Richiestole allora se in quel momento, ossia all’atto in cui andava via dalla sacrestia, il professore, la invitò – per la lezione a venire – a mettersi d’impegno e studiare, la C. A., che ha confermato tale circostanza, ha anche detto di non ricordare, però, se il docente avesse a tale invito aggiunto, «…perché (altrimenti) ti faccio tornare l’insegnante dell’anno scorso.», né d’aver a lui risposto «Se ritorna quella… chi viene qua? », come per dire, in tal caso «non ci vengo più».[12].
Ed ancora, di fronte alla richiesta di precisare quale potesse essere stata allora l’esatta, propria risposta, “Se torna quella, chi viene (più) qua”, oppure “Se ci sarà (comunque) una prossima volta” (così negando in radice la possibilità d’ un’ altra occasione didattica), ha riferito: «Io sto dicendo che non ho nemmeno risposto, però ipotizzando che io potessi aver risposto una cosa del genere, conoscendomi, sicuramente se ho risposto così era per dirgli “Chi ci viene più a questa scuola di musica?».
Ulteriormente sollecitata, perché chiarisse se avesse cioè voluto dire “Non ci vengo (verrò) più…”, “…perché ci sei tu, C. G.” e non perché temesse la minaccia del ritorno della precedente docente sgradita, ha aggiunto: “Ma chi sia, sia, chi ci viene più. Ho detto che non ricordo se ho fatto quella affermazione, ma ipotizzando che l’avessi potuta fare, sicuramente l’obiettivo di quella affermazione era quello che ho appena detto.”.
Significativamente, ha anche nuovamente negato, d’avere, dinanzi alla prof.ssa P. V., mai fatto un riferimento al “pensiero fisso” che avrebbe occupato le menti degli uomini (“Avevo omissis anni e sinceramente non sapevo nemmeno l’uomo che cosa potesse volere.”).
Allorché le è stato chiesto (sul dato pacifico che la P. V. era l’insegnante di solfeggio; che ella, essendo l’allieva più grande, era l’ultima a far quella lezione; che dopo quella lezione la P. V. non aveva altre incombenze e doveva aspettare che anche C. G. finisse il proprio compito) se era capitato che la ripetuta P. V., terminati i suoi compiti, si intrattenesse e presenziasse alla lezione del collega, ha subito tenuto a puntualizzare: «Si, ma quella sera (la P. V.) non c’era».
Domandatole nuovamente se ella avesse indirizzato chiamate al cellulare del professore, ha finalmente ammesso di averlo potuto fare, ma – ha chiarito – che era avvenuto solo per la necessità di segnalare problemi riguardanti la propria presenza alla lezione («Può essere capitato che magari ho spostato la lezione o come c’è scritto là, ero ammalata e ho chiamato “Io stasera non ci sono, non mi aspettate, perché io sono ammalata a casa”»), non già per inoltrare telefonate brevi e nemmeno per fare meri squilli (anonimi), per poi interrompere la comunicazione.
III.8 Non insignificante, poi, nel determinare il convincimento del collegio, è anche il fatto che la C. A. abbia con certezza escluso d’aver mai, prima del fatto de quo, avuto particolari attenzioni da C. G., o che egli si fosse mai in passato comportato con lei in maniera anomala, ovvero che – in quell’occasione – qualcosa avesse potuto indurre il docente ad avere la condotta abusiva denunciata.
Testualmente, la C. A. ha detto: «Io non penso, era una semplice lezione di pianoforte come tutte le altre, non c’era niente di nuovo. Io ero sempre la stessa, il pianoforte era sempre lo stesso.».
Né la giovane donna ha saputo darsi una spiegazione del come e perché mai quella sera dell’omissis potesse essersi verificato l’imprevedibile, anomalo, sorprendente comportamento del professore.
Ed una particolare interpretazione del “taglio” da dare ai fatti emerge, ancora, prepotentemente, ove si consideri che la C. A.:
– ha detto e ribadito che l’insegnante, allorché ella gli aveva intimato di toglierle le mani di dosso, le replicò “Ma cosa stai dicendo?”, non ha però saputo chiarire che cosa egli avesse così inteso dire (“Non lo so che cosa intendeva dire, perché, ripeto, io mi sono alzata e sono andata via e quindi non ho dato nemmeno modo di dialogo, di niente, sono andata via quando mi ha detto così”.);
– a fronte della prospettazione, a lei fatta, della possibilità che C. G. volesse allora farle presente che ella stava equivocando, non ha affatto escluso siffatta evenienza (“Può essere, non penso, può essere. Non potevo stare nel suo cervello in quel momento. Magari, fossi stata nel suo cervello, l’avrei bloccato in tempo.”);
– quando le è stato evidenziato come, invece che darsi alla fuga, sarebbe stato piuttosto più opportuno chiedere un immediato chiarimento, un franco confronto (soprattutto perché C. G. era, indubbiamente, “Un professore che non le aveva mai mostrato delle particolari attenzioni, … non aveva mai avuto dei comportamenti anormali…”, non si era mai dimostrato galante, gentile in eccesso, sdolcinato, né aveva mai parlato con lei d’altro che non fosse la lezione[13]), ha – con onestà intellettuale – risposto: “Se fosse successo adesso, sicuramente avrei chiesto un chiarimento, ma a omissis anni come ho già detto, la mia prontezza è stata quella di scappare, di andare via.” (Ciò nonostante, la teste ha perseverato nel riferire che, a suo parere, quel toccamento subìto fosse un atto libidinoso, piuttosto che un gesto occasionale, involontario: “Uno ci si rende conto da come è il toccare un braccio o una mano a come toccare un’altra parte del corpo. Ci si accorge.”).

IV.
Per concludere, alla stregua di quanto osservato, anche a voler prescindere dalle varie perplessità suscitate dal racconto della persona offesa (la quale, perché invaghita del docente, ben avrebbe – si ripete – potuto aver male interpretato, giudicandolo come carico di valenza sessuale, un movimento innocente ed accidentale dell’ imputato, dovuto alla vicinanza dei personaggi in esso coinvolti), fortissime (e determinanti) appaiono le incongruenze, anche logiche, del presunto facere del C. G. e le inverosimiglianze relative alle modalità fattuali in cui si sarebbe svolta la vicenda all’esame.
Valga notare come non sia sostenibile ritenere plausibile che l’imputato, senza aver mai manifestato comportamenti meno che corretti e professionali[14] 14, si sarebbe all’improvviso ed inopinatamente indotto ad un comportamento (in genere, e per lui in particolare) affatto stravagante, nonché – in ragione delle ricordate premesse – assolutamente imprevedibile (quasi un fulmine a ciel sereno; un vero e proprio raptus di follia).
Per giunta, egli avrebbe attuato tale condotta in un contesto di luogo che, a parte la sacralità del sito (trattandosi della sacrestia di una chiesa), non era (come è pacificamente emerso in istruttoria) né appartato (anzi, sovente frequentato da varie persone: il sacerdote; i chierichetti; i fedeli; la stessa P. V., che vi si recavano per i più svariati motivi), né idoneo e riservato (non si trascuri che ciò che accadeva dentro quel locale a pian terreno era ampiamente visibile dall’esterno, attese le luci artificiali che vi erano accese (si era di sera ed in periodo invernale) e la presenza in esso (come è stato evidenziato dalla fotografia versata in atti) di un’ampia vetrata, affacciante sulla strada.
Non è dato poi intendere come il C. G., ove davvero si fosse indotto a toccare – volontariamente e per lascivia – la C. A. al seno, tanto avrebbe fatto non curandosi affatto della possibilità, anzi probabilità, delle pericolose conseguenze.
Avrebbe egli, cioè, accettato il rischio che, a seguito di quel gesto, la ragazza – la quale (come è stato accertato ed anche da lei sostanzialmente è stato ammesso) aveva personalità e carattere forti, né era affatto soggetta a timore reverenziale nei confronti dei docenti (si rammenti il rapporto da lei avuto con la S.) ed, anzi, era pronta alla polemica e reattiva – potesse gridare il proprio disappunto, attraendo così l’attenzione e l’aiuto degli altri soggetti che erano presenti nella chiesa, o passare addirittura alle vie di fatto, dandogli uno schiaffo e riempiendolo d’improperi.
In sostanza, facilmente egli avrebbe potuto così sprofondare nell’ignominia e nella pubblica disapprovazione, senza alcuna possibilità di giustificazione, al contempo esponendosi a pressoché certe e negative conseguenze in sede lavorativa, penale e civile.

V.
Le esposte considerazioni – complessivamente ed intrinsecamente valutate – costituiscono emergenze processuali che ridondano a favore della posizione dell’imputato.
Per questo, come anticipato, non è consentito affermare al di là di ogni ragionevole dubbio – giusta la cogente dizione dell’art. 533.1, prima parte, c.p.p. – compiutamente provato che il C. G. si sia reso colpevole d’un contatto fisico intenzionale con la C. A., avente natura d’“atto sessuale” violento perché caratterizzato da costrizione del soggetto passivo, giusta l’accezione più sopra abbondantemente chiarita.
Conseguenza ineludibile di tanto è la doverosa assoluzione del prevenuto dal reato ascrittogli in rubrica, con la pertinente formula, di cui in dispositivo, dell’insussistenza del fatto.

VI.
Le particolari ragioni dell’assoluzione giustificano anche la mancata condanna della parte querelante alle spese del procedimento, ai sensi del combinato disposto degli artt. 542 e 427 c.p.p., potendo ritenersi – a ragione dell’equivoco iniziale, in cui è stato coinvolto il genitore dell’interessata – la mancanza di colpa nell’esercizio di quel diritto di querela (Corte Cost. 3/12/1993 n. 180).

VII.
Il carico di lavoro dell’ufficio ha giustificato l’indicazione dei termini ex art. 544.2 c.p.p. per il deposito della motivazione.

P.Q.M.


Il Tribunale di Matera
Visto l’art. 530 cpv. c.p.p., assolve C. G. dal reato a lui ascritto perché il fatto non sussiste.
Motivazione riservata in giorni novanta.



 



[1] Considerato che, in base agli artt. 431 e 511 cod. proc. pen., la querela – atto da inserire nel fascicolo per il dibattimento – è utilizzabile ai soli fini della procedibilità dell’azione penale: Cass. n. 7832/2000).

[2] V., pag. 8 del verbale di stenotipia: «No, questo non lo ricordo, sinceramente, se cambiai libro, questa è una cosa che non ricordo proprio. Può essere che magari nel passaggio è cambiato…, ma non è un ricordo… e se non lo ricordo non lo è stato, perché io ho una memoria abbastanza forte su tutto, non solo su questo avvenimento».

[3] V., pag. 11 del verbale di stenotipia: «No, paura di parlare con i miei genitori non l’avevo, perché comunque con i miei genitori avevo un rapporto tranquillo».
«Si, certe cose magari si stenta un po’ a dirle vicino ad un papà o ad una mamma, c’è un po’ di vergogna su determinati argomenti, su determinate cose, anche perché fino ad allora, certe situazioni io le avevo viste molto lontane dalla mia realtà».

[4] V., anche, in tal senso, Cass. 17 giugno 2009, n. 39719, Baradel, secondo la quale l’elemento oggettivo del reato di violenza sessuale consiste nella coscienza e volontà di compiere un atto invasivo e lesivo della libertà sessuale della persona non consenziente, restando pertanto irrilevante l’eventuale fine ulteriore, sia esso di concupiscenza, ludico o d’umiliazione, propostosi dal soggetto agente (Fattispecie di palpeggiamenti al seno di una donna asseritamente posti in essere con intento scherzoso, al cospetto di amici, al fine di “verificare” gli esiti di un intervento di chirurgia estetica).

[5] Circostanza che invece è stata riferita sia dal C. G., che dalla D. M. e dalla P. V. (in punto, v. appresso).

[6] (Imputato): «La volta successiva se ne venne con una seconda cassetta e poi si verificò che stavamo guardando la televisione con mia moglie intorno a mezzanotte e arriva un messaggio su un telefono Wind che io avevo, un messaggio musicale con una canzone di D’Alessio. Io dissi “che cos’è questa cosa?” Alla fine poi, venne fuori di chi era il messaggio che era stato mandato e comparve il nome di C. A. perché io avevo memorizzato sul telefono i numeri dei ragazzi perché lì, quando qualcuno si ammalava, qualcuno si assentava, essendo all’interno della parrocchia l’unico telefono che aveva ricezione, quindi utilizzavamo anche quello per fare delle comunicazioni ai genitori e automaticamente, molte volte per ricevere delle informazioni.
Domanda dell’Avvocato: Quindi, lei aveva in memoria il numero di telefono della C. A., è così?
Risposta dell’Imputato: Sì e anche il numero di altri ragazzi. Poi, l’indomani si verificò la stessa cosa, un altro messaggio.
Domanda dell’Avvocato: Quindi, lei ha ricevuto dei messaggi o delle telefonate mute, degli squilli?
Risposta dell’Imputato: No, dopo l’accaduto, in presenza a omissis della collega V. P., è arrivato uno squillo e automaticamente resta memorizzato chi chiama ed uscì fuori “A. C.”. Dopo l’accaduto dissi “guarda che…”, lei mi disse “no, prenditi l’orario, il giorno…”, poi veramente quello era un telefono spartano dove registrava solo cinque chiamate, cinque messaggi. Poi si è verificata la stessa cosa un’altra volta, a casa quando squilla il telefono ed era presente mia moglie. Poi, telefonate dove veniva fuori privato, anonimo, quindi decisi di comprare una scheda nuova e completamente di cambiare numero di telefono.
Domanda dell’Avvocato: Però, per certo quindi ha ricevuto almeno degli squilli, rimaste telefonate mute, provenienti dal telefono della C. A. e questa dedica musicale con questa canzone di D’Alessio.
Risposta dell’Imputato: Sì.
Domanda dell’Avvocato: Quest’ultima prima dei fatti dell’omissis.
Risposta dell’Imputato: Sì.».

[7] Tali circostanze sono state confermate – nell’esame da loro reso in data 28 ottobre 2009 – sia dall’insegnante A. M. che dall’insegnante S. A. M., succedutasi alla prima.
L’A. ha, fra altro, così riferito:
– pag. 10 – « (La C.) Doveva essere continuamente riportata alla lezione perché aveva questa abitudine a divagare molto, quindi ad allacciarsi ad una parola che io dicevo per raccontare delle cose sue avvenute a scuola. Quindi, bisognava sempre riportarla alle lezioni di pianoforte, allo spartito che era davanti e quindi ricordarle quello che già era stato detto sulla velocità del pezzo o sulla tecnica che doveva utilizzare in quel momento. ».
– pag. 12 – «Ricordo che difficilmente aveva un suo spazio privato in cui difficilmente si poteva… Quindi, anche quando io dovevo mettere a posto il polso o le dita sul pianoforte ricordo che le prime volte aveva degli scatti come di fastidio. Per cui dopo aver spiegato che era necessario perché comunque dovevo correggere la posizione del braccio, della spalla o delle mani, tollerava un po’ di più questa cosa. Però era come se avesse una sorta di ritrosia ad avere le persone troppo vicine. ».
A sua volta, la S. ha, fra altro, così affermato:
-pagg. 15 ss. «… io fui chiamata dalla moglie del qui presente Professor G. C. come insegnante di un pianoforte, perché la C. si era lamentata sul mio modo di insegnare e di tenere le lezioni. Non so in che termini aveva parlato di me.
– (omissis) –
Voleva sapere da me qual era il mio metodo di insegnamento visto che la ragazza si lamentava. Era tra le poche che aveva il pianoforte a casa A. C., però ogni volta che veniva a far lezione mi accorgevo che non aveva seguito le indicazioni da me impartite. Cioè, ritornava con gli stessi errori, non faceva nulla a casa. Nonostante io le dicessi “tu questa cosa non l’hai studiata come io ti ho detto di farla a casa”, si opponeva dicendo che invece era stata ore e ore a studiare. Quindi, si ribellava. Mentre il fatto era evidente che non faceva nulla a casa.
– (omissis) –
In quella occasione la signora D. M. mi ha detto che questi episodi non si verificavano quando andava ad insegnare il marito. Quindi, l’anno successivo credo che poi sia andato il Professor C. al mio posto.
– (omissis) –
Io dico che era una ragazza ribelle, particolarmente ribelle. Non accettava i consigli, era un po’ particolare. ».

[8] V. verbale udienza 10 giugno 2009, pagg. 18 ss.:
« Teste P.: La cosa che io ho notato è stata che la ragazza spesso faceva delle affermazioni riguardo al suo rapporto con i ragazzi. Ad esempio, “l’uomo che mi sposerà dovrà regalarmi cento rose rosse”, oppure questo lo diceva anche in mia presenza “gli uomini vogliono tutti la stessa cosa” e cose del genere. Adesso non le ricordo specificatamente, queste due le ricordo in maniera precisa.
Domanda dell’Avvocato: Ma questo sempre in presenza del Prof. C., la seconda frase soprattutto?
Teste: Sì, io lui e lei. Oppure, ad esempio, arrivavano dei ragazzi che lei portava in classe, amici, amiche, gruppo di amici e chiedeva “possono rimanere anche loro a sentire la lezione?” Il maestro diceva “no, si fa lezione e non è il caso che ci siano persone ad assistere”, nel senso che si fa lezione e si fa lezione. Infatti, c’eravamo io, lui e lei.
Domanda dell’Avvocato: Quelle frasi, quella per esempio “gli uomini pensano alla stessa cosa” sono frasi che ha pronunciato quando faceva lezioni di solfeggio o solo in presenza del professor C.?
Teste: No, quando era sola con me non ha mai fatto riferimento a niente di questo contesto, niente. Quando c’era il maestro C. sì, gliel’ho appena riferito.»

[9] V. verbale dell’11.11.2009, pag. 10: “Quel giorno, se non ricordo male, era tardi la sera, intorno alle sei. Però, solitamente le lezioni le facevamo molto prima. Quella sera era tardi perché ricordo in particolar modo che quando mi ritirai a casa, si faceva “Un posto al sole”, che è una telenovela che si faceva puntualmente intorno alle sei e mezzo prima e io la guardavo sempre. Quindi, quella sera mi misi davanti al televisore, come mi ritirai a casa ebbi questa…”.

[10] C., v. verbale udienza del 10.6.2009, pag. 6, ha in proposito esaustivamente chiarito: «L’omissis terminammo più tardi -perché la ragazza faceva lezione dalle 19:20 alle 20:00 – perché, la lezione precedente, don R. ci chiese che facevano una manifestazione omissis; era poi il omissis, e ci disse “finiamo prima affinché io possa raggiungere questa manifestazione”. Quindi finimmo a 0:7, poi poiché all’interno della parrocchia non c’era campo, bisognava per forza uscire fuori per chiamare ed io telefonai alla collega…».

[11] A stregua di quanto detto dal C. e riportato alla nota precedente.

[12] «C.:) Sì, perché io sinceramente quel giorno ho preso e me ne sono andata via, conversazione, a parte quell’attimo mentre andavo via, pensate un po’ se gli facevo un’altra affermazione. Volevo andare via io di là quella sera.
(Presidente:) Sì, ma questa affermazione, “Se torna quella, ma chi ci viene più qua”, l’ha fatta o non l’ha fatta?
«C.:) Ma non ricordo di averla fatta».

[13] Di guisa che il discorso delle rose rosse, da lei fatto nell’ambito d’una lezione di musica, era stato sicuramente un fuor d’opera, uno svarione.

[14] La circostanza emerge, nonostante il contrario ed immotivato opinamento manifestato dal padre della ragazza, dalle dichiarazioni rese al dibattimento sia dal sacerdote, parroco della chiesa di omissis, nella cui sacrestia l’atto incriminato sarebbe avvenuto (v.: verbale ud. 15.7.2009), sia dal direttore artistico della Scuola omissis, P. G. (v.: verbale ud. 10.6.2009).