Penale

Thursday 23 February 2006

Gli elementi costitutivi del reato di minaccia a corpo giudiziario in una sentenza della Cassazione

Gli elementi costitutivi del
reato di minaccia a corpo giudiziario in una sentenza della Cassazione

Cassazione – Sezione sesta penale
(up) – sentenza 4 novembre 2005-31 gennaio 2006, n. 3828

Presidente Sansone – Relatore
Ippolito

Pg Viglietta – Ricorrente Di
Gregorio ed altri

Ritenuto in fatto

1. All’esito di giudizio
abbreviato Giuseppe Di Gregorio e Giuseppe Ferrara furono condannati per il
delitto di minaccia a corpo giudiziario (articoli 338 Cp e 7 Dl 152/91) per avere – in concorso con
altri, recato minaccia ai giudici popolari Maria Rosa
D’Alberti, Salvatore Bennardo, Maria Rita Ciappi, Vincenzo Nuci, componenti del
collegio giudicante della seconda Corte d’assise di Palermo per turbarne
l’attività nel processo penale contro Gaetano Zarcone ed altri, imputati del
delitto di tentato omicidio in danno di Gerlando Alberti, così determinando
l’astensione della partecipazione al collegio dei giudici popolari D’Alberti e
Bennardo, sicché doveva provvedersi alla formazione di un nuovo collegio; con
l’aggravante di aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste
dall’articolo 416bis Cp e di agevolare l’attività dell’associazione mafiosa
cosanostra, della quale facevano parte gli imputati giudicati da quel collegio,
tra cui Totò Riina, Michele Greco, Pippo Calò, Bemardo Provenzano, Francesco
Madonna.

Secondo l’ipotesi dell’accusa,
che aveva formulato imputazione a carico di 13 persone (alcune giudicate con rito ordinario, altre con rito abbreviato), i
quattro componenti del collegio giudicante sopra indicati erano stati
destinatari di pressioni minacciose, sollecitazioni e condizionamenti
finalizzati a far valutare benevolmente la posizione dell’imputato avvocato
Gaetano Zarcone. In particolare, con missive del febbraio 1994, il Presidente
della Corte d’assise aveva informato la
Procura della Repubblica che i giudici popolari Maria Rita
Ciappa e Salvatore Bennardo gli avevano riferito di essere stati avvicinati da
conoscenti, in circostanze diverse, al fine di valutare favorevolmente la
posizione di quell’imputato, latitante sin dalla data di emissione
a suo (9 dicembre 1991) carico di ordinanza di custodia cautelare.

Le indagini avviate avevano
individuato in Giovanni Di Napoli (su incarico di Pietro Di Gregorio) la
persona che aveva avvicinato il giudice Bennardo, in Pietro Calabrese (su
incarico di Giuseppe Ferrara) quella che aveva avvicinato il giudice Ciappa, in
Rosario Pollara e Calogero Macaluso i mandanti del contatto con il giudice D’Alberti e in Vincenzo Cuccia la persona che contattò il
giudice Nuci.

Il Tribunale di Palermo, con
sentenza 6 febbraio 2002, condannò Di Napoli, Di Gregorio, Calabrese, Ferrara,
Pollara, Macaluso e Cuccia per il reato sopra indicato, con la
concessione della circostanze attenuanti generiche e la diminuente di cui
all’articolo 442.

La Corte d’appello, in parziale riforma
di tale decisione, assolse Cuccia perché il fatto non sussiste,
Macaluso e Calabrese per non aver commesso il fatto, confermando la sentenza di
condanna per Di Napoli, Pollara, Di Gregorio e Ferrara.

Considerato in diritto

2. Contro la decisione della
Corte palermitana ricorrono per cassazione, con
separati ricorsi, Di Gregorio e Ferrara, i quali deducono innanzitutto la
nullità della sentenza ex art 606.1 lettera b) Cpp, evidenziando la mancanza di
elementi oggettivi e soggettivi idonei a configurare la fattispecie penale
prevista dall’articolo 338 Cp, in quanto l’interessamento che aveva mosso sia
Di Gregorio a ricercare il suo amico Giovanni Di Napoli affinché parlasse al
giudice popolare Bennardo, sia Giuseppe Ferrari a contattare Pietro Calabrese
per avvicinare l’altro giudice popolare, Maria Rita Ciappa, fu di esclusivo
carattere umanitario, originato dalla sollecitazione loro rivolta da parte di
Antonio e Sebastiano Zarcone, preoccupati della salute di Gaetano
(rispettivamente figlio e fratello), che necessitava di un urgente intervento
chirurgico perché affetto da malformazione alla retina oculare.

L’assunto dei ricorrenti, secondo
cui i giudici popolari erano stati avvicinati soltanto per far ottenere un
permesso di ricovero all’imputato Zarcone, è stata correttamente escluso dalla
Corte di merito come del tutto privo di fondamento sulla base
di molteplici ragioni, tra cui, assorbente d’ogni altra considerazione,
lo stato di latitanza dello Zarcone, che rendeva incomprensibile e
improponibile ogni discorso sul permesso di ricovero.

Del tutto plausibilmente i
giudici di merito hanno ritenuto che l’attivarsi della famiglia Zarcone, e
segnatamente del padre e del fratello dell’imputato, al fine di individuare
molteplici canali idonei a far giungere non già a un
qualsivoglia componente del collegio giudicante, ma specificamente ai quattro
giudici popolari sopra indicati, un messaggio a favore del congiunto latitante,
già di per sé elimina ogni possibilità di intendere quel messaggio come una
semplice sollecitazione umanitaria. Se poi si considera che il messaggio fu
spedito a mezzo di persone che non avevano né rapporti
di amicizia con i familiari che richiedevano l’intervento né rapporti di diretta
conoscenza con i componenti del collegio, destinatari del messaggio, si ha la
conferma che si era ben lontani da ogni prassi di deprecabile raccomandazione o
sollecitazione, ma si trattava, come esattamente hanno valutato i giudici di
merito, dell’invio di un “messaggio di attenzione” all’esito favorevole del
giudizio penale.

Del resto, risulta
ben evidenziato dai giudici di merito che il messaggio era stato precisamente
inteso dai destinatari nel suo specifico significato, univoco in un contesto territoriale
in cui l’organizzazione mafiosa si avvale con tragica efficacia del suo
ramificato potere d’intimidazione.

Nel testo della sentenza
impugnata è riportato il dialogo assolutamente inequivoco per chi non voglia confondere con la finzione teatrale la realtà
drammatica di un territorio funestato dal prepotere mafioso- intercorso tra il
giudice popolare Salvatore Bennardo e il suo collega insegnante Di Giovanni
Napoli, che lo aveva avvicinato, pur non avendo con lui rapporti di confidenza.

Vero è che, senza alcun
preambolo, il Di Napoli gli aveva parlato
dell’imputato Zarcone dicendo «ti prego di considerare il fatto umano, che ha
una cataratta»; ma il Bennardo aveva ben inteso il senso del messaggio, come
risulta chiaro dalla sua significativa esclamazione: “tu mi vuoi male, noi
abbiamo una serie di problemi e questa cosa non me la dovevi dire”. Ed ancora più chiaramente quello aveva aggiunto: «io vengo
da te perché sono stato parlato da qualcuno che non conosco». All’impacciato
tentativo del giudice di defilarsi, dicendo «riferisci a chi ti ha mandato che
a Bernardo giudice popolare non sono io», il Di Napoli lo aveva definitivamente
freddato, replicando «loro sanno che tu insegni in questa scuola e che tu sei a
Bennardo giudice popolare».

Ancora più esplicite risultano,
nella sentenza, le parole che Giuseppe Ferrari, richiesto da Sebastiano
Zarcone, fratello del latitante, aveva rivolto a
Pietro Calabrese, chiedendogli un intervento sul giudice popolare Maria Rita
Ciamma per «avere un occhio di riguardo per questo avvocato, perché questo
avvocato non c’entra niente, è una persona perbene». E il Calabrese aveva
avvicinato la Ciappa,
parlandole dell’imputato che aveva indicato come Falcone, con una significativa sottolineatura «io non volevo neppure venire,
ma è un bel po’ che me lo hanno chiesto, e quindi fai quello che vuoi, ma io te
lo dovevo dire» «e te l’ho detto».

Senza indugiare sulle modalità
con cui da altri coimputati (non ricorrenti) furono contattati gli altri due
giudici popolari, mette conto sottolineare che giudici
di merito hanno escluso che nelle predette condotte possano ravvisarsi
iniziative estemporanee per interventi di raccomandazione di carattere
umanitario, evidenziando al contrario come esse costituivano atti esecutivi di
una vera e propria concertata strategia intimidatoria, che investi quattro
componenti popolari del collegio per influenzare e condizionare, ossia per
turbare, la regolare attività della la
Corte d’assise,

Correttamente i giudici hanno
individuato nel messaggio portato dal Di Napoli, su
richiesta del Di Gregorio, e dal Calabrese su richiesta di Ferrari, un
avvertimento inequivoco a “comportarsi bene” con riferimento a Zarcone.

Nessuna rilevanza può essere
attribuita, in questa sede, alla diversa valutazione cui è pervenuto il
Tribunale di Palermo, nella sentenza pronunciata a conclusione di altro procedimento, svoltosi con rito ordinario -a cui
fanno riferimento i motivi aggiunti presentati dal difensore del Di Gregorio-
che valorizza l’opinione, successivamente espressa dallo stesso Bennardo, volta
a voler considerare l’intervento del Di Napoli alla stregua di una
raccomandazione analoga a quelle tese a favorire la promozione di uno studente.
Se può umanamente comprendersi che, sentito a molti
anni dal fatto accaduto, il testimone tenda a sminuire la portata della
pressione subita, non è giuridicamente e istituzionalmente legittimo assimilare
un pesante avvertimento dato ad un giudice popolare che si appresta ad
esercitare la propria funzione in corte d’assise alla raccomandazione per la
promozione scolastica di uno studente.

A sostegno della predetta
ricostruzione dei fatti, i giudici hanno anche sottolineato
che la vaghezza delle espressioni usate, l’indeterminatezza dei mandanti,
l’evidenziazione della perfetta conoscenza che essi avevano dell’identità dei
giudici popolari, la giustificazione addotta da chi si presenta come nuncius
(«sono stato parlato da qualcuno che non conosco», «io dovevo dirtelo … e te
l’ho detto» sono altamente evocativi di un’entità potente, territorialmente
ramificata e vigilante, capace di aggiungere chiunque, in sintesi una vera e
propria intimidazione che configura il delitto previsto dall’articolo 338 Cp.

3. Tali conclusioni sono state
assunte con corretta applicazione dell’articolo 338 comma 1 Cp, che tutela
l’auto determinazione degli organi collegiali (politici, amministrativi o
giudiziari) contro atti o condotte realizzate con violenza o minaccia,
finalizzate ad impedirne, anche parzialmente o temporaneamente, o comunque di turbarne la regolare attività.

Ai fini della sussistenza del
reato non rileva che l’impedimento o la turbativa si realizzino
effettivamente, apprestando la norma una tutela anticipata del bene nel punire
ogni tentativo minatorio o violento finalizzato all’eterodirezione dell’organo
o dei suoi componenti, e perciò anche l’influenza o l’orientamento indotti
dall’esterno con violenza o minaccia.

Quest’ultima, come in altre
fattispecie penali analoghe, consiste nella prospettazione, nel caso di rifiuto
di sottoposizione alla volontà minatoria, di un male futuro e ingiusto, idoneo
ad eliminare o ridurre apprezzabilmente nel soggetto passivo la capacità di
determinarsi e di agire secondo la propria indipendente volontà.

La minaccia può essere anche
implicita, contenuta un una espressione allusiva,
purché idonea, nel concreto contesto ad incutere timore e preoccupazione di
subire un danno ingiusto.

L’idoneità del comportamento e
dell’atteggiamento intimidatorio va valutato con riguardo alle circostanze del
fatto e, quindi, innanzitutto in relazione al contesto
socio-ambientale in cui esso si realizza, senza che rilevi che il soggetto
passivo abbia resistito alla minaccia. Anche un comportamento o un
atteggiamento che, in altri contesti possano sembrare
indifferenti o costituire, ad esempio, una raccomandazione o sollecitazione,
deprecabile ma non contrastante con la norma penale, in determinate circostanze
possano assumere un significato fortemente minaccioso, se consapevolmente
inserite in una situazione segnata da rilevanti fenomeni di condizionamento
violento o intimidatorio della liberta degli organismi pubblici e delle volontà
delle persone, in cui anche la specificazione di essere l’emissario da una
entità pudicamente innominata (“loro”, “persone che non conosco”) assume idoneità
di minaccia atta a turbare la regolare attività.

Nel caso in esame, la turbativa
peraltro si realizzò al punto tale che i due componenti
del collegio si astennero con conseguente mutamento della composizione
collegiale: fu cioè fu turbata non soltanto la regolare attività, ma la stessa
composizione del collegio.

Considerato che tali
apprezzamenti sui fatti sono di esclusiva competenza
del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, quando la
motivazione sia indenne da vizi logici, il motivo di ricorso va rigettato per
la corretta qualificazione giuridica operata dai giudici di merito, che hanno
ricostruito la vicenda con criteri razionali, indenni da ogni vizio logico. Del tutto logica, infatti, risulta la valutazione dei
giudici che, nel rigettare il tentativo degli imputati ricorrenti di scaricare
sul Di Napoli e sul Calabrese la responsabilità di aver eventualmente aggravato
il senso del messaggio di cui erano latori, hanno tra l’altro evidenziato
l’inesistenza di ogni personale interesse di costoro a modificare il contenuto
del messaggio ricevuto rispettivamente da Di Gregorio e da Ferrari,
direttamente contattati dai congiunti dello Zarcone.

4. Infondate sono le doglianze relative all’elemento soggettivo del reato, correttamente
ritenuto dai giudici in relazione alla ricostruzione dei fatti sopra riferita,
ben lontana dalla riduttiva versione prospettata

dai
ricorrenti.

Il dolo specifico, nella
fattispecie prevista dall’articolo 338 Cp, è costituito dal
consapevole condotta minatoria o violenta finalizzata a impedire o
turbare la regolare attività del collegio, turbativa integrata anche dal
compiuto tentativo di influenzare o orientare la libera determinazione del
collegio o di alcuno dei suoi componenti.

5. Va rigettata anche la censura d’inosservanza
degli articoli 416bis Cp e 7 Dl
152/91, dedotta sull’assunto che «non si comprende come un mero interessamento
per un soggetto che versava in precarie condizioni di salute, al solo fine di
far ottenere un eventuale permesso per cure, possa configurare un’agevolazione
alla consorteria mafiosa».

La dimostrata esclusione di tale
finalità da parte dei giudici di merito e l’inserimento della condotta degli
imputati in una consapevole strategia mafiosa d’intimidazione, che giunge a
lambire la camera di consiglio del collegio giudiziario, rende priva di ogni fondamento il motivo di ricorso.

6. Manifestamente infondata è la
censura del Di Gregorio di nullità della sentenza ex
articolo 606.1 lettera d) Cpp, non essendo neppure stata specificata dal ricorrente
quale sia la prova decisiva di cui è mancata l’assunzione tra quelle richieste
dalla parte a norma dell’articolo 495.2 Cpp, giacché sole in relazioni a
quest’ultime è consentito dedurre il motivo previsto alla letto d) del predetto
articolo.

7. Egualmente inammissibile per
manifesta infondatezza è, infine, la deduzione di nullità, ex 606 lettera e)
Cpp per mancata indicazione delle prove poste a base della sentenza, risultando invece, come sopra si è visto, addirittura
trascritte nelle sentenza di primo e secondo grado le dichiarazioni dei
protagonisti della vicenda criminosa, su cui è stata fondato il convincimento
dei giudici.

PQM

La Corte rigetta i ricorsi e condanna i
ricorrenti al pagamento [..]