Penale

Friday 06 May 2005

Educare non significa umiliare. La Cassazione traccia il confine tra i reati di maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione Cassazione – Sezione sesta penale (up) – sentenza 7 febbraio-3 maggio 2005, n. 16491

Educare non significa umiliare. La Cassazione traccia il confine tra i reati di
maltrattamenti in famiglia e abuso dei mezzi di correzione

Cassazione – Sezione sesta penale (up) – sentenza 7
febbraio-3 maggio 2005, n. 16491

Presidente Sansone – relatore Ippolito

Pg Cesqui –
ricorrente Cagliano

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Torino, con
la decisione impugnata, ha confermato la sentenza 12 giugno 2001, con cui il Gip del tribunale di Acqui Terme, all’esito di giudizio abbreviato, condannò
alla pena di tre mesi e 10 giorni di reclusione Carlo Cagliano per il delitto
di abuso dei mezzi di correzione (articolo 571 Cp) in
danno del figlio minore Matteo.

Così il giudice di primo grado aveva
riqualificato il fatto, originariamente contestato come delitto previsto
dall’articolo 572 Cp, per avere maltrattato il figlio
Matteo, dall’età di 18 mesi a quella di due anni e mezzo, sottoponendolo ad un
regime educativo e di convivenza familiare contrassegnato da quotidiana
sofferenza e disagio, per il bambino traumatizzante a causa degli abituali
comportamenti sadici ed aggressivi del Caliano;
regime che determinava nel bambino un vero e proprio “stato di terrore” anche
per la semplice presenza fisica del padre e di conseguenza il pericolo concreto
per l’incolumità psicofisica del bambino, dallo stesso come tale avvertito e
sofferto. I maltrattamenti erano consistiti: nel tenere abitualmente il bambino
legato alla tavola durante i pasti; nel costringerlo a mangiare anche il cibo
da lui rigurgitato per qualunque motivo; nel tenerlo legato ad una sedia
bendato durante la proiezione in tv di programmi di cartoni animati in modo che
potesse ascoltare il sonoro, ma non vedere le immagini; nel costringerlo ad
immergere il viso nelle proprie deiezioni in caso di incontinenza;
nel chiuderlo al buio nella propria stanza o in cantina in caso di punizione.

Tale situazione aveva dapprima reso
necessario, per iniziativa della madre Alessandra Lottici,
l’allontanamento dei bambino dall’abitazione
coniugale, con affidamento di fatto al nonni materni Luigi Lottici
e Gloria Ghiglino: successivamente, con provvedimento
del Tribunale per i minorenni di Torino del 7 settembre 1999, l’affidamento
legale del minore ai predetti nonni con sospensione del rapporti con il padre.

La condanna è stata fondata dai
giudici di merito sulle dichiarazioni della Lottici,
dei testimoni Gonella (che riferì anche
dell’indicazione della dott. Daniela Bruno circa la necessità di una “presa in
carico psicoterapeutica” del bambino), Roccati, Siri,
Pareto, nonché su talune
dichiarazioni dello stesso imputato, che aveva fatto riferimento a metodi
educativi severi ereditati dai suoi genitori.

Ricorre per cassazione l’imputato,
che deduce inosservanza delle norme penali (articoli 571 e 572 Cp) e processuali (articoli 530, 521 e 522 Cpp).

Sul piano processuale egli lamenta
che i giudici abbiano accertato i fatti addebitati soltanto sulle dichiarazioni
della Lottici e si duole che abbiano derubricato l’originaria imputazione di maltrattamenti in
quella di cui all’articolo 571 Cp, anziché dichiarare
l’insussistenza del fatto originariamente contestato, con eventuale
trasmissione degli atti al Pm.

Sul piano del diritto sostanziale, il
ricorrente deduce l’insussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato
di cui all’articolo 571 Cp, rilevando che il
carattere episodico della chiusura in cantina e l’aver occasionalmente sfregato
i pantaloni umidi sul viso di Matteo non può integrare il reato addebitato, in
quanto da tali fatti non deriva alcun pericolo di malattia del corpo o della
mente.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è manifestamente
infondato.

2. 1. Correttamente, con adeguata e esaustiva motivazione, i giudici di merito hanno assunto a
base della ricostruzione dei fatti le dichiarazioni della mamma della piccola
vittima, valutate anche con riferimento a riscontri costituiti dalle
dichiarazioni di testi de relato e dai provvedimenti
via via adottati dal Tribunale per i minorenni, a
tutela del piccolo Matteo.

Del tutto inconsistente è poi la
denunciata violazione degli articoli 521 e 522 Cpp: i fatti ritenuti in
sentenza sono conformi alla contestazione originaria, salva la diversa
decisione giuridica, operata nell’ambito della competenza a norma dell’articolo
521 comma 1 Cpp.

2.2. Sul piano sostanziale, Il
ricorrente non ha davvero motivo di dolersi, a differenza di quanto avrebbe
potuto più fondatamente fare il Pm: il fatto commesso
dall’imputato, qualificato dal giudici come abuso dei
mezzi di correzione (articolo 571 Cp), è al limite
del più grave delitto di maltrattamenti verso il figlio, ritenuto da questa
Corte (in una fattispecie concreta molto prossima a quella oggi in esame) con
la sentenza “Cambria” del 1996 (v. Cassazione
4904/96, in Cassazione penale 1996), la quale ha evidenziato l’inaccettabilità
d’interpretazione dell’articolo 571 Cp (abuso dei
mezzi di correzione) e dell’articolo 572 Cp
(maltrattamenti verso in fanciulli) secondo canoni e contesti socio-culturali
propri del 1930 Cp.

E’, infatti, culturalmente
anacronistico e giuridicamente insostenibile un’interpretazione degli articoli
571 e 572 Cp fondata sulle concezioni ideologiche
espresse nella relazione al codice penale (come, ad esempio, la vis modica è
mezzo di correzione lecito”), proprie di una superata
epoca storico-sociale, impregnata di valori autoritari anche nelle strutture e
nelle funzioni della famiglia.

Va, per contro, ribadito
che nell’ordinamento italiano, incentrato sulla Costituzione della Repubblica e
qualificato dalle norme in materia di diritto di famiglia (introdotte dalla
legge 151/75) e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei bambino
(approvata a New York il 20 novembre 1989 e ratificata dall’Italia con legge
176/91), il termine correzione, utilizzato dall’articolo 571 Cp, va assunto come sinonimo di educazione, con riferimento
al connotati intrinsecamente conformativi di ogni processo educativo. E poiché
da tale processo va bandito ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo
ed al risultato che il nostro ordinamento persegue, in coerenza con i valori di fondo assunti nella Costituzione della Repubblica, non
può più ritenersi lecito l’uso della violenza, fisica o psichica, sia pure
distortamente finalizzato a scopi ritenuti educativi: ciò sia per il primato
attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di
diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non
addirittura di disposizione) da parte degli adulti; sia perché non può
perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di
personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza e connivenza, utilizzando
mezzi violenti e costrittivi che tali fini apertamente contraddicono.

Con specifico riferimento alle
espressioni linguistiche utilizzate nell’articolo 571 Cp,
va ancora precisato che la nozione giuridica di abuso
dei mezzi di correzione non può ignorare l’evoluzione del concetto di “abuso
sul minore”, che si è andato via via evolvendo e
specificando nel tempo. Da una sorpassata e limitativa nozione di abuso, inteso come comportamento attivo dannoso sul piano
fisico per bambino, l’attuale letteratura e clinica psicologica e
psicopatologica, qualificano come abuso anche le omissioni di cure e l’abuso
psicologico, correlato allo sviluppo di numerosi e diversi disturbi psichiatrici.

Costituisce abuso punibile a norma
dell’articolo 571 Cp (e che nella ricorrenza
dell’abitualità e del necessario elemento soggettivo, può Integrare anche il
delitto di maltrattamenti) anche il comportamento doloso, attivo od omissivo,
mantenuto per un tempo apprezzabile, che umilia, svaluta, denigra e sottopone a
sevizie psicologiche un bambino, causandogli pericoli per la salute, anche se è
compiuto con soggettiva intenzione correttiva o disciplinare.

Per l’integrazione della fattispecie
prevista dall’articolo 571 Cp è sufficiente il dolo
generico, non essendo dalla norma richiesto il dolo
specifico. cioè un fine particolare e ulteriore
rispetto alla consapevole volontà di realizzare il fatto costitutivo del reato,
ossia la condotta di abuso.

La più recente ed autorevole ricerca
e clinica neuropsichiatrica infantile sottolinea la maggiore pericolosità e incidenza sugli
aspetti strutturali della psiche infantile (nonché l’alto potenziale patogenico) della violenza psicologica, anche rispetto a
quella fisica, pur con l’avvertenza della difficoltà di individuare ì confini
tra vera e propria violenza da meri atteggiamenti pedagogici rigidi o
inadeguati per incuria.

Ed a tale proposito, costituisce
accertamento di fatto, insindacabile in questa sede, la sussistenza sia di
condotte dell’imputato comportanti violenza e costrizione psichica verso il
bambino sia dell’elemento soggettivo doloso,
motivatamente ritenuta dai giudici di merito.

2.3. Anche
alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche, il Collegio ritiene
corretta la valutazione dei giudici di merito, secondo cui gli atti compiuti
dall’imputato hanno realizzato traumi psicologici per la piccola vittima e,
perciò, fatti da cui deriva pericolo di una malattia nella mente della parte
offesa.

Invero, a tale
espressione, utilizzata dal legislatore negli articoli 571 e 582 Cp con riferimento alla vittima del reato, non può
certamente assegnarsi significato identico, analogo o assimilabile a quello di
infermità mentale (rectius “stato di mente per infermità”),
utilizzata dagli articoli 88 e 89 Cp in tema di
imputabilità penale dell’autore del reato. Sussiste il
pericolo di malattia nella mente ogni qualvolta ricorre il concreto
rischio di rilevanti conseguenze sulla salute psichica del soggetto passivo. Ed
è opinione comune nella letteratura scientifico-psicologica che metodi di educazione rigidi ed autoritari, che utilizzino
comportamenti punitivi violenti o costrittivi, come quelli realizzati
dall’imputato, siano non soltanto pericolosi, ma anche dannosi per la salute
psichica. E’ ormai nozione corrente che i traumi psicologici, ossia gli
scatenamenti di emozioni violente prodotte da cause
esterne, sono responsabili di una serie di disturbi variegati e complessi:
dallo stato d’ansia all’insonnia e alla depressione, fino – quando il trauma si
è verificato nei primi anni di vita – a veri e propri disturbi caratteriali e
comportamentali nell’età adulta. Ed il termine “disturbo” non connota una
patologia di livello inferiore a quello di malattia, trattandosi invece di espressione linguistica utilizzata da approcci
psicologici comportamentali o cognitivi ai problemi di natura clinica, che
prediligono una terminologia più propriamente psicologica, rifiutando quella di
malattia mentale, anche al fine di superare paradigmi e approcci esclusivamente
medici ai problemi della sofferenza psichica.

Nell’ambito della psicologia dello
sviluppo è pensiero condiviso che la relazione tra il genitore e il bambino
segna, positivamente o negativamente, lo sviluppo psicologico di quest’ultimo. In particolare, viene
evidenziato l’abuso come fattore di rischio specifico per molteplici
manifestazioni psicopatologiche (depressione, disturbi dell’alimentazione,
comportamenti auto aggressivi, disturbo dell’attenzione con iperattività,
alcolismo e abuso di droghe, comportamenti sessuali inappropriati e
comportamenti antisociali, etc.).

In campo clinico sono stati
evidenziati collegamenti fra l’abuso e lo sviluppo di alcune
patologie psichiatriche: è emerso, per esempio, che il maltrattamento fisico o
emotivo ha un ruolo eziologico importante nello sviluppo del disturbo
dissociativo, ritenuto un grave disturbo psichiatrico.

E’, infine, significativo
che l’osservazione clinica di bambini abusati evidenzi comportamenti violenti
nella storia familiare di almeno uno dei genitori, già vittima a sua volta di
esperienze di violenza fisica o psicologica in età infantile: il bambino
abusato ha perciò probabilità di diventare un individuo predisposto a relazioni
violente in cui reitera l’antica esperienza di abuso; divenuto genitore, egli
potrà assumere con i propri figli comportamenti abusanti, ovviamente anche
diversi da quelli sperimentati, come dimostra proprio la drammatica vicenda
umana e familiare, oggetto del presente procedimento, in cui l’imputato ha
evocato i metodi di trattamento ereditati dai suoi genitori.

3. Alla declaratoria
d’inammissibilità consegue, ex articolo 616 Cpp, la condanna alle spese
processuali e alla pena pecuniaria, determinata in 1.000 euro in relazione alla natura delle questioni dedotte.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il
ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento di 1.000 (mille) euro in favore della
cassa delle ammende.