Lavoro e Previdenza
E’ legittima la revoca dell’ idoneità all’ insegnamento disposta dall’ Autorità Ecclesiastica nei confronti dell’ insegnante di religione in stato interessante se la gravidanza è avvenuta al di fuori del matrimonio. Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenz
E legittima la revoca dellidoneità allinsegnamento disposta dallAutorità Ecclesiastica nei confronti dellinsegnante di religione in stato interessante se la gravidanza è avvenuta al di fuori del matrimonio
Cassazione – Sezione Lavoro
Sentenza 24 gennaio 2003 n. 2803
(Presidente V. Mileo – Relatore P. Picone)
Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Firenze ha confermato, giudicando infondata l’impugnazione di S. D.S., la sentenza dei Pretore della stessa sede, di rigetto della domanda proposta il 29 marzo 1999 per l’accertamento che il rapporto di lavoro con l’amministrazione scolastica statale doveva ritenersi a tempo indeterminato, o, in subordine, che il rapporto stesso si era rinnovato automaticamente alla data del 1° settembre 1998 per un altro anno, e delle pretese conseguenziali in ordine al ripristino del rapporto ed al pagamento delle spettanze economiche.
Alla D.S., insegnante di religione cattolica, da ultimo in servizio presso la scuola media statale (omissis) di Firenze con incarico per l’anno scolastico 1997/1998, non era stato confermato in detto incarico per l’anno scolastico successivo e ciò per effetto della revoca dell’idoneità da parte dell’ordinario diocesano, revoca disposta perché nubile in stato di gravidanza.
All’esito di conferma della sentenza di primo grado la Corte di appello è pervenuta sulla considerazione che il rapporto di lavoro, sebbene connotato da particolari caratteristiche, doveva pur sempre considerarsi a termine, cosicché, alla scadenza, si rendeva necessario il conferimento di un nuovo incarico, nella fattispecie reso impossibile dalla revoca dell’idoneità dell’insegnamento, provvedimento non sindacabile dalle autorità dello Stato; di conseguenza, non poteva essere invocata la tutela di cui alla legge n. 1204 del 1971, trattandosi di rapporto cessato per scadenza del termine e non di licenziamento.
La cassazione della sentenza è chiesta da S. D.S. con ricorso per tre motivi, al quale resiste con controricorso il Ministero della pubblica istruzione (ora Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, a seguito dell’operatività delle disposizioni del d. lgs. n. 300 del 1999).
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod. proc. civ., risultando omessa la trascrizione delle conclusioni delle parti. Si precisa che l’omissione si era tradotta nel mancato esame dei numerosi profili di legittimità costituzionale della normativa applicata nella controversia e di altre questioni sollevate dall’appellante.
Il motivo è privo di fondamento giuridico.
La mancata trascrizione delle conclusioni delle parti non costituisce di per sé motivo di nullità della sentenza, occorrrendo a tale fine che l’omissione abbia in concreto inciso sull’attività del giudice, nel senso, cioè, di avere determinato o la mancata pronuncia sulle domande od eccezioni, oppure un difetto di motivazione in ordine a punti decisivi prospettati. In particolare, se dalla motivazione della sentenza risulta che le conclusioni delle parti siano state effettivamente esaminate, il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante ai fini della validità della sentenza (vedi, tra le tante, Cass. 10 novembre 1999, n. 12475).
Nella specie, si versa, appunto, nell’ambito della mera imperfezione formale, atteso che non è denunciata la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., né sono dedotti vizi della motivazione in senso tecnico (riconducibili cioè, all’art. 360, n. 5), dal momento che sulle questioni di puro diritto (violazione dell’art. 68-bis, d.lgs. n. 29 del 1993; legittimità costituzionale delle norme applicate), la Corte di cassazione giudica direttamente, indipendentemente dall’esistenza di una motivazione della sentenza impugnata.
Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di norme giuridiche in relazione alla qualificazione dei rapporto di lavoro come a tempo determinato.
Si sostiene che, ad onta del nomen iuris, il rapporto di lavoro degli insegnanti di religione ha la sostanza del rapporto a tempo indeterminato, poiché la disciplina leale delinea una sostanziale equiparazione giuridica dei predetti insegnanti ai docenti a tempo indeterminato, con la previsione di un identico inquadramento ed uguale progressione economica e senza l’istituzione di un ruolo separato e speciale.
Il terzo motivo di ricorso denuncia, in via principale, errata interpretazione dell’art. 47, comma 6°, c.c.n.l. del 1995 e violazione dell’art. 68-bis d.lgs. 29/ 1993, in relazione all’automatica riconferma del contratto.
Si sostiene che la previsione negoziale collettiva, secondo cui il contratto di incarico annuale degli insegnanti di religione “si intende confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge”, escludeva che dovesse intervenire per la conferma dell’incarico un atto formale, incompatibile con la natura di incarico annuale stabilizzato, con la conseguenza che alla data del 1° settembre 1998 l’incarico doveva intendersi confermato ed il datore di lavoro era receduto illegittimamente da un rapporto di lavoro in corso con lavoratrice madre. In ogni caso, si aggiunge, era stato violato il disposto dell’art. 68-bis d.lgs n. 29 del 1993, che impone di sospendere il giudizio e di avviare la procedura di accertamento pregiudiziale dell’interpretazione di una clausola del contratto collettivo nazionale.
In via gradata, ove la normativa di settore dovesse interpretarsi nel senso della cessazione del rapporto di lavoro alla scadenza dell’incarico annuale, se ne denuncia l’illegittimità costituzionale nella parte in cui consente di non rinnovare l’incarico al fine di discriminare e ledere diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione alla lavoratrice madre.
La connessione tra gli argomenti rende opportuno l’esame unitario del secondo e del terzo motivo, esame che conduce alla decisione di rigetto del ricorso per ragioni giuridiche che parzialmente divertono da quelle poste a base della decisione impugnata, la cui motivazione va pertanto corretta secondo la previsione di cui all’art. 384, secondo comma, cod. proc. civ.
Il contesto normativo nel quale si inserisce la controversia riguarda l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche, che lo Stato si è impegnato ad assicurare, in attuazione della disciplina pattizia, nel quadro delle finalità della scuola pubblica.
In ragione delle peculiarità di tale insegnamento, che, nel rispetto della libertà di coscienza, è impartito in conformità alla dottrina della Chiesa, l’idoneità degli insegnanti deve essere riconosciuta dall’autorità ecclesiastica e la loro nomina disposta dall’autorità scolastica d’intesa con la prima (art. 9, numero 2, dell’Accordo di revisione del Concordato e punto 5 del protocollo addizionale). Il riconoscimento dell’idoneità presuppone una particolare qualificazione professionale degli insegnanti, i quali devono possedere uno dei titoli considerati adeguati per il livello scolastico nel quale l’insegnamento deve essere impartito; titoli che, in attuazione della previsione concordataria (punto 5, lettera a) e lettera h), numero 4, del protocollo addizionale all’Accordo di revisione del Concordato), sono stati stabiliti con la prevista intesa tra l’autorità scolastica e la Conferenza episcopale italiana (sottoscritta il 1 4 dicembre 1985 ed eseguita con il d.P.R. 16 dicembre 1985, n. 751). Con il medesimo strumento dell’intesa (alla quale è stata data esecuzione con il d.P.R. 23 giugno 1990, n. 202), si è stabilito che il riconoscimento della idoneità all’insegnamento della religione ha effetto permanente, salvo revoca da parte dell’ordinario diocesano.
Nell’ambito della discrezionalità propria della legislazione scolastica, lo Stato ha regolamentato lo stato giuridico degli insegnanti di religione prevedendo la loro nomina con efficacia annuale.
Il quadro normativo è fornito dagli art. 5, primo comma, e 6 della legge 5 giugno 1930, n. 824 (Insegnamento religioso negli istituti medi d’istruzione classica, significa, magistrale, tecnica ed artistica) dalla legge 21 5 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’Accordo, con protocollo addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede), nella parte in cui dà esecuzione all’art. 9, numero 2, di tale Accordo; dall’ art. 309, comma 2, del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado).
Scrutinando la legittimità costituzionale della citata normativa, sospettata di contrasto con gli art. 3, 4, 35 e 97 della Costituzione, laddove prevede che la nomina degli insegnanti di religione, su proposta dell’ordinario diocesano, ha efficacia annuale, escludendo il loro inserimento nell’organico dei docenti e contemplando la possibilità di revoca ad libitum dell’incarico, la Corte costituzionale (sentenza n. 390 dei 1999) ha giudicato infondate le questioni.
Il potere di controllo dell’ordinario diocesano sul permanere dell’idoneità all’insegnamento, logico e necessario corollario del potere di designazione, non avrebbe precluso al legislatore dello Stato di stabilire un diverso stato giuridico per gli insegnanti di religione, ma la scelta dell’incarico annuale (art. 5, primo i comma, della legge n. 824 del 1930 e art. 309, comma 2, dei decreto legislativo n. 297 del 1994), a giudizio del giudice delle leggi, non è lesiva dei principio di eguaglianza, poiché anche i docenti di altre discipline possono essere assunti a tempo determinato ed inoltre la precarietà per gli insegnanti di religione non è così assoluta, visto che l’incarico annuale si intende confermato qualora permangano le condizioni ed i requisiti prescritti, cosicché questo incarico è assimilato, con le specificità ad esso proprie, al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche quanto alla progressione economica di carriera (art. 53 della legge 11 luglio 1980, n. 312); né la scelta legislativa può essere tacciata di palese irragionevolezza alla stregua delle peculiarità che connotano questo insegnamento (la Corte costituzionale richiama, al riguardo, il precedente costituito dalla sentenza n. 343 dei 1999, che aveva giudicata infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla mancata partecipazione degli insegnanti di religione a sessioni di abilitazione ed a concorsi riservati); né il diritto al lavoro, garantito dagli art. 4 e 35 della Costituzione assicura in ogni caso il conseguimento di una occupazione o la conservazione del posto di lavoro, mentre i precetti dell’art. 97 Cost. sono compatibili con l’instaurazione di rapporti di lavoro precari.
Con riferimento al descritto quadro normativo e alla natura pubblicistica che il rapporto di lavoro (degli insegnanti di religione, come degli altri insegnanti di scuola pubblica) ha rivestito fino alla “contrattualizzazione” attuata con le disposizioni del d.lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni e integrazioni (norme poi trasfuse nel d.lgs 30 marzo 2001, n. 165, recante “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), la giurisprudenza amministrativa (avente giurisdizione esclusiva sulle controversie di impiego pubblico) ha considerato gli insegnanti della religione cattolica una categoria a parte nell’ordinamento scolastico, disciplinata dalle disposizioni della legge 5 giugno 1930, n. 821, che si configurano come sistema “speciale” a base pattizia, caratterizzate non soltanto dalla necessità di previe intese tra l’autorità statale ed ecclesiastica, ai fini della determinazione dei programmi d’insegnamento e della scelta dei docenti, ma anche della sostanziale precarietà del rapporto d’impiego del personale preposto all’insegnamento religioso, dovendosi tale rapporto reggere, non solo nel momento genetico ma anche nel suo continuo svolgersi, sull’assenso dell’Autorità ecclesiastica, siccome l’approvazione, o attestato, rilasciato dall’ordinario diocesano costituisce requisito imprescindibile per l’idoneità all’insegnamento.
La stessa giurisprudenza ha, quindi, precisato che la qualificazione di “precarietà” assume per gli insegnanti incaricati dell’insegnamento religioso un significato diverso da quello comune, atteso che sono chiamati a ricoprire posti istituzionalmente non di ruolo, con caratteristica di instabilità che non costituisce una fase transitoria, né un’anomali della carriera, né dipende da disfunzioni organizzative della pubblica amministrazione o da ritardi legislativi, bensì dalla natura della materia insegnata e dall’esigenza di un continuo controllo dell’autorità ecclesiastica qui modo ’in cui l’insegnamento viene impartito.
Su queste premesse, si è escluso che, nei confronti del personale in questione, potessero trovare applicazione la norme di formazione delle graduatorie, nonchè quelle vigenti, nell’ordinamento interno per gli insegnanti incaricati a tempo indeterminato torniti di abilitazione; si è precisato che la competente Autorità scolastica (Preside) ha soltanto il potere di stabilire l’attivazione o la non attivazione dell’insegnamento religioso, richiedendo la necessaria designazione dell’ordinario diocesano (l’unica autorità legittimata ad attestare l’idoneità del docente all’insegnamento della religione cattolica) e controllando il possesso dei requisiti generali per la nomina a pubblico dipendente, ma in assenza di qualsivoglia potere di adottare opzioni discrezionali, cosicché è tenuta a procedere alla nomina dopo l’effettuazione dei detti controlli; conseguentemente, la revoca del nulla osta all’insegnamento religioso ad opera dell’ordinario diocesano comporta l’automatica revoca dell’incarico di insegnamento da parte dell’autorità scolastica senza che occorra a tal fine una particolare motivazione, essendo sufficiente il ritiro dei nulla osta stesso (si vedano, tra le altre, le decisioni del Consiglio di Stato, sez. VI, 5 marzo 1985, n. 78; 6 agosto 1992, n. 598; 10 novembre 199, n. 809).
La compatibilità del sistema con l’art. 7 Cost., sotto il profilo che, essendo lo Stato e la Chiesa cattolica, nel rispettivo ordine, indipendenti e sovrani, la subordinazione al placet dell’Autorità ecclesiastica in una materia (l’insegnamento) pertinente in esclusiva all’ordine od ordinamento dello Stato, ne vulnererebbe la sovranità, è stata ripetutamente affermata dalla Corte costituzionale, sul rilievo che i requisiti dell’indipendenza e della sovranità riconosciuti nell’art. 7 sia allo Stato che alla Chiesa, riflettono il carattere originario dei due ordinamenti, ma la separazione e la reciproca indipendenza tra essi non escludono che un regolamento dei loro rapporti sia sottoponibile a disciplina pattizia, alla quale legittimamente può risalire la rilevanza di atti promananti da una delle parti, purché questi non siano tali da porre in essere nei confronti dello Stato italiano situazioni giuridiche incompatibili con i principi supremi del suo ordinamento costituzionale, ai quali le norme pattizie non possono essere contrarie (in particolare, sentenze n. 30 del 1971 e n. 195 del 1972).
E’ certo, dunque, che l’ordinamento esprime la regola, non suscettibile di deroga, secondo cui l’insegnamento di religione nelle scuole statali è assolutamente precluso al docente non ritenuto idoneo dalla competente autorità ecclesiastica.
Nel regime contrattuale (e, quindi, di diritto privato) del lavoro degli insegnanti di religione, alla stregua delle disposizioni del citato d.lgs. n. 165 del 2001, la perdita dell’idoneità per revoca del relativo nulla osta comporta l’impossibilità (giuridica) della prestazione, assoluta e definitiva, determinando la risoluzione del rapporto ai sensi dell’art. 1463 c.c.
Infatti, il rapporto di lavoro di derivazione contrattuale, necessariamente, quindi, assoggettato al diritto privato, si può estinguere per le cause previste dalla legge, cause riconducibili alla volontà delle parti (licenziamento, dimissioni, mutuo consenso) ovvero all’estinzione delle obbligazioni tipiche per impossibilità sopravvenuta (morte del lavoratore; altre cause di impossibilità sopravvenuta totale della prestazione lavorativa). Invero, dal contratto di lavoro deriva un rapporto sinallagmatico in cui la prestazione di ciascuna delle parti trova la sua causa nella prestazione dell’altra, donde l’applicabilità dei principi dettati, in via generale, per ogni tipo di contratto, dagli art. 126 e 1463 cod. civ . per cui la sopravvenuta impossibilità della prestazione di lavoro, che non sia riconducibile ai casi di sospensione legale del rapporto previsti dagli artt. 2110 e 2111 cod. civ, e che si profili di durata indeterminata o indeterminabile, importa la conseguenza della risoluzione del rapporto (Cass. 16 gennaio 1975, n. 176; 8 gennaio 1983, n. 140; 13 gennaio 1984, n. 752; 10 ottobre 1985 n. 4937; 15 marzo 1986, n. 1796; 21 gennaio 1988, n. 474; 7 settembre 1988, n. 5076; 14 agosto 1991, n. 8851).
La fattispecie di impossibilità assoluta, diversamente da quella di impossibilità relativa di cui all’art. 1454 c.c. (che richiede che la parte interessata manifesti, mediante negozio di recesso, l’assenza di un suo interesse al mantenimento di un vincolo giuridico, ormai privo di valore), determina il venire meno della causa del contratto e si deve escludere, in base al disposto dell’art. 1322, secondo comma, cod. civ., che l’autonomia privata abbia il potere di mantenere ugualmente in vita il negozio.
Invero, nella maggior parte dei casi sottoposti al vaglio della Corte nelle decisioni sopra menzionate, la situazione di impossibilità assoluta risulta esaminata sotto il profilo della giustificazione del recesso posto in essere dal datore di lavoro, ed in effetti sembra affiorare, nella stessa giurisprudenza, la tesi che le norme dettate in tema di tutela contro i licenziamenti arbitrari escludano l’operatività della risoluzione di diritto ai sensi dell’ art. 1463 c. c.
Di questa tesi è espressione significativa la sentenza (Cass. 17 luglio 2001, n. 9407), che collega alla sopravvenuta impossibilità assoluta delle prestazione lavorativa (nella specie, divenuta in contrasto con il divieto posto da norma imperativa, per effetto della scadenza del permesso di soggiorno concesso a lavoratore straniero) la mera sospensione della attualità del rapporto, fino a quando non intervenga il licenziamento che quell’impossibilità assuma a giustificazione.
Si tratta di un’impostazione che non può essere condivisa dal momento che la legislazione sui licenziamenti è, appunto, limitata a tale materia, e non disciplina le fattispecie estintive del rapporto di lavoro non dipendenti dalla volontà del datore di lavoro, ancorché esplichi, ovviamente, influenza notevole nella valutazione di cosa debba intendersi per impossibilità assoluta sopravvenuta della prestazione lavorativa, valutazione contrassegnata da particolare rigore (cfr. Cass. 10 ottobre 1985, n. 493 7).
Soprattutto, la coerenza del sistema di diritto privato ed i riflessi pubblicistici della sussistenza di un rapporto di lavoro (si pensi agli effetti sul piano previdenziale) non ammettono che possa permanere in vita, per volontà degli interessati, un contratto privo della sua funzione economico-sociale tipica. La volontà privata, salvo che la legge espressamente non disponga in senso diverso, può originare diverse fattispecie giuridiche (es. erogazione a titolo gratuito di somme di danaro), ma non certo la fattispecie del lavoro subordinato in assenza (totale e definitiva) dell’obbligo di rendere la prestazione.
In questo senso, del resto, appare orientata la prevalente giurisprudenza della Corte, sia, in generale, nel riconoscere senza contrasti l’operatività di altre cause estintive del rapporto di lavoro (es. mutuo dissenso), sia con riferimento specifico all’impossibilità assoluta sopravvenuta, individuata, tra l’altro, nelle ipotesi di cessazione dell’attività aziendale, con totale disgregazione del substrato della prestazione lavorativa (Cass. 13 febbraio 1993, n. 1815; 6 agosto 1996, n. 7139); nonché distinguendo tra fattispecie di malattia del lavoratore e fattispecie di inidoneità al lavoro duali cause d’impossibilità della prestazione lavorativa che hanno natura e disciplina giuridica diverse: la prima ha carattere temporaneo, implica la totale impossibilità della prestazione e determina, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., la legittimità dei licenziamento quando ha causato l’astensione dal lavoro per un tempo superiore al periodo di comporto; la seconda ha carattere permanente, o, quanto meno, durata indeterminata o indeterminabile, non implica necessariamente l’impossibilità totale della prestazione e determina la risoluzione del contratto ai sensi degli art. 1256 e 1463 cod. civ. previo accertamento di essa, indipendentemente dal superamento di un periodo di comporto (Cass. 14 agosto 1991, n. 8855; 17 giugno 1997, n. 5416; 14 dicembre 1999, n. 14065); ovvero riconducendo all’impossibilità – e si tratta del precedente direttamente pertinente al caso di specie – la perdita della qualità soggettiva indispensabile per l’espletamento dell’unico compito lavorativo possibile (Cass. 5 agosto 2000, n. 10322).
Facendo applicazione alla fattispecie dell’enunciato principio di diritto, in primo luogo, si deve qualificare come totale e assoluta l’impossibilità della prestazione lavorativa, dell’insegnante di religione cui sia stata revocata l’idoneità.
Di ciò non può dubitarsi ove si consideri il particolare status degli insegnanti in questione, reclutati secondo un sistema che si sottrae, quale ius singolare, alle regole dettate dall’art. 35 d.lgs. 165/2001, ed impedisce di conseguenza di affidare al personale così reclutato compiti e mansioni diverse da quelle dell’insegnamento religioso, poiché, altrimenti, si verrebbero ad instaurare rapporti di lavoro ordinari con l’amministrazione pubblica al di fuori dalle procedure di selezione imposte e, dall’art. 97, comma terzo, di cui è attuazione il citato art. 35 d.lgs 165/2001.
La risoluzione del rapporto di lavoro si collega, pertanto, al venire meno della causa e non ad un licenziamento: ne consegue che non è applicabile la norma di tutela delle lavoratrici madri dettata dall’art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, proprio perché l’ambito di applicazione della norma predétta è esclusivamente il licenziamento, vietato al datore di lavoro dall’inizio del periodo di gestazione tino al termine del periodo di interdizione dal lavoro dopo il parto, ove non ricorrano le ipotesi, tassative, di esclusione dell’operatività del divieto stesso.
Evidentemente la norma non può riferirsi, escludendole, ad ipotesi di estinzione (si pensi, ad es., alla morte, alle dimissioni, al mutuo consenso) diverse dal licenziamento (fatta eccezione per la risoluzione per scadenza del termine apposto a contratto di lavoro a tempo determinato), siccome assume a presupposto l’impossibilità soltanto temporanea della prestazione. La coerenza dell’ordinamento, del resto impedisce che sia conservato in vita un rapporto di lavoro che si pone, per fatti sopravvenuti, in contrasto con norme imperative.
Questione diversa, evidentemente, è l’eventuale applicazione dell’art. 2126 c.c., che tutela il lavoratore a tutti gli effetti fino a quando al rapporto è stata data esecuzione di fatto.
Individuata nei termini descritti la soluzione giuridica della controversia, diventa evidentemente inutile l’esame delle argomentazioni contenute nei motivi di ricorsi in esame, che presuppongono tutte che sia intervenuto un recesso (in violazione del divieto di cui art. 2 l. 1204/1971) dell’amministrazione, sia nella prospettiva del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sia in quello della già avvenuta costituzione di un rapporto a tempo determinato. Infatti, anche volendo aderire alle tesi esposte nei motivi in esame, in nessun caso la perdita dell’idoneità all’insegnamento, avrebbe consentito di conservare in vita il rapporto di lavoro (oltre che essere di ostacolo alla conferma dell’incarico, secondo la prospettiva seguita dalla Corte di merito).
Le argomentazioni che giustificano il rigetto del ricorso contengono un’esauriente risposta ai formulati sospetti di illegittimità costituzionale del quadro normativo di riferimento: la manifesta infondatezza delle questioni discende dalle decisioni già adottate dalla Corte costituzionale sugli aspetti fortemente derogatori dello stato giuridico degli insegnanti di religione; i riflessi negativi sui livelli di tutela della maternità ne sono la semplice, necessaria, conseguenza, inidonei, come tali, ad inficiare la compatibilità costituzionale dei fattori che ne sono causa.
La peculiarità della problematica e la novità di alcune delle questioni affrontate giustifica la decisione di compensare per intero le spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa interamente le spese del giudizio di cassazione.