Penale
Diffamazione e diritto di critica politica. E’ scriminato il linguaggio duro, ma non un volgare attacco personale. Cassazione Sezione quinta penale (up) sentenza 21 gennaio-26 febbraio 2004, n. 8678
Diffamazione e diritto di critica politica. E’ scriminato il linguaggio duro, ma non un volgare attacco personale
Cassazione – Sezione quinta penale (up) – sentenza 21 gennaio-26 febbraio 2004, n. 8678
Presidente Foscarini – relatore Fumo
Pg Galasso – ricorrente Serrao
Osserva
Serrao Alfredo è imputato di diffamazione a mezzo stampa per avere diffuso un volantino recante uno scritto a sua firma con il quale offendeva la reputazione di Scozzafava Brunella, con le espressioni «…continuando così ad ingrassare le natiche del consigliere Scozzafava, artefice ed organizzatrice pagata di manifestazioni culturali (la quale)…si riproponeva in chiave pericolosa di longa manus della spartizione delle risorse a titolo di volontariato, ma nel senso di un volontariato finalizzato alle tasche di pochi amici e comparii di qualche assessore disinvolto».
Serrao fu assolto in primo grado perché il fatto non costituisce reato. Su appello del Pm e della Pc, il predetto, viceversa, è stato riconosciuto colpevole del reato ascrittogli dalla Corte di appello di Catanzaro e condannato, con concessione di circostanze attenuanti generiche, alla pena di € 2000 di multa, oltre risarcimento danno e rifusione spese alla Pc.
Il giudice di secondo grado ha ritenuto che le espressioni utilizzate dall’imputato travalicassero i limiti della critica politica (Serrao e Scozzafava sono entrambi consiglieri circoscrizionali) per mancanza di continenza e che neanche fosse stato correttamente esercitato il diritto di cronaca perché venivano addebitate alla Scozzafava condotte che non sono risultate provate.
Ricorre per cassazione il difensore del Serrao e deduce violazione di legge, sostenendo sostanzialmente la correttezza della decisione del Tribunale e dunque affermando che l’imputato avrebbe dovuto essere assolto perché il fatto non costituisce reato. Argomenta: a) ricorrevano gli estremi per l’esercizio del diritto di critica, anche mediante l’uso di espressioni pungenti, in quanto lo scritto in questione riguardava la identità politica di un personaggio pubblico e non la sua sfera privata. Il volantino contiene espressioni relative ad un giudizio e dunque ad una manifestazione di pensiero, che, in quanto tale, non può ritenersi rigorosamente oggettiva. La competizione politica e la dialettica democratica sono tutelate dall’articolo 21 Costituzione, ragione per la quale la libertà di parola deve addirittura prevalere su altri diritti, pur costituzionalmente protetti, quali quelli ex articoli 2 e 3 Costituzione (dignità ed eguaglianza delle persone), b) la lotta politica ha portato ad un diverso uso del linguaggio ed ad una desensibilizzazione in ordine al significato di alcune espressioni usate nell’ambito della relativa polemica. Conseguentemente, parole e frasi che, tra privati, avrebbero obiettivo significato offensivo, sono prive di tale valenza, se adoperate da uomini politici nei confronti di altri uomini politici, atteso che va comunque garantita la efficacia della comunicazione, con l’uso di frasi ad effetto, espressioni suggestive, perifrasi immaginifiche (anche a costo di determinare un’apparente compressione della sfera dell’altrui reputazione), c) nel caso in esame, alla Scozzafava, con il volantino, la cui paternità è attribuita all’imputato, veniva rimproverato sostanzialmente una situazione di conflitto di interessi, in quanto ella aveva ottenuto finanziamenti (da parte di un assessore della sua stessa parte politica) a vantaggio della società Isegoria, facente capo alla stessa Scozzafava, mentre analoghi finanziamenti erano stati negati ad altre società, per mancanza di fondi.
Il ricorso è inammissibile, in quanto manifestamente infondato. Il ricorrente va condannato alle spese del grado ed al pagamento di somma a favore della Cassa ammende, somma che equitativamente si fissa in € 500.
Invero, il diritto di cronaca e di critica, sanciti dall’articolo 21 Costituzione, consentono, come è noto, nel corso delle competizioni politiche o sindacali, toni aspri e di disapprovazione, a condizione che la critica non trasmodi in attacco personale, portato direttamente alla sfera privata dell’offeso e non sconfini nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario (Asn 199211746-Rv 192585). Così, una cosa è (come nel caso della speranza appena citata) affermare che un avversario appartiene ad «una razza nuova, spietata nella competizione e di stampo khomeinista nella lotta per il potere», altro è utilizzare espressioni volgari e che fanno riferimento alla dimensione corporea del competitore, come nella prima parte della frase riportata nel capo di imputazione. Esiste insomma un (riconoscibile) confine tra l’adozione di toni obiettivamente aspri e polemici ed il ricorso a frasi ed espressioni gratuitamente offensive. Non è dubbio infatti che l’uso di un’espressione volgare, quando l’agente abbia la dimensione culturale per ricorrere a modalità comunicative lessicalmente corrette, rappresenta il frutto di una scelta, che inevitabilmente risulta orientata dalla intenzione di offendere, “tenere a vile” e denigrare il destinatario, colpendolo in una dimensione che con il pubblico e la competizione politica nulla possono avere a che fare.
Inoltre, perché possa ritenersi operante la scriminante del diritto di critica, pur essendo certamente consentito, nei riguardi di soggetti investiti di pubbliche funzioni, il ricorso ad un linguaggio più incisivo (Asn 200008635-Rv 217844), occorre pur sempre che il fatto narrato sia vero, che sia correttamente riferito (e che sia pertinente al potenziale interesse dell’opinione pubblica). È evidente infatti che la critica si esercita con riferimento all’altrui operato e, dunque, pur essendo essa nettamente distinta dalla cronaca, è indispensabile che l’azione, l’atteggiamento, l’operato o l’opinione altrui, che si intende criticare, sussistano e siano correttamente esposte da chi intende criticarle.
Orbene, per quanto si legge nella sentenza di appello (che sul punto non risulta smentita dal ricorrente), non è stata minimamente fornita la prova della rispondenza al vero delle accuse formulate a carico della Scozzafava (e dell’assessore), cui viene addebitato (nella seconda parte della frase riportata nel capo di imputazione) l’accaparramento e lo scorretto utilizzo di fondi pubblici. Anche in politica, chi attribuisce ad altri comportamenti meno che corretti ha evidentemente l’onere di provare la fondatezza delle sue affermazioni; in caso contrario, esse, inevitabilmente vanno considerate, non solo generiche, ma anche offensive e chi se ne è reso autore non può che esporsi al rischio di essere chiamato a risponderne nelle sedi competenti.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 500 a favore della Cassa delle ammende.