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Tuesday 24 May 2005

Crediti del fallimento e rito fallimentare o ordinario Cassazione – Sezione Prima Civile – Sentenza 14 maggio 2005 – 10127/2005

Crediti del fallimento e rito fallimentare o
ordinario

Cassazione – Sezione Prima Civile – Sentenza
14 maggio 2005 – 10127/2005 – Presidente: Dott. Giammarco
Cappuccio – Consigliere estensore Carlo Piccininni

Motivi della decisione

Disposta preliminarmente la riunione
dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c. e prendendo dapprima in esame quello principale, si osserva che con il primo motivo la Banca del Salento ha denunciato violazione di legge e vizio di
motivazione, in relazione all’affermata infondatezza dell’istanza formulata
all’udienza del 19.5.1999, con la quale era stata sollecitata la declaratoria
di improcedibilità della domanda proposta dal fallimento nei suoi confronti,in
ragione del fatto che dall’avvenuta e definitiva ammissione allo stato passivo
(questo, infatti, era stato dichiarato esecutivo il 10.5.1999) del medesimo
credito vantato dalla Banca nel presente giudizio sarebbe derivata la dedotta
improcedibilità per effetto dell’art. 52 l.f., secondo il quale ogni credito azionato nell’ambito
fallimentare deve essere accertato ai sensi degli artt. 92 e segg. 1.f.,
e cioè in sede dì verificazione dello stato passivo.

In particolare il citato art. 52
avrebbe stabilito una competenza funzionale del giudice delegato a conoscere le
ragioni di credito verso il fallito, competenza che sarebbe stata tuttavia
derogabile nel caso di decisione non passata in giudicato (e ciò sia
nell’ipotesi di accoglimento che in quella di rigetto
della domanda), in cui il giudice delegato avrebbe il potere di avvalersi o
meno della sentenza non definitiva che accerta o rigetta il credito, decidendo
conseguentemente, in via alternativa, di impugnare o di ammettere il credito
oggetto di contestazione.

Il fatto dunque che il giudice
delegato aveva ammesso al passivo del fallimento il credito fatto valere dalla
banca con la domanda riconvenzionale avrebbe reso
priva di efficacia – e quindi inutile – l’eventuale decisione della Corte
territoriale sull’esistenza o meno del detto credito, mentre la necessità di
una valutazione congiunta da parte del tribunale fallimentare delle due
posizioni creditorie fra loro antagoniste (
banca/fallimento – fallimento/banca ) sarebbe discesa dalla identità del titolo
delle due domande (principale e riconvenzionale) e dal conforme consolidato
orientamento giurisprudenziale sul punto.

La
Corte di Appello aveva però disatteso la prospettazione
dell’appellante principale Banca del Salento nel
presupposto che l’art. 95, comma 3, dovesse essere interpretato nel senso che,
pur restando ferma la possibilità per il giudice delegato di impugnare la
sentenza ovvero di ammettere il credito, tale opzione dovesse ritenersi
preclusa una volta privilegiata, come nella specie, la via dell’impugnazione.
In detta ipotesi infatti, secondo la Corte, il processo avrebbe
dovuto proseguire davanti al giudice naturale, sicché il provvedimento di
ammissione sarebbe stato adottato dal giudice delegato in assoluta carenza di
potere, e sotto questo aspetto sarebbe stato da considerare "tamquam non esset".

La decisione sul punto veniva quindi censurata dalla Banca del Salento
sotto diversi profili, rispettivamente individuati come segue: le due domande
"trovano legittimazione in un unico titolo", quella nei confronti del
fallimento deve essere delibata dal giudice delegato, "l’intera
controversia deve essere conosciuta … nella sede e secondo il rito
fallimentare", in sintonia con l’indirizzo giurisprudenziale di questa
Corte, atteso che non è consentito operare una scissione fra le due opposte
pretese, ed il principio deve trovare applicazione in ogni grado di giudizio;
il provvedimento di ammissione non sarebbe stato quindi emesso "in
assoluta carenza di potere" ma, al contrario, la sua adozione avrebbe
prodotto gli effetti processuali e sostanziali degli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c., trattandosi di decisione definitìva; l’avvenuta ammissione del credito avrebbe
dovuto essere interpretata come implicita rinuncia all’azione; non sarebbe
applicabile la disciplina dettata dall’art. 95, comma 3, l.f., poiché nella specie si sarebbe trattato di sentenza di
accertamento e non di condanna.

Pur essendo condivisibili alcuni dei
rilievi svolti dal ricorrente, soprattutto con riferimento all’affermata
esclusività ed inderogabilità del foro fallimentare per quanto riguarda il riconoscimento
dei crediti vantati nei confronti del fallito, nonché
in relazione all’improprietà del richiamo alla disciplina dell’art. 93, comma 2, l.f., la decisione adottata sul punto dalla Corte di Appello
deve essere modificata solo parzialmente, vale a dire limitatamente alla
statuizione concernente la pretesa creditoria della banca verso il fallimento.

Ed infatti
in proposito va innanzitutto premesso che l’art. 95, comma 3, l.f., che stabilisce la necessità dell’impugnazione della
sentenza non passata in giudicato da cui risulti l’esistenza di un credito
contro il fallimento, nel caso in cui il giudice delegato non ritenga di
procedere alla sua ammissione, non appare correttamente evocato poiché nella
specie la dichiarazione di fallimento era intervenuta il 10.6.1997, e quindi in
epoca antecedente alla prima sentenza non definitiva emessa il 25.9.1997 con la
quale non era stata pronunciata alcuna condanna, ma erano stati più
semplicemente fissati gli indispensabili parametri, da adottare successivamente
per la conseguente quantificazione rimessa al prosieguo.

La data di pubblicazione della
sentenza in esame, la formulazione letterale dell’art. 95, comma 3, che fa
riferimento a credito risultante da sentenza passata in giudicato e la stessa
"ratio" della disposizione, evidentemente dettata, oltre che da
esigenze di economia processuale, dalla necessità di
evitare effetti preclusivi derivanti dal passaggio in giudicato della sentenza,
inducono dunque a ritenere che il citato art. 95 non sia stato correttamente
richiamato, dal che discende anche l’inconsistenza della statuizione
concernente l’assenta incompetenza del giudice delegato in ordine
all’ammissione del credito una volta interposto appello.

Fatta dunque questa premessa, si
osserva che nella specie il giudizio era iniziato a
seguito di domanda proposta da società (e dai fideiussori), successivamente
dichiarata fallita, per ottenere il pagamento di un preteso credito, alla quale
aveva quindi fatto seguito domanda riconvenzionale del convenuto nei confronti
degli attori, fra i quali la
X Costruzioni s.r.l. all’epoca "in bonis",
per far valere a sua volta un credito basato sullo stesso titolo.

Ne consegue pertanto, sulla base del
chiaro disposto dell’art. 52 l.f., che per quanto riguarda la domanda della banca nei
confronti della società fallita opera il rito speciale ed esclusivo
dell’accertamento del passivo ai sensi degli artt. 93 e ss. l.f., circostanza da cui discende che la stessa (e non anche
quindi quella rivolta contro i fideiussori) va dichiarata improcedibile nel
giudizio di cognizione ordinaria.

Profili di maggiore opinabilità si
presentano invece con riferimento alla domanda contro i fideiussori ed a quella
originariamente proposta dalla società "in bonis",
rispetto alle quali il ricorrente ha invocato una "vis attractiva"
del foro fallimentare, in sintonia con un orientamento giurisprudenziale di
questa Corte, per il quale, le opposte pretese derivanti dal medesimo rapporto
contrattuale dovrebbero essere inscindibilmente devolute alla cognizione di un
unico giudice e quindi, per effetto della specialità del rito, trasferite nella
sede concorsuale del procedimento di accertamento e di
verificazione dello stato passivo.

Il rilievo è privo di pregio in
quanto il "simultaneus processus"
non può né dare luogo ad una deroga al rito fallimentare né sottrarre la
domanda al giudice per essa naturalmente competente
per devolverla al giudice fallimentare, così determinando un travisamento della
struttura logica del sistema concorsuale (C. S.U. 2004/21500, C. S.U.
2004/21499, C. 2003/6475, C. 2003/148).

Ciò pertanto comporta che la
declaratoria di improcedibilità va limitata alla sola
domanda riconvenzionale della banca nei confronti del fallimento, e non anche a
quella contro i fideiussori ed a quella proposta in via principale dallo stesso
fallimento contro l’istituto di credito.

Né a diverse conclusioni possono
indurre i due ulteriori profili di censura dedotti dal
ricorrente principale, secondo i quali il giudice delegato avrebbe implicitamente
rinunciato all’appello con l’ammissione del credito allo stato passivo e
comunque sarebbe precluso ogni ulteriore esame sulla domanda del fallimento,
per effetto del definitivo accertamento in sede fallimentare di un credito
della banca derivante dallo stesso titolo azionato nel giudizio ordinario.

Quanto al primo punto, l’asserita
rinuncia è stata apoditticamente prospettata, non risulta precedentemente rappresentata, presuppone la
formulazione di un giudizio di merito incompatibile con il presente giudizio,
contrasta con la partecipazione attiva del fallimento al giudizio di secondo
grado. Sul secondo va rilevato che il provvedimento di ammissione
del credito della banca ha efficacia endofallimentare
in termini di partecipazione dei creditori al concorso e pertanto,
indipendentemente dalla assoluta estraneità di alcune delle parti (vale a dire
i fideiussori) alla relativa delibazione, lo stesso, a cognizione sommaria e
avente ad oggetto l’esistenza del diritto concorsuale al riparto, è del tutto indifferente
e privo di efficacia diretta nel giudizio in corso nel quale si controverte,
nella pienezza del contraddittorio, sulla esistenza o meno del diritto azionato
(in tal senso la consolidata giurisprudenza di questa Corte).

La limitazione della pronuncia di improcedibilità alla domanda della banca contro il
fallimento comporta dunque che sono suscettibili di delibazione in questa sede
le ulteriori domande proposte nel giudizio, quella cioè del fallimento e dei
fideiussori contro l’istituto di credito e quella di quest’ultimo
contro i fideiussori, circostanza da cui discende quindi che devono essere
comunque esaminati gli altri motivi del ricorso principale, tenuto conto
dell’incidenza sui fideiussori del dato relativo all’esistenza o meno di una
posizione debitoria della X Costruzioni verso l’istituto di credito ricorrente.

Venendo dunque al secondo motivo di
ricorso, si osserva che la Banca
del Salento ha poi denunciato violazione di legge,
vizio di motivazione e nullità della sentenza per ultrapetizione sulla
"clausola uso piazza", in relazione all’affermata
inidoneità delle modalità di determinazione "per relationem"
del saggio ultralegale a dare certezza deI tasso pattuito.

Più precisamente, e innanzitutto, la
Corte avrebbe erroneamente ritenuto infondata l’eccezione di
extrapetizione sul punto, atteso che l’atto di citazione non avrebbe contenuto
alcuno specifico riferimento alla violazione dell’art. 1284, che sarebbe stata
invece denunciata solo nel prosieguo del giudizio.

Inoltre, venendo al merito,
ricorrerebbero le condizioni per la riforma della decisione impugnata,
essenzialmente per le seguenti concorrenti ragioni: l’esclusione di qualsiasi
intervento della banca nella concreta determinazione del tasso contrasterebbe
con la funzione di intermediaria ad essa assegnata; la
portata reale della "clausola uso piazza" avrebbe dovuto essere
ricostruita non solo sulla base del contenuto letterale dell’art. 7 delle
condizioni contrattuali, ma anche del disposto dell’art. 16, che prevede una
riserva in favore della banca per la modifica delle condizioni regolanti il
rapporto, oltre che delle prassi comportamentali seguite dalle parti ai sensi
degli artt. 1362, comma 2, 1363 c.c.;
il potere di intervento della banca nella determinazione del tasso sarebbe
riconducibile all’art. 1349 c.c. nonostante la sua qualità di parte e non di
terzo, poiché le relative espressioni sarebbero comunque suscettibili di
sindacato da parte dell’autorità giudiziaria, ove sollecitata a tal fine;
sarebbe stata erroneamente esclusa l’applicabilità al conto corrente bancario
dell’art. 1825 c.c., che si riferisce al conto
corrente ordinario, essendo ricavabile la regolamentazione del primo da
disposizioni dettate per il secondo, attesa l’analogia fra le due figure
contrattuali.

Le doglianze sono infondate,
rispettivamente in quanto: a) la questione dell’ultrapetizione era già stata
oggetto di specifica attenzione nei motivi di impugnazione,
e la Corte di
Appello ne aveva affermato l’inconsistenza rilevando come a pagina 13 dell’originario
atto di citazione gli attori avessero enunciato le ragioni di nullità della
clausola concernente gli interessi ad uso piazza richiamando la disposizione a
loro avviso applicabile (art. 1284, comma 3, c.c.) ed individuando inoltre
nella insufficienza del criterio "per relationem"
la carenza del parametro adottato per la determinazione del tasso. Su questo
punto nulla ha dedotto il ricorrente, che si è sostanzialmente limitato a
richiamare, con enunciazione generica, quanto già precedentemente
lamentato, per cui il profilo di censura rappresentato deve essere disatteso.

b) La pretesa contraddizione
ravvisata fra la funzione di intermediaria assegnata
alla banca e l’affermata impossibilità di un suo diretto intervento per la
determinazione del tasso è enunciata in termini generici ed è di per sé
inidonea ad individuare l’assenta erroneità dei profili argomentativi svolti
sul punto dalla Corte territoriale.

c) la Corte di merito ha preso in
esame gli artt. 7 e 16 del contratto, ritenendo che la previsione del combinato
disposto delle due clausole non consentisse di precisare alcun elemento
estrinseco di riferimento idoneo a garantire una sicura determinabilità degli
interessi, per cui la diversa interpretazione
suggerita avrebbe dovuto essere sorretta dalla denuncia dei canoni ermeneutici asseritamente violati, con l’indicazione dei
profili di erroneità riscontrati;

d) la Corte di Appello
aveva ritenuto non pertinente il richiamo della banca all’art. 1349 c.c. a
sostegno della legittimità dì un suo intervento finalizzato alla determinazione
del tasso, sotto un duplice profilo testuale e logico; quanto al primo, perché
la norma richiama la possibilità di deferire solo al terzo la determinazione
della prestazione, quanto al secondo, perché la funzione equilibratrice
demandata all’arbitratore presuppone la sua posizione
di terzietà ed esclude che la stessa possa essere correttamente svolta da colui
che è titolare di un proprio interesse in contrasto con quello dell’ altro.

A fronte delle dette argomentazioni
il ricorrente ha proposto una interpretazione
alternativa dell’art. 1349, essenzialmente basata: sulla possibilità dell’
adozione di correttivi in sede giudiziaria rispetto alle determinazioni dell’arbitratore – parte; sulle funzioni svolte dalla banca sul
mercato; sulla necessità, per i contratti di durata, di prevedere il rinvio
alle condizioni di mercato. Tuttavia non ha rappresentato né le ragioni per le
quali le non condivise affermazioni della Corte territoriale configurerebbero
violazioni di legge o sarebbero viziate nella motivazione, né i profili di erroneità sotto tale riflesso riscontrati.

e) la Corte territoriale ha
ritenuto improprio il richiamo all’art. 1825 c.c. in ragione del fatto che la
norma si riferisce al conto corrente ordinario, e non a quello di conto
corrente bancario; che quest’ultimo contratto è
connotato da autonomia strutturale e funzionale rispetto al primo; che
nell’art. 1857 c.c.,
contenente disposizioni integrative alla disciplina delle operazioni bancarie
in conto corrente con rinvio agli artt. 1826, 1829, 1832 c.c.., non è contenuto alcun riferimento al citato art. 1825.

Si tratta di rilievi del tutto esatti e pertinenti, rispetto ai quali il
ricorrente si è limitato ad invocare l’astratta possibilità del ricorso
all’analogia in ragione di una pretesa comune caratteristica strutturale e
funzionale dei due contratti in questione, senza indicare né i profili di
erroneità in cui sarebbe incorsa la
Corte, né la lacuna di disciplina normativa che, ai fini
della decisione della controversia, sarebbe stato necessario colmare mediante
l’utilizzazione del procedimento analogico previsto dall’art. 12 disp. prel. c.c.

Con il terzo motivo di impugnazione la
Banca del Salento ha denunciato
violazione di legge in relazione alla intervenuta declaratoria di nullità della
clausola del conto corrente che disciplina la capitalizzazione degli interessi
dovuti dal correntista X Costruzioni.

In particolare la statuizione sul
punto sarebbe viziata sotto un triplice riflesso, e cioè:
a) per l’inapplicabilità della fattispecie delineata dall’art. 1283 c.c. al
fenomeno dell’annotazione in conto corrente degli interessi scaduti; b) per
l’affermata natura imperativa della detta disposizione, da cui sarebbe derivata
la nullità delle pattuizioni ad essa contrarie; c) per la negata esistenza di
usi normativi idonei a derogare alla disciplina in tema di anatocismo, ai sensi
dell’art. 1283 c.c.

La doglianza va disattesa per le
seguenti considerazioni:

sub a). L’inapplicabilità dell’art. 1283
deriverebbe dal fatto che la somma di cui il correntista può disporre ai sensi
dell’art. 1852 cc., c.d. saldo disponibile, sarebbe costituito sia dalle somme
depositate che da quelle tenute a disposizione dalla Banca, sicché
l’annotazione in conto corrente di qualsiasi posta costituirebbe il mezzo
attraverso il quale le parti regolano le reciproche obbligazioni, delle quali
rappresenterebbe una modalità di adempimento, e la stessa ravvisata fattispecie
della produzione di interessi su interessi scaduti non sarebbe quindi neppure
ipoteticamente configurabile.

La detta prospettazione
non è tuttavia condivisibile perché gli interessi nelle obbligazioni
pecuniarie, quale quella in oggetto, si determinano su crediti liquidi ed
esigibili di somme di denaro (art. 1282 c.c.), l’estratto conto
si intende approvato se non contestato (art. 1832 richiamato dall’art. 1857
c.c.) ed è quindi da tale data che sono computabili gli interessi sul debito
esistente. Da ciò discende pertanto l’inconsistenza, sotto il profilo normativo,
della ricostruzione suggerita dal ricorrente, ricostruzione che avrebbe una
valenza rilevante esclusivamente in via astratta e prescindendo dal rapporto
concretamente considerato, posto che la Corte di Appello ha in
punto di fatto accertato che la pretesa creditoria della banca era stata
formulata con il computo degli interessi sugli interessi scaduti in violazione
dell’art. 1283 e la relativa statuizione è stata oggetto di censura
esclusivamente in relazione alla differente imputabilità delle somme
asseritamente dovute (poiché non ascritte al debito per gli interessi), senza
alcun riferimento alla pretesa erroneità dei criteri di determinazione
dell’ammontare del credito.

Sub b). La Corte di appello
ha evidenziato come nella specie "pacificamente trattasi di disposizione
di carattere imperativo e di natura eccezionale", in sintonia con un
consolidato indirizzo di questa Corte di legittimità fra le altre si richiamano
C. 2003/13739, C. 2001/5675, C. 2000/5286, C. 199/2374, C. 1977/1724), mentre
la censura è incentrata sulla irragionevolezza di una interpretazione
legittimante deroghe soltanto da parte dì usi normativi anteriori al 1942,
censura basata su diversa ricostruzione della normativa anziché sui profili di
erroneità riscontrabili nella difforme decisione del giudice del merito.

Sub c). Gli usi nei quali troverebbe fondamento nel caso di specie la disciplina degli
interessi anatocistici avrebbero natura normativa e
non negoziale, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello.

La questione è stata specificamente
affrontata da questa Corte che, con motivazione del tutto condivisibile alla
quale pertanto più compiutamente si rinvia (C. S.U. 2004/21095, C. 2003/13739,
C. 2003/12222, C. 2003/2593), ha ravvisato la natura pattizia
delle cosiddette norme bancarie uniformi predisposte da al
riguardo, in considerazione sia del mancato accertamento da parte della
Commissione speciale permanente presso il Ministero dell’Industria
dell’esistenza di un uso normativo generale di contenuto corrispondente alla
clausola in questione, sia dell’impossibilità di individuare nei soggetti
contraenti con le banche l’atteggiamento psicologico di spontanea adesione ad
un precetto giuridico ("opinio iuris ac necessitatis").

Ne discende dunque che non ricorrono
le condizioni idonee a legittimare una deroga al dettato dell’art. 1283 c.c. e,
conseguentemente, che correttamente è stata dichiarata la nullità della
clausola in contestazione.

Con il quarto motivo
la Banca del Salento si è doluta dell’affermazione contenuta nella
sentenza impugnata secondo cui la commissione di massimo scoperto non sarebbe
stata contrattualmente prevista, per cui non avrebbe dovuto essere applicata.
La statuizione sarebbe infatti viziata per violazione
di legge e carenza di adeguata motivazione, tenuto conto del fatto che l’art.
1826 c.c. stabilisce che i detti diritti sono inclusi nel conto, salva
convenzione contraria, che le clausole d’uso sono inserite nel contratto se non
risulta volontà contraria delle parti, che esiste consolidata prassi
contrattuale nel senso prospettato da esso ricorrente.

Il rilievo non ha pregio perché la
clausola non era prevista nel contratto (p. 27 della sentenza di secondo
grado), il giudice di appello ha giudicato inidonee le
norme bancarie uniformi e le istruzioni della Banca d’Italia a disciplinare il
rapporto in esame e la decisione non è stata censurata, non risulta sia stata
data prova dell’esistenza dell’uso richiamato, la genericità del richiamo non
consentirebbe di determinare esattamente l’oggetto della relativa obbligazione,
con gli effetti conseguenti in ordine alla sua validità.

Con il quinto motivo di impugnazione il ricorrente ha sostenuto che,
contrariamente alla decisione adottata sul punto dalla Corte territoriale che
ha rigettato la relativa eccezione, la decorrenza del termine decennale di
prescrizione per il reclamo da parte del correntista delle somme indebitamente
trattenute dalla banca per interessi calcolati in misura ultralegale senza
valida pattuizione dovrebbe iniziare dalla data in cui ciascun pagamento è
stato effettuato, trattandosi di azione di ripetizione di tanti indebiti
oggettivi quanti sono i pagamenti effettuati in esecuzione delle clausole
impugnate.

L’assunto è in contrasto con la
condivisa giurisprudenza di questa Corte (C. 2004/5720, C. 1998/3783, C.1984/2262, C. 1956/2488), che ha valorizzato il legame
intercorrente fra una pluralità di atti esecutivi in
virtù dell’unicità del rapporto giuridico derivante da un contratto unitario, e
pertanto deve essere disatteso.

Analogamente deve infine dirsi con
riferimento all’ultimo motivo di ricorso, con il quale il giudice di appello ha compensato le spese del relativo giudizio,
tenuto conto dell’esito negativo dell’appello principale proposto da esso
ricorrente.

Passando quindi all’esame dei ricorsi
incidentali, si osserva, per quanto riguarda quello dei fideiussori Tizio e Mevia, che lo stesso è
inammissibile, atteso l’esito del giudizio di appello nel quale sono risultati
vittoriosi, considerato che è stata accolta la loro domanda nei confronti della
Banca del Salento, e per l’effetto dichiarato che
nulla era da essi dovuto all’istituto di credito convenuto.

In ordine invece a quello del
fallimento X Costruzioni, va rilevato che sono stati articolati tre distinti
motivi, con i quali è stato innanzitutto lamentato
violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla decisione di
rigetto della domanda di nullità della clausola sull’addebìto
delle valute, che a dire dell’appellante avrebbe dovuto decorrere dalla data di
emissione (o di negoziazione nel caso di postdatazione), questione cui sarebbe
stata successivamente agganciata quella relativa alla data degli accrediti.

Più precisamente la detta decisione
era stata adottata, con riferimento agli addebiti, per la mancanza di norme o di usi in senso contrario cui pure il ricorrente avrebbe
subordinato la legittimità del computo effettuato e, in relazione agli
accrediti, per la tardività della prospettazione,
asseritamente non trattata con l’appello incidentale, nel quale si sarebbe dato
atto dell’assenza di pattuizioni sul punto senza peraltro provvedere alla
segnalazione di alcun colpevole ritardo conseguente.

La sua erroneità, secondo il
ricorrente, dipenderebbe poi dal fatto che la questione delle valute sarebbe stata congruamente affrontata (pp. 3, 4, 5, 13, 14,
15 dell’atto di citazione, pp. 74, 75, 76, 77 dell’atto di appello
incidentale), che non sarebbe stato tenuto debito conto delle valutazioni
compiute in proposito dal consulente di parte, che non si sarebbe considerato
che "il gioco delle valute" è contrario agli obiettivi della
trasparenza e si tradurrebbe "in ultima analisi in un addebito di
interessi passivi ultralegali".

Le doglianze sono infondate perché la Corte di Appello
ha affrontato separatamente le due diverse questioni concernenti la decorrenza
degli addebiti e degli accrediti, adottando per ciascuna di esse una differente
motivazione a sostegno della identica decisione di rigetto (per l’addebito la
clausola negoziale non contrasterebbe con alcuna norma, né la sua validità
presupporrebbe la preesistenza di un uso normativo in tal senso, per
l’accredito la questione non sarebbe stata trattata con l’atto di impugnazione,
nel quale l’indicazione relativa all’assenza di pattuizioni sul punto non
sarebbe stata affiancata né dalla segnalazione di ritardi colpevoli
nell’accreditamento da parte della banca, né comunque da alcuna conclusione al
riguardo), profili che sono stati censurati soltanto con il richiamo
all’irregolare computo delle valute (senza ulteriori precisazioni in ordine
alle conseguenti domande asseritamente mancanti) che esso ricorrente avrebbe
operato nelle diverse difese prodotte nel giudizio di merito, alle valutazioni
compiute in proposito dal consulente di parte, al parallelismo tra gli effetti
prodotti da tale irregolare computo e quelli derivanti dalla violazione
dell’art. 1284 c.c., e quindi in modo del tutto
generico rispetto alle sopra citate "rationes decidendi" sulle quali la Corte ha basato la propria
determinazione sul punto.

Con il secondo motivo di ricorso il fallimento ha poi denunciato vizio di motivazione
in relazione al computo degli interessi " dalla domanda al soddisfo sulla
somma di £. 376.375.436 che la banca è stata condannata a pagare in suo favore,
decorrenza che viceversa a suo dire avrebbe dovuto essere indicata a far tempo dalla data di maturazione del credito, e ciò in
virtù sia del dettato normativo di cui all’art. 1282 c.c.,
per il quale i crediti liquidi ed esigibili di somme di denaro producono interessi
di pieno diritto, che delle previsioni contrattuali, posto che ai sensi
dell’art. 821 c.c., in mancanza di diversa
pattuizione delle parti, gli interessi ed i frutti civili si acquistano giorno
per giorno.

La
Banca
del Salento ha rilevato l’inammissibilità del detto
motivo assumendo trattarsi di domanda nuova, prospettazione che non può però
essere condivisa, attesa la generica formulazione della richiesta adottata dal
ricorrente incidentale in sede di precisazione delle conclusioni nel giudizio di appello, quali desumibili dall’epigrafe della sentenza
impugnata ("oltre interessi dalla maturazione al saldo").

La doglianza tuttavia va disattesa
nel merito poiché, trattandosi di pagamento indebito,
gli interessi sono dovuti dal giorno del pagamento soltanto se chi lo ha
ricevuto era in mala fede (art. 2033 c.c.), condizione la cui esistenza
presuppone un accertamento di merito implicitamente effettuato in termini
negativi dalla Corte di Appello, e comunque incompatibile con il presente
giudizio di legittimità.

Con il terzo motivo, infine, il
fallimento si è doluto della disposta compensazione delle spese processuali in
ragione della pretesa fondatezza delle argomentazioni svolte, doglianza che va
accolta tenuto conto della constatata improcedibilità della domanda proposta
dalla banca nei suoi confronti.

Il rigetto del primo motivo del
ricorso incidentale comporta l’assorbimento di quello incidentale condizionato
articolato dalla Banca del Salento con riferimento
all’assenta approvazione tacita degli estratti conto,
approvazione dalla quale sarebbe derivata una preclusione in ordine alle
contestazioni astrattamente proponibili al riguardo.

Conclusivamente, la
domanda di quest’ultima nei confronti del fallimento
va dichiarata improcedibile e conseguentemente la sentenza impugnata deve
essere cassata sul punto senza rinvio; il ricorso incidentale dei fideiussori
va dichiarato inammissibile; il ricorso principale e quello incidentale del
fallimento devono essere rigettati.

Quanto alle spese processuali,
dall’improcedibilità della domanda formulata contro il fallimento e dalla
spiccata rilevanza sotto il profilo quantitativo e qualitativo delle questioni
– disattese – sollevate dalla banca nel presente giudizio rispetto a quelle
dedotte dal fallimento discende che le stesse vanno poste a carico della Banca
del Salento, nella misura indicata in dispositivo. Le
spese devono invece essere compensate per quanto concerne il rapporto banca
-fideiussori, attesa la dichiarata inammissibilità del ricorso di questi
ultimi.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi. Dichiara improcedibile la domanda della Banca del Salento nei confronti del fallimento X Costruzioni s.r.l. e
per l’effetto cassa senza rinvio la sentenza impugnata nella parte in cui
pronuncia sulla detta domanda; dichiara inammissibile il ricorso incidentale
dei fideiussori Tizio e Mevia; rigetta il ricorso
principale e quello incidentale del fallimento; condanna la Banca del Salento al pagamento delle spese processuali sostenute dal
fallimento nel giudizio di secondo grado e in quello in oggetto; dichiara
compensate le spese processuali nei confronti dei fideiussori.

Liquida le spese in favore del
fallimento in Euro 7.100, di cui Euro 100 per esborsi, per il presente giudizio
e in Euro 7.500, di cui Euro 600 per esborsi per quello di appello
oltre, per entrambe le liquidazioni, accessori di legge.

Roma, 20.1.2005

Il Presidente

Giammarco CAPPUCCIO

Il consigliere relatore

Carlo PICCININNI

Depositato in Cancelleria, 14 maggio
2005