Penale

Thursday 26 February 2004

Costituisce sequestro di persona trattenere immigrati anche se sono clandestini. Lo stabiliscono le Sezioni Unite della Cassazione. Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n.962/2004

Costituisce sequestro di persona trattenere immigrati anche se sono clandestini. Lo stabiliscono le Sezioni Unite della Cassazione

Suprema Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, sentenza n.962/2004

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 10 maggio 2001, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava H.Y. W. K., Z. B. e L.X.J. colpevoli dei reati loro ascritti e li condannava alla pena di dodici anni di reclusione e £ 10 milioni di multa ciascuno, concesse a tutti le attenuanti generiche, con la continuazione tra i reati e con la riduzione per il rito abbreviato; applicava pene accessorie.

Si tratta di episodi qualificati come sequestro di persona a scopo di estorsione [1] di vari clandestini cinesi e di reati attinenti all’agevolazione del loro ingresso in Italia.

La L.X.J. era stata ritenuta colpevole anche del reato di cui all’art. 416, comma 2, c.p. [2], quale mera partecipe di un’associazione per delinquere finalizzata all’immigrazione illegale in Italia ed ai sequestri di persone in danno di cittadini stranieri.

In particolare, il capo 1 di imputazione (art. 110, 630 c.p.), contestato a H. Y. E L. X. J., attiene al sequestro a scopo di estorsione di nove clandestini cinesi (acquistati dall’organizzazione di tale L. operante in Slovenia), per i quali fu pagata la somma di £ 27 milioni ciascuno per la loro liberazione (fatto avvenuto in luogo imprecisato del Friuli- Venezia Giulia nel novembre del 1999).

Il capo 5 (o capo 4; artt 110, 630 c.p.) contestato a W. K., Z. B. e a L. X. J., attiene ai fatti analoghi e sostanzialmente coevi a quelli di cui ai capi che precedono, in danno di almeno quattro cittadini cinesi, sempre ceduti dal L., e rilasciati dietro il pagamento di 74.800 franchi francesi.

Il capo 3 (art. 416 c.p.) contestato a L. X. J., attiene alla partecipazione della medesima all’associazione per delinquere facente capo a tali X. B. e X J., giudicati separatamente, finalizzata alla immigrazione illegale in Italia ed ai sequestri di persona in danno di cittadini stranieri (in luogo indeterminato, dal 1998 al 2000).

Il capo 20 (artt. 110, 630 c.p.), contestato a L. X. J., attiene ad un altro episodio di sequestro a scopo di estorsione di sei clandestini cinesi (sempre acquistati dall’organizzazione del L.), per i quali fu pagata la somma di £ 26 milioni ciascuno per la loro liberazione (fatto avvenuto in Trieste e Bologna il 21 ottobre 1999).

Altri capi d’imputazione attengono a violazioni dell’art. 10 L. n. 40 del 1998 (agevolazione dell’ingresso dei clandestini in Italia).

A seguito di gravame degli imputati, la Corte di Appello di Bologna, in parziale riforma della decisione di primo grado, qualificava i fatti, che il GUP aveva inquadrato nell’art. 630 c.p., come sequestri di persona ed estorsioni (o, in un caso, tentata estorsione) ai sensi degli artt. 605 e 629 cpv. (o 56, 629 cpv.) c.p.; concedeva a tutti gli imputati le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti, riuniva tutti i reati sotto il vincolo della continuazione, teneva conto della riduzione di un terzo per la scelta del rito; rideterminava le pene, riducendole; confermava nel resto la sentenza impugnata.

La Corte di merito sottolineava che le prove poste a fondamento del giudizio di colpevolezza erano costituite dalle dichiarazioni di tre parti lese, dagli arresti in flagranza e da numerose conversazioni intercettate su tre utenze; metteva in evidenza che il GUP aveva, in estrema sintesi, così ricostruito gli episodi: si è accertato che i flussi migratori più cospicui sono caratterizzati dal fatto che il pagamento non avviene in anticipo, ma solo al termine del viaggio, rigidamente organizzato e pianificato.

L’organizzazione cinese che ha preso accordi per il viaggio con gli interessati e ha stabilito il prezzo complessivo, fa arrivare i clandestini in paesi dell’Est europeo.

Qui altra organizzazione, in genere slovena, li prende in carico e li porta in Italia, continuando il trasporto fino ai luoghi, spesso Mestre e Padova, nei quali avviene la consegna agli emissari dell’organizzazione etnica (in questo caso, cinese) che glieli aveva affidati.

Quest’ultima organizzazione trattiene il clandestino, talora con modalità violente (ci sono stati circa 15 arresti per sequestro a scopo di estorsione)e si mette in contatto con i parenti (oppure con i padroni, vale a dire coloro che lo hanno ordinato), ai quali consegna la persona solo contestualmente al pagamento del prezzo del viaggio.

Le organizzazioni etniche gestiscono l’intero viaggio dal Paese di origine fino alla destinazione finale europea e si servono, come per una sorta di subappalto, delle organizzazioni locali slovene e croate per il tratto più critico, compreso l’ingresso in Italia.

Dopo aver chiarito che la ricostruzione dei fatti operata dal GUP è precisa e corretta, la Corte territoriale rileva come emerga chiaramente la continuità che lega le varie fasi del viaggio dei clandestini.

Da questo assunto fa discendere che gli extracomunitari furono sequestrati per ottenere un profitto illecito, perché consistente nel corrispettivo di un’attività vietata dalla legge, quale l’agevolazione del loro ingresso clandestino in Italia, ma rileva che il sequestro avviene non con la finalità diretta della liberazione della persona, bensì in forza di una causa preesistente, sia pure illecita; segue, quindi, quell’indirizzo giurisprudenziale, di cui si dirà nella parte motiva, secondo cui in simili casi non si verserebbe nell’ipotesi delittuosa complessa delineata dall’art. 630 c.p., bensì nei due reati semplici previsti dagli artt. 605 e 629 (o 56 e 629 c.p.).

Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i predetti imputati, a mezzo dei rispettivi difensori, e il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Bologna.

I motivi di ricorso avanzati in favore degli imputati possono essere raggruppati in due filoni tematici; il primo (proposto dall’avv. Montanari per la L.X., anche con motivi nuovi) riguarda un’asserita inutilizzabilità di alcune prove, il secondo (proposto da tutti i difensori) questioni attinenti al giudizio di comparazione tra circostanze ed all’aumento di pena per la continuazione.

In particolare si deduce: l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, posto che la motivazione del decreto autorizzativo si risolve in un mero rinvio acritico alle note investigative della polizia giudiziaria, che erano comunque prive di qualsiasi struttura motivazionale; la violazione della legge processuale (art. 597, commi 1 e 2 c.p.p.) , poiché il giudice di appello ha ritenuto le attenuanti generiche equivalenti alle riconosciute aggravanti, esorbitando dalla sfera devolutiva dell’impugnazione e mutando in peius il giudizio di valenza del primo giudice, il quale, pur non dichiarando espressamente la prevalenza delle attenuanti rispetto all’aggravante del numero delle persone ex art. 112 comma 1 c.p. (non formalmente enunciata ma di fatto contestata), aveva comunque ridotto di un terzo la pena base per il reato di cui all’art. 630 c.p.; la violazione della legge processuale (art. 597, commi 3 e 4 c.p.p.) e il vizio di motivazione in punto di aumento della pena per la continuazione, avendo il giudice di appello determinato tale aumento in tre anni di reclusione a fronte di un aumento calcolato dal Tribunale in un anno e quattro mesi.

I ricorrenti sostengono che la scomposizione dell’originaria imputazione di sequestro di persona a scopo di estorsione in quella di sequestro di persona e di estorsione, pur comportando una formale proliferazione dei reati satellite, non poteva comunque determinare un maggior aumento della pena per la continuazione, data la minore gravità dei reati ravvisati; che in ogni caso, è mancata al riguardo un’idonea motivazione. Il Procuratore Generale deduce l’erronea qualificazione giuridica del fatto in punto di sequestro di persona, osservando che la Corte di Appello ha sbagliato nel derubricare il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, scomponendolo in quelli di sequestro di persona e di estorsione, sulla base della considerazione della sussistenza di un precedente contratto tra le parti, sia pure di natura illecita, relativo all’immigrazione clandestina.

Il ricorrente mostra di aderire ad un altro orientamento della Corte di Cassazione, sostenendo al riguardo che il presupposto contrattuale (illecito) rileva solo per individuare il movente dell’azione, fermo restando il dolo specifico della condotta di cui all’art. 630 c.p., che è comunque quello di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione.

Il processo veniva assegnato, per competenza interna, alla Sesta Sezione penale, che rilevava l’indicato contrasto di giurisprudenza riguardante la questione sollevata dal Procuratore Generale territoriale.

Il Collegio riteneva di dover aderire al secondo al secondo orientamento, sostenuto dal PG impugnante, e ne spiegava le ragioni; considerati, tuttavia, gli orientamenti difformi e la delicatezza della questione, in particolare per le notevoli conseguenze sul piano sanzionatorio, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.

Il Primo Presidente ha assegnato alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Le doglianze contenute nei ricorsi non sono rivolte a contestare ne la ricostruzione dei fatti operata in sede di merito, ne la responsabilità degli imputati, salvo che per il regime probatorio relativo alla L.X.J.; nulla viene rilevato in ordine ai delitti, per così dire, minori (art. 416 c.p. e reati previsti dalla legge n. 40/1998).

Il campo di indagine devoluto a queste Sezioni Unite è limitato, come già accennato, a tre argomenti, che devono essere esaminati nel seguente ordine logico- sistematico: inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche disposte sull’utenza n. 00386/41/552237 in uso al L.; qualificazione giuridica dei fati contestati ai capi 1), 5) e 20) della rubrica: si tratta della questione che ha dato luogo alla rimessione dei ricorsi ai sensi dell’art. 618 c.p.p.; violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al giudizio di comparazione tra circostanze di segno contrario ed all’aumento di pena per l’applicazione dell’istituto della continuazione.

Inutilizzabilità di talune intercettazioni telefoniche.

Questo motivo riguarda esclusivamente la posizione dell’imputata L.X.J., nei confronti della quale, secondo l’assunto difensivo, le conversazioni captate sulla predetta utenza telefonica sarebbero l’asse portante, se non unico, di tutto l’impianto accusatorio a suo carico.

Gli altri imputati, invero, non contestano le prove valutate contro di loro, che consistono, peraltro, nell’arresto in flagranza, nelle rispettive ammissioni e nelle deposizioni di talune vittime.

In buona sostanza la difesa della L.X.J. sostiene che il decreto del GIP del Tribunale di Trieste, il quale, in data 8/11/1999, autorizzò le intercettazioni, sarebbe carente di motivazione, sia in ordine alla gravità del quadro indiziario, sia in ordine all’assoluta indispensabilità; con la conseguenza della inutilizzabilità delle intercettazioni stesse.

La doglianza in esame è infondata; essa è stata già avanzata in sede di gravame ed è stata confutata dal giudice di appello, che ha diffusamente e congruamente esposto le ragioni della piena utilizzabilità della prova contestata.

Poiché il ricorso ripropone, in maniera sintetica, le critiche precedenti, è sufficiente mettere in evidenza i punti salienti delle corrette argomentazioni contenute nella sentenza impugnata.

Va premesso che la sanzione della inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni è stabilità dall’art. 271, comma 1, per i casi, fra l’altro, di mancato rispetto delle disposizioni previste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, c.p.p.

L’autorizzazione a disporre le intercettazioni richiede un presupposto, il decreto motivato, ed è subordinata a due requisiti, la sussistenza di gravi indizi di reato e l’assoluta indispensabilità del mezzo di ricerca della prova ai fini della prosecuzione delle indagini.

La Corte territoriale ha rilevato che il decreto del GIP configura un tipico provvedimento motivato per relationem in ordine ai gravi indizi di reato; esso fa specifico riferimento alle informative del Settore di Polizia di Frontiera di Trieste e del Comando Carabinieri di Latisana, nonché alle altre risultanze di polizia giudiziaria; si tratta di documenti a loro volta ampiamente motivati e resi ostensibili alla difesa.

Il puntale richiamo critico fatto dal GIP nel suo decreto, dimostra che egli ha preso cognizione del contenuto sostanziale degli atti richiamati, li ha sottoposti al proprio vaglio personale, ha reso palese che alla base della decisione presa ha posto le proprie ragionate valutazioni, desunte dagli atti acquisiti in precedenza e resi noti alla difesa, la qual non ha subito nessuna lesione dei propri diritti.

Anche rispetto all’altro requisito normativo, riguardante l’assoluta indispensabilità della captazione delle conversazioni telefoniche, il provvedimento de quo presenta un adeguato supporto argomentativo, fondato sulle modalità operative degli artefici del reato, sui contatti intrattenuti mediante telefoni mobili, sul cambiamento repentino dei luoghi e degli orari dei loro incontri, si che le intercettazioni si rivelavano strumento pressoché unico i tale delicata fase delle indagini.

Emerge, quindi, che i giudici di merito hanno correttamente seguito gli orientamenti di questa Corte di legittimità in tema di operazioni captative, in particolare il fondamentale principio secondo cui, ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di motivazione, è sufficiente che dalla lettura del provvedimento si possa dedurre l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano conoscere i risultati, che devono essere conformi alle prescrizioni di legge.

Più in generale è stato affermato che la motivazione per relationem di un provvedimento giudiziale è da considerare legittima quando: faccia riferimento, ricettizio o di semplice rinvio, a un legittimo atto del procedimento, la cui motivazione risulti congrua rispetto all’esigenza di giustificazione propria del provvedimento di destinazione; fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento di riferimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione; l’atto di riferimento, quando non venga allegato o trascritto nel provvedimento da motivare, sia conosciuto o ostensibile all’interessato, quanto meno al momento in cui si renda attuale l’esercizio della facoltà di disamina, di critica ed, eventualmente, di gravame e, conseguentemente, di controllo dell’organo della valutazione o dell’impugnazione (v. Cass. S. U. sent. 17/2000 RV 216664, Primavera e altri; v. anche Cass. S.U. sent. 42792/2001 RV 220095, Policastro e altri).

Conclusivamente si deve rilevare che la Corte bolognese ha motivatamente ritenuto che il decreto del GIP non presenta nessuno di quei vizi dai quali si vorrebbe far derivare la conseguenza dell’inutilizzabilità sancita dal citato art. 271 c.p., in quanto ha congruamente esplicato la ritenuta sussistenza dei requisiti di legge ed ha reso ostensibili e noti alle parti gli atti presupposti.

Ne consegue pertanto che il motivo di ricorso deve essere disatteso.

Si può ora passare all’esame della doglianza contenuta nel ricorso del Procuratore Generale territoriale, che attiene alla qualificazione giuridica dei fatti prima contestati ai sensi dell’art. 630 c.p. e poi derubricati nei reati previsti dagli artt. 605 e 629 c.p.

Come si è dichiarato nella parte espositiva, la ricostruzione dei fatti è certa e non è oggetto di contestazione: un’organizzazione criminale, anche mediante la cooperazione di organizzazioni locali, si occupa di far entrare clandestinamente in Italia soggetti extracomunitari, prelevandoli dal luogo di origine e portandoli a destinazione in stato di cattività; li trattiene, in genere con modalità violente, e li libera soltanto quando ottiene il pagamento del prezzo del viaggio, di elevato tenore, in precedenza concordato.

Rispetto all’ipotesi tipica del sequestro di persona a scopo di estorsione, la fattispecie in esame presenta la caratteristica di sottendere un previo patto, di natura illecita, tra i membri del sodalizio criminoso e le vittime.

Situazioni simili non hanno ricevuto qualificazione giuridiche univoche ne dai giudici di merito, ne in sede di legittimità.

La giurisprudenza di questa Corte, in particolare, presenta due correnti interpretative.

Il primo orientamento prende le mosse da una sentenza della Sezione II (n. 9189 del 1 luglio- 7 ottobre 1993, Versaci ed altri, RV 195539) e ritiene che il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.) sussista soltanto se l’autore del sequestro abbia agito, in assenza di una causa preesistente, al fine specifico di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione; che non sia configurabile, invece, mancando tale specifico fine, quando il sequestro ed il perseguimento del profitto siano direttamente collegabili ad una precedente causa, ancorchè illecita (nello stesso senso, Cass, sez. VI, c.c. 20 gennaio 2000, p.m. in proc. Ekwelum; Cass., sez. V, u.p. 22 giugno 200, Zhng Xiaodong; Cass., Sez. II, u.p. 10 agosto 2000, Lu Hai).

Si tratta dell’orientamento prevalente, espresso, per altro, in relazione a vicende analoghe a quella che ha dato origine al presente processo, oppure in relazione a casi di sequestro di persona di trafficanti di droga che si erano rifiutati di corrispondere ai corrieri l’importo pattuito per una partita di stupefacenti, o di rivelare il luogo in cui il quantitativo di droga era custodito.

Il secondo filone interpretativo, opposto al precedente, fa capo ad una decisione della Sezione VI (sent. 7 gennaio- 9 maggio 1997, n. 4265, Jovanovich Branco, citata talvolta come Branco, secondo cui il carattere giusto o ingiusto del profitto va apprezzato non in base alla personale valutazione dell’autore del fatto, ma con riferimento a canoni obiettivi, che sono quelli legali, a secondo che la legge riconosca o meno protezione alle posizioni giuridiche soggettive; con la conseguenza che sussistono gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando l’agente persegua un profitto che derivi da un pregresso rapporto illecito (quale, nella fattispecie allora all’esame della Corte, quello relativo ad un rapporto di dare- avere in relazione ad una cessione di sostanza stupefacente).

La questione sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite è dunque, essenzialmente, quella della qualificabilità come sequestro di persona a scopo di estorsione, anziché come sequestro di persona semplice accompagnato da estorsione (consumata o tentata), della condotta consistente nel privare taluno della libertà personale al fine di ottenere, come prezzo della liberazione, l’adempimento di una precedente obbligazione, che tragga origine da un rapporto illecito.

In altre parole, per dirimere il contrasto di giurisprudenza occorre rispondere al seguente quesito: se la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione una prestazione patrimoniale, pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all’art. 630 c.p., ovvero il concorso del delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) e del delitto di estorsione, consumata o tentata (artt. 629, 56 c.p.).

Appare necessario procedere ad una disamina approfondita della struttura dei reati in questione, sottolineando che gli episodi attribuiti agli odierni imputati delimitano il thema decidendum alle fattispecie connotate da due dati di fatto: il contenuto strettamente patrimoniale della prestazione concordata; l’illiceità dell’accordo precedente.

Esulano, quindi, dal campo d’indagine altre tematiche, quali la nozione di profitto in generale e l’estensione del concetto di patrimoniali, o la figura delittuosa declinabile in caso di liceità del rapporto preesistente.

Va subito segnalato che a sostegno dell’orientamento prevalente si portano argomenti dettati piuttosto che da un approccio sistematico, da esigenze di ordine equitativo, che dichiaratamente risentono dei condizionamenti provenienti dal singolo caso concreto.

Nel passaggio motivazionale centrale della sentenza capofila si ammette che l’apparente significato letterale delle espressioni usate, nella formulazione dell’art. 630 c.p., avrebbe potuto anche giustificare una conclusione diversa da quella raggiunta; nel contempo si fa chiaramente intendere che alla scelta operata non è stata estranea anche la considerazione della eccezionale asprezza della pena prevista per la più grave ipotesi di reato in ballottaggio.

Si osserva, invero, che il modello cui si è ispirato il legislatore con le disposizioni dell’art. 630 c.p. e con le modifiche apportate in un momento storico caratterizzato dal gravissimo fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, nonché il ponderosissimo trattamento sanzionatorio, postulano, per la definizione della fattispecie, un’interpretazione restrittiva della norma, dovendosi ad essa attribuire un contenuto meno ampio di quello desumibili dall’apparente significato letterale delle espressioni usate; di talchè si pone l’accento sul fatto che la vittima viene sequestrata per esigere una preesistente pretesa (illecita) e non già per chiedere un prezzo per la sua liberazione, venendo così a mancare uno degli elementi indefettibili della norma incriminatrice.

La giurisprudenza opposta mette in rilievo, per contro, che è la natura stessa del pregresso rapporto a qualificare il profitto come giusto, o ingiusto; con la conseguenza che, una volta ravvisato il carattere ingiusto del profitto perseguito, non può procedersi ad ulteriori distinzioni e si deve riconoscere la sussistenza del delitto previsto dall’art. 630 c.p. tutte le volte che un soggetto viene sequestrato e viene chiesto un prezzo per la sua liberazione, di modo che è facilmente rilevabile lo stretto collegamento tra la condotta sequestratrice, il fine di lucro e la richiesta di pagamento del prezzo.

Questo Collegio ritiene che meriti di essere seguita la scelta ermeneutica del secondo orientamento, anche se minoritario; ne vanno dunque approfondite le premesse concettuali e logico giuridiche.

Il sequestro di persona a scopo di estorsione è tradizionalmente concepito quale reato complesso; è stato ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità una figura autonoma di reato, qualificabile, appunto, come reato complesso, poiché confluiscono in esso, in guisa di elementi costitutivi, fatti che costituirebbero per se stessi reato, ai sensi dell’art. 84 c.p.; si è escluso, inoltre, specificamente che esso possa considerarsi ipotesi delittuosa aggravata del sequestro di persona, dal qual si differenzia per il dolo specifico, che si concretizza nello scopo perseguito, per se o per gli altri, di un ingiusto profitto come prezzo della liberazione (così in particolare, Sez. V, 20 novembre 1991- 16 marzo 1992 n. 2837, PG in proc. Romano e altro, RV 189487; nello stesso senso: Sez. II, 15 ,marzo- 3 luglio 1990, n. 9552, Cipullo, RV 184781; sez. I, 21 marzo- 15 maggio 1980 n. 6183, Altieri, RV 145315).

È noto che per configurare un reato complesso è necessario che una norma di legge operi la fusione in un’unica ipotesi criminosa dei fatti costituenti reati autonomi.

In realtà, a ben vedere, la figura di reato delineata dall’art. 630, comma 1, c.p. si compone di una parte oggettiva- comportamentale (il sequestro di persona: chiunque sequestra una persona) e di una parte soggettiva- teleologica (allo scopo di conseguire… un ingiusto profitto come prezzo della liberazione): la componete materiale coincide anche nominalmente con il reato previsto dall’art. 605 c.p., del qual riproduce la rubrica; la componente subbiettiva è strutturata da una forma di dolo attinente al delitto di estorsione (art. 629 c.p.).

Si può dire che il legislatore ha connotato di dolo specifico una forma peculiare di violenza, delimitando l’area della violenza generica atta a configurare (in alternativa alla minaccia) l’estorsione, con quella forma particolare di violenza che è il sequestro di persona, cioè la privazione della libertà personale di un soggetto.

Di modo che la figura delineata dall’art. 630, comma 1, c.p., piuttosto che essere l’unione di due modelli criminosi semplici, il sequestro di persona e l’estorsione, risulta composta dall’elemento oggettivo del sequestro di persona, arricchito con elementi propri dell’estorsione.

Rispetto all’estorsione, invero, il verificarsi del danno ed il conseguimento del profitto ingiusto non costituiscono eventi in senso naturalistico necessari per la sussistenza del reato: mentre il danno finisce per identificarsi nella lesione arrecata dalla condotta dell’interesse protetto, il profitto ingiusto è solo oggetto del dolo specifico e rimane privo di rilevanza agli effetti della consumazione del reato.

In questo senso si può parlare più propriamente, come evidenzia la dottrina, di fattispecie a doppia specialità o a specialità reciproca.

In particolare, il legislatore ha ritenuto di dare funzione qualificante e specializzante del reato proprio all’elemento soggettivo: non può non essere evidenziata la funzione svolta nel delitto un esame dal dolo specifico.

È stato notato che la condotta della privazione della libertà si presta facilmente ad essere funzionale a scopi ulteriori; si che anche sotto il profilo della tecnica normativa, il legislatore ha delineato più fattispecie di sequestro qualificato di persona e ne ha affidato il tratto differenziale al dolo specifico, che ne ha condizionato anche la collocazione in titoli diversi del codice penale (v. la figura in esame e quella parallela di cui all’art. 289- bis c.p., il reato previsto dall’art. 3 della legge n. 718/1985, ovvero i tratti descrittivi degli ora abrogati artt. 522 e segg. c.p.).

Sotto questo aspetto può ritenersi ancora in certo qual modo giustificata la collocazione della fattispecie criminosa in esame nell’ambito della categoria dei delitti contro il patrimonio, tendendo a rimarcare la specifica intenzionalità dell’agente come condizione costitutiva del modello legale.

Se, invero, tale reato ha natura plurioffensiva, poiché l’oggetto della tutela penale si identifica sia nella libertà personale, sia nell’inviolabilità del patrimonio, il tratto che ha sempre costituito il suo elemento fondante è la mercificazione della persona umana: la persona è strumentalizzata in tutte le sue dimensioni, anche affettive e patrimoniali, rispetto al fine dell’agente; è, in altre parole, resa merce di scambio contro un prezzo, come risulta dalla stretta correlazione posta tra il fine del sequestro, il prezzo della liberazione (v. Cass. Sez. III, 24 giugno 1997, n. 8048, ric. PM in proc. Breshani ed altri, RV 209224).

A ben vedere, quando un soggetto viene tenuto sotto sequestro, inteso essenzialmente come privazione della libertà di movimento nello spazio secondo l’autonoma scelta di ciascuno, e per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l’azione tipica delineata dall’art. 630 c.p. risulta pienamente configurata, con la sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale profitto è ingiusto il reato si perfeziona.

L’organizzazione criminale che pattuisce un compenso per effettuare un’immigrazione clandestina ha come movente interno l’accordo con la vittima, ma si prefigge lo scopo di lucrare un profitto illecito quindi ingiusto) quale prezzo della liberazione della vittima stessa tenuta come vero e proprio ostaggio; la scomposizione di un fatto unitario, come tale previsto dall’art. 630 c.p., nei due reati semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra di confondere il movente retrostante col dolo specifico, fin dall’inizio ben delineato.

Come ha correttamente rilevato l’ordinanza di rimessione, invero, l’opposta soluzione è basata su di una lettura della norma che sovrappone due elementi, i quali nella norma sono distinti: l’ingiusto profitto ed il prezzo.

Il prezzo è la controprestazione che viene imposta quale corrispettivo della liberazione della persona: prezzo e liberazione sono i due poli dello specifico sinallagma.

La ricerca di questo corrispettivo può però essere volta a conseguire sia il vantaggio che deriva direttamente dal prezzo (e quindi ad ottenere un profitto comunque ingiusto), sia il vantaggio che deriva da un rapporto pregresso.

Se la pretesa dell’agente ha titolo, come nella specie, in un negozio avente causa illecita, il profitto perseguito è ingiusto; e non si vede perché se ad essa si accompagni la segregazione del soggetto passivo, e la liberazione di questo sia condizionata al pagamento di un prezzo, la condotta del sequestratore debba essere scissa in due fatti- reato- sequestro di persona ed estorsione, il secondo dei quali presuppone comunque l’ingiustizia del profitto.

Il binomio normativo ingiusto profitto come prezzo della liberazione non esclude che il perseguimento del prezzo del riscatto tragga il movente da preesistenti rapporti illeciti, limitandosi a collegare l’azione ricattatrice alla prospettiva della liberazione del sequestrato.

L’agente infatti non ha una pretesa tutelabile dalla legge da far valere; sicchè in realtà l’utilità non dovuta che il ricattatore persegue rappresenta null’altro che il corrispettivo della liberazione dell’ostaggio.

In definitiva può affermarsi che il delitto previsto dall’art. 630 c.p. è un reato plurioffensivo, nel quale l’elemento obiettivo del sequestro viene tipizzato dallo scopo di conseguire un profitto ingiusto dal prezzo della liberazione; ne consegue che ove ricorrano i due elementi della privazione della libertà personale e della finalità di ottenere un profitto come prezzo della liberazione, si verifica quella forma particolare di delitto che è prevista dall’art. 630 c.p.; ogni scissione del fatto unitario è priva di qualsiasi fondamento nella legge, in quanto si lucra un prezzo per la liberazione anche quando la vittima sia sequestrata per riscuotere, a mezzo della sua liberazione, un vantaggio patrimoniale ingiusto che trovi la sua causa in un rapporto già esistente tra sequestratore e vittima.

La menzione specifica del prezzo della liberazione ha la funzione di sottrarre all’area di applicabilità dell’art. 630 c.p. fatti di sequestro di persona in cui l’ingiusta utilità perseguita non si pone come corrispettivo per la liberazione dell’ostaggio, ma ad altro titolo, come ad esempio quando l’agente pretenda un compenso per rendere meno gravosa la condizione del sequestrato.

Pertanto alla domanda se la condotta criminosa consistente nella privazione della libertà di una persona, finalizzata a conseguire come prezzo della liberazione un prestazione patrimoniale, anche se pretesa in esecuzione di un precedente rapporto illecito, integri il delitto, di cui all’art. 630 c.p., occorre dare risposta affermativa.

Questo inquadramento sistematico fornisce un chiaro criterio ermeneutico del tutto aderente al testo ed alla ratio della norma, rendendo non necessaria la ricostruzione dell’evoluzione storica della fattispecie criminosa in esame, che sarebbe utile, al più, ad illustrare l’occasio legis.

Al contrario si può solo accennare, del tutto sinteticamente, che il sequestro estorsivo è un delitto dalle origini antiche (il ricatto), il quale si è andato di volta in volta adeguando ai tempi ed alle diverse forme di sfruttamento economico della persona prigioniera, modernizzandosi e rinnovando i suoi profili socio- economici e criminologici: si che volerne limitare la lettura alla mera matrice storica appare operazione impropriamente limitativa.

Il detto inquadramento torna, per altro, di stretta attualità ed è perfettamente riferibile al caso in esame, il cui disvalore sociale consiste proprio nella stretta correlazione tra la persona oggetto e la sua utilizzazione a fini di spostamento di ricchezze verso organizzazioni criminali, con conseguente potenziamento delle stesse e crescente pericolo per la collettività.

La conclusione delle argomentazioni fin qui svolte comporta che i fatti ritenuti dalla sentenza impugnata come integranti le autonome ipotesi di sequestro di persona di estorsione (in un caso di tentata estorsione) devono essere, invece, qualificati come sequestro di persona a scopo di estorsione, in accoglimento del ricorso del PG territoriale.

È appena il caso di rilevare che nella specie si tratta di reati consumati, atteso che, come in precedenza rilevato, l’art. 630 c.p. non richiede per la consumazione del reato come elemento necessario il fatto che l’agente abbia effettivamente conseguito l’ingiusto profitto avuto di mira (negli episodi contestati agli imputati, per altro, il prezzo è stato sempre riscosso, tranne che in un caso).

Ne consegue che la sentenza della Corte bolognese deve essere annullata sul punto; ulteriore conseguenza è che tornano a rivivere i reati ritenuti dal primo giudice e che si rende necessaria la rideterminazione finale della pena, dovendosi rinviare per questo incombente ad altra sezione della stessa Corte di Appello, la qual terrà conto dei ristretti limiti entro cui essa è tenuta ad operare.

Si è formato, infatti, il giudicato sulla colpevolezza di tutti gli imputati; sulla qualificazione giuridica dei fatti addebitati; sulla inapplicabilità della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p.; sull’applicazione, per converso, delle attenuanti generiche per tutti gli imputati con la riduzione massima di un terzo della pena, come già computata dal GUP: sull’applicazione dell’istituto della continuazione; sul calcolo della diminuente per la scelta del rito.

Poiché residua soltanto la doglianza, contenuta negli atti di gravame e comune a tutti gli imputati, della eccessività della pena, il giudice del rinvio dovrà limitarsi ad esaminare se tale doglianza meriti o meno accoglimento e se vi siano margini per una eventuale riduzione della pena inflitta dal giudice di primo grado.

La soluzione data alle questioni sollevate dai ricorrenti, mentre ha condotto ad accogliere il ricorso del PG, comporta il rigetto dei ricorsi degli imputati, con la specificazione che il terzo argomento di indagine devoluto a questo Collegio, ossia i motivi attinenti al giudizio di comparazione tra circostanze di segno contrario ed all’aumento di pena operato dalla Corte di Appello per la continuazione (v. pag. 10 della presente sentenza), resta assorbito.

Segue la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali

PQM

Qualificati come sequestri di persona a scopo di estorsione i fatti ritenuti dalla sentenza impugnata come integranti le autonome ipotesi di sequestro di persona e di estorsione, annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna per la determinazione della pena.

Rigetta i ricorsi degli imputati, che condanna in solido alle spese del processo.

Depositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.