Imprese ed Aziende
CONTRIBUTO DI MOBILITA – ESENZIONE PER LE IMPRESE AMMESSE A CONCORDATO PREVENTIVO. Sentenza 12 Marzo 2003 .3597
CONTRIBUTO DI MOBILITA
ESENZIONE PER LE IMPRESE AMMESSE A CONCORDATO PREVENTIVO
Sentenza 12 Marzo 2003 .3597
(Sezioni Unite Civili – Presidente G. Ianniruberto – Relatore G. Prestipino)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso del 3 gennaio 1996 la s.p.a. (omissis) conveniva davanti al Pretore del lavoro di Verona (omissis) ed esponeva (per quanto ancora interessa) che, essendo stata ammessa al procedimento di concordato preventivo con cessione dei beni con decreto emanato dal Tribunale di Verona il l° luglio 1994 ed avendo immediatamente (il 22 luglio successivo) dato corso alla relativa procedura, il 7 agosto 1994 aveva posto in mobilità tutti i lavoratori dipendenti.
La ricorrente aggiungeva che non aveva corrisposto all’ente previdenziale, per ciascun lavoratore, la somma prevista dall’art.5, quarto comma, l. 23 luglio1991 n. 223, perché aveva ritenuto che ricorressero le condizioni previste dal precedente art. 3, terzo comma, della medesima legge,ma che tale comportamento era stato considerato illegittimo dall’(omissis), il quale l’aveva diffidata a versare la somma complessiva di L. 1.217.529.921 per contributo di mobilità e per somme aggiuntive.
In base a tutte queste premesse la società ricorrente chiedeva che fosse dichiarato il suo diritto ad essere esentata dal pagamento della somma sopra indicata.
Costituitosi in giudizio, l’(omissis) convenuto contestava la fondatezza della pretesa avversaria, di cui chiedeva il rigetto, eccependo che la procedura di mobilità era stata avviata prima, e non dopo, che fosse emessa la sentenza di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni; in via riconvenzionale, quindi, chiedeva che la società (omissis) fosse condannata a pagargli la suddetta somma di L. 1.217.529.921, con gli accessori previsti dalla legge.
Con sentenza del 17 gennaio 1998 il Pretore, ritenuta illegittima la pretesa fatta valere dall’(omissis), accoglieva la domanda principale della società (omissis) e rigettava la domanda riconvenzionale.
Avendo l’(omissis) proposto appello, a conclusione del relativo giudizio – nel quale si era costituito il curatore del fallimento della società (omissis) (dichiarato il 7 agosto 1998) – il Tribunale di Verona, con sentenza del 23febbraio 1999, rigettava la domanda principale proposta davanti al primo giudice dalla società (omissis), compensando fra le parti le pese del grado.
Il Tribunale osservava che l’art. 3, terzo comma, della legge n. 223 del 1991 deve essere interpretato nel senso che il legislatore ha voluto basare il beneficio della esenzione dal pagamento della somma prevista dal successivo art. 5, quarto comma, all’esito di una fase giudiziale di controllo dello stato di decozione dell’azienda, con la conseguenza che il beneficio stesso può essere invocato solamente se la procedura di mobilità venga posta in essere dal liquidatore del concordato preventivo dopo l’emanazione della sentenza di omologazione. Il giudice dell’appello poi rilevava che questa interpretazione trova conferma nella modifica che lo stesso legislatore ha successivamente apportato al suddetto art. 3, peraltro limitatamente al primo comma che è relativo al trattamento di integrazione salariale, per rimarcare la differenza esistente fra quest’ultimo istituto e quello della mobilità, l’uno rivolto a garantire 1’eventuale ripresa economica dell’azienda in difficoltà, l’altro diretto alla tutela degli interessi dei lavoratori.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il fallimento della società (omissis), che ha dedotto un unico motivo.
Ha resistito con controricorso l’(omissis), che ha proposto ricorso incidentale, pure articolato in un l’unico motivo, poi illustrato da memoria.
I ricorsi sono stati assegnati dal Primo Presidente alle Sezioni Unite della Corte per la soluzione di un contrasto sorto all’interno della Corte medesima sull’interpretazione che deve essere data alla disposizione contenuta nell’art. 3, terzo comma, l. 23 luglio 1991 n. 223.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disposta, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi, trattandosi di impugnazioni contro la stessa sentenza.
Con l’unico motivo dell’impugnazione principale il fallimento ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 3, terzo comma, l. 23 luglio 1991 n. 223, in relazione all’art. 360, primo comma n. 3, c.p.c. e sostiene che il Tribunale non ha considerato che, come era stato affermato nella sentenza resa a conclusione del giudizio di primo grado, la modifica legislativa apportata dall’art. 7 d.l. 20 maggio 1993 n. 141, convertito in l. 19 luglio 1993 n. 236, al primo comma dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991 ha esplicato la sua efficacia anche sulla disposizione contenuta nel successivo terzo comma, con la conseguenza che il beneficio dalla esenzione dai pagamento del c.d. contributo di mobilità, al pari di quanto è ora previsto per l’ipotesi di ammissione al trattamento straordinario di integrazione salariale, deve essere concesso qualora la procedura di mobilità sia avviata anche prima che venga emanata la sentenza di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni. Aggiunge il ricorrente che la contraria interpretazione data dall’INPS alla disposizione di legge e condivisa dal Tribunale di Verona; secondo cui soltanto il liquidatore nominato con la sentenza di omologazione del concordato è legittimato a dar corso alla procedura di mobilità, è contraria alla ratio della suddetta modifica introdotta nel 1993, dal momento che il legislatore, nel sistema della legge n. 223 del 1991 e pur tenendo presenti le distinte finalità cui tendono i due diversi istituti, ha voluto porre 1e medesime condizioni perché, in caso di concordato preventivo con cessione di beni, si possa far luogo sia al procedimento di trattamento straordinario di integrazione salariale, sia a quello di mobilità.
Il ricorso è fondato.
Il primo comma dell’art. 3 l. 23 luglio 1991 n. 223, nel testo originario, stabiliva che in casi particolari, tutti relativi all’apertura di un procedimento concorsuale – la cui pendenza, di per sé, rende evidente l’esistenza di una situazione di crisi aziendale che non ha bisogno di essere ulteriormente dichiarata e, inoltre, non richiedendosi nemmeno la presentazione di un programma di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale (secondo la generale disciplina dettata per tutte le altre imprese) – il trattamento straordinario di integrazione salariale poteva essere concesso alla seguente, duplice condizione (oltre a quella inerente al requisito dimensionale, essendo necessario l’impiego di più di quindici dipendenti nel semestre precedente la data di presentazione della richiesta: v. il precedente art. 1): a) qualora l’impresa fosse sottoposta a fallimento o a liquidazione coatta amministrativa o ad amministrazione straordinaria ovvero fosse emanata nei suoi confronti sentenza di omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni; b) qualora l’attività imprenditoriale fosse già cessata o, se non ancora cessata, se non ne fosse stata disposta la continuazione. Il beneficio poteva essere concesso “su domanda del curatore, del liquidatore o del commissario, per un periodo non superiore a dodici mesi”.
A norma del secondo comma, il trattamento poteva essere prorogato per un ulteriore periodo non superiore ai sei mesi, “quando sussistano fondate prospettive di continuazione o ripresa dell’attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione”, da realizzarsi “tramite la cessione, a qualunque titolo, dell’azienda o di sue parti”, la cui concreta prospettiva doveva essere avvalorata “da una relazione approvata dal giudice delegato o dall’autorità che esercita. il controllo”.
Il terzo comma dell’articolo, inoltre, disponeva che, in presenza di determinate condizioni e cioé quando si riteneva che l’attività imprenditoriale non potesse continuare “anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti” oppure che i livelli occupazionali potessero essere salvaguardati solo in parte “il curatore, il liquidatore o il commissario hanno facoltà di collocare in mobilità, ai sensi dell’articolo 4 ovvero dell’articolo 24, i lavoratori eccedenti”. In tale ipotesi era stato pure espressamente previsto che non fosse dovuto, per ciascun lavoratore destinatario della procedura di mobilità, il contributo posto a carico dell’impresa dal successivo art. 5, quarto comma (versamento in trenta rate mensili di una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore, somma ridotta alla metà in caso di accordo sindacale).
Il primo comma dell’ articolo in esame è stato modificato dall’art. 7, ottavo comma, d.l. 20 maggio 1993 n. 148, convertito in l. 19 luglio 1993 n. 236, con il quale è stato previsto che, in caso di, concordato preventivo con cessione dei beni, il beneficio del trattamento straordinario di integrazione salariale possa essere chiesto anche prima dell’emanazione della sentenza di omologazione ed è stato disposto che “in caso di mancata omologazione, il periodo di integrazione salariale fruito dai lavoratori sarà detratto da quello previsto nei casi di dichiarazione di fallimento”.
Nessuna modificazione hanno subito i commi secondo e terzo dell’art. 3, rimasti inalterati nella loro originaria formulazione.
Mentre prima della modifica di cui si è parlato non risulta che fosse sorta questione, a livello sia teorico che pratico, sull’interpretazione delle disposizioni delle quali è stato riportato il contenuto, l’entrata in vigore della norma che ha modificato la disciplina dettata per la cassa integrazione guadagni straordinaria in caso di concordato preventivo con cessione dei beni, ha dato luogo ad una divergenza di opinioni, che ha avuto riflessi anche sulla giurisprudenza di legittimità.
In base ad un primo indirizzo è stato affermato che la modifica legislativa ha inciso solamente sulla disposizione che regola il trattamento straordinario di. integrazione salariale, dato che tale beneficio può essere ora usufruito, sempreché sia stato emanato il decreto previsto dall’art. 163 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, sia prima che dopo l’intervenuta omologazione del concordato preventivo con cessione dei beni da parte del competente tribunale; ma, in pari tempo, è stato sostenuto che nessuna variazione si è verificata nella disciplina relativa alla procedura della mobilità, in relazione alla quale, per conseguenza, l’esenzione dal pagamento del contributo previsto dall’art. 5, quarto comma, della legge n. 223 del 1991, può essere chiesta solamente se la procedura venga avviata dopo, e non prima, l’emanazione della sentenza di omologazione del concordato (Cass. 4 aprile 2001 n. 5034 e Cass. 28 giugno 2001 n. 8874).
Secondo un altro indirizzo è stato rilevato che la modificazione apportata al primo comma dell’art. 3 ha prodotto i suoi effetti anche riguardo alla disciplina dettata nel terzo comma, nel senso che non solo il primo beneficio (quello inerente al trattamento straordinario di integrazione salariale), ma anche l’altro (l’esonero dal versamento del contributo di mobilità) può essere sempre richiesto qualora, una volta emanato il decreto di ammissione al procedimento di concordato, da parte dell’impresa sia posta in essere nei confronti dei lavoratori la procedura di mobilità, anche se in epoca antecedente alla sentenza che omologa il concordato (Cass. 13 aprile 2001 n. 5588, la quale, per la verità, era stata chiamata a pronunciarsi su una questione riguardante il periodo precedente l’entrata in vigore della norma di modifica sopra indicata).
Questo contrasto ha determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Le ragioni che vengono addotte a fondamento del primo indirizzo sono le seguenti.
Si trae argomento, proprio per sottolineare l’eccezionalità della disciplina che ammette l’esonero dal pagamento del contributo di mobilità, dal tenore letterale della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 3, che è rimasta inalterata, come si è detto, anche dopo la modifica apportata al primo comma e che fa riferimento alle figure del curatore, del liquidatore e del commissario, le quali andrebbero collegate, rispettivamente, al fallimento, al concordato preventivo con cessione dei beni, alla liquidazione coatta amministrativa e alla amministrazione straordinaria: ciò a significare che il beneficio previsto per la procedura di mobilità, in caso di apertura di procedimenti concorsuali, può essere riconosciuto all’esito di un provvedimento giurisdizionale che accerti lo stato di decozione dell’impresa, avuto riguardo, quanto al concordato, al fatto che la relativa esecuzione con la liquidazione dei beni, ha inizio solo dopo la sentenza di omologazione.
Si aggiunge che la differente disciplina, risultante dalla modifica legislativa apportata al primo comma dell’articolo, quanto al concordato preventivo con cessione dei beni si giustifica con le distinte finalità cui tendono i due diversi benefici previsti dall’ordinamento lavoristico per le imprese in crisi, il trattamento straordinario di integrazione salariale essendo diretto a rendere possibile la ripresa dell’attività produttiva e la salvaguardia del posto di lavoro dei dipendenti, la mobilità essendo invece rivolta ad assicurare ai lavoratori, che subiscono la risoluzione del rapporto di lavoro, un sostegno economico per il tempo immediatamente successivo al licenziamento).
Si rileva, infine, che tale interpretazione è conforme alla ratio che sovrintende alle disposizioni dettate per tutte le procedure concorsuali prese in considerazione dall’art. 3 della legge n. 223 del 1991, dal momento che il legislatore ha voluto evitare che un qualsiasi credito possa gravare sulla massa attiva da liquidare e ha così disposto l’abbuono del credito che sorgerebbe in capo all’(omissis) a far tempo dalla sentenza che omologa il concordato (o che non lo omologa, perché in tal caso viene dichiarato il fallimento dell’impresa).
A sostegno del secondo indirizzo vengono svolte le seguenti argomentazioni.
Si afferma, in primo luogo, che le disposizioni contenute nei commi primo e terzo dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991 sono intimamente fra loro collegate e che il collegamento è dato dal fatto che i presupposti per l’adozione delle due procedure previste a beneficio dei lavoratori dipendenti sono del tutto identici. Si precisa, al riguardo, che al contrario di quanto è disposto, in generale, per il trattamento straordinario di integrazione salariale in relazione al quale l’intervento è concesso per dare un sostegno temporaneo ai processi di ristrutturazione, riorganizzazione o conversione aziendale posti in essere dall’imprenditore (art. 1, terzo comma, della regge n. 223 del 1991) e, quindi, in vista della ripresa dell’attività produttiva con il completo riassorbimento della manodopera temporaneamente sospesa nel caso contemplato dall’art. 3, primo comma, occorre che “la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”. Trattasi, quindi, del medesimo presupposto pure previsto dal successivo terzo comma, il quale, con analoga locuzione, stabilisce che la facoltà di collocare in mobilità i lavoratori può essere esercitata “quando non sia possibile la continuazione dell’attività”, con la conseguenza che in entrambi i casi, si è in presenza di una situazione di crisi aziendale del tutto irreversibile.
Si rileva, poi, che la disposizione posta a modifica del primo comma dell’art. 3 è stata emanata allo scopo di impedire che possa lievitare la massa passiva dell’impresa sottoposta a concordato preventivo con cessione dei beni, dato che la possibilità di usufruire del trattamento di integrazione salariale, fin dal momento in cui l’impresa stessa viene ammessa al procedimento di concordato e senza dover attendere la sentenza di omologazione, esonera l’imprenditore dall’obbligo del pagamento delle retribuzioni. inerenti ai rapporti. di lavoro con i dipendenti. Allo stesso risultato, peraltro, perviene in relazione all’ipotesi prevista dal terzo comma, giacché, dando a tale comma il suo esatto significato, l’esonero dal versamento del contributo di mobilità, qualora la procedura di mobilità sia chiesta subito dopo l’emanazione del decreto di ammissione al concordato preventivo con cessione dei beni, ha, del pari, lo scopo di porre limiti alle passività dell’impresa e permette ai creditori il soddisfacimento delle loro pretese usufruendo di una percentuale di maggiore ammontare.
Da questi rilievi viene tratta la conseguenza che, l’intima connessione esistente tra i commi primo e terzo dell’art. 3 e risultante dalla complessiva struttura delle due norme (nella formulazione originaria) è rimasta inalterata anche dopo la disposta modifica legislativa. Sicché a nulla rileva che il legislatore del 1993, dopo essere intervenuto sul primo comma, abbia lasciato immutato il terzo, dato che non occorreva procedere a rimodellare la disposizione che menzionava le figure del curatore, del commissario e del liquidatore – corrispondenti in origine, parallelamente, ai quattro procedimenti concorsuali presi in considerazione dal primo comma: fallimento=curatore, concordato preventivo con cessione dei beni e liquidazione coatta amministrativa=liquidatore, amministrazione straordinaria=commissario), dopo l’intervenuta modifica legislativa essendosi verificata, con analogo riscontro, un’eguale parallela corrispondenza (fallimento=curatore, concordato preventivo con cessione dei beni e amministrazione straordinaria=commissario, liquidazione coatta amministrativa=liquidatore).
Queste argomentazioni sono state condivise in dottrina, la quale, pur non mancando di sottolineare l’anomalia che comunque deriva dall’una o dall’altra opzione interpretativa considerato che il legislatore ha imposto ad un organo, sia esso il commissario o il liquidatore, che è privo dei poteri di gestione dell’impresa (i quali in caso di concordato preventivo, anche con cessione dei beni, rimangono in capo all’imprenditore), di incidere su tale gestione, prendendo provvedimenti che riguardano i lavoratori tramite la valutazione che della possibilità o no di ripresa dell’attività produttiva ha precisato che, ad aderire alla contraria interpretazione, si finirebbe con l’aggravare i costi del concordato a svantaggio di tutti i creditori (ivi compresi i lavoratori) , i quali potrebbero veder decurtate le loro pretese a beneficio di uno solo di essi (l’(omissis) al quale dovrebbe essere versato un contributo previsto dall’art. 5, comma 4, della legge): l’ imprenditore, infatti, ricorrendo l’ipotesi della cessazione dell’attività produttiva prima dell’omologazione del concordato, sarebbe costretto o a tenere in vita i rapporti di lavoro o a licenziare i dipendenti ben sapendo in questa seconda ipotesi di dover versare all’(omissis) il contributo di mobilità nell’uno e nell’altro caso derivando dalla scelta operata un aggravio di costi per l’impresa a danno dei creditori concordatari. Si sottolinea, in proposito, che il contributo c.d. di ingresso è stato previsto dall’art. 5, quarto comma, della legge n. 223 del 1991 proprio allo scopo di disincentivare la procedura di mobilità, il che può avere valore per l’impresa in bonis, ma non certamente per quella in stato di decozione (quale è pure l’impresa che chiede l’ammissione al procedimento di concordato preventivo con cessione dei beni).
Entrambi gli indirizzi hanno il torto di procedere all’interpretazione della disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 3 della legge n. 223 del 1991 facendo riferimento alla intervenuta modifica del primo comma e finiscono, quindi., con il trascurare l’esatto significato che deve essere assegnato alla norma in questione in base alla sua originaria (ed immutata) formulazione.
Come è stato disposto nel precedente punto I, il beneficio della cassa integrazione guadagni straordinaria, per le imprese sottoposte ai procedimenti esecutivi concorsuali menzionati nell’art. 3 della legge n. 223 del 1991, può essere concesso, ai sensi del primo comma dell’articolo, se l’attività imprenditoriale sia già cessata o se della stessa non venga disposta la continuazione. Analogamente, la proroga può essere chiesta – oltre che nel caso che si preveda il mantenimento, anche parziale, del posto di lavoro dei dipendenti per effetto di una auspicata cessione dell’azienda o di sue parti – “quando sussistano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività”. Secondo il testo originario del primo comma, nel quale, come si é detto sopra, era fatto specifico riferimento alla “omologazione”, era evidente che, quanto al concordato con cessione dei beni, fra le tre figure menzionate nel medesimo comma, ultimo periodo (il curatore, il commissario, il liquidatore), l’organo legittimato a proporre la domanda non poteva che essere il liquidatore, il quale, come è noto, viene nominato dal tribunale fallimentare, ai sensi dell’ art. 182 del r.d. n . 267 del 1942, con la sentenza che omologa il concordato con la cessione dei beni.
Dalla modifica apportata dall’art. 7 del d.l. n. 148 del 1993, convertito nella legge n. 236 del 1993, con la quale è stato disposto che il trattamento di integrazione salariale può essere chiesto sia prima che dopo l’emanazione della sentenza di omologazione, è derivato che legittimati a chiedere il beneficio ora sono o il commissario giudiziale (nominato con il decreto previsto dall’art. 163 del r.d. n. 267 del 1942) o il liquidatore, a seconda che la condizione alla quale la legge collega il beneficio stesso (l’impossibilità di proseguire l’attività imprenditoriale) si verifichi (o si sia già verificata) quando é emanato il decreto di ammissione al procedimento concorsuale oppure successivamente, dopo la sentenza di omologazione. In altre parole, poiché la condizione indicata (con la relativa valutazione che della situazione di fatto deve essere effettuata) può sorgere non solo dopo la sentenza di omologazione, ma anche in un momento precedente, con la norma modificatrice il legislatore ha sanato la discrepanza esistente nel sistema ed ha attribuito anche al commissario giudiziale, in via eccezionale, quello specifico potere di gestione dell’attività o imprenditoriale che in precedenza aveva assegnato, pure in via eccezionale, esclusivamente al liquidatore. Non solo al liquidatore, ma anche al commissario, per conseguenza, in deroga alla disposizione contenuta nel primo comma dell’art. 167 del r.d. n. 267 del 1942 secondo cui il debitore mantiene durante tutto il corso del procedimento “l’amministrazione dei suoi beni e l’esercizio dell’impresa” è stato conferito, proprio per consentire una più pregnante tutela di determinati interessi socialmente rilevanti, il potere di valutare, in prospettiva, la possibilità di continuare (anche tramite la cessione dell’azienda) l’attività imprenditoriale; e, in caso affermativo, di chiedere per i lavoratori dipendenti il trattamento di integrazione salariale (e, eventualmente, di domandare anche la relativa proroga, ai sensi del secondo comma dell’articolo in esame).
Peraltro, dalla verifica (o, anche, da un successivo rinnovato esame) della complessiva situazione economico-finanziaria collegata all’attività imprenditoriale, compiuta dagli organi sopra indicati, può derivare la constatazione dell’impossibilità di proseguire l’attività “anche tramite cessione dell’azienda o di sue parti” o, comunque, può essere recepita la conferma che i livelli occupazionali non possono essere salvaguardati (o possono essere salvaguardati solo in parte). Il che implica, a norma del terzo comma dell’ art. 3 – interpretato in base al suo tenore letterale e alla sua ratio – la decisione di collocare in mobilità il personale dipendente (in tutto o in parte), in esplicazione di un eccezionale potere di gestione dell’impresa fin dall’origine conferito, a seconda del momento in cui sorga la necessità, sia al commissario giudiziale, sia al liquidatore.
Questi rilievi dimostrano, in primo luogo, che la sopra rilevata discrepanza esistente nel sistema (conferimento al solo liquidatore del potere di chiedere il trattamento straordinario di integrazione salariale), poi eliminata con la disposizione modificatrice contenuta nell’art. 7 del d.l. n. 148 del 1993, convertito nella legge n. 236 del 1993 – anche allo scopo di contenere i costi del procedimento concorsuale e di impedire l’aumento oltre una ragionevole misura della massa passiva – riguardava solamente il primo comma dell’art. 3, mentre, già dal momento dell’entrata in vigore della legge n. 223 dei 1991, in base al terzo comma del medesimo articolo il potere di disporre la procedura di mobilità non era limitato al solo liquidatore; e, in secondo luogo, che l’esercizio di tale potere – anche da parte del commissario giudiziale, se posto in essere prima della emanazione della sentenza di omologazione del concordato – ha sempre determinato l’applicazione della disposizione risultante dall’ultimo periodo del medesimo terzo comma, secondo cui “il contributo a carico dell’impresa, previsto dall’ art . 5, comma 4, non è dovuto”.
Nei termini appena indicati, che non riflettono alcuno dei due sopra indicati indirizzi giurisprudenziali, va composto il contrasto che ha determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. E poiché nel caso in esame è pacifico che i lavoratori dipendenti dalla società (omissis) erano stati collocati in mobilità dal commissario giudiziale del concordato preventivo dopo l’apertura di tale procedimento (anche se prima della sentenza di omologazione), il ricorso principale deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione a tale ricorso; e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384, primo comma, c.p.c., deve essere accolta la domanda proposta dalla suddetta società nel giudizio di primo grado e deve essere dichiarato il diritto della medesima società (ora dei relativo fallimento) all’esonero dal versamento all’(omissis) del contributo di mobilità previsto dall’art. 5, quarto comma, della legge n. 223 del 1991.
Passando all’esame dell’impugnazione incidentale proposta dall’Istituto previdenziale, quest’ultimo con l’unico motivo deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e vizi di motivazione (art. 360, primo comma n. 3 e 5, c.p.c.) e lamenta che il Tribunale abbia del tutto omesso di pronunciare sulla sua domanda riconvenzionale avente per oggetto la condanna della controparte al pagamento della complessiva somma di L. 1.217.529.921, oltre agli interessi legali.
Pure questo motivo è fondato, dal momento che, come risulta dalla sentenza impugnata, il Tribunale di Verona ha omesso qualsiasi pronuncia sulla domanda riconvenzionale proposta dall’(omissis), incorrendo, in tal modo, nel vizio di cui all’art. 112 c.p.c. denunciato dall’Istituto. Anche il ricorso incidentale, per conseguenza, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata pure in relazione a tale ricorso, con rinvio della causa – trattandosi di un vizio che non consente la pronuncia nel merito da parte di questa Corte – ad un altro giudice.
Quest’ultimo, che si designa nella Corte di appello di Brescia, provvederà anche sulle spese della presente fase del giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, cassa la sentenza impugnata in relazione a tale ricorso e, decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta dalla società (omissis) (poi dichiarata fallita) contro l’(omissis), dichiarando il diritto del fallimento all’esonero dal versamento del contributo di mobilità. Accoglie altresì il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata pure in relazione a tale ricorso e rinvia la causa alla Corte di appello di Brescia, che pronuncia anche sulle spese del giudizio di cassazione.