Penale

Wednesday 24 May 2006

Con la sentenza di patteggiamento il giudice può revocare la condizionale in precedenza concessa.

Con la sentenza di patteggiamento il giudice può revocare la condizionale in
precedenza concessa.

Cassazione – Su
penali – sentenza 29 novembre 2005-23 maggio 2006, n. 17781

Presidente Marvulli – Relatore De
Roberto

Rilevato in fatto

1. Il Giudice dell’udienza
preliminare del Tribunale di Brescia, con sentenza 1° marzo 2004, applicava a
Diop Oumar, sulla concorde richiesta delle parti, la pena di mesi tre di
reclusione ed euro 600 di multa per il reato continuato di illecita
cessione a terzi di hashish pari a grammi 1,9, tenuto conto della contestata
recidiva specifica infraquinquennale; con lo stesso provvedimento revocava la
sospensione condizionale della pena concessa, prima dal Tribunale di Bergamo,
con sentenza 27 luglio 2001 (in ordine al reato di cui all’articolo 73, comma
1, del Dpr 309/90), poi dal Tribunale di Brescia, con sentenza 11 marzo 2003
(relativamente al reato di resistenza a pubblico ufficiale).

2. I difensori di Diop Oumar
hanno proposto ricorso per inosservanza ed erronea applicazione degli articoli
168 Cp e 444 Cpp ed hanno chiesto l’annullamento della sentenza nella parte in
cui ha disposto la revoca delle sospensioni condizionali precedentemente
concesse, deducendo che la revoca valica i limiti dell’accordo tra le parti e
si fonda sull’erroneo presupposto che la sentenza di patteggiamento implichi
l’accertamento della responsabilità dell’imputato; un principio contrastante
con la consolidata giurisprudenza delle Su della Corte di cassazione le quali
hanno più volte statuito che la sentenza che applica la pena su richiesta non è
titolo idoneo per la revoca, a norma dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp,
considerate le differenze formali, strutturali, genetiche e funzionali rispetto
alla decisione di condanna.

3. Con ordinanza 13 maggio 2005,
la Sezione quarta di questa Corte, cui il ricorso è stato assegnato, ha rimesso
il ricorso stesso alle Su perché riesaminino, anche
alla luce della nuova disciplina introdotta dalla legge 134/03, la questione
concernente la revoca della sospensione condizionale della pena, in forza
dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp, a seguito di una sentenza di applicazione
della pena su richiesta delle parti.

Il rapporto tra i profili negoziali dell’accordo delle parti sulla pena e i poteri del
giudice nella valutazione di detto accordo sono posti a base della questione
sollevata, così da introdurre una tematica che travalica la specifica
questione, per incentrarsi sulla natura della sentenza che applica la pena su
richiesta.

Sono così evidenziati i momenti
più significanti dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale che mentre, per un verso, ha riconosciuto al giudice il
sindacato sulla congruità della pena (sentenza 313/90) e, dunque, un potere di
controllo nel merito; per un altro verso, ha valorizzato il profilo negoziale
dell’accordo, segnalando le peculiarità della sentenza di patteggiamento
contrassegnata dall’assenza di un accertamento pieno e completo di
responsabilità (sentenza 155/96; nonché sentenze 251/91, 499/95, 172/98;
ordinanza 399/97); pur non mancando di evidenziare che nella sentenza che
applica la pena su richiesta non sono assenti aspetti di una pronuncia di
merito e statuente sulla pena; in un quadro in gran parte condizionato dalle
proposizioni interpretative che si andavano profilando nella giurisprudenza
delle Su della Corte di cassazione.

In questa stessa prospettiva
critica, l’ordinanza di rimessione prende in esame le pronunce delle Su di questa Corte, delle cui pone in luce quello che
può definirsi, secondo i tracciati interpretativi percorsi dalla Sezione
quarta, una sorta di sincretismo ricostruttivo nell’individuazione del punto di
rilevanza ermeneutica (accordo delle parti o controllo giurisdizionale) da
ritenere esponenziale.

Così il rapporto tra contenuto negoziale dell’accordo e poteri della giurisdizione è stato
esaminato in base al criterio della natura discrezionale o vincolata delle
determinazioni giudiziali, che vale a discriminare i casi in cui l’accordo non
è modificabile da parte del giudice, dai casi in cui, essendo la determinazione
giudiziale vincolata alla legge, il profilo negoziale deve necessariamente
soccombere (Su, 11 maggio 1993, Zanlorenzi).

Il contenuto volitivo
dell’accordo, quale presupposto per accedere al procedimento,
è stato ritenuto, altre volte, elemento condizionante al fine di verificare se
le parti abbiano inteso vincolare o no il giudice a determinate conclusioni: si
è così affermato che l’accordo sulla sospensione condizionale, a cui non sia
subordinata la complessiva richiesta di applicazione della pena, consente di
pronunciare la sentenza di patteggiamento senza concedere il richiesto
beneficio (Su, 11 maggio 1993, Iovine).

Entro i confini tracciati, da un
lato, dai profili di negozialità e dall’altro lato, dall’esercizio dei poteri
della giurisdizione si muovono, poi, altre sentenze delle Su
(in particolare, Su, 8 maggio 1996, De Leo; Su, 26 febbraio 1997, Bahrouni
Makerem, attenta a definire il controllo del giudice come “estrinseco”,
riservando un ruolo preminente all’accordo delle parti; Su, 28 maggio 1997,
Lisuzzo, che nega la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per
prescrizione sulla base del giudizio di comparazione tra circostanze,
affermando che, in caso contrario, si utilizzerebbe solo una parte
dell’accordo; ed ancora, Su, 21 giugno 2000, Franzo, che aggiunge come
l’accoglimento dell’accordo delle parti sulla pena, motivato anche con il
riconoscimento di circostanze aggravanti ed attenuanti, non implica un
accertamento sulla loro sussistenza, giacché esse sono valutabili solo per la
determinazione della pena).

Come conclusione provvisoria,
tesa a giustificare le divergenti linee interpretative, si assegna una
significazione decisiva sia ai profili processuali sia ai profili
sostanziali dell’istituto, nell’ambito dei quali l’accordo assume il ruolo di
fonte di legittimazione della pena patteggiata che, altrimenti, nonostante la
statuizione contenuta nella sentenza costituzionale 313/90, “sarebbe
caratterizzata da un’incontrollabile irrazionalità distributiva”.

Si aggiunge, poi, e, ancora una
volta, con valenza davvero significante, che negli ultimi
anni novanta è prevalso l’orientamento giurisprudenziale che fa
dell’atto di disposizione negoziale, e non nella decisione del giudice, il
presupposto per la soluzione del conflitto tra interessi contrapposti, dal
momento che, si afferma, il giudice non può sovrapporre le sue valutazioni a
quelle consacrate nell’accordo, dovendosi limitare ad un controllo di tipo
negativo per evitare l’applicazione di pene incongrue.

Ma, relativamente
a tale indirizzo ermeneutico, la Sezione rimettente si dimostra
fortemente critica. L’amplificazione del carattere negoziale
e l’accentuazione della crisi della pena, che stanno a fondamento di tale indirizzo
interpretativo, inducono a trascurare la natura prevalentemente processuale del
patteggiamento e l’importanza del principio della soggezione del giudice
soltanto alla legge, che può dirsi rispettato solo se il ruolo dell’accordo
delle parti è valutato esclusivamente in funzione della collaborazione ad una
rapida definizione del giudizio, con conseguente riconoscimento di un
penetrante controllo giudiziale sull’accordo e sulla congruità della pena.

Si spiega così il diverso e
contrapposto indirizzo interpretativo, per il quale il
patteggiamento risponde a finalità di semplificazione e di speditezza,
coniugando le esigenze di celerità con quelle dell’accertamento attraverso il
riconoscimento del profilo dispositivo dell’accordo e l’attribuzione al giudice
di penetranti poteri di controllo.

In tal modo al giudice è
consentito riempire l’accordo delle parti con contenuti obbligatori pretermessi
o addirittura esclusi, ordinando la demolizione di cui all’articolo 7, ultimo
comma, della legge 47/1985 per il reato di costruzione abusiva (Su, 27 marzo
1992, Di Benedetto), di definire la gravità della violazione, l’entità del
danno e del pericolo per la circolazione ai fini dell’irrogazione della
sanzione amministrativa della sospensione della patente di guida (Su, 27 maggio
1998, Bosio), di accertare la non rispondenza al vero dell’atto (Su, 27 ottobre
1999, Fraccari), di motivare sulla ricorrenza delle condizioni per il
proscioglimento immediato ex articolo 129 Cpp ove
dagli atti risultino concreti elementi (Su, 27 settembre 1995, Serafino), anche
quando non emerga la prova positiva dell’innocenza (Su, 25 ottobre 1995,
Cardoni), di dare una diversa qualificazione giuridica al fatto (Su, 19 gennaio
2000, Neri), di accertare l’intero fatto, anche in riferimento ad un illecito
amministrativo connesso (Su, 21 giugno 2000, Cerboni), di rigettare l’accordo
sulla pena allorché ne derivi l’estinzione del reato per prescrizione sulla
base di non certe valutazioni comparative o riconoscimenti di attenuanti,
dovendo invece rilevare la causa estintiva ove le circostanze aggravanti
appaiano immediatamente inesistenti o le attenuanti emergano in modo
inoppugnabile (Su, 25 novembre 1998, Messina).

Tutte le indicate decisioni
ammettono, dunque, un potere di accertamento del giudice,
seppure non completo e definibile in termini di “semiplena cognitio”.

In ordine alla
questione specifica sono intervenute tre decisioni delle Su (Su, 8 maggio 1996,
Di Leo; Su, 26 febbraio 1997, Bahrouni; Su, 22 novembre 2000, Sormani), che
hanno negato che la sentenza di patteggiamento, in quanto priva della natura di
sentenza di condanna, possa costituire titolo per la revoca della sospensione
condizionale della pena.

A questa conclusione però,
osserva l’ordinanza di rimessione, si è giunti prima delle novelle normative
introdotte con la legge 134/03 sul c.d. patteggiamento allargato, che ha
rimodulato il rito alternativo con le previsioni dell’applicabilità della
misura della confisca c.d. facoltativa e della possibilità di revisione per ogni sentenza di patteggiamento.

La precedente novella che ha
attinto l’articolo 653 Cpp in forza della legge 97/2001, attribuendo alla
sentenza di patteggiamento l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare,
poteva ancora non essere ritenuta decisiva al fine di rivedere l’affermazione
che sta alla base delle decisioni che negano alla
sentenza di patteggiamento l’idoneità a costituire titolo per la revoca della
sospensione. La Corte costituzionale, con la sentenza 394/02, ha a tal
proposito riconosciuto la rilevanza dell’innovazione normativa, affermando che
il patteggiamento, pur in presenza di autonomi e
consistenti poteri del giudice, trova il suo fondamento nell’accordo delle
parti; col rimarcare, più specificamente, che il consenso dell’imputato, dopo
l’entrata in vigore della legge 97/2001, ha l’ulteriore significato di una
rinuncia alla difesa nel successivo procedimento disciplinare, posto che
l’efficacia di giudicato si estende a tutti gli elementi della fattispecie.

Con l’introduzione nel sistema
del c.d. patteggiamento allargato sono state apportate alcune significative novità, quali la condanna al pagamento delle
spese processuali, l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza,
l’esclusione dell’estinzione del reato, che hanno indotto parte della dottrina
e della giurisprudenza di merito a rinnovare i dubbi sulla natura della
sentenza di patteggiamento, riflettendo con motivate perplessità in merito alla
conclusione incentrata sull’assenza in essa dei caratteri della statuizione di
condanna.

Le pronunce della Corte
costituzionale sul cd. patteggiamento allargato,
(sentenza 219/04 ed ordinanze 430 e 421/04), non hanno approfondito tale
profilo, e non offrono spunti particolari per articolare una risposta.

La Corte di cassazione ha
affrontato tematicamente la questione una sola volta (Sezione settima, 23
giugno 2004, Anizi Adel) ed ha ritenuto che la mancata previsione di
un’adeguata motivazione in punto di responsabilità della sentenza di
patteggiamento non meritasse la devoluzione al sindacato di costituzionalità,
pur essendo la sentenza soggetta a revisione ex
articolo 629 Cpp.

Due decisioni della Corte Suprema
(Sezione I, 8 novembre 2004, Lacalamita, Sezione I, 31
dicembre 2004 Sangermano), entrambe relative all’impossibilità di disporre la
revoca della liberazione anticipata in seguito a sentenza di patteggiamento (v.
anche Sezione sesta, 3 settembre 2004, Piampiano), hanno recepito, senza
motivazione sul punto, i tradizionali approdi interpretativi.

Un rinnovato approfondimento
della questione s’impone – prosegue la Sezione – non potendosi accogliere la cd. teoria asimmetrica, che distingue tra i due tipi di
sentenza, l’una del patteggiamento ordinario, l’altra del cd. patteggiamento
allargato, per riconoscere natura di condanna solo a quest’ultima. A tale
teoria si oppone l’impossibilità di procedere ad una differente valutazione di
un rito unitario.

Né si può attribuire un ruolo
decisivo al fatto che nella norma sulla revisione il
legislatore diversifichi con una disgiunzione le sentenze di condanna dalle
sentenze di patteggiamento, quasi fosse consapevole della eterogeneità tra
queste. La stessa disgiunzione è infatti utilizzata
nel menzionare le sentenze di condanna ed il decreto penale di condanna, che
indubbiamente partecipa della natura delle prime.

Ancora, la risposta al quesito
sulla natura della sentenza di patteggiamento non può fondarsi esclusivamente
sulla norma che non riconosce alla detta sentenza, sia essa emessa nel rito
ordinario che in quello del cd. patteggiamento
allargato, effetti vincolanti nei giudizi civili ed amministrativi. L’assenza di effetti vincolanti è una caratteristica comune al decreto
penale di condanna. Si tratta soltanto di un effetto premiale, esteso alle
sentenze di patteggiamento emesse in esito a dibattimento, e di tanto è prova
la deroga fissata per il procedimento disciplinare.

Da qui la
conclusione che contraddittorio ed accertamento di responsabilità non sono
sinonimi.

Parimenti insufficiente è il
tentativo di rispondere facendo leva unicamente sulla previsione normativa di estensione dei casi di applicazione della misura di
sicurezza patrimoniale della confisca, perché numerose leggi speciali hanno
stabilito alcune eccezioni.

Di particolare significato è,
invece, la perdurante equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una sentenza di condanna per alcuni effetti non disciplinati
dalle norme, sicché le differenze potrebbero essere qualificate come eccezioni
ad uno schema unitario.

Una considerazione complessiva di
tutti questi profili di disciplina, in uno con l’impostazione della sentenza
313/90 della Corte costituzionale e con l’orientamento giurisprudenziale che
valorizza il ruolo del giudice rispetto al carattere
negoziale del rito, inducono ad un approfondimento della questione della natura
della sentenza di patteggiamento, nonostante siano rimasti immutati i
presupposti del consenso, le modalità dell’accordo, ed i parametri di controllo
giudiziale del patto.

4. Con provvedimento del 20
luglio 2005 il Primo Presidente di questa Corte ha rimesso il ricorso alle Su “essendosi ravvisato un contrasto di
giurisprudenza”.

Osserva in diritto

1. L’ordinanza della quarta
Sezione penale, dopo aver ripercorso i tracciati interpretativi di questa Corte
circa la natura della decisione che applica la pena su
richiesta delle parti, ravvisa una sorta di antinomia latente tra le singole
statuizioni giurisprudenziali e che pare emergere solo assegnando rilievo
esponenziale ora al c.d. profilo negoziale (vale a dire, l’accordo tra le
parti) ora al c.d. profilo giurisdizionale (vale a dire, i poteri di verifica
dell’accordo ad opera del giudice), indicando come proprio dalla consapevolezza
dell’esistenza di tale antinomia è possibile una scelta di più ampio contesto
che consenta di pervenire ad un assetto ermeneutico tale da divenire coerente
con lo ius novum introdotto dalla legge 134/03.

2. Per il momento il Collegio
ritiene necessario soprassedere dall’esame di simili approdi soprattutto
considerando che il quesito al quale queste Su sono
chiamate a dare risposta riguarda esclusivamente – per di più, in presenza di
una vicenda contrassegnata dall’applicazione di una pena nei limiti
infrabiennali – l’operatività del regime della revoca della sospensione
condizionale della pena alla stregua del precetto dell’articolo 168, comma 1,
n. 1, Cp

Sotto tale profilo non possono
queste Su omettere di constatare che ben tre sentenze della Corte di cassazione
nella sua composizione più ampia abbiano risolto il
problema in senso negativo.

Cosicché una rivisitazione
dell’istituto che sia attenta a designare come punto
fermo – almeno nella sua ineludibilità, ma non per questo inaccessibile a
rilievi di ordine metodologico – la pregressa giurisprudenza, richiede che ad
essa si pervenga soprattutto (se non esclusivamente) sulla base dei decisivi
interventi normativi che hanno rimodellato il procedimento di cui all’articolo
444 e seguenti Cpp

3. Come si è già accennato,
l’ordinanza di rimessione sembra richiedere, in effetti, un revirement
interpretativo in ordine alla natura della sentenza
che applica la pena su richiesta delle parti, anche alla luce del novum
derivante dal regime del c.d. “patteggiamento allargato” introdotto dalla legge
134/03.

Gli argomenti enucleati dal
giudice a quo – pure utilizzando la ragionata silloge giurisprudenziale
riportata in narrativa – impongono a questa Corte una accurata
disamina sulla proposizione dialettica accordo delle parti-poteri di controllo
del giudice, alla luce della normativa antecedente alla “novella”, per
verificare poi l’incidenza dello ius novum nel sistema congegnato dalla legge
134/03.

Peraltro, una giurisprudenza
ultradecennale circa la natura della decisione che applica la pena su richiesta non esonera questa Corte – come si vedrà, anche
alla stregua dello ius novum – da un approfondito esame in proposito. Semmai,
il nodo problematico da sciogliere è l’individuazione
dell’effettivo significato del precetto (olim) contenuto nell’articolo 445,
comma 1, ultima parte (ora nell’articolo 445, comma 1bis), in base al quale
“Salvo diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una sentenza
di condanna”.

Il fatto stesso che il
legislatore si esprima in termini di mera
equiparazione, omettendo, quindi, di istituire una vera e propria
identificazione, tra sentenza che applica la pena e sentenza di condanna rende
necessario ricorrere ad un modello interpretativo che non trascuri le
applicazioni giurisprudenziali che hanno coinvolto le conseguenze direttamente
derivanti da una sentenza di condanna e, di volta in volta, ritenute riferibili
anche alla sentenza che applica la pena su richiesta.

4. La prima decisione delle Su che affronta uno degli snodi cruciali della
tematica circa la natura della sentenza di patteggiamento, quella, cioè,
relativa al preciso ambito del dovere di motivazione al quale il giudice non
può sottrarsi allorché adotti una pronuncia a norma dell’articolo 444 e
seguenti Cpp, muove dal presupposto che una decisione di questo tipo contiene
un implicito accertamento di responsabilità; un accertamento che non va espressamente
motivato così come l’affermazione di responsabilità non deve essere
espressamente dichiarata; quel che è certo, però, è che una simile decisione,
non potendo qualificarsi una sentenza di condanna in senso proprio, è solo
equiparata ad una sentenza di condanna. Se si trascuri
per un momento il contrasto interpretativo che le Su erano state chiamate a
comporre e ci si soffermi sul reale contenuto della statuizione, si può
verificare come l’inversione della portata precettiva dell’ultima parte dell’articolo
445, comma 1 (ora, ultima parte dell’articolo 445, comma 1bis) è più apparente
che effettiva. Lo comprova la precisazione, contenuta nella stessa sentenza,
secondo cui l’ordine di demolizione delle opere edilizie abusive, previsto
dall’articolo 9, comma 9, della legge 47/1985, può essere impartito anche con
la sentenza che applica la pena su richiesta delle
parti, atteso che detto provvedimento giurisdizionale è equiparato ad una
sentenza di condanna a tutti gli effetti diversi da quelli espressamente
previsti dall’articolo 445, comma 1, Cpp (Su, 27 marzo 1992, Di Benedetto).

Due proposizioni sembrano
emergere con rassicurante perentorietà dalla decisione adesso ricordata: la
prima è che la sentenza che applica la pena su
richiesta delle parti non è una decisione di condanna, tanto è vero che non
sono ad essa applicabili disposizioni compatibili soltanto con una sentenza di
condanna, seguendo lo schema delineato, in negativo, dall’articolo 445, Cpp; la
seconda è che a tutti gli altri effetti la sentenza è equiparata ad una
sentenza di condanna. Un’equiparazione che non parrebbe dare adito
a eccezioni di sorta al di fuori di quelle espressamente indicate da
tale precetto. Più in particolare, conformemente al principio secondo cui la
sentenza di patteggiamento contiene un’implicita affermazione di
responsabilità, non sembrerebbe residuare spazio alcuno a limiti non derivanti
espressamente dalla legge: limiti, questi, in qualche misura, ontologici perché
coessenzialmente incompatibili con la nozione stessa di decisione di condanna e
perciò tali da designare l’equiparazione come corrispondente ad una vera e
propria contradictio in adiecto; l’incompatibilità, cioè,
non consentirebbe ad altri effetti tipici della sentenza di condanna di operare
anche in riferimento alla decisione che applica la pena. Il
tutto pure considerando che le eccezioni stabilite dall’articolo 445, comma 1,
non sempre attengono ad ogni sentenza di condanna. Lo comprova il regime
dell’efficacia extra penale della decisione, una efficacia
da qualificare come simmetrica alla sentenza di condanna – ma, questa volta,
secondo un canone apprezzabile solo sul piano normativo – soltanto se questa
sia stata pronunciata a seguito di dibattimento. Una norma che, per la parte
non riguardante il patteggiamento “anomalo”, quello, cioè,
in cui la decisione viene adottata dopo la chiusura del dibattimento,
sembrerebbe dettata solo in funzione di tracciare un netto discrimine rispetto
alla parallela disciplina stabilita per gli effetti extra penali derivanti da
una sentenza pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.

Nonostante le rationes decidendi
siano parzialmente diverse da quelle ricavabili dalla sentenza Di Benedetto, le
ulteriori decisioni delle Su sembrano informate
al postulato ermeneutico alla cui base è l’equiparazione della sentenza che
applica la pena alla sentenza di condanna, con la precisazione però che gli
effetti equiparabili sono soltanto quelli che non risultino incompatibili con
l’assenza di una plena cognitio da parte del giudice del patteggiamento;
ricollegando, dunque, ad un rapporto di non compatibilità l’applicazione delle
conseguenze derivanti da una sentenza di condanna.

Ciò si è verificato, però,
trascurando che talune di quelle escluse dall’articolo
445, comma 1, sono conseguenze che non possono derivare se non da una sentenza
di condanna. Cosicché, salva la necessità di affidare all’interprete il compito
di ricavare dalla legge (con una metodologia tipicamente analitica) ogni sorta di esclusione “implicita”, è gioco forza concludere che la
natura della decisione di cui si discute non può essere individuata richiamando
quelle situazioni che presuppongono il pieno accertamento di responsabilità o
che espresse disposizioni di legge escludono dalla equiparazione.

Quanto alle prime, è agevole
ribattere che se la sentenza che applica la pena implica un pieno accertamento
di responsabilità ne potrebbe discendere non un’equiparazione alla sentenza di
condanna, ma una vera e propria identificazione, diversificandosi
le due sentenze solo per la fenomenologia procedimentale che ne costituisce il
presupposto e che va apprezzata secondo rigorosi modelli normativi. Quanto alle
seconde, se le “diverse disposizioni di legge” vanno individuate al di fuori
dell’articolo 445, comma 1, utilizzando uno schema in grado di escludere che
taluni effetti delle sentenze di condanna possano trovare applicazione anche
per la sentenza di patteggiamento, l’operazione ermeneutica assume profili di estrema difficoltà ricostruttiva proprio considerando il
precetto di chiusura dell’articolo 445, comma 1.

5. Non è un caso che, chiamate a
decidere circa l’applicabilità del regime di cui all’articolo 168, 1° comma, n.
1, Cp, le Su (Su, 8 maggio 1996, Di Leo, la prima decisione, che risolve lo
specifico contrasto giurisprudenziale ora riproposto), muovano
dalla proposizione dilemmatica incentrata sul quesito se la sentenza di
patteggiamento abbia o no natura di sentenza di condanna.

Le progressioni interpretative
sono, sul punto, estremamente significanti.

La Corte delinea
l’esistenza di un triplice indirizzo giurisprudenziale alla cui base è proprio
il tentativo di individuazione della natura della sentenza che applica la pena
su richiesta.

Secondo un primo orientamento, il
giudice avrebbe dovuto revocare, ai sensi dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp,
il beneficio della sospensione precedentemente
concesso, o perché la sentenza di patteggiamento presuppone comunque un
accertamento di responsabilità ed ha, dunque, natura di sentenza di condanna,
conseguendone l’effetto penale della revoca del beneficio o perché in ogni
caso, pure a prescindere dall’accertamento di responsabilità, la revoca della
sospensione si sostanzia in un effetto penale che consegue automaticamente alla
sentenza di patteggiamento, equiparata alla sentenza di condanna e, quindi,
produttiva di tutti gli effetti propri di una simile pronuncia, senza che tali
effetti possano essere neutralizzati dalla base negoziale che costituisce il
fondamento della decisione; stando ad un secondo orientamento, la sentenza di
patteggiamento non può contenere la statuizione sulla revoca di diritto della
sospensione precedentemente concessa, sia in applicazione del principio della
immodificabilità dell’accordo delle parti ad opera del giudice (un principio in
ordine al quale si avrà occasione più avanti di soffermarsi), sia perché la
detta sentenza non implica alcun accertamento positivo e costitutivo di
responsabilità dell’imputato, dal momento che si fonda su un accertamento
incompleto, che non comporta una piena verifica cognitiva del fatto; un terzo
orientamento, nel tentare una mediazione tra le prime due linee interpretative,
afferma la necessità che la revoca della sospensione condizionale si conformi
alla particolare natura del rito premiale, con la conseguenza che si dovrebbero
ritenere sospesi gli effetti della revoca disposta con la sentenza di
patteggiamento sino al compimento dei termini di cui all’articolo 445, comma 2,
Cpp, sino, cioè, alla scadenza dei termini per l’estinzione, a date condizioni,
del reato per il quale era intervenuta la sentenza di patteggiamento.

In presenza
di tali differenziate opzioni ermeneutiche, le Su dovettero necessariamente
incentrare ogni verifica su due profili, tra loro, peraltro, complementari;
vale a dire, la natura della sentenza ed i presupposti di operatività della
revoca della sospensione condizionale.

Sotto il secondo aspetto – si è
affermato – la revoca di diritto della sospensione non può prescindere
dall’accertamento di una nuova responsabilità penale, che fa venire meno la
prognosi di ravvedimento ed implica un giudizio di immeritevolezza
rispetto al quale la revoca della sospensione assume una funzione
sanzionatoria. Una funzione che può essere concretamente
perseguita solo postulando un accertamento “completo” quanto alla commissione
del reato cui è connaturata l’esigenza che la colpevolezza sia affermata in
esito ad un giudizio designato da una plena cognitio. In altri termini,
la revoca è coessenziale al venir in essere della fattispecie che ne
costituisce il presupposto e che si identifica nella
pronuncia di una sentenza di condanna all’esito di un accertamento, anche qui,
“completo” della responsabilità; senza, peraltro, definire, in presenza di riti
differenziati contrassegnati da modelli processuali alternativi, quando tale
“completezza” venga effettivamente a realizzarsi.

Quanto al primo profilo si è
rimarcato come un simile evento non possa realizzarsi
in forza della sentenza di cui all’articolo 444 e seguenti Cpp che non
presuppone un accertamento pieno ed incondizionato sui fatti e sulle prove,
perché essa ha a fondamento l’applicazione di una pena senza giudizio, dato che
non v’è dichiarazione di colpevolezza e la sua struttura è connotata dal mero
riferimento all’accordo tra le parti sul merito dell’imputazione.

La conseguenza è, perciò, necessitata: dalla sentenza di patteggiamento può derivare
qualunque altro effetto penale che sia con essa compatibile; che cioè non
implichi l’ineludibilità dell’accertamento pieno della responsabilità
dell’imputato. Il giudice deve, pertanto, con la sentenza di cui all’articolo
445 Cpp, ad esempio, applicare quei provvedimenti sanzionatori di carattere
specifico previsti da leggi speciali, che, data la loro natura amministrativa
ed atipica (tra questi, l’ordine di demolizione della costruzione senza
concessione), non postulano un giudizio di
responsabilità penale e seguono di diritto alla sentenza di patteggiamento in
virtù dell’equiparazione, nei limiti di compatibilità, alla sentenza di
condanna. L’effetto penale della revoca della sospensione condizionale precedentemente concessa è un effetto incompatibile con la
sentenza che applica una pena concordata dalle parti, perché essa non si fonda
sull’accertamento pieno di responsabilità.

Anche a prescindere dalle
argomentazioni critiche rivolte a tale sentenza dalla dottrina, un dato
ermeneutico – che subito si segnala, perché esso implica notevoli perplessità –
pare per la prima volta emergere dalla decisione in esame; quello, cioè, secondo cui l’equiparazione della sentenza di
patteggiamento alla sentenza di condanna è proposizione normativa non
definibile in termini di stretta interpretazione; nel senso che, pur avendo
l’articolo 445, comma 1, ultima parte, “equiparato”, salve “diverse
disposizioni di legge”, la sentenza che applica la pena su richiesta ad una
sentenza di condanna, tale equiparazione non è incondizionata dovendo
confrontarsi con la compatibilità degli effetti della sentenza di patteggiamento
con quelli propri della sentenza di condanna.

A ben vedere, però, l’argomento di fondo per pervenire all’effetto preclusivo è uno di
quelli che, pur penetrando davvero in medias res, sembra in gran parte
discostarsi dai principi affermati dalla sentenza Di Benedetto.

Presupposto per la revoca di
diritto della sospensione condizionale è l’accertamento della responsabilità
che, facendo venir meno la prognosi di ravvedimento a suo tempo espressa,
comporta un giudizio di immeritevolezza rispetto al quale
la revoca della sospensione si pone come misura di tipo sanzionatorio. Ma tale
giudizio richiede necessariamente un accertamento di responsabilità dotato di
quelle caratteristiche di completezza conseguibili solo a
mezzo di una sentenza che sia pronunciata a conclusione di un “giudizio,
con plena cognitio del reato e della pena”.

La decisione richiama – per la
verità, ribaltandolo, con riverberi ermeneutici agevolmente intuibili – il
regime della equiparazione, tanto da rendere
eccezionale quella che l’articolo 445, comma 1, definiva un assetto configurato
normativamente come immancabile, salvo diverse disposizioni di legge. Ed è estremamente significativo riscontrare come la decisione in
esame, lungi dall’evocare trattamenti incompatibili con una pronuncia di
condanna non derivanti dal regime premiale delineato dall’articolo 445, comma
1, faccia riferimento, per delimitare concettualmente l’equiparazione dalla
identificazione, proprio all’assenza di “alcuni effetti tipici della sentenza
di condanna, quali il pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle
pene accessorie e delle misure di sicurezza”.

Ciò senza contare i profili
teleologici che attengono, nello specifico, al precetto dell’articolo 168,
comma 1, n. 1, Cp che – come è stato osservato – sono
speculari alla dinamica della sospensione condizionale della pena. Tanto che,
così come la concessione del beneficio presuppone un giudizio di
“meritevolezza” derivante da una prognosi di non recidivanza, la revoca della
sospensione è, a sua volta, funzionale ad una prognosi di “non meritevolezza”
destinata a demolire il giudizio precedentemente
formulato.

Cosicché è
ancora all’elemento normativo che occorre riferirsi al fine di pervenire a quel
giudizio di valore sopra rammentato. L’equiparazione non può essere
diversamente intesa se non considerando che all’esito della procedura speciale viene applicata una pena; con la conseguenza che – anche
superando i profili definitori incentrati sulla natura della sentenza – diviene
costituzionalmente necessitato il giudizio negativo insito nella decisione resa
sull’accordo delle parti, non foss’altro alla stregua del precetto
dell’articolo 27, secondo e comma 3, della Costituzione, secondo il modello già
disegnato dalla sentenza costituzionale 313/90.

6. Le medesime argomentazioni
sono poste a base della immediatamente successiva decisione, pronunciata in
forza della rimessione, significativamente vicina nel tempo, della medesima
questione alle Su che ribadiscono – per di più
ampliandone la valenza interpretativa – i principi di diritto già espressi
nella precedente decisione (Su, 26 febbraio 1997, Bahrouni).

Proprio perché – si afferma – la
sentenza di patteggiamento non è preceduta da un
accertamento pieno e completo sulla sussistenza del fatto reato e sulla
riconducibilità dello stesso all’imputato, essa non può giustificare la revoca
della sospensione condizionale che postula sempre, anche quando segue alla
doverosa ricognizione di una decadenza dal beneficio ope legis, un accertamento
completo in ordine alla colpevolezza. Una sentenza che può
intervenire in uno stadio iniziale delle indagini preliminari, quando agli atti
del fascicolo vi è poco più di una notizia di reato o anche solo la semplice
notizia di reato; e che, quindi, si fonda solo su una “mera ipotesi”, con
un’eccentricità evidente rispetto alle ordinarie sentenze di condanna.
Il giudice – è vero – dispone di poteri di controllo
sull’accordo delle parti, che non possono dirsi “notarili”, ma gli è comunque
precluso di indagare sulle determinazioni che hanno indotto l’imputato ad una
siffatta scelta.

Il controllo giudiziale è – si
afferma – meramente estrinseco, limitato alle risultanze
disponibili e sempre condizionato dal contenuto dell’accordo. La richiesta
dell’imputato, o il suo consenso alla richiesta di pena formulata dal pubblico
ministero, non significano – anche qui – un
riconoscimento, sia pure implicito, di responsabilità, perché l’ammissione di
non disporre, allo stato, di elementi utili per dimostrare l’insussistenza del
reato non equivale ad un riconoscimento della colpevolezza, secondo un regime
comprovato sia dall’assenza di ogni effetto giuridico della richiesta di pena
non condivisa dall’altra parte o anche della congiunta richiesta poi non
accolta dal giudice sia dalla doverosità della verifica giudiziale
dell’eventuale sussistenza delle condizioni per un proscioglimento immediato,
pur quando il giudice ritenga che l’accordo tra le parti possa essere accolto.
Nel vigente sistema processuale, incentrato sul principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale, la dichiarazione confessoria non può mai sollevare il
pubblico ministero dall’onere della prova; né, ancora, può affermarsi, data
l’attribuzione in via esclusiva al giudice dei poteri di accertamento
del reato, che la mancata contestazione del reato stesso da parte dell’imputato
tenga luogo dell’accertamento della responsabilità.

L’equiparazione della sentenza di
patteggiamento alla sentenza di condanna rileva soltanto nell’ambito degli
aspetti positivi dell’affinità, e quindi soltanto per
l’applicazione della pena, dissolvendosi in riferimento all’altra componente
essenziale della sentenza di condanna, che è l’accertamento della
responsabilità. Non a caso, infatti, l’articolo 445, nell’indicare gli
incentivi premiali, escludendone altri in deroga alla disciplina generale degli
effetti penali della condanna, si riferisce soltanto a quelli che, correlati
all’applicazione della pena, sarebbero rientrati nell’ambito dell’equiparazione
della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, non potendo la
norma prendere in esame effetti che mai sarebbero potuti
derivare per l’assenza nella sentenza di patteggiamento della componente
essenziale da cui promanano, e cioè l’accertamento della responsabilità. La
revoca della sospensione condizionale della pena non poteva essere compresa tra
gli effetti penali esclusi, in funzione incentivante, in caso di
patteggiamento, perché essa è un effetto estraneo alla
previsione della norma dell’articolo 445 Cpp, correlato non già all’applicazione
della pena ma all’accertamento di responsabilità.

Le Su, ricordato che l’articolo
445, comma 1, con l’indicare gli incentivi premiali diretti a favorire
l’accesso a quel tipo di procedimento, escludendo alcuni di essi,
“si riferisce soltanto a quelli che, per essere correlati all’applicazione
della pena e non già al riconoscimento di responsabilità dell’indagato, non
potevano che conferire, a pieno titolo, nell’ambito operativo di quel rapporto
di affinità che dalla stessa norma era stato riconosciuto tra il provvedimento
conclusivo di quel procedimento speciale e la categoria della sentenza di
condanna”, ne fanno derivare che “una deroga alla disciplina generale
concernente gli effetti di una pronuncia di condanna in tanto poteva essere
razionalmente ideata e organicamente disposta in quanto quegli stessi effetti
potessero avere una loro concreta possibilità di attuazione e, quindi,
potessero trarre origine dal contenuto del provvedimento al quale si
ricollegano”.

La conclusione è, dunque, nel
senso che l’articolo 445, comma 1, non può che riferirsi ad effetti che sarebbero potuti derivare dalla sentenza di applicazione di
pena; così, da un lato, enucleando il regime delle deroghe rispetto alla
disciplina comune delle sentenze di condanna, dall’altro lato, inferendone che
l’inserimento, quale norma di chiusura, del principio di equiparazione è da
intendere “pur sempre nell’ambito di quel rapporto di equiparazione che in
tanto era giustificato in quanto poggiava su una componente costante della
pronuncia di condanna, e cioè l’applicazione di una sanzione penale”.

L’assetto così congegnato ha
avuto il merito di chiarire il valore significante del regime di equiparazione, se intimamente ricollegato alle identità
piuttosto che alle diversità di contenuto fra sentenza di applicazione della
pena e sentenza di condanna. Con corrispondente riduzione di
tali effetti, pur indicati in via esemplificativa, a quelli operanti nella fase
esecutiva di una sentenza di condanna.

D’altro canto, appare forse
esorbitante una eccessiva concettualizzazione della
natura della pronuncia al fine di risolvere lo specifico quesito sottoposto
all’esame delle Su. Non va dimenticato che la regola stabilita dall’articolo
168, comma 1, n. 1, Cp sta a designare una revoca
caratterizzata da profili meramente formali perché tale norma prevede la
“revoca di diritto” qualora nei termini stabiliti il condannato (nel processo
che si è concluso con l’applicazione del benefici) commetta un delitto per il
quale venga inflitta una pena detentiva. Il che sta a
significare che la pronuncia si sostanzia in una decisione di mero
accertamento di un decadenza che si è verificata di diritto al momento stesso
della formazione del giudicato della sentenza di condanna per il reato commesso
nel termine di esperimento. Il tutto in sintonia con la
costante giurisprudenza di questa Corte che annovera la revoca della
sospensione condizionale della pena tra gli effetti penali della condanna (cfr.
Su, 20 aprile 1994, Volpe) intesi come quegli effetti, dei quali il codice
penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a
distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto
di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si
caratterizzano per essere conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di
condanna e non pure di altri provvedimenti come quelli discrezionali della
pubblica amministrazione, ancorché aventi nella condanna il necessario
presupposto, per la natura sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito
diverso da quello del diritto penale sostantivo o processuale; con la
conseguenza che la revoca della sospensione condizionale della pena ha per
presupposto necessario la pronuncia di una sentenza di condanna, non il mero
accertamento di un fatto costituente reato.

Ne deriva allora che sia la
decisione Di Leo sia la decisione Bahrumi rischiano di
enfatizzare a dismisura la lettera dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp, vale a
dire l’accertamento della responsabilità penale che si ritiene insito nell’espressione
“commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole per cui
venga inflitta una pena detentiva”, così da trascurare che il nodo cruciale da
affrontare non è tanto l’accertamento di responsabilità quanto il regime di
equiparazione.

6. Le Su (Su, 22 novembre 2000,
Sormani) sono intervenute, ancora una volta, sulla medesima questione,
specificamente nella prospettiva di una presunta
contraddizione tra l’affermazione della non revocabilità della sospensione
precedentemente concessa in caso di applicazione di pena patteggiata e
l’affermazione della non concedibilità della sospensione in caso di successiva
condanna una volta che lo stesso soggetto sia già stato destinatario della
sospensione di una pena applicata su richiesta, sempre che, ovviamente, siano
superati i limiti di pena previsti dall’articolo 163 per la concessione della
sospensione condizionale.

Si ribadisce
che la denunciata contraddizione non appare esistente, pur potendo discutersi
(ed è la prima proposizione problematica riferibile alla specifica materia) se
la sentenza di patteggiamento sia o non sia una sentenza che accerta e afferma
la responsabilità. La natura della sentenza di patteggiamento non incide,
infatti, in alcun modo sul regime dell’impossibilità di reiterazione del beneficio della sospensione, avendo tale impossibilità
il suo fondamento non nell’accertamento della responsabilità ma
nell’applicazione della pena, e quindi proprio nella pena.

La diversa prospettiva
ermeneutica, che potrebbe divenire davvero dirimente, non va peraltro
fraintesa, perché essa viene a profilarsi solo successivamente
all’effettiva enucleazione delle rationes decidendi alla base della
statuizione.

Ricordato che l’impossibilità di
ottenere la sospensione condizionale in conseguenza di una o più condanne
precedenti costituisce un tipico effetto penale della
condanna, inteso come conseguenza negativa derivante de iure, le Su precisano
che la previsione contenuta nell’articolo 445 Cpp, secondo cui in caso di
estinzione del reato si estingue ogni effetto penale, ivi compreso
l’impedimento alla concessione di una successiva sospensione se è stata
applicata con la sentenza di patteggiamento una pena pecuniaria o una sanzione
sostitutiva – ripete il contenuto dell’articolo 178 Cp in tema di riabilitazione,
laddove prescrive che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni
altro effetto penale, salvo che la legge disponga altrimenti. E la legge
dispone altrimenti proprio in tema di sospensione condizionale della pena, nel
senso che, se con la sentenza di patteggiamento è stata applicata una pena
detentiva, di questa pena deve tenersi conto ai fini di una successiva
sospensione, anche nel caso di estinzione del reato,
così come si verifica in caso di riabilitazione.

Si ha così che l’effetto penale,
per patteggiamento a pena detentiva, dell’impedimento alla concessione della
sospensione in caso di successiva condanna non è
attinto dall’eventuale estinzione del reato ed a maggior ragione non può essere
paralizzato prima dell’estinzione.

Dal momento poi che la sentenza
di patteggiamento è equiparata dalla legge alle sentenze di condanna, essa
comporta la revoca della sospensione condizionale nel caso regolato
dall’articolo 168, 1° comma, n. 2, Cp, ossia quando è riportata un’altra
condanna per un delitto anteriormente commesso, con
irrogazione di una pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, supera
i limiti previsti dall’articolo 163 Cp In questo caso, infatti, presupposto
della revoca non è – come nell’ipotesi di cui all’articolo 168, 1° comma, n. 1,
Cp – l’accertamento e l’affermazione di responsabilità, ma il mero superamento,
per cumulo delle pene, del limite imposto dall’articolo 163 dello stesso
codice. La sospensione condizionale non muta natura e regime allorché sia concessa con la sentenza di patteggiamento, tanto che
potrà e dovrà essere revocata quando, come nel caso contemplato dall’articolo
168, comma 1, n. 2, Cp, non è in rilievo la natura della sentenza di
patteggiamento, ma esclusivamente la misura, la quantità, della pena inflitta.

Anche il contenuto della sentenza
Sormani rivela una certa approssimazione nel definire gli effetti derivanti dalla equiparazione rispetto a quelli derivanti
dall’identificazione; ciò che più importa, seguendo un modello ermeneutico
attento a valorizzare più le affinità che le differenze.

9. La conferma di una certa
vischiosità interpretativa che contrassegna le soluzioni ermeneutiche delle Su di questa Corte è riscontrabile solo alla luce di
quella giurisprudenza che, proprio dalla natura della decisione che applica la
pena su richiesta, ricava conclusioni, ancora una volta, in merito alla
interpretazione del precetto dell’articolo 445, comma 1, ultima parte.

Chiamate a dirimere il contrasto
giurisprudenziale circa l’applicabilità, a seguito di sentenza di
patteggiamento, di sanzioni amministrative accessorie, quale la sospensione
della patente di guida, le Su, dopo aver ricordato che il parametro per
l’accertamento da cui consegue l’applicazione e la determinazione della misura
della sanzione, in concreto non possono essere diversi
da quelli previsti in generale per l’autorità amministrativa, hanno precisato
che, poiché la formula “accertamento del reato” adottata dalla legge per
l’applicazione di sanzioni amministrative accessorie in conseguenza di un reato
deve intendersi nel senso che è istituito un collegamento tra l’effetto
automatico dell’applicazione della sanzione accessoria ed un esito del
procedimento penale “che presuppone un fatto al quale accede la sanzione
amministrativa”, ne hanno tratto la conclusione che un simile accertamento non
è escluso nella procedura dell’applicazione di pena su richiesta solo
considerando che il giudice è tenuto a controllare la legalità dell’accordo tra
le parti, con l’apprezzamento nella verifica di corrispondenza del fatto alla
fattispecie, degli aspetti che “la norma speciale tiene in considerazione ai
fini dell’applicazione della sanzione amministrativa” (Su, 27 maggio 1998,
Bosio).

Al di là del
richiamo alla tipologia di accertamento, non è difficile riscontrare come
l’effettiva ratio decidendi che è a fondamento di tale pronuncia risulti
accentrata proprio sull’equiparazione alla sentenza di condanna della sentenza
che applica la pena. Secondo un canone, del resto, perseguito pure dalla
statuizione stando alla quale anche nel procedimento di applicazione
della pena su richiesta, in caso di connessione tra reato e violazione non
costituente reato, il giudice competente a conoscere del reato è competente a
decidere sulla violazione non costituente reato e ad applicare la sanzione per
essa stabilita; in tale procedimento, infatti, il giudice accerta l’intero
fatto, pur nei limiti della sua cognizione allo stato degli atti (Su, 21 giugno
2000, Cerboni).

Pare evidente che le statuizioni
della sentenza Di Benedetto quanto all’interpretazione da assegnare
all’articolo 445, comma 1, ultima parte, risultino
decisamente sfumate da tali decisioni, a cui fondamento sembra inserirsi
l’endiadi sentenza di condanna-sentenza equiparabile ad una sentenza di
condanna, non tanto in relazione alla natura della decisione quanto con
riguardo alla tipologia di effetti compatibili con la semiplena cognitio che
contrassegna la sentenza di patteggiamento.

10. Entro la medesima prospettiva
viene superato anche l’ostacolo derivante dall’assenza
di un contenuto di accertamento proprio della sentenza che applica la pena
rispetto alla dichiarazione di falsità di documenti ex articolo 537 Cpp.

Questa Corte aveva pressoché
costantemente statuito che con la sentenza di applicazione
della pena su richiesta delle parti il giudice è tenuto a dichiarare la falsità
di atti o documenti accertata nel corso del giudizio (Sezione quinta, 22 aprile
1998, Chessa; Sezione quinta, 9 marzo 1993, Di Russo; Sezione sesta, 4 luglio
1992, Cinque; Sezione sesta, 4 luglio 1992, Cognoli; Sezione sesta, 4 luglio
1992, Lucaferri), trattandosi di sentenza equiparata ad una sentenza di
condanna; e ciò indipendentemente dalle pattuizioni delle parti (Sezione
quinta, 26 aprile 1999, Marciante; Sezione quinta, 13 febbraio 1996, Strali) e
dal riconoscimento della penale responsabilità dell’imputato (Sezione quinta,
23 giugno 1998, Di Sarno; Sezione quinta, 19 marzo 1992, Galoppo). Un simile
orientamento interpretativo costituiva, dunque, l’espressione di un vero e
proprio diritto vivente, nonostante i problemi di compatibilità con la
giurisprudenza delle Su penali sopra rammentata,
secondo cui la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444 Cpp non è una
vera e propria sentenza di condanna.

In presenza
di un virtuale contrasto giurisprudenziale e di profonde perplessità da parte
della dottrina, attenta a rimarcare come il patteggiamento rappresenti comunque
un giudizio allo stato degli atti, un modello del tutto incompatibile con la
decisione di cui all’articolo 537 Cpp che postula una pronuncia – sia di
condanna sia di proscioglimento – che accerti la falsità del documento, le Su
hanno enunciato il principio di diritto in base al quale con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti, che è decisione equiparata ad
una sentenza di condanna, il giudice è tenuto a dichiarare, ai sensi del comma
1 dell’articolo 537 Cpp, l’accertata falsità di atti o di documenti, precisando
che la dichiarazione di falsità prescinde dall’affermazione della penale
responsabilità dell’imputato, essendo fondata esclusivamente sull’accertamento
– che si rende possibile anche nel giudizio speciale di patteggiamento, pur nei
limiti di una cognizione “allo stato degli atti” – della non rispondenza al
vero dell’atto o del documento (Su, 27 ottobre 1999, Fraccari).

La giurisprudenza di questa Corte
fa, dunque, ritenere incontrastata la possibilità di dichiarare la falsità di
documenti anche in conseguenza di una sentenza di applicazione
di pena su richiesta delle parti, se e sempreché al summatim conoscere che
designa una simile procedura faccia da riscontro l’avvenuto accertamento della
falsità che il giudice è – come per ogni altra statuizione – tenuto a motivare,
così da consentire il sindacato sulle sue statuizioni accessorie.

La decisione non consente
alternative. Per un verso, infatti, la legge non prevede strumenti che tendano a risolvere le (solo apparenti) antinomie derivanti
dalla statuizione del giudice investito della cognizione del reato (in una
logica assolutamente antitetica a quella corrispondente all’accertamento della
responsabilità, che presuppone comunque, in tema di falso, proprio
l’accertamento della non rispondenza al vero dell’atto o del documento); per un
altro verso, la soppressione dell’incidente di falso ha relegato i compiti di
accertamento della falsità ad un ruolo meramente incidentale (cfr. articolo 241 Cpp) al di fuori dell’orbita dell’articolo 537
Cpp

Ma il richiamo
all’assoluta compatibilità tra una sentenza che non pronuncia la condanna
dell’imputato e l’accertamento di non rispondenza al vero dell’atto o del
documento appare davvero dirimente; per di più, in un regime che consente
l’applicazione della norma adesso ricordata anche nel caso di proscioglimento.

La decisione sembra contenere,
però, un ulteriore significativo argomento: quello,
cioè, relativo al potere attribuito al giudice, nell’ambito della procedura di
cui all’articolo 444 e seguenti Cpp di accertare i fatti e di valutare il
merito – sia pure, almeno così sembra di comprendere, non per la via del mero
accertamento incidentale – senza che ciò comporti la necessaria finalizzazione
all’affermazione di colpevolezza dell’imputato e alla pronuncia di condanna (in
tali termini, Su, 27 ottobre 1999, Fraccari).

10. Una difformità di indirizzi interpretativi si è registrata in merito alla
questione della sottoponibilità a revisione delle sentenze di patteggiamento,
ad ulteriore conferma di come l’eccentricità dell’istituto abbia generato non
pochi problemi alla ricerca di una difficile compatibilità con i principi di
fondo dell’ordinamento processuale.

Alla luce delle acquisizioni in
punto di ontologica diversità tra la sentenza di
patteggiamento e la sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un
accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, oltre che della
giurisprudenza costituzionale che le ha espressamente negato la natura di
sentenza di condanna, le Su (Su, 25 marzo 1998, Giangrasso) hanno escluso che la
sentenza con la quale viene applicata una pena su richiesta possa essere
assoggettata a revisione, sul presupposto che sono soggette a revisione solo le
pronunce di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle
prove.

È apparso allora ragionevole
negare la revisione delle sentenze di patteggiamento
rispetto alle quali è strutturalmente impossibile. In assenza di un conflitto
di prove non può darsi luogo ad un raffronto tra un nuovo significativo
materiale probatorio e l’inesistente acquisizione probatoria che ha preceduto
l’adozione della sentenza di patteggiamento, pronunciata, per espressa
previsione di legge, sulla base degli atti, che appunto non sono prove. Una
volta che l’imputato rinuncia al diritto alla prova in cambio di un vantaggioso
trattamento penale, non è possibile che sia posto in condizione di sottrarsi ai
rischi della sua scelta con un indebito trattamento di favore rispetto al
pubblico ministero che, formato l’accordo sulla pena, non ha più possibilità di articolare la prova per contrastare l’iniziativa di
revisione. Sarebbe poi fortemente contraddittorio che
il sistema consentisse un giudizio, con la revisione della sentenza, dopo avere
con l’accordo delle parti impedito il giudizio.

L’utilizzazione dell’endiadi sentenza
equiparabile-sentenza non equiparabile a una sentenza
di condanna – e sotto tale profilo la ratio decidendi si rivela solo in parte
analoga a quella a base della decisione in tema di revoca della sospensione
condizionale della pena ex articolo 178, comma 1, Cp – viene a collocarsi in
una posizione di diretta antinomia con la norma complementare che prevede la
revisione. Quel che è opportuno ricordare è che in tale caso il criterio della
“incompatibilità ontologica”, latente in numerose decisioni delle
Su che non hanno ravvisato nella disposizione dell’articolo 445, comma
1, una norma di stretta interpretazione – viene utilizzato, questa volta in
malam partem, inibendo l’accesso al mezzo straordinario di impugnazione per non
potersi definire la sentenza che applica la pena su richiesta una decisione di
condanna. Per la verità, dalle statuizioni delle Su
emerge soprattutto la preoccupazione di rendere compatibile il regime della
revisione con una sentenza fondata sul summatim conoscere che caratterizza la
procedura designandola di aspetti assolutamente peculiari, considerata
l’assenza di una plena cognitio condizionante ogni possibilità di qualificare
la sentenza ex articolo 444 e seguenti Cpp come una sentenza di condanna.
Sarebbe stata, forse, molto più agevole una lettura della norma sulla base
delle coordinate costituzionali che sono a base del giudizio di revisione per pervenire ad una soluzione di diverso tipo,
peraltro corrispondente all’interpretazione seguita dalla giurisprudenza allora
prevalente. Ciò anche considerando che il modello procedimentale risulta in gran parte ridimensionato ai fini sopra indicati
solo riflettendo sulla possibilità di accedere alla revisione nei confronti del
decreto penale divenuto esecutivo. Tanto da inferirne che solo apparentemente è
il modello procedimentale a precludere il ricorso alla revisione
e ad individuare l’effettiva ratio decidendi a fondamento della linea seguìta
dalle Su e che può sintetizzarsi nella ravvisata esistenza di una costruzione
legislativa di un regime di equiparazione “a determinati fini”, così assegnando
una ridondante valenza ermeneutica al modello ontologico pur in presenza del
chiaro regime di equiparazione. Del resto, la demolizione di quel che si è
definito sistema di “incompatibilità ontologica” (presupposto per la equiparazione circoscritta “a determinati fini”) sarà
destinata a rivelarsi la risultante di scelte normative – assunte, per di più,
nonostante il chiaro precetto dell’articolo 445 comma 1 – come è dimostrato
dall’introduzione della disciplina della revisione anche con riferimento alla
sentenza che applica la pena su richiesta, in forza dell’articolo 3 della legge
134/03.

È evidente, allora, come la
sentenza delle Su in tema di revisione assuma valenza
interpretativa ancor più significante rispetto alla decisioni della Corte di
cassazione nella sua più ampia composizione sulla problematica ora all’esame
della Corte. Le conseguenze afflittive (prima fra tutte
l’applicazione della pena) sono sottratte al mezzo straordinario di impugnazione,
nonostante l’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza alla
necessità di plasmare l’istituto della revisione alla stregua delle peculiarità
del rito, contrassegnato da una verifica di procedibilità legata esclusivamente
al precetto dell’articolo 129 dello stesso codice.

Quel che, peraltro, occorre qui
rimarcare è che in tema di revisione le Su hanno
esplicitato il rifiuto del principio di equiparazione, per giunta direttamente
ricollegandolo al profilo negoziale, quasi che il corredo di incentivi premiali
conseguenti alla “rinuncia a contestare l’accusa” implichi la forzata rimozione
all’accesso ad ogni strumento impugnatorio in grado di restituite la verità dei
fatti nella sua concreta effettività. Una soluzione di davvero poco agevole
comprensione e che si rivela doppiamente contrastante con i principi
costituzionalie sopra ricordati; per un verso, perché il regime convenzionale
non può, nell’ottica della Corte, costituire il
presupposto per una decisione “in ipotesi”, ontologicamente incompatibile con
il mezzo straordinario di impugnazione; per un altro verso, perché è l’assetto
negoziale a supplire – salvo i limiti derivanti dal controllo da parte del
giudice della cognizione – a verifiche postume rigororosamente procedimentalizzate
in grado di dissolvere il patto e di ricondurre il giudicato alla realtà
probatoria accertata nel postgiudicato.

12. Passando ad esaminare ora lo
ius novum, va subito rammentato che le prime vere e proprie innovazioni del
quadro normativo riguardanti l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta si devono alla legge 479/99. E si tratta di interpolazioni prescrittive di non trascurabile rilievo;
pur dovendosi convenire che struttura e funzione del patteggiamento restino,
nel loro nucleo essenziale, apparentemente indifferenziati rispetto alla
precedente disciplina.

Nonostante le “novellazioni”
derivino direttamente da statuizioni demolitorie ultranovennali della Corte
costituzionale (più in particolare dalle sentenze 313/90 e 443/90), è significativo rimarcare come le varianti apportate al testo
originario, che hanno rimodellato il precetto dell’articolo 444, comma 3, con
l’introduzione della previsione espressa del giudizio sulla “congruità della
pena” e della condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in
favore della parte civile assumamo valenza molto più significante rispetto a
quanto la corrente interpretazione dell’istituto lasci intravedere. E ciò, non
tanto per il contenuto del detto rimodellamento, quanto perché esso viene in
essere in presenza di quel – più volte evidenziato –
sincretismo interpretativo che aveva contrassegnato, negli anni successivi al
1990, l’individuazione della misura e dei limiti del controllo del giudice
sull’assetto predisposto dalle parti; così, quasi da ricondurre il punto di
rilevanza ermeneutica – con intuibili riverberi anche sulla natura della
sentenza di applicazione della pena – al contenuto delle affermazioni di
principio incentrate sul “primato” del controllo giurisdizionale rispetto alla
regolamentazione negoziale che costituisce il presupposto del procedimento. Una
canonizzazione legislativa – soprattutto quella riguardante la congruità della
pena – che, per lo stesso contesto in cui veniva ad
assumere valenza esponenziale, rappresentava, proprio per il momento in cui era
stata introdotta, un dato ineludibile per il legislatore futuro; un punto fermo
in grado di condizionare ogni ulteriore rimodulazione dell’istituto. Senza
voler qui anticipare i complessi profili problematici
cui darà vita la “novella” del 2003, il “ritorno al passato” alla base della
legge 479/99 esprime una scelta assolutamente significante, rispetto ad una
giurisprudenza costituzionale ed ordinaria oscillante sulla prevalenza del
metodo interpretativo, assegnandola – quale condizione per la stessa validità
dell’accordo – ora all’assetto negoziale ora al momento giurisdizionale. Il
giudizio di congruità, divenuto da criterio eccezionale operante solo in forza
di un accertamento di responsabilità secondo lo schema delineato dall’articolo
448 Cpp, diviene così lo specimen, legislativamente predisposto, di ogni controllo del giudice, secondo un schema
costituzionalmente obbligato.

Si deve, inoltre, alla legge
479/99, attraverso l’interpolazione di alcune
disposizioni del titolo II del libro VI, in grado di imporre la definizione
consensuale del procedimento seguendo un disegno analogo a quello previsto per
il giudizio abbreviato, allo scopo di evitare tardivi mutamenti di rotta in
limine iudici, l’accentuazione dei profili in grado di accomunare maggiormente
il regime dei riti di risoluzione anticipata. In più, le disposizioni,
marcatamente deflattive cui si ispira l’intervento del
legislatore, hanno suggerito la contestuale predisposizione di un meccanismo di
recupero postumo dell’applicazione della pena proprio nella fase introduttiva
del giudizio dibattimentale per l’imputato che sia intenzionato a rinnovare la
richiesta di patteggiamento, anche diversamente articolata, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento. La peraltro alquanto epidermica,
rimodellazione del rito non ha prodotto gli effetti sperati; tanto – sia detto
per inciso – da far dubitare che il congegno così predisposto sia in grado di
attuare quella ragionevole durata del processo alla base delle varianti adesso
rammentate.

13. Come è
noto, il testo originario dell’articolo 445, comma 2, Cpp prevedeva che la
sentenza di applicazione della pena, anche quando è pronunciata dopo la
chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi.
Un precetto interpretato ora come istitutivo di un
premio-incentivo per la scelta di un modello deflattivo ora come conseguenza
“naturale” di tale tipo di sentenza considerato che la decisione non contiene
un’affermazione di responsabiltà; pure se nell’ipotesi prevista dall’articolo
448 diviene difficile giustificare la non identificazione di una simile
pronuncia, adottata all’esito del dibattimento, con una sentenza di condanna.
Sennonché, il modello prescelto dal legislatore sembrerebbe propendere per la
ratio premiale, come pare dimostrato dalla prescrizione secondo cui quando la sentenza è pronunciata nel giudizio di
impugnazione, il giudice decide sull’azione civile a norma dell’articolo 578
Cpp.

D’altro canto, il regime previsto
dall’articolo 651 Cpp ha riferimento alla sola sentenza pronunciata in esito a
dibattimento (o a giudizio abbreviato, salvo che vi si opponga la parte civile
che non abbia accettato il giudizio abbreviato); seguendo un modello che,
peraltro, va valutato in chiave di esclusivo diritto
positivo, da non ricollegare necessariamente alla definizione del procedimento
in contraddittorio. Lo comprova la circostanza che il codice di procedura
penale del 1930 prevedeva l’efficacia del decreto penale di condanna anche nei
giudizi civili o amministrativi per le restituzioni o il risarcimento del
danno. Ne discende, dunque, che – così come per il decreto penale (articolo
460, comma 5) – la scelta del legislatore prescinde da dati sistematici (o,
addirittura, da profili ontologici) per predisporre, invece, una
disciplina-incentivo (come sembra desumersi dall’articolo 651,
da interpretare, sul punto, in stretta correlazione sia con l’articolo 445 sia
con l’articolo 460).

A confermare univocamente le
considerazioni che precedono diviene davvero pertinente il
richiamo alla legge 97/2001, che ha modificato il regime dei rapporti
tra giudizio penale e giudizio amministrativo disciplinare – per quel che qui
direttamente interessa – sotto un duplice ordine di profili. A parte
l’equiparazione della sentenza di assoluzione
pronunciata a seguito di dibattimento a quella pronunciata in esito a giudizio
abbreviato o di non luogo a procedere, nell’articolo 653 Cpp è stato inserito
un comma 1bis che sancisce l’efficacia di giudicato delle sentenze penali
irrevocabili di condanna nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti
alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto,
della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato l’abbia commesso.
A sua volta, l’articolo 2 della legge 97/2001 aveva
inserito nel secondo periodo dell’articolo 445, comma 1, riguardante gli
effetti extra penali della sentenza di patteggiamento, le parole “Salvo quanto
previsto dall’articolo 653” (v., ora l’articolo 445, comma 1bis).

Da ciò è dato rilevare, dunque,
che – almeno ai fini disciplinari – il combinato disposto dei precetti ora
ricordate lascia ampi spazi di riflessione sul tema della natura della sentenza di patteggiamento anche ai fini del quesito
ora al vaglio della Corte.

Si vuol dire, cioè,
che l’efficacia extra moenia della sentenza che applica la pena su richiesta
(sia pure circoscritta all’ambito della sola responsabilità disciplinare)
travalica lo stesso ambito dell’efficacia extra penale della sentenza penale,
tradizionalmente limitata (v. articoli 3, 21, 27 e 28 Cpp del 1930) alla
sentenza pronunciata in esito a dibattimento; con in più seguendo lo schema
corrispondente all’efficacia della sentenza penale di condanna nel giudizio di
danno derivante da reato. Il contenuto di “accertamento” ricavabile dal
precetto dell’articolo 653, comma 1bis, appositamente richiamato dall’articolo
445, comma 1-bis, non potrebbe mai designare una decisione in ipotesi di
responsabilità, rivelando invece l’intento del legislatore di sottrarre dalla
disciplina derogatoria (ma secondo canoni che eccedono
lo stesso ordinario assetto degli effetti extra penali della sentenza di
condanna, che avrebbe giustificato l’avverarsi dell’effetto extra penale della
sola sentenza “pronunciata dopo la chiusura del dibattimento”) gli effetti
della sentenza che applica la pena su richiesta delle parti. Con ciò
confermando la stretta interpretazione del precetto dell’ultimo periodo
dell’ora ricordato articolo 445, comma 1bis ed il contenuto di
accertamento che contrassegna anche la decisione che applica la pena su
richiesta.

Il valore innovativo della
disposizione – che rappresenta, quali che possano essere state le finalità
perseguite dal legislatore, il vero punto di passaggio verso una
effettiva rimodulazione del patteggiamento – non pare in alcun modo
scalfito dalla sentenza costituzionale 394/02, che ha dichiarato
l’illegittimità dell’articolo 10, comma 1, della legge 97/2001, nella parte in
cui prevede che gli articoli 1 e 2 della stessa legge si riferiscono anche alle
sentenze di applicazione di pena su richiesta pronunciate anteriormente alla
sua entrata in vigore.

Tale decisione, infatti, nel suo
riferirsi al solo regime intertemporale, già resta designata da limiti
intrinseci alla sua stessa valenza demolitoria; ma è la ratio decidendi che ne
costituisce la base argomentativa a rivelare come la Corte non abbia mancato di
cogliere il valore addirittura dirimente della innovazione;
una caratteristica che, certo, avrebbe – a regime – determinato, come è dato
inferire dall’assetto complessivo della statuizione, conclusioni di diverso
tipo.

La Corte, infatti, pur insistendo
sulla “componente negoziale” tipica del
patteggiamento, ha dichiarato illegittima la detta disposizione per avere
escluso il “beneficio” anche successivamente alla sentenza di patteggiamento,
tanto da modificare in peius “effetti salienti dell’accordo suggellato” dalla
sentenza di applicazione di pena su richiesta; così seguendo un modello che
assegna valenza esponenziale al profilo dell’accordo tra pubblico ministero e
imputato sul merito dell’imputazione. L’imputato, cioè,
è posto di fronte ad un’alternativa che investe principalmente il suo diritto
di difesa: concordare la pena ed uscire rapidamente dal processo ovvero
esercitare la facoltà di contestare l’accusa. Cosicché, in forza della
normativa denunciata, viene attribuito al consenso
prestato l’ulteriore significato “di una rinuncia alla difesa anche nel
successivo procedimento disciplinare”.

Una decisione, dunque, che pur
accentuando ancora una volta il profilo negoziale, sembra lasciare integra – anzi, pare rafforzare la percezione di un
mutamento di fondo del regime della sentenza che applica la pena su richiesta –
ogni riflessione sulla tipologia di accertamento giudiziale e sugli elementi,
di merito, cui si riferisce l’articolo 653, comma 1bis, e sulle modalità
attraverso le quali è possibile al summatim cognoscere che circoscrive i poteri
di controllo del giudice del patteggiamento, una efficacia extra moenia così
penetrante. Senza contare la natura esclusivamente “premiale” – quindi non
intrinseca alla tipologia del rito – da riconnettere all’assenza di efficacia della sentenza che applica la pena nei giudizi
civili e negli altri giudizi amministrativi.

14. Come è
noto, in forza della legge 134/03, l’istituto dell’applicazione della pena su
richiesta delle parti ha decisamente cambiato pelle. Lo schema negoziale
rimasto apparentemente illeso, sembra però, in certo senso, bilanciato
dall’elevazione della pena massima per accedere al procedimento nella misura di anni cinque di reclusione soli o congiunti con pena
pecuniaria.

Dall’esame dell’assetto normativo
una prima considerazione appare davvero pertinente: se si vuole mantenere –
come sembra necessario – una perfetta simmetria fra patteggiamento minor e
patteggiamento maior, è necessario inferirne che è a quest’ultimo che occorre
riferirsi come lo specimen del patteggiamento, pure perché le novazioni più
significanti concernono entrambi gli istituti (si pensi al nuovo regime della
confisca e della revisione); cosicché non pare che il
sistema degli incentivi apprestati per il solo patteggiamento infrabiennale (si
allude al regime delle sanzioni sostitutive, all’esenzione dal pagamento delle
spese processuali, all’inapplicabilità delle pene accessorie e delle misure di
sicurezza personali, all’estinzione del reato) valgano a delineare un sistema
in cui, prevalendo le differenze sulle affinità, ci si trova in presenza di
fenomeni profondamente differenziati; al contrario, sono proprio le affinità
che designano i due istituti, non soltanto per il comune schema negoziale che
ne è alla base, ma per l’applicazione della riduzione di pena, per
l’irrilevanza della costituzione di parte civile salvo il pagamento delle spese
di costituzione e difesa della parte civile, per la non menzione della sentenza
nel certificato del casellario giudiziale, per l’inefficacia della sentenza nei
giudizi civili e amministrativi diversi dai giudizi disciplinari, per
l’azionabilità della revisione e per il regime più rigoroso riservato alla
confisca.

15. Fatte queste prime
precisazioni, va – ancora una volta – ricordato come il
trasferimento dall’articolo 448 all’articolo 444, comma 2, del criterio
di congruità della misura della pena rappresenta un elemento che, per quanto
direttamente scaturente dalle statuizioni della sentenza costituzionale 313/90,
viene ad acquistare una valenza davvero designante proprio se preordinata a
collegarsi all’elevazione della pena condizionante l’accesso al procedimento in
esame.

L’apparente omogeneità del
“nuovo” patteggiamento sembrerebbe restare subito compromessa dalla previsione
di talune esclusioni oggettive e soggettive perché possa essere instaurata la
procedura; il tutto se e sempreché la pena applicata superi i due anni di
reclusione.

L’elevazione del tetto di pena
per l’introduzione del rito previsto dall’articolo 444 e seguenti Cpp non
sembrerebbe, infatti – come è stato rilevato in
dottrina – assumere una designazione meramente quantitativa se posta in
relazione con l’articolo 111, comma 4, della Costituzione, solo osservando che
l’elusione del principio del contraddittorio nella formazione della prova
rischia di ribaltare il rapporto regola-eccezione per una parte da definire
addirittura prevalente delle regiudicande penali. Una
constatazione che, peraltro, non inficia in modo decisivo la tenuta
costituzionale dell’istituto nel suo complesso. Non a caso, infatti, la
Corte costituzionale, chiamata a decidere della legittimità, in
riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, dell’articolo 444 Cpp ha
dichiarato non fondata la relativa questione, precisando come la sottrazione al
giudizio ordinario della cognizione di diversi reati di notevole gravità e la
paventata riduzione del sistema penale e processuale “a un luogo di
negoziazione che svilisce la funzione giurisdizionale”, non integra l’elusione
del canone della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti,
trasformando in principio generale l’eccezione prevista dall’articolo 111,
quinto comma, della Costituzione. Ha osservato la Corte che il sistema
protettivo predisposto dal legislatore nel delineare la disciplina del nuovo
patteggiamento, mediante la predisposizione di preclusioni oggettive e
soggettive in relazione alla gravità dei reati ed ai
casi di pericolosità qualificata dell’imputato, oltre che in considerazione
della non operatività di importanti effetti premiali, consentono di ritenere
che la scelta di dilatare l’area di incidenza dell’istituto rappresenta la
risultante della discrezionalità del legislatore, certo non esercitata in modo
irragionevole (Corte costituzionale, sentenza 134/03).

16. Dalla lettura del complessivo
sistema normativo risultante dalla legge 134/03 ne emerge
comunque un assetto unitario, contrassegnato da talune varianti non decisive
per inferirne una sorta di asimmetria del rito, solo considerando la prevalenza
delle identità piuttosto che delle divergenze, secondo un modello entro il
quale il concomitante profilo teleologico costituisce la conferma (pure al di
là della significativa sistemazione topografica, non a caso caratterizzata da
un’accentuata unitarietà) dell’esigenza di una unitaria qualificazione
assiologica della procedura speciale dell’applicazione di pena su richiesta.

Le varianti, in ogni caso, non
incidendo né sulla struttura né sulla funzione della pena patteggiata, non
paiono dotate di valore così esponenziale da comportare una lectio strettamente
condizionata alla misura dei “benefici” apprestati dal legislatore. Del resto, pur dovendosi assegnare all’innalzamento della pena
“patteggiabile” una valenza non esclusivamente quantitativa se rapportata alla
normativa complementare che costituisce parte di predominante rilevanza
ermeneutica del novum, la struttura negoziale ed i modelli di controllo sono
identici sia per l’editio minor (olim, la sola disciplinata) sia per l’editio
maior.

Né l’elevazione della pena
patteggiabile può determinare decisivi squilibri rispetto al patteggiamento
delineato ante riforma salvo a cadere in suggestioni interpretative, come tali
sprovviste di effettiva forza ermeneutica, utilizzando
criteri di verifica basati esclusivamente sulla misura della pena; anche se,
proprio a tale elevazione – che pure non è in grado di rendere disomogenee le
due editiones – non può corrispondere una qualche presa di distanza da linee interpretative
che assegnano all’applicazione della pena un contenuto negoziale prevalente
rispetto alla funzione giurisdizionale in cui si concretizza l’opera di
controllo sulla “legalità” (intesa l’espressione in senso ampio) dell’accordo
pure alla stregua del precetto dell’articolo 27, terzo comma, della
Costituzione, al quale l’articolo 444 fa ora – sia pure implicito – richiamo.

17. Come si è accennato, il
patteggiamento consta di un regime premiale comune ad entrambi gli istituti e
di un regime premiale conseguente al solo patteggiamento da cui derivi
l’applicazione di una pena non superiore a due anni di reclusione soli o
congiunti con pena pecuniaria.

Quanto al primo, gli snodi
cruciali sono rappresentati dalla riduzione di un terzo della pena indicata
dalle parti, dall’irrilevanza della costituzione di parte
civile salvo il pagamento delle spese sostenute dalla parte civile stessa,
dall’inefficacia della sentenza nei giudizi civili o amministrativi, con
esclusione del giudizio disciplinare, a norma dell’articolo 653, comma 1bis,
Cpp.

Ferma, quindi, l’unitarietà
dell’istituto e l’incidenza delle “novelle” del 1999 e del 2001, non può, in
primo luogo, sfuggire come l’innalzamento della pena patteggiabile ad anni
cinque di reclusione (con in più, le preclusioni della
possibilità di accesso al rito cui si è or ora accennato) imponga una verifica
dell’effettiva portata precettiva dello ius novum, proprio muovendo dal modello
di equiparazione ora trasferito nel precetto dell’articolo 445, comma, 1bis. L’aspetto
qualitativo sembra, infatti, precedere, secondo l’opzione
simmetrica cui queste Su ritengono di uniformarsi – in un panorama entro il
quale valore complementare assumono, da un lato, la disssoluzione degli approdi
giurisprudenziali in tema di accesso alla revisione e, dall’altro lato, il
nuovo regime della confisca, peraltro già introdotto da talune leggi speciali –
il profilo concernente il tetto di pena per accedere alla procedura.

Ma, per restare ad un tema del
tutto intrinseco alla disciplina dell’applicazione di pena su
richiesta, assume subito rilievo dirimente la prosecuzione dell’assetto
normativo rimodellato già nel 1999, laddove ci si riferisce alla pena
“irrogata”; un’espressione che, tecnicamente intesa, lungi dall’esprimere un
mero dato nominalistico, sembra coordinarsi strettamente al regime di
equiparazione ed ai modelli complementari che rendono la sentenza di
applicazione della pena una sentenza di condanna, salvo il regime derogatorio
di cui all’articolo 445, comma 1bis, Cpp

Può dirsi così che mentre la pena
“applicata” esprime il contrassegno della specialità del rito, la pena
“irrogata” designa la risultante del principio di
equiparazione reso palese – nell’ineludibile unitarietà dell’istituto –
dall’applicazione, nell’editio maior, di un regime che non può che conseguire
da una sentenza di condanna, e che si concentra nella condanna alle spese del
procedimento e nell’applicazione delle misure di sicurezza.

Il quadro che ne discende, anche
in forza dell’elevazione della pena che legittima l’accesso al rito, induce,
dunque, ad assegnare valore esclusivamente normativo al principio di equiparazione ed impone di ritenere la stretta
interpretazione delle varianti che compongono il regime derogatorio.

18. Nel nuovo
sistema decisamente più consistenti sono gli incentivi che rendono
accattivante il ricorso all’editio minor, considerata l’applicabilità delle
sanzioni sostitutive (secondo i ritocchi apportati dall’articolo 4 della legge
134/03), l’esenzione dal pagamento delle spese processuali, l’inapplicabilità
delle pene accessorie e delle misure di sicurezza con eccezione della confisca
nei casi previsti dall’articolo 240 Cp, l’estinzione del reato se nel termine
di cinque anni, quando la condanna concerne un delitto ovvero di due anni quando
la condanna concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto
ovvero una contravvenzione della stessa indole. Conseguendone l’estinzione di ogni effetto penale e, se è stata applicata una pena
pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l’applicazione non è comunque di
ostacolo alla concessione di una sospensione condizionale della pena.

Ne consegue che l’editio maior
comporta l’obbligo del pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle
pene accessorie (interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una
professione o da un’arte, interdizione legale, interdizione temporanea dagli
uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità a
contrattare con la pubblica amministrazione, la decadenza dalla potestà dei genitori
e la sospensione dall’esercizio di essa, la
sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte, la sospensione
dall’esercizio degli uffici direttivi delle persone giuridiche o delle imprese,
la pubblicazione della sentenza di condanna, secondo i modelli rispettivamente
indicati dagli articoli 28, 30, 32, 32bis, 32ter, 34, 35, 35bis, 36, Cp oltre
ad alcune ipotesi extravaganes) e delle misure di sicurezza, compresa la
confisca nei casi previsti dall’articolo 240 Cp.

19. Come si è già fatto cenno,
tra le prescrizioni in peius derivanti dalla “novellazione” (altri effetti
dello stesso tipo saranno presi in esame analizzando il complessivo assetto
normativo derivante dalle innovazioni introdotte dalla legge n. 134 del 2003) è
l’eliminazione di ogni limite all’applicazione della
confisca (un effetto comune alla editio minor ed all’editio maior)
circoscritta, nel sistema originario del Cpp 1988 alle ipotesi indicate
nell’articolo 240, comma 2, Cpp. Cosicché al verificarsi del
presupposto per la confisca obbligatoria o di quella facoltativa il giudice è
tenuto ad applicarla, a prescindere dall’intervenuto accordo delle parti sul
punto; così uniformandosi la disciplina dell’ablazione della res a quella
stabilita per il giudizio ordinario e per gli altri giudizi speciali.

La soppressione dell’effetto
premiale sancito dalla normativa abrogata in tema di misure di sicurezza non
può giustificarsi altrimenti che in funzione di una più penetrante
assimilazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, tale comunque da imporre il regime di equiparazione in termini di
stretta interpretazione, solo considerando che il prodotto il profitto e il
prezzo del reato sul piano dell’accertamento sono assoggettati, per la
ontologica derivazione dal fatto commesso, ad una decisione dalla quale è, con
una qualche difficoltà, possibile intravedere una verifica corrispondente a
quella di una sentenza in ipotesi di responsabilità. Il tutto, peraltro, in presenza di un diritto vivente decisamente contrario ad
un’interpretazione “estensiva” dell’articolo 445 ante riforma e di
significativi approdi normativi raggiunti – anche in materia di confisca
disposta a seguito di sentenza di applicazione della pena su richiesta – da
leggi speciali.

20. Come si è già detto, le Su di
questa Corte, sul presupposto della ontologica
diversità della sentenza che applica la pena su richiesta rispetto alla
sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un accertamento del reato e
di un giudizio di colpevolezza, hanno escluso che la pronuncia emessa a norma
dell’articolo 444 e seguenti Cpp sia assoggettabile al giudizio di revisione,
sul presupposto che sono soggette a tale mezzo di impugnazione solo le sentenze
di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle prove
(Su, 25 marzo 1998, Giangrasso).

Proprio alla stregua di tale
pronuncia, la legge 134/03, ha interpolato l’articolo 629, comma 1, Cpp
assoggettando a revisione anche le sentenze di
applicazione della pena su richiesta delle parti.

Se l’inserimento nel “pacchetto”
riformulatorio dell’istituto del patteggiamento pare la risultante della elevazione della pena che può essere oggetto di
accordo e delle conseguenze derivanti dall’utilizzazione del modello che si è
denominato editio maior, il fatto, però, che il mezzo straordinario di
impugnazione abbia coinvolto l’intero istituto – una soluzione da ritenere
necessitata non solo per intuibili ragioni sistematiche, ma anche per mantenere
un’intrinseca razionalità all’istituto stesso – ha riproposto le problematiche
circa la natura della sentenza che applica la pena soprattutto considerando
l’incidenza sul postgiudicato della revisione.

Ed a tale stregua non può che concludersi nel senso che il ricorso a tale mezzo
straordinario di impugnazione – il cui effettivo perimetro di operatività non
ha ancora trovato un rassicurante assestamento – rappresenta il sintomo più
chiaro della necessità di un ritorno al regime della equiparazione in termini
di assoluto rigore ermeneutico.

Una tale conclusione, peraltro, non
implica un processo di vera e propria identificazione tra i due tipi di
pronuncia, ma sta univocamente a significare che il regime di
equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa complementare
più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione di tutte le
conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano categoricamente
escluse.

Già i primi apporti ermeneutici
di questa Corte Suprema sembrano sottrarsi dalla qualificazione della decisione
che applica la pena come sentenza di condanna, con conseguenti riverberi quanto
alla motivazione, dovendosi ritenere sul punto ancora pienamente operanti gli
approdi interpretativi della sentenza Di Benedetto. È chiaro che proprio
l’accesso alla revisione costituisce, per i casi previsti
dall’articolo 630 Cpp e per meccanismi operanti soprattutto in sede di
ammissibilità dall’articolo 634 dello stesso codice, uno dei profili che
potrebbero indurre ad una soluzione debordante dai precedenti risultati
interpretativi di queste Su.

In proposito, una recente
decisione, ha dichiarato la manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 629 Cpp (forse,
peraltro erroneamente chiamato in causa alla stregua del petitum perseguito dal
ricorrente) eccepita sul presupposto che la sentenza che applica la pena su richiesta, in forza della novella normativa che consente
la revisione, va qualificata come vera e propria sentenza di condanna, alla cui
base deve, dunque sussistere un pieno accertamento di responsabilità.

La Corte ha considerato una
forzatura l’intepretazione proposta evidenziando un dato letterale esplicitato
dalla disposizione dell’articolo 629 Cpp, ritenendolo decisivo. Tale precetto
disgiunge, in riferimento alla revisione, le sentenze
di condanna dalle sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444, comma 2, perché
le menziona raccordate dalla particella “o”, mostrando di avere ben presente
che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non è una decisione “di
condanna”, ma è soltanto ad essa equiparata. L’equiparazione alle sentenze di
condanna giustifica l’assoggettamento alla revisione e
non fa della sentenza di patteggiamento una sentenza di condanna in senso
proprio. Anche qui l’affermazione che la sentenza di patteggiamento non afferma
la responsabilità in ragione della struttura negoziale
del rito, nel quale l’imputato esonera l’accusa dalla prova dei fatti
addebitati nell’imputazione assume valore dirimente, con la conseguenza che la
motivazione è sufficientemente formata con l’indicazione delle valutazioni
sulla sussistenza del consenso delle parti, sull’insussistenza delle condizioni
in presenza delle quali deve essere pronunciata sentenza di proscioglimento ex
articolo 129 Cpp, sulla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell’applicazione
e comparazione delle circostanze, e sulla congruità della pena (Sezione
settima, 4 marzo 2004, Anizi).

Una soluzione, quella
ora ricordata, che sembra però trascurare le effettive caratteristiche
distintive della sentenza di patteggiamento rispetto alla sentenza di condanna
alla quale la prima è, pur sempre (soltanto) equiparata. Cosicché il dato
letterale, vale a dire, l’uso della disgiunzione “o” nella giustapposizione
delle sentenze di condanna alle sentenze di patteggiamento all’interno della
previsione dell’articolo 629 Cpp, è assolutamente irrilevante sia perché la
stessa particella disgiuntiva era utilizzata per legare la sentenze di condanna
al decreto penale che è anch’esso provvedimento di condanna sia perché il
legislatore del 2003, inserendo le più volte richiamate innovazioni, tra le
quali la revisione, sembra assegnare proprio a tale
mezzo di impugnazione una rilevanza davvero esponenziale. Così ancorando il
disposto dell’articolo 445, comma 1-bis alla sua effettiva valenza precettiva
sia perché l’interpolazione dell’articolo 629 Cpp viene a configurarsi come una
sorta di interpretazione autentica del previgente
articolo 445, comma 1, ultimo periodo, alla stregua delle conclusioni delle Su
circa l’inapplicabilità al patteggiamento dell’istituto della revisione sia
perché l’accesso a tale mezzo di impugnazione, rappresentando una vicenda
costituzionalmente obbligata, si giustifica solo alla stregua delle prese di
posizione di questa Corte. Resta, peraltro, aperta la problematica – in ordine alla quale il Collegio non è stato chiamato a
pronunciarsi – circa i criteri di adattamento della revisione ad un regime che,
almeno in sede cognitoria, mantiene quale regola di giudizio, ai fini del
proscioglimento, la disposizione dell’articolo 129 Cpp.

21. Le considerazioni che
precedono conducono conseguentemente a ritenere che il regime di equiparazione, ricondotto al suo rilievo letterale, oltre
che alle esigenze teleologiche perseguite dal legislatore, che ne costituiscono
il necessario momento complementare, impediscano a queste Su, per tornare al
quesito interpretativo sottoposto al vaglio della Corte, di proseguire nella
linea ermeneutica delineata dalle tre più volte richiamate decisioni, stando
alle quali la revoca di diritto della sospensione condizionale della pena,
nell’ipotesi in cui il condannato commetta un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva,
non opera nel caso in cui al condannato stesso sia stata irrogata una pena in forza
di una sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444, e seguenti, Cpp.

Ai sensi dell’articolo 173, comma
3, delle norme di attuazione del Cpp va, dunque,
enunciato il seguente principio di diritto: “la sentenza emessa all’esito della
procedura di cui agli articoli 444 e segg. Cpp poiché è, ai sensi dell’articolo
445, comma 1-bis, equiparata, “salvo diverse disposizioni di legge a una
pronuncia di condanna” costituisce titolo idoneo per la revoca, a norma
dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp, della sospensione condizionale della pena
precedentemente concessa”.

22. Il ricorso deve, pertanto,
essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese
processuali.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.